ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Lo sguardo sospeso. Aporìe pasoliniane tra normatività sociale e pratiche singolari
di Luca Peloso
Sommario: 1. La grande assente. Pasolini e la giustizia - 2. Società, autorità, terrore - 3. Il diritto come rovescio dell’omologazione - 4. La società come oppressione (legalizzata) della maggioranza - 5. Personale e impersonale, politico e giuridico - 6. L’intellettuale e il legislatore, l’intellettuale-legislatore - 7. Conclusioni.
1. La grande assente. Pasolini e la giustizia
Giustizia insieme: un binomio eloquente, quasi programmatico, nella misura in cui l'accostamento dei due termini già presuppone, se non una teoria, quantomeno una prospettiva sul consorzio civile, la quale a sua volta denota una sensibilità, un orientamento, un approccio determinato verso i fatti sociali. Qual è, in proposito, quello di Pasolini? Tentare di rispondere a questa domanda non può non condurci a constatare come la giustizia sia termine di riferimento del tutto assente dalla sua riflessione: e come quest'assenza, relativamente ad un intellettuale tanto eclettico, non possa in alcun modo costituire un semplice peccato di omissione, ma risulti di per sé significativa; da cui si deduce l'impossibilità di stare davvero insieme, come si fa in una comunità, anziché limitarsi semplicemente a convivere, come si fa tra estranei.
Scrive Pasolini nel 1968, inaugurando la sua rubrica Il caos sul settimanale Tempo:
appartengo fatalmente a una indifferenziata «AUTORITÀ»: né più né meno che come chi l'ha cercata di proposito: un burocrate, un uomo politico, un generale dei carabinieri, un professore, un industriale. […] Ebbene, io non voglio ammetterlo. […] A questo punto, credo che sia chiara anche la ragione per cui ho voluto intitolare queste mie pagine settimanali «Il caos», il cui sottotitolo ideale potrebbe essere: «Contro il terrore»: l'autorità, infatti, è sempre terrore, anche quando è dolce. Un padre dice dolcemente, cameratescamente, a un figlio piccolo: «Non calpestare le aiuole»: ebbene, questo comandamento negativo entrerà a far parte di un insieme di comandamenti negativi che regoleranno il comportamento di quel bambino; sicché la buona educazione, essendo in gran parte fondata su una serie di regole negative, è, per sua natura, terroristica: infatti essa, quasi a risarcire i sacrifici dell'obbedienza, diventa immediatamente un diritto, e, in nome di tale diritto, il bambino, ben educato, divenuto grande, eserciterà i suoi ricatti morali.[1]
Ecco, in una sorta di compendio, la teoria pasoliniana della società, che non può non gettar luce sulla sua non esplicitata concezione dell'universo giuridico, che da tale concezione discende. Pasolini sta dicendo: tutti i rapporti sociali sono rapporti di potere, perché ogni società, in quanto ordine, contempla per ciò stesso una o più autorità che la strutturino, presiedendo in tal modo tanto al suo funzionamento quanto alla sua perpetuazione. Ora, dire che il potere è per sua natura terroristico (fondato com'è sulla paura di ritorsioni), equivale ad affermare che è sempre arbitrario e prevaricante, cioè ingiusto. La giustizia dunque non compare nel lessico pasoliniano perché ai suoi occhi non si può dare giustizia – se non episodicamente, cioè accidentalmente – all'interno di un gruppo umano. E questo è un primo dato.
2. Società, autorità, terrore
Il secondo concerne la sua visione dell'autorità. Stando alle sue parole, l'autorità non farebbe altro che riprodurre la relazione tra padre e figlio, integralmente fondata sugli ordini, i quali, anche laddove siano formulati con gentilezza, generano un incondizionato terrore in chi li subisce, perché negativi e quindi castranti, associati come sono allo spettro del castigo (non fare questo, altrimenti ti capiterà quest'altro). Ed è proprio da qui che a suo avviso nascerebbero i diritti, risolti nella ricompensa per le sofferenze associate all'obbedienza; il ricatto diventa così il frutto naturale della consapevolezza di diritti inevitabilmente incorporati come valore di scambio, e perciò assunti come oggetto di rivendicazione. Fin da ora, a partire da un linguaggio che testimonia delle sue ascendenze bibliche (comandamento, sacrifici) viene da chiedersi: nei termini di un dominio integralmente vetero-testamentario, prigioniero di una dialettica dualistica-binaria tra le polarità vendetta-perdono, colpa-castigo, sacrificio-ricompensa, che genere di contributo ci si può attendere dalla giurisprudenza, dato che su queste basi ogni questione giuridica viene automaticamente ricondotta al dominio incontrastato della legge come imposizione dall'alto, e dunque l'eventualità della norma come deliberato e consapevole strumento di auto-regolazione è immediatamente scongiurata? Se ogni forma di potere non può che risolversi, nel suo esercizio effettivo, in terrorismo puro e semplice, come può la questione dei diritti (e l'ambito del diritto) non essere riflesso di un utilitaristico do ut des, di una meccanica alternanza di rivendicazioni dal basso e concessioni dall'alto? Davvero non c'è alternativa a questo potere? Pasolini sembra rispondere incondizionatamente di sì. E allora si tratta di chiedersi: in tutto questo che fine fa il desiderio, che della paura è l'altra faccia? Ciò che mi atterrisce è inscindibile da ciò che mi convoca: la fascinazione del potere, e quindi il desiderio di ottenerlo (o di subirlo), in Pasolini dov'è? Stando a quel che afferma, non c'è compromesso e quindi scappatoia da due opposti estremismi: subirlo, oppure esercitarlo. Nessuna ambiguità, nessuna sfumatura né gradazioni intermedie. Eppure verrebbe facile fargli notare come l'intera sua produzione letteraria, saggistica e cinematografica si configuri come provocatoria proprio nella misura in cui irresistibilmente esorta ad una reazione, la quale sempre costituisce l'altra faccia una richiesta di riconoscimento, il quale a sua volta infine altro non è che desiderio. Fuor di metafora: possibile che non sia in alcun modo concepibile la volontà profonda, autentica, sincera di lottare per i diritti (propri o altrui) intesa come impulso costruttivo? Possibile che tutto si lasci ridurre ad una egoistica richiesta di risarcimento seguito alla repressione dei propri impulsi? Inoltre: se la vita sociale si esaurisce interamente nella dialettica del potere, che senso ha, e che fine fa, la riflessione pasoliniana sulla carità, cioè sulla gratuità?
3. Il diritto come rovescio dell’omologazione
Cercare una risposta a questa domanda significa mettersi sulle tracce di quella Relazione al congresso del Partito Radicale del '75 che conclude le Lettere luterane. Nel paragrafo primo Pasolini afferma: “A) Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti. B) Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono, o addirittura ci rinunciano. C) Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli)”[2]. Limitiamoci a trattenere, di questo passo, ciò che funge da collante e da motore: Pasolini prende sempre le mosse dalla simpatia (sym-pathein), cioè dal sentimento: ciò equivale a dire che resta poeta anche quando parla da cittadino (e infatti può dire, a proposito dei giovani, in apertura delle stesse Lettere, “il mio sentimento è di condanna”[3]). Un poeta politico, certo; o meglio, un poeta e un politico, uno scrittore che non può pensare alla matrice politica dei rapporti interpersonali senza muovere da uno sguardo poetico, cioè sacrale, non laico, personale e particolaristico (quindi infine non-politico, perlomeno in senso moderno e democratico; altra contraddizione strutturale). Come si traduce in effetti la lotta per i diritti civili, pasolinianamente intesa? Qui il suo discorso è inequivocabile: le persone delle categorie A e B, afferma Pasolini, finiscono per essere “carne da macello”[4], perché i membri della categoria C, che egli compendia nella figura dell'estremista, nei fatti insegnano a chi non è consapevole dei propri diritti che bisogna usufruire degli identici diritti dei padroni. L'estremista che insegna agli altri che coloro che sono sfruttati dagli sfruttatori sono infelici, che cosa insegna? Insegna che bisogna pretendere l'identica felicità degli sfruttatori. Il risultato che in tal modo eventualmente è raggiunto è dunque una identificazione: cioè, nel caso migliore, una democratizzazione in senso borghese. […] La realizzazione dei propri diritti altro non fa che promuovere chi li ottiene al grado di borghese.”[5]
Insomma, la lotta per i diritti civili, in qualità di sommovimento interno all'entropia borghese che tutto appiattisce, fagocita e omologa, si rivela pregiudicata e inconcludente sin dall'inizio, una non-lotta, poiché l'esito è già scritto, e i rapporti sociali sono ormai immodificabili: la storia è ora esclusivamente storia borghese, il suo svolgimento coincide col falso movimento del ciclo produzione-consumo. Nessuna via d'uscita, dunque? Pasolini a dire il vero afferma più volte che se davvero pensasse che non ci sia più nulla da fare, avrebbe già smesso di parlare. Ma cosa propone poi, concretamente? Di opporsi all'abrogazione forzata di ogni alterità, promossa dagli intellettuali progressisti con il ricongiungimento delle minoranze insipienti alle maggioranze interessate che essi rappresentano, seguitando ad essere “continuamente irriconoscibili”[6]. Ma è realmente una proposta questa? Nel contesto di una società democratica, il cui governo abbisogna di riconoscere le istanze dei suoi membri per deliberare, in che modo l'essere irriconoscibili può concorrere costruttivamente alla vita civile? Non si risolve, tale esortazione, in un principio di disordine fine a se stesso? In tal caso come può il puro caos mitigare il terrore? Non è già un modo, questo, di marginalizzarsi, ponendo le basi per il proprio auto-annullamento? Un singolo cittadino, in quanto soggetto privato, può permettersi di risultare irriconoscibile (Pasolini stesso può dire di sé, con formula emblematica e una volta tanto senza contraddirsi, “ho trasgredito ogni norma e limite”[7]); se l'autorità tuttavia, per definizione, non può permetterselo, perché la visibilità e la decisione costituiscono la sua ragion d'essere, non lo può neppure un soggetto pubblico (sociale) ad essa subordinato: perché agire in modo programmaticamente imprevedibile significa sporgere dal dominio stesso in virtù del quale leggi, norme, convenzioni, usi e costumi, pur nella loro arbitrarietà culturale, garantiscono ad una società quel tanto di stabilità necessaria ad impedirne il disgregamento. Una soggettività organizzata che agisca in modo costitutivamente irregolare e non riconoscibile ha già deciso, nei fatti, di collocarsi fuori dalle regole non scritte del gioco democratico.
4. La società come oppressione (legalizzata) della maggioranza
Maggioranza e minoranza. In Pasolini, le due parole-chiave al fondo dell'oppressione sociale. Qual è infatti il dinamismo interno ai rapporti di forza di una società, secondo lui? In buona sostanza il fatto che la fenomenologia del potere, nel concreto della vita associata, si traduce in una maggioranza che schiaccia, emargina, condanna – e in alcuni casi perseguita – una o più minoranze (che anche considerate nel loro insieme, risultano comunque minoritarie). Ora, una minoranza è tale in quanto composta da “diversi” spontaneamente contrapposti alla massa dei “più”, talmente simili tra loro da confondersi: tutti gli interventi civili di Pasolini, da quelli contenuti nel Caos a quelli presenti in Scritti corsari e Lettere luterane, sono inconcepibili senza questa premessa. Seguendo questo schema giudici, legislatori, magistrati e opinione pubblica stanno tutti dalla stessa parte, quella della maggioranza, perché – pur con mansioni diverse – operano in qualità di custodi o garanti di quelle stesse tendenze il cui tracciamento delimita i confini dell'agire possibile, cioè lecito. I pronunciamenti pasoliniani intorno a questioni giuridiche, a partire dal suo intervento sull'aborto, gravitano invariabilmente intorno a questa concezione, la quale sottintende la società non come insieme di cittadini che cercano – attraverso gli strumenti propri della vita democratica – di raggiungere obiettivi comuni (giustizia, uguaglianza ecc.), bensì come aggregato di individui che, in modalità più o meno casuali o interessate, si coagulano intorno a forme di vita che sull'onda della loro forza d'inerzia si diffondono, dando corpo al senso comune, e facendosi infine prescrittive, normative, ergo minacciose rispetto a tutto ciò che, estraneo ad esse, può minare l'equilibrio su cui si fondano. Nelle parole di Pasolini: “nel contesto democratico, si lotta, certo, per la maggioranza, ossia per l'intero consorzio civile, ma si trova che la maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo”[8]. Fino a che punto si può considerare fondata, in un dibattito democratico, questa concezione oltranzista del sociale, che non conosce sfumature, che rifiuta la mediazione e il compromesso?
Facciamo qualche passo indietro e risaliamo alle origini cioè alla natura. Un composto organico qualsiasi vede al suo interno elementi omologhi in maggior quantità, e altri (ugualmente simili tra loro) in minor quantità: è una legge naturale che i primi tendano ad imporsi sui secondi. Ora, se ammettiamo che le società umane non siano solo natura ma anche cultura (e perciò storia), dobbiamo anche concedere che tra le funzioni del diritto – per ragioni consustanziali alla cultura stessa – sia da annoverare quella di arginare, limitare, calmierare l'uso della forza, che è in se stessa natura (in caso contrario ci si riduce, appunto, al diritto del più forte che s'impone sul debole). Tradotto nel linguaggio pasoliniano, si potrebbe dire che una delle principali funzioni del diritto è precisamente quella di evitare che la forza dispieghi terroristicamente se stessa, travolgendo con la sua onda d'urto i diversi, cioè le minoranze (non integrate per definizione). Ciò significa che il diritto è tale perché (Pasolini stesso lo ammette quando definisce i diritti civili come “diritti degli altri”) ha facoltà di arginare il potere come correlato di sufficienti e necessarie prove di forza: temperandolo, frenandolo, limitando la sua azione distruttiva. Qui però ricordiamoci di quanto abbiamo detto all'inizio: per Pasolini il potere è sempre terroristico, anche quand'è dolce. Ma allora terroristica è anche, per estensione, la società in se stessa: e infatti la maggioranza in Pasolini è sempre brutalmente repressiva e intollerante. Ma se davvero così è, e per Pasolini non c'è ragione di dubitarlo, viene da domandarsi che senso possa avere il parlare in favore delle minoranze e battersi per esse, dato che se per assurdo dovessero acquisire maggiore influenza – cioè potere – si farebbero a loro volta, almeno idealmente, maggioranze, cioè (nei fatti) oppressive e terroristiche. Inoltre, se ogni società è una forma di terrore organizzato, e l'omologazione consumistica ha infine risolto ogni alterità nell'identità borghese, ciò significa che qualsiasi potere contemporaneo è intrinsecamente totalitario, come tale inarrestabile e imbattibile, e i suoi subordinati resi uguali dal giogo che li opprime: ecco perché Pasolini non distingue fra criminali e criminaloidi, e perché gli risulta irrilevante che il reato sia da essi stato compiuto o meno; un potere totalitario non contempla e non può contemplare la presunzione d'innocenza. Se si assumono le premesse di Pasolini da questi circoli viziosi non si esce. Dove conduce infatti, in ultima analisi, questa concezione parossistica della comunità, se non alla sua negazione? Proviamo allora a guardarla da un'altra angolazione e chiediamoci ora: da dove si origina?
5. Personale e impersonale, politico e giuridico
Ovvio: dalle sue vicende biografiche. Dal suo trauma sessuale, correlato del verdetto di condanna unanime che la società – per mezzo del costume e dei tribunali – ha pronunciato una volta per sempre contro di lui, al punto che egli è diventato inscindibile da questo marchio. Pasolini è la sua diversità. Ecco perché per lui solo ciò che è personale è reale e concreto, ecco perché gli importa solo di quest’uomo o di quest’operaio; ecco perché, riguardo la questione dell'aborto, è questo feto e questa vita che gli importano, e perché può rimproverare ai sociologi di fabbricare modelli da laboratorio giocando su due tavoli, quella sociologia (astratto) e quello della vita (concreto, irriducibile com'è, nella sua singolarità vivente, ad una media ponderata). Verrebbe da ribattere che anche l'uomo medio, contro cui Pasolini si scaglia senza tregua, è in fondo un'astrazione: non si sa com'è fatto e dove si trova, finché non lo si ha davanti e lo si può additare (come appunto qualsiasi altro campione sociologico). Ma al di là di questo, come si può rinfacciare una mancanza di concretezza[9] a coloro che per mestiere sono tenuti ad occuparsi della società nel suo insieme, se nell'ambito delle discipline in questione l'individuo concreto è in primo luogo e necessariamente il polo di una relazione biunivoca rispetto ad una collettività che di per sé non è figurabile? Pasolini sembra spesso confondere il mandato dello scrittore, che sempre si rivolge a qualcuno in particolare, inteso come destinatario determinato (fosse anche un altro se stesso) la cui semplice presenza esclude altri, e quello del sociologo o del legislatore, che viceversa osservano – e non possono non osservare – i fenomeni sociali da una certa distanza, proprio affinché il loro operato risulti il più equilibrato, equanime ed “inclusivo” possibile (quantomeno nelle società democratiche). Pasolini rimprovera ai legislatori un' “astrazione pragmatica”[10] che è nelle coordinate di base del loro mestiere. Un legislatore infatti non è tenuto ad aver presente quest'uomo, questa persona, questa donna, questo feto in particolare, perché è parte della sua deontologia (o, direbbe Lévi-Strauss, del suo “sguardo da lontano”) concepire il singolo come parte di un insieme che certo lo comprende, ma insieme lo integra e lo supera, possibilmente senza annullarlo. Il diritto, come la sociologia e l'antropologia (e al contrario della letteratura), è una scienza sociale.
6. L’intellettuale e il legislatore, l’intellettuale-legislatore
Che Pasolini a tratti demandi al giuridico funzioni che non gli competono, lo testimoniano i suoi affondi contro la lingua degli “avvocatucci provinciali e volgari”[11]. Ora, perché confondere l'estetico col politico? Pasolini ribatterebbe, sulle orme di Gramsci, che tutto è politico; eppure niente come la percezione e il sentimento, da cui si muovono tutti i suoi discorsi ideologici, affondano le radici nella soggettività, che è per sua natura rappresentativa di nient'altro se non del singolo che parla e scrive. A Pasolini la civiltà dei consumi non piace, il che è legittimo e pure comprensibile, nella misura in cui il suo avvento coincide con la scomparsa di quel mondo contadino e sottoproletario in passato così importante per lui; il fatto è che ciò lo conduce a rigettare in blocco tutta la società, tutto il presente, e di conseguenza ogni forma di vita possibile cioè futura: “non credo in questa storia e in questo progresso. Non è vero che comunque, si vada avanti. Assai spesso sia l'individuo che le società regrediscono o peggiorano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettata”[12]. Ma laddove il rifiuto diventa l'unica opzione possibile, e se l'unico avvicendamento ormai concepibile è quello che sfocia nell'allineamento degli oppressi con gli oppressori, che margine d'azione reale potranno avere infine leggi, decreti, riforme, emendamenti, lotte per i diritti civili? È lui stesso a dire che “bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile”[13]; ma questa non è forza, è istigazione al suicidio, da intendere se non altro metaforicamente come morte sociale; a questo punto la critica – fondata o meno – diventa irrilevante, perché, risolvendosi in uno sterile e incondizionato rigetto nei confronti dell'intero esistente, cessa di essere significativa, calcificandosi in una postura, quando non addirittura in una posa[14]. Questo negarsi ad ogni proposta, ad ogni coinvolgimento, questa preventiva negazione della possibilità d'incidere concretamente nella vita politica e democratica, non può che equivalere ad una pura e semplice dichiarazione d'impotenza (Pasolini presenta come ipotesi, e non come domanda retorica, quella che verte sul fatto se i rapporti sociali siano divenuti o meno, con la civiltà dei consumi, del tutto immodificabili: ma è evidente che lo dà per scontato; la sua prospettiva lo sottintende in modo inequivocabile). Tale dichiarazione è l'esito della convinzione, presente in Pasolini sin dalla seconda metà degli anni '60, che lo stesso nazismo e gli stessi Lager non siano stati altro che uno dei momenti nel processo di affermazione della civiltà dei consumi. Un momento, quindi una fase, una parte integrante: non un'aberrazione, non un unicum, non una misteriosa e imprevista deviazione (com'è invece in Primo Levi). Ma è chiaro che se si pensa questo, allora non c'è riforma del codice né mozione legislativa che tenga: la storia umana è al capolinea. Apocalisse; Fukuyama al contrario. O il vicolo cieco dato da un circolo vizioso, oppure la contraddizione paralizzante: perché Pasolini per soprammercato chiede alla società quel che è concepibile e praticabile solo per il singolo. Scrive infatti negli Scritti corsari: “condivido col partito radicale l'ansia della ratificazione, l'ansia cioè del dar corpo formale a realtà esistenti: che è il primo principio della democrazia”[15]. Ma come si può scrivere questo, e poi sostenere (come fa in continuazione) che i legislatori arrivano sempre in ritardo? La ratifica è procedura che segue a un rilevamento, è quindi necessariamente un atto a posteriori: arriva in ritardo per definizione. Si dirà: è l'entità del ritardo ad essere l'obiettivo di Pasolini, quel che intende dire è che i legislatori sono sempre troppo in ritardo, e questo inciderebbe sensibilmente sulla qualità della vita democratica. Ma allora quand'è che un ritardo diventa colpevole? Quando lo decide l'intellettuale? Ancora, è Pasolini stesso ad insistere costantemente sul fatto che ciò che si vive nell'esistenza è sempre infinitamente più avanti di ciò che si vive nella coscienza: che linguaggio del corpo, comportamenti e azioni sono i vincoli originari di una realtà umana e sociale antecedente a quella ufficiale, la pratica essendo sempre “una teoria ancora non detta”[16]. In questa luce le leggi scritte diventano l'espressione codificata di processi che, nella loro tensione normativa, sono già sostanza vivente di una comunità. E qui si perviene ad un'altra contraddizione irresolubile. Pasolini nel Caos riporta infatti, qualificandola come “nota lieta della magistratura” alla base del dissequestro del film Assoluto naturale di Bolognini, la sentenza di un giudice istruttore che così motiva la sua delibera: “le modificazioni del costume non possono essere, in sede giudiziaria, né assecondate né contrastate, dovendo il giudice limitarsi a prenderne atto in quanto obbligato per legge a riferirsi al comune sentimento e non alla propria personale sensibilità”[17]. Questo equivale a dire che una ratifica democratica è sempre una ratifica della maggioranza in favore della maggioranza (il “comune sentimento” cui il giudice è obbligato a riferirsi). La domanda diventa allora: che valore può avere la sottoscrizione formale di un principio democratico, laddove se ne contesta la validità nel momento in cui la sua applicazione ci discrimina?
7. Conclusioni
Pasolini inaugura le sue pubblicazioni sul Caos chiedendosi: “Perché ho accettato di scrivere per «Tempo» la presente rubrica? [...] Ci sono molte ragioni: la prima è il mio bisogno di disobbedire a Budda. Budda insegna il distacco dalle cose […] e il disimpegno […]: due cose che sono nella mia natura. Ma c'è in me, appunto, un irresistibile bisogno di contraddire a questa mia natura”[18]. Pasolini ci sta dicendo che la sua natura è doppia: che la sua vera cifra, che il suo tratto definitorio e definitivo è la contraddizione. Ed effettivamente il suo rapporto con la società e le sue istituzioni – l'abbiamo visto – è sotto il segno di una costante, onnipresente contraddittorietà: Pasolini sembra opporsi incondizionatamente alla società proprio in nome di ciò che la rende tale. Accetta, in coscienza, i principi costitutivi (formali, giuridici) della vita democratica, eppure, nei fatti, li contesta sistematicamente, votandosi ad una contestazione aprioristica di tutto ciò che è sociale proprio in quanto sociale (diffuso, massificato, “medio”, conformato e perciò conformistico). Da qui la tensione che confluisce nei suoi pronunciamenti pubblici, sprigionata da uno sguardo costantemente sospeso tra l'accettazione della tensione normativa intrinseca alla vita comunitaria (e connaturata alla scelta stessa di non chiamarsene fuori[19]) – con annesso il proposito di contribuire democraticamente alla tutela di ciò che questa tensione tende a violare –, e al contempo la sotterranea, sconsolata convinzione che qualsiasi forma di diritto si fondi su una consapevolezza che, in quanto sapere, non può far altro che tradursi prima o poi in rivendicazione e acquisizione di potere, cioè in volontà di potenza: prevaricazione su un debole che a questo punto diventa, in virtù della sua stessa natura e al di là di ogni ingannevole deterrente culturale, comunque destinato a soccombere. Da qui, ancora, la contraddizione tra riferimento alla persona come termine ultimo di ogni tensione civile indirizzata al progresso, e rifiuto dell'inevitabile gradiente impersonale che la stessa nozione di società comporta. Da qui, infine, l'oscillazione perenne tra militanza come intervento su temi e soggetti di natura giuridica (riforma del codice, legalizzazione dell'aborto, invocazione del processo ai gerarchi DC, riflessione sui diritti civili), e viceversa disimpegno come auto-affermazione di una diversità irriducibile, nei fatti, ad ogni compromesso democratico. Quella tra Pasolini e il diritto è insomma la storia di un rapporto irrisolto, perché irresolubile; in definitiva impossibile.
[1] Pier Paolo Pasolini, Il caos , Garzanti, Milano 2019, p. 8.
[2] Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Milano 2020, p. 205 (cors. nostro).
[3] Id., p. 18.
[4] Id., p. 207.
[5] Id., p. 208-9.
[6] Id., p. 215.
[7] Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2021, p. 211.
[8] Id., pp. 98-9.
[9] Di ascendenza (manco a dirlo) borghese, categoria buona per tutti i contesti e per tutte le stagioni.
[10] Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, op. cit., p. 101.
[11] Id., p. 139.
[12] Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, op. cit., p. 39.
[13] Id., p. 40.
[14] Quanto più saggio, quanto più sensato risulta viceversa l'approccio di chi cerca di “comprendere le trappole corrosive, autoreferenziali e autocontenute della critica fine a se stessa” (Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019, p. 208). L'alternativa, come si vede, è l'auto-castrazione.
[15] Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, op. cit., p. 98.
[16] Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, p. 63.
[17] Pier Paolo Pasolini, Il caos, op. cit., p. 279.
[18] Id., p. 7.
[19] Come fa viceversa l'eremita.
Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte. La rivoluzione dell’assetto giurisdizionale in vista dell’istituzione di una giurisdizione speciale per i giudici
Intervista di Paola Filippi e Roberto Conti a Anna Rossomando
Nella proposta di revisione costituzionale l’Alta Corte sostituirebbe le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione quanto al sindacato sulle sentenze disciplinari emesse dalla Sezione del Consiglio superiore della magistratura.
Con riferimento a questa previsione incuriosisce la circostanza che si ritenga di rimediare alla caduta di immagine del Consiglio operando su compiti affidati alle sezioni Unite civili della corte di Cassazione.
1. Quali sono le criticità rilevate in ordine al sindacato delle Sezioni Unite civili sulle sentenze emesse dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che fanno ritenere il sindacato dell’Alta Corte preferibile rispetto a quello delle Sezioni Unite?
La proposta di revisione costituzionale non è legata a criticità nell’operato delle Sezioni Unite (e nemmeno della giurisdizione amministrativa nel sindacato sui provvedimenti non disciplinari del CSM e sui provvedimenti degli altri organi di autogoverno). Allo stesso modo, la riforma non si lega ai recenti fatti di cronaca che riguardano la magistratura. Sebbene sia innegabile che essi abbiano inciso sulla fiducia dei cittadini nei confronti della magistratura, la proposta di revisione costituzionale – così come il più generale contesto di riforme relative al processo e all’autogoverno – risponde ad esigenze di carattere sistematico. L’istituzione dell’Alta Corte si giustifica, dunque, in considerazioni di respiro più ampio, che attengono tanto all’irrobustimento degli strumenti costituzionali di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, quanto all’esigenza di rendere l’amministrazione della giustizia, complessivamente considerata, capace di rispondere in modo sempre più efficace alle concrete esigenze di tutela dei diritti delle persone. L’idea, peraltro, non è nuova: già la cd. Commissione dei Saggi, nominata nel 2013 dal Presidente Napolitano, ne caldeggiò l’introduzione. Nel documento finale, si rilevò infatti l’inopportunità - per un’istituzione così influente come la magistratura - del solo “giudizio disciplinare dei pari” e propose che “il giudizio disciplinare per tutte le magistrature [restasse] affidato in primo grado agli organi di governo interno e in secondo grado […] ad una Corte, istituita con legge costituzionale”.
Non siamo, dunque, di fronte a un intervento dettato dalla contingenza: semmai, si tratta esattamente del contrario. Attraverso l’istituzione dell’Alta Corte e l’affidamento ad essa – organo costituzionale di indiscussa indipendenza ed elevato prestigio (la sua composizione è modellata su quella della Corte costituzionale) – delle impugnazioni dei provvedimenti del CSM e degli altri organi di autogoverno delle magistrature, il quadro costituzionale viene completato con il trasferimento ad un più alto livello del controllo su fondamentali decisioni riguardanti lo di statuto e la disciplina dei magistrati. Ciò renderebbe ancor più evidente il rilievo costituzionale delle posizioni e degli interessi coinvolti nel sindacato su queste decisioni.
In questa prospettiva, e muovendo da queste premesse, l’intervento si collega armonicamente ai processi di riforma dell’autogoverno in atto, accompagnando e rafforzando il percorso di rigenerazione che la magistratura è chiamata a compiere nell’attuale momento di difficoltà.
2. L’ultimo comma dell’art. 105 bis della proposta di revisione costituzionale, nel disegnare la competenza del nuovo organo giurisdizionale, fa riferimento alle controversie riguardanti l’impugnazione di ogni altro provvedimento dei suddetti organismi (CSM, Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, Consiglio di presidenza della Corte dei conti, Consiglio della magistratura militare, Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, n.d.r.) riguardanti i magistrati. Questo amplissimo genus della materia non eccede la finalità che la proposta intende perseguire? E ancora, la diversa natura dei detti organismi – uno dei quali paracostituzionale – giustifica una loro assimilazione in punto di tutela giurisdizionale?
Come accennato, la proposta intende trasferire a livello costituzionale le impugnazioni dei provvedimenti in materia di autogoverno e disciplina dei magistrati, con riferimento a tutte le magistrature, prevedendo l’impugnazione dinanzi all’Alta Corte non solo dei provvedimenti disciplinari ma anche dei provvedimenti lato sensu amministrativi che riguardano i magistrati (come nomine o trasferimenti). Mediante la trasposizione a livello costituzionale di queste controversie si intende assicurarne una maggiore evidenza nello spazio pubblico ma anche ribadire il loro estremo rilievo e impatto sulle dinamiche della separazione dei poteri. Si intende, in una parola, irrobustire la radice costituzionale del principio di autonomia e indipendenza della magistratura, non solo rendendola più evidente, ma anche conferendo solennità ancora maggiore agli atti in cui essa si manifesta. E questo, sia con riferimento alla magistratura ordinaria che alle altre magistrature. Non ritengo d’altra parte, per rispondere alla seconda domanda, che la posizione costituzionale del CSM possa essere indebolita dall’introduzione di uno specifico organo costituzionale deputato al sindacato sui suoi atti: si tratta semmai esattamente del contrario. Prevedere un regime speciale di impugnazione degli atti del CSM, affidandolo ad un organo costituzionale ad hoc, significa riconoscere proprio la peculiare rilevanza costituzionale di quegli atti, salvaguardandola. Allo stesso modo, credo che assoggettare al medesimo organo di controllo gli atti di tutte le istituzioni di autogoverno – abbiano esse o meno rilievo costituzionale – sia ampiamente giustificato dall’analogia delle funzioni esercitate dagli organi di autogoverno ma anche – e soprattutto – dal principio di unità della giurisdizione. Tale principio trascende la distinzione tra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali e si giustifica, in ultima analisi, nella comune funzionalizzazione dell’esercizio della giurisdizione alla tutela dei diritti e degli interessi legittimi. Proprio alla luce di questa connessione funzionale ha senso far convergere in una unica sede il controllo sugli atti di autogoverno, pur nel rispetto delle specificità di ciascuna giurisdizione.
3. La creazione di un organo giurisdizionale che erode tanto la giurisdizione del giudice ordinario che quella del giudice amministrativo non rischia di delegittimarne la funzione di garanzia e di complicare il sistema di tutela giurisdizionale fondato non solo sulla distinzione fra diritti soggettivi ed interessi legittimi ma anche sulle modalità di tutela offerte dai diversi plessi giurisdizionali, lasciando prefigurare difficoltà non marginali all’atto della definizione delle regole che dovrà avere il processo innanzi all’Alta Corte?
La logica, ripeto, non è quella di una competizione tra diversi rimedi giurisdizionali. Si tratta piuttosto di un cambio di prospettiva. E del riconoscimento del peculiare rilievo delle funzioni attribuite agli organi di autogoverno sul piano della tenuta del principio costituzionale di separazione dei poteri ma anche – più in generale – sul piano della stessa legittimazione del potere giudiziario, in tutte le sue articolazioni. Proprio per questo escluderei rischi di delegittimazione della giurisdizione in conseguenza dell’istituzione dell’Alta Corte. Ritengo invece che si tratti di uno strumento idoneo a rafforzare quella legittimazione, rendendone sempre più evidente il solido ancoraggio alla Costituzione. Quanto alle forme processuali, non vedo i rischi paventati nella domanda. Stiamo parlando di giudizi di impugnazione di categorie di atti che – pur inserendosi in sistemi diversi e richiamando parametri normativi diversi – restano molto simili tra loro dal punto di vista funzionale: provvedimenti disciplinari e provvedimenti amministrativi relativi alle carriere. Credo che in sede di definizione delle disposizioni di attuazione non sarà difficile adeguare il procedimento dinanzi all’Alta Corte alle eventuali specificità dovute alla diversa provenienza degli atti impugnati.
4. Quali punti di contatto e quali differenze, a suo giudizio, si possono cogliere, oltre all’idea di modificare l’impianto costituzionale che è propria della proposta di revisione costituzionale Rossomando, rispetto al disegno di legge del 22 maggio 2018 presentato alla Camera dei deputati (n. 649, prima firmataria on. Bartolozzi, di Forza Italia) di delega al Governo per l'istituzione, presso la Corte di cassazione, del “Tribunale superiore dei conflitti”?
Si tratta di due interventi che hanno un perimetro e un ambito di azione molto diverso. Il ddl C. 649 mira all’istituzione di un Tribunale superiore dei conflitti, avente la funzione di risolvere esclusivamente le questioni di giurisdizione insorte nei giudizi civili, penali, amministrativi, contabili, tributari e dei giudici speciali. Per questo al Tribunale dei conflitti verrebbe attribuita in via esclusiva la cognizione dei conflitti di giurisdizione e del regolamento preventivo di giurisdizione.
L’istituzione dell’Alta Corte risponde invece ad altra finalità che, come già sottolineato, è quella di costituzionalizzare l’impugnazione dei provvedimenti degli organi di autogoverno. Pertanto, il ddl C. 649 mira ad affrontare e risolvere la conflittualità (tecnica) interna alle giurisdizioni in punto di definizione dei reciproci confini di intervento e azione. Il ddl di revisione costituzionale riguarda piuttosto l’irrobustimento degli strumenti di controllo sull’esercizio delle funzioni di autogoverno, riconoscendo lo specifico rilievo costituzionale di esse.
5. La proposta di legge Rossomando non rischia di limitare la funzione suprema riservata alla Corte di Cassazione quale organo giurisdizionale indipendente dal potere politico e chiamato a garantire l’uniforme interpretazione del diritto?
L’istituzione dell’Alta Corte sottrarrebbe alla Corte di cassazione esclusivamente la competenza sui giudizi di impugnazione dei provvedimenti disciplinari del Consiglio Superiore della Magistratura. Si tratta di una funzione specifica, che non si lega alla più generale funzione nomofilattica, la quale resta attribuita alla Suprema Corte e non viene affatto intaccata dalla proposta di revisione costituzionale.
6. Secondo quanto si legge nell’articolato è previsto un doppio grado di impugnazione, non è anomalo che la prima fase di impugnazione sia affidata a un collegio composto da tre componenti quando sono cinque i componenti della sezione disciplinare del Csm?
La composizione della Sezione disciplinare del CSM e quella delle sezioni giudicanti dell’Alta Corte corrispondono a logiche diverse. Non ritengo siano assimilabili e – di conseguenza – non vedo elementi di anomalia. Le motivazioni della scelta di affidare il primo giudizio di impugnazione a un collegio formato da tre membri sono peraltro rese esplicite dallo stesso articolo 105-quater, comma 2: i membri sono tre perché la sezione è composta in modo tale da rispecchiare le diverse modalità di selezione dei componenti dell’Alta Corte che sono, appunto, tre (nomina presidenziale, elezione parlamentare, elezione da parte delle supreme magistrature). Si prevede inoltre che il terzo componente provenga dallo stesso ordine giudiziario cui appartiene il magistrato destinatario del provvedimento impugnato, ovvero dalla Corte di cassazione se si tratta di magistrati militari o tributari. Infine, va segnalato che i provvedimenti adottati dalla sezione singola possono essere a loro volta impugnati dinanzi all’Alta Corte in composizione plenaria.
7. Una questione interessante, che peraltro rileva in termini di efficienza dell’azione dell’organo che si intende istituire, è quella connessa alla specializzazione, come è noto più un organo è specializzato, più esso è efficiente, rapido e prevedibile. Secondo la proposta l’Alta Corte avrebbe il compito di sindacare i provvedimenti disciplinari emessi dai rispettivi organi nei confronti di magistrati amministrativi, contabili, militari e tributari ovvero magistrati assoggettati a differenti ordinamenti disciplinari, qual è l’utilità di istituire un organo unico?
Come già accennato, l’istituzione di un unico organo deputato al sindacato dei provvedimenti adottati nell’esercizio delle funzioni di autogoverno ha una specifica giustificazione di ordine sistematico: si tratta, cioè, di conferire specifica evidenza costituzionale alle relative funzioni, enfatizzandone e valorizzandone il legame con il principio di separazione dei poteri, con il principio di autonomia e indipendenza della magistratura e anche con l’irrobustimento della sua legittimazione sul piano costituzionale. Nella scrittura del testo, ci si è posti il problema della specializzazione, al quale si è fatto fronte modellando i criteri di composizione dell’Alta Corte e i requisiti richiesti per farne parte su quelli già previsti per la composizione della Corte costituzionale. Anche la Corte costituzionale, infatti, è organo chiamato a pronunciarsi su materie molto diverse fra loro; ed è stata la stessa Costituzione a risolvere il problema della specializzazione ancorando la composizione della Corte costituzionale a standard di elevatissima competenza, che vengono ripresi dal disegno di legge per la composizione dell’Alta Corte.
8. Il recente annullamento delle delibera di nomina del Primo presidente della Suprema Corte di Cassazione e del Presidente aggiunto, ha posto in luce la contraddittorietà di un sistema che consente di porre sub iudice provvedimenti che sono estrinsecazione di poteri rimessi in via esclusiva, secondo previsione costituzionale - art. 105 Cost.-, al Consiglio superiore della magistratura. La questione, come è noto, fu molto discussa nei primi anni ’50 e, alla fine risolta, dall’art. 17 legge n. 195/58, ma è innegabile che la tutela giurisdizionale per le violazioni della normativa in materia di ordinamento giudiziario rimane un problema particolarmente delicato e complesso, in quanto tocca principi costituzionali fondamentali (la tutela dei diritti ed interessi legittimi riconosciuta come diritto inviolabile di ogni cittadino – magistrati compresi – dall' art. 24 Cost.) e le fondamenta stesse dell'ordinamento repubblicano (il principio di separazione dei pubblici poteri e della soggezione del giudice soltanto alla legge – artt. 101 e 104 Cost.).
9. L’istituzione dell’Alta Corte potrebbe risolvere, o spostare, il punto della questione o permarrebbero immutate le criticità evidenziate in ragione dell’esclusività – per Costituzione - dei poteri Consiliari in materia di nomine, assunzioni, assegnazioni, trasferimenti e promozioni dei magistrati?
Con l’istituzione dell’Alta Corte ci si fa carico di questo specifico problema, nella misura in cui alla Corte medesima è attribuita anche la competenza sulle impugnazioni di tali provvedimenti. Proprio perché si tratta di provvedimenti che non incidono soltanto sul buon andamento dell’amministrazione della giustizia, ma anche su diritti e interessi legittimi del singolo magistrato, si è ritenuto di assoggettarli al sindacato dell’Alta Corte. La convinzione è che ciò contribuisca in maniera significativa ad alleggerire la conflittualità in relazione all’esercizio di tali funzioni di autogoverno, valorizzando al contempo lo specifico rilievo costituzionale dell’amministrazione della giustizia, anche sotto il profilo del sindacato di legittimità dei provvedimenti riguardanti carriera, assegnazioni e trasferimenti.
10. Si prevede che l’Alta Corte sia composta da quindici giudici, nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative. Con riferimento alle peculiarità della magistratura ordinaria e di quella amministrativa, la previsione di un terzo, composto promiscuamente da magistrati ordinari e amministrativi, è idoneo a garantire i principi di autonomia?
La previsione di una componente eletta dalle supreme giurisdizioni ordinaria e amministrativa rispecchia proprio la finalità di assicurare e valorizzare l’autonomia e le specificità dei diversi ordini, pur nella valorizzazione del principio di unità della giurisdizione. Come si è visto in relazione alla composizione delle sezioni giudicanti sulla prima impugnazione, ciò ha anche la funzione di consentire – nei limiti del possibile – un giudizio cui partecipino anche pari. In tal modo, si viene a creare un equilibrio tra l’istanza di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e la necessità di introdurre elementi di maggiore dialettica nell’esercizio delle funzioni di controllo.
11. Non ci sono criticità, secondo lei, con riferimento alla previsione che magistrati possano essere eletti dal Parlamento, come componenti dell’Alta Corte? Ciò, ad esempio, non potrebbe sollecitare, determinare o far apparire che esistano contatti, non trasparenti, tra magistrati e politica ovvero non potrebbe fa pensare a possibili opacità analoghe a quelle emerse dall’Hotel Champagne, ossia le stesse opacità che incrinano la fiducia dei cittadini e che la legge stessa intende combattere?
L’elezione parlamentare è modellata su quella prevista per i giudici costituzionali (ma anche, volendo, per l’elezione dei membri laici del CSM) che, come noto, avviene secondo quorum molto elevati (che hanno la funzione di sottrarre l’elezione del giudice alla conflittualità politica ordinaria) e sulla base di criteri di riconosciuta competenza e autorevolezza. Per questo, non vedo il rischio di commistioni, anzi semmai il contrario, considerato anche l’elevato tasso di trasparenza e pubblicità di una elezione affidata al Parlamento in seduta comune. Infine, l’analogia richiamata con le note vicende mi pare impropria e non ritengo possa imputarsi alle modalità di elezione e di individuazione dei componenti bensì piuttosto ad una concezione distorta delle relazioni di potere. È infatti da essa e non certo da un’eventuale elezione parlamentare che deriva il rischio di opacità paventato nella domanda.
12.Quale la ragione e il senso del sorteggio tra i due magistrati eletti dal Parlamento?
Il sorteggio è previsto dall’articolo 105-quinquies in via transitoria e con esclusivo riferimento alla prima composizione dell’Alta Corte. Giacché infatti la prima composizione sarà contestuale, la scelta mediante sorteggio di un giudice per componente destinato a decadere alla scadenza del primo quadriennio ha la funzione di evitare che – allo scadere del primo mandato – sia l’intera Corte a decadere, garantendo invece l’avvicendamento parziale tra i giudici. Il ricorso – in via eccezionale e transitoria – al sorteggio ha dunque motivazioni esclusivamente tecniche, finalizzate a garantire il corretto funzionamento dell’organo: e non già legato ad una preferenza per il sorteggio medesimo nella selezione di cariche pubbliche. A tale riguardo, colgo l’occasione per ribadire anzi la mia contrarietà assoluta al metodo del sorteggio per la formazione di organi costituzionali o di rilievo costituzionale – incluso il CSM – salvo eccezioni giustificate, come in questo caso, da ragioni tecniche. Non a caso, anche tale aspetto della disciplina dell’Alta Corte ricalca quanto a suo tempo previsto dall’articolo 4 della legge costituzionale n. 1/1953 (poi abrogato dalla legge costituzionale n. 2/1967) per il rinnovo parziale della Corte costituzionale a seguito della prima nomina e, poi, della diminuzione da dodici a nove anni della durata del mandato di giudice.
13. Attraverso quali percorsi l’Alta corte dovrebbe riconsolidare il rapporto di fiducia cittadini - magistrati e restituire prestigio alla magistratura?
Dare evidenza e rilievo costituzionale al controllo sull’esercizio delle funzioni di autogoverno contribuisce ad irrobustire la legittimazione della magistratura, rendendone ancora più saldo l’ancoraggio alla Costituzione. Questo è indubbiamente un primo aspetto che può rafforzare la fiducia dei cittadini nella magistratura. A ciò si aggiunga che, per il cittadino, può avere grande importanza sapere che la Repubblica attribuisce al controllo sull’esercizio delle funzioni di autogoverno un’importanza tale da consacrarne forme, modalità e condizioni nella Costituzione, vale a dire il testo in cui è cristallizzata la formula di convivenza della nostra comunità politica. Anche questo può senza dubbio accrescere un clima di fiducia e restituire prestigio alla magistratura. Si tratta di essere, e soprattutto sentirsi, parte di una unica comunità di destino, che costantemente ritrova nella Costituzione la propria bussola.
Per un inquadramento di sistema della disciplina dell’art. 42 bis DPR n. 327/2001 alla luce della giurisprudenza costituzionale e del giudice amministrativo*
di Giuseppe Tropea
1. Un criterio sistematico per inquadrare le persistenti criticità in tema di acquisizione sanante può essere quello che parta dal lungo periodo per giungere all’accavallarsi più recente fra impostazione funzionalista e proprietaria nel giro di pochi anni[1].
Nell’espropriazione per p.u. sono presenti, sin dall’origine, due profili[2]: strutturale, attinente al trasferimento di proprietà alla p.a.; funzionale, ovvero volto alla realizzazione dell’interesse pubblico. Il primo aspetto risolve un problema di appartenenza (norme di relazione); il secondo aspetto risolve un problema di attuazione dell’interesse pubblico (norme di azione).
Corollari di tale inquadramento di larga massima, sono, sotto il profilo sostanziale l’esaltazione dei valori della certezza e della garanzia, la centralità delle forme di apprensione del bene. Nel secondo profilo, invece, le forme sono secondarie, in quanto volte a tutelare l’interesse pubblico. Quanto al corollario processuale della distinzione di cui sopra, il giudice dell’appartenenza è notoriamente il g.o., quello dell’interesse pubblico è il g.a. Ovviamente in questa sede semplifico, forse sin troppo, un tema che è stato capo delle tempeste di tutto l’ambito spinosissimo del riparto, basti pensare all’annoso scontro tra Corti sull’ampiezza della nozione di carenza di potere (in astratto o in concreto).
Nella versione originaria dell’istituto espropriativo il profilo strutturale è centrale, anche se rileva pure l’interesse pubblico, sia ab initio (d.p.u.) che ad espropriazione compiuta (retrocessione in caso di mancata realizzazione dell’interesse pubblico). In seguito, si accentua progressivamente l’accezione funzionalista[3], in cui prevale il pubblico interesse e risultano meno garantite certezza e forme. Ciò è legato alle tendenze metodologiche funzionaliste degli anni ‘70[4] ed alla esaltazione del valore conformativo della «funzione sociale» rispetto alla proprietà privata (art. 42 Cost.), sempre più “terribile diritto”[5].
L’assetto funzionalista trova quindi conferma nell’impianto del t.u. espropriazioni del 2001 (d.P.R. n. 327/2001), ma si scontra col “rinascimento proprietario“[6] derivante dalla giurisprudenza Corte Edu degli anni 2000[7], poi proseguito dalla Consulta, che si caratterizza essenzialmente per: istanze indennitarie agganciate al valore di mercato del bene; esigenze di garanzia stabilità e prevedibilità, anche nella giurisprudenza (principio di legalità intesa come prevedibilità, non solo della disposizione ma anche della giurisprudenza); lotta alle cd. espropriazioni “larvate”.
In un primo momento è la Cassazione ad apparire più legata al dogma funzionalista mentre il g.a. appare più filo-proprietario e in linea con la Cedu. Più di recente, come si dirà, le parti sembrano essersi invertite, specie dopo le due sentenze della Corte costituzionale che hanno fatto i conti prima con l’art. 43 poi con l’art. 42-bis del t.u. espropriazioni.
L’impostazione della Cassazione in tema di accessione invertita, risalente a un notissimo arresto del 1983, non muta dopo le sentenze Corte Edu dei primi del 2000. Si ritiene che l’occupazione acquisitiva non costituisca violazione della Cedu, in quanto l’interpretazione giurisprudenziale è divenuta costante, soddisfacendo il requisito della “prevedibilità“richiesto dalla Corte Edu a supporto del principio di legalità[8]. Ma la Corte Edu continua ad essere contraria[9]. E così pure la giurisprudenza amministrativa[10].
Sono dell’avviso che sia possibile adottare due chiavi di lettura per cogliere questi residui profili di criticità. Quella sostanziale: del rapporto fra istituti di diritto privato e loro declinazione in senso speciale-pubblicistico (es. usucapione, rinuncia abdicativa, etc.). Quella processuale: dell’acquisizione sanante come problema anche – se non soprattutto ormai – di diritto processuale e di tutele[11] (es. tema del riparto di giurisdizione, tema delle tutele e dei poteri del commissario ad acta, tema dei limiti oggettivi del giudicato).
Sviluppando questi due profili indagherò la giurisprudenza costituzionale e amministrativa degli ultimi anni in tema di acquisizione sanante.
2. Già dopo Corte cost. n. 293/2010 che ha dichiarato incostituzionale per eccesso di delega l’art. 43 t.u. espropriazioni, vi è stata una fase giurisprudenziale di passaggio con ricostruzioni funzionalizzanti del g.a., volte a colmare il vuoto lasciato da detta decisione.
Varie opzioni giurisprudenziali, più o meno estrose, sono state adottate per colmare la lacuna, e a fronte della scomunica di Strasburgo verso l’accessione invertita.
Da alcune sentenze che, nel richiamare con prosa significativamente imbevuta di concetti romanistici l’istituto della specificazione (art. 940 c.c.): acquisto della proprietà a titolo originario in capo all’ente specificatore e indennizzo (valore venale) per il proprietario[12], ad altre che, in modo più lineare e meno enfatico, hanno affermato l’obbligo restitutorio facendo però salva l’acquisizione per usucapione ventennale e attribuendo rilievo alla eccessiva onerosità (art. 2058 c.c.) come causa di impedimento della restituzione ove «il costo del ripristino supererebbe il valore di mercato del bene»[13].
In tale scenario Corte cost. n. 71 del 2015 si rivela una decisione per nulla scontata.
Come noto, essa ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42 bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, sollevata, in riferimento agli artt. 42, 111, commi 1 e 2, e 117, comma 1, Cost., dalla Corte di cassazione, Sezioni Unite civili, in ragione delle significative innovazioni dell’art. 42 bis cit. rispetto al precedente art. 43 del medesimo T.U. espropri, che rendono il meccanismo compatibile con la giurisprudenza della Corte EDU in materia di espropriazioni cosiddette indirette, ed anzi rispondente all’esigenza di trovare una soluzione definitiva ed equilibrata al fenomeno, attraverso l’adozione di un provvedimento formale della pubblica Amministrazione. Tali differenze rispetto al precedente meccanismo acquisitivo consistono, in particolare, nella previsione: del carattere non retroattivo dell’acquisto; della necessaria rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione attraverso uno stringente obbligo motivazionale; del riconoscimento al proprietario non solo del danno patrimoniale ma anche di quello non patrimoniale; della condizione sospensiva per il passaggio della proprietà data dal pagamento delle somme dovute; dell’applicazione dell’acquisizione non solo quando manchi del tutto l’atto espropriativo, ma anche laddove sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera o il decreto di esproprio; infine, della comunicazione del provvedimento di acquisizione alla Corte dei conti da parte della medesima autorità che acquisisce.
Restano aperti numerosi problemi.
Davvero l’art. 42-bis scoraggia le pratiche non conformi alle norme relative agli espropri in “buona e dovuta forma“? È necessario, in tal senso, un quadro giuridico in cui le acquisizioni sananti “costino“ più degli espropri legittimi, per evocare nozioni di analisi economica del diritto[14]. Davvero oggi c’è conformità con la Cedu quanto al rispetto del principio di legalità?
Su alcuni problemi aperti ancora non ci sono state ancora Plenarie o prese di posizione della Corte di Strasburgo. La valutazione della p.a. resta discrezionale, ma ci si può legittimamente chiedere se la motivazione sull’interesse pubblico sia realmente sindacabile). Si pensi al tema della potenziale omissione del “giusto procedimento“ espropriativo[15] che l’art. 42-bis di fatto autorizza.
A fronte di tanti problemi aperti vi sono stati vari interventi di Sezioni unite e Adunanza plenaria, a conferma della persistenza delicatezza della questione. In questa sede mi occuperò solo della giurisprudenza costituzionale e amministrativa pur essendo importante anche la questione del riparto di giurisdizione in tema di indennizzo[16].
In particolare, considererò con l’uso delle chiavi di lettura metodologiche sopra indicate il tema della rinuncia abdicativa (Ad. plen. n. 2 del 2020); della servitù e dell’applicabilità dell’art. 42-bis anche ad attività privatistiche viziate (Ad. plen. n. 5/2020); del giudicato implicito e dei limiti oggettivi del giudicato civile risarcitorio (Ad. plen. n. 6 del 2021). Sullo sfondo, non ancora direttamente decisa ma oggetto di un importante obiter nel 2016, si colloca la delicata questione dell’usucapione sanante, che probabilmente si riproporrà a breve: siamo vicini ai venti anni dal 2003…
3. Dopo l’epocale spartiacque rappresentato da Corte costituzionale n. 71/2015, il Consiglio di Stato inizia a riflettere, con una serie di importanti Adunanze plenarie, sui problemi residuali, che la Consulta lascia sul terreno. Le chiavi di lettura continuano ad essere quella sostanziale del rapporto pubblico-privato e quella processuale, relativa ai mezzi di tutela, nell’idea di fondo che si afferma dell’art. 42-bis come unico possibile «procedimento espropriativo semplificato» (Corte cost. n. 71/2015). Il Consiglio di Stato sembra riappropriarsi dell’approccio funzionalista, suscitando una serie di perplessità sul piano dell’efficacia della tutela del privato, ma che attengono anche al metodo di fondo nei rapporti pubblico/privato.
Dopo la sentenza della Consulta del 2015 si prospetta immediatamente un tema di tutele e di corretta perimetrazione dei tempi del potere di cui all’art. 42-bis, tra procedimento e processo. L’Adunanza plenaria n. 2/2016 parte proprio dal tema relativo all’incertezza sui tempi, problema che si riverbera sulle modalità di tutela del cittadino specie rispetto al silenzio della p.a., per poi fare un discorso a treccentosessanta gradi sull’acquisizione sanante.
Secondo i giudizi di Palazzo Spada nel caso in cui il giudicato disponga espressamente la restituzione del bene l’amministrazione non potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis. Questa preclusione, invece, non sussiste in alcune ipotesi: quando il privato non ha interesse reale ed attuale alla tutela reipersecutoria, e non propone quindi una rituale domanda di condanna dell’amministrazione alla restituzione previa riduzione in pristino; quando il proprietario ha interesse alla restituzione ma il giudice non si pronuncia sulla relativa domanda o si pronuncia “in modo insoddisfacente”; quando il giudice amministrativo, ferma restando l’impossibilità di condannare direttamente in sede di cognizione l’amministrazione a emanare tout court il provvedimento in questione, imponga all’amministrazione, eventualmente anche nel rito sul silenzio, di decidere — ad esito libero, ma una volta e per sempre, e nel rispetto delle garanzie sostanziali e procedurali — se intraprendere la via dell’acquisizione ex art. 42-bis ovvero abbandonarla in favore di altre soluzioni (restituzione del fondo, accordo transattivo, etc.). Rigido garante del principio di riserva di amministrazione, il g.a. esclude la possibilità per il g.a. di condannare l’amministrazione a disporre l’acquisizione sanante, perché altrimenti si sostituirebbe alla discrezionalità amministrativa.
In sintesi, secondo Ad. plen. n. 2/2016 l’illecito permanente ex art. 2043 c.c. viene a cessare solo in conseguenza: a) della restituzione del fondo; b) di un accordo transattivo; c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa) da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo; d) di una compiuta usucapione, a certe condizioni.
Al netto dei successivi interventi correttivi della stessa Plenaria, ad esempio in tema di rinuncia abdicativa, la sentenza suscita alcune perplessità. Intanto sul fronte dei casi in cui è possibile superare il giudicato restitutorio nell’impiego dell’acquisizione sanante. Quando può dirsi che il giudice si pronunci “in modo insoddisfacente” sulla domanda restitutoria? Potrebbe rientrarvi, magari, un perplesso caso relativo al suolo acquisito per compiere una bonifica nell’impossibilità di una restituzione immediata del bene libero da quanto residuo per il suo precedente impiego a discarica?[17]
E il tema dell’usucapione? L’usucapione sanante è “sanata” da Ad. plen. n. 2/2016. Alle seguenti condizioni: a) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta; b) si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis; c) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del t.u. espr. (30 giugno 2003) perchè solo l'art. 43 del medesimo t.u. ha sancito il superamento dell'istituto dell'occupazione acquisitiva e dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
Restano delle perplessità: anche in questo caso, infattti, pare di assistere all’impiego di categorie civilistiche piegate a finalità di interesse pubblico.
Talune obiezioni non sembrano essere fugate dalle assertive affermazioni della Plenaria, assertive forse anche perché nel 2016 si opera un consapevole “rinvio” della questione. A mio avviso è ancora solida l’obiezione volta a negare l’usucapibilità in base all’idea che l’attività illecita di costruzione di un’opera non realizzi una valida interversione del possesso, quanto un abuso della situazione di vantaggio cagionata dalla detenzione materiale del bene[18]. Si deve quindi dubitare della compatibilità con l’art. 1 Protocollo addizionale Cedu: l’usucapione in queste ipotesi sembra infatti un altro caso di espropriazione indiretta. Il potere di acquisizione, come oggi previsto dall’art. 42-bis, pare qualificare la p.a. come detentrice del bene e non mero possessore (ai fini dell’usucapione): permanendo il potere di acquisizione non c’è animus possidendi, ma detenzione. Per non parlare del paradosso di una tutela addirittura inferiore all’accessione invertita: l’estinzione della tutela reale e di quella obbligatoria. Visto il termine di decorrenza dell’usucapione individuato dalla Plenaria, il problema fra un anno inizierà a riproporsi[19]. Già il Consiglio di Stato ha operato un revirement su quanto detto dalla Plenaria sulla rinuncia abdicativa; ci si chiede se farà lo stesso per l’usucapione sanante. Verrebbe da ritenere di no, se manterrà l’approccio neo-funzionalista che ha assunto negli ultimi anni.
4. Rispetto a tale atteggiamento si segnala prima di tutto una pronuncia meno commentata, ma certamente da non sottovalutare.
Per Ad. plen. n. 5/2020 l’art. 42-bis del d.P.R 8 giugno 2001 n. 327 si applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima la disponibilità del bene. Inoltre, il giudicato restitutorio (amministrativo o civile che sia), inerente l’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù, in esercizio del potere ex art. 42-bis, comma 6, d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, poichè questo presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare.
Qui la Plenaria adotta con nettezza un approccio di flessibile rilevanza dell’art. 42-bis, di chiara matrice funzionalista. Da un lato ritiene applicabile la disposizione nel caso di nullità o annullamento di un contratto di compravendita, posto che anche nei modelli privatistici la finalità di interesse pubblico resterebbe immanente al rapporto; dall’altro che il giudicato restitutorio non precluda l’emanazione di un atto di imposizione di servitù, poiché questo presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare.
Il crinale dei tormentati rapporti pubblico/privato è qui con nettezza lambito: a detta del giudice amministrativo l’azione amministrativa che si concretizza nell’emanazione di provvedimenti amministrativi, ovvero quella che si svolge, in forma paritetica, attraverso la sottoscrizione di accordi con i soggetti privati (art. 11 l. n. 241/1990, in particolare attraverso gli accordi sostitutivi di provvedimento), così come la stessa azione che utilizza direttamente strumenti disciplinati dal diritto privato (in specie, contratti), partecipa dell’unica (ed unificante) ragione di interesse pubblico, che la sorregge e giustifica, rappresentandone la causa in senso giuridico. Una visione marcatamente pan-pubblicista e soggettiva che di fatto identifica il concetto di interesse pubblico e quello della parte pubblica, che si riscontra in molti luoghi della giurisprudenza amministrativa più recente, come quello relativo all’accesso alla fase esecutiva del contratto d’appalto[20], in una «una visione della materia, che fuoriesce dall’angusto confine di una radicale visione soggettivistica del rapporto tra il solo, singolo, concorrente e la pubblica amministrazione e che vede la confluenze la tutela di molteplici interessi anche in ordine alla sorte e alla prosecuzione del contratto». Ritiene ancora la Plenaria, ampliando il compasso applicativo dell’art. 42-bis anche per questo verso, che se oggetto del petitum è il recupero del bene alla piena proprietà e disponibilità del soggetto privato originariamente proprietario, non rientra nell’ambito oggettivo del giudicato, e dunque non si pone in contrasto con lo stesso, un provvedimento che, senza incidere sulla titolarità del bene, imponga sullo stesso ex novo (e, quindi, ex nunc) una servitù, trattandosi di ipotesi affatto diversa da quella inibita dal giudicato e assolutamente coerente con, e anzi presupponente, il mantenimento della proprietà in capo al privato.
5. In Ad. plen. n. 2/2020 il tema è il rilievo nella fattispecie della rinuncia abdicativa. La Plenaria guarda indietro a modifica il proprio convincimento, precedentemente espresso, seppure in via di obiter, nella sentenza n. 2/2016.
Esclude così la configurabilità nel nostro ordinamento della rinuncia abdicativa quale atto implicito ed implicato nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della p.a., a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo.
Lo fa sulla base di tre macro-argomentazioni, molto criticate dai civilisti, ma anche alcuni amministrativisti.
Per l’art. 42-bis l’autorità può acquisire il bene con un atto discrezionale, in assenza del quale scattano gli ordinari rimedi di tutela, compreso quello restitutorio, non residuando alcuno spazio per giustificare la perdurante inerzia dell’amministrazione, che non solo apprende in modo illecito il bene del privato, ma che attraverso una propria omissione (non esercitando il potere all’uopo previsto dalla legge) finirebbe per ottenere la proprietà del bene stesso ancora una volta al di fuori delle procedure legali previste dall’ordinamento.
La scelta, di acquisizione del bene o della sua restituzione, va effettuata esclusivamente dall’autorità (o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio d’ottemperanza, ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 c.p.a): in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alle responsabilità dell’autorità individuata dall’art. 42-bis. Pertanto, il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’Amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a., può nominare già in sede di cognizione il commissario ad acta, che provvederà ad esercitare i poteri di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327-2001 o nel senso della acquisizione o nel senso della restituzione del bene illegittimamente espropriato.
Questo è lo snodo argomentativo centrale che la Plenaria pretende di trarre, con talune forzature, dalla sentenza della Consulta del 2015. Questo assunto, come diremo, sconta dei preconcetti di fondo e presenta una serie di eterogenesi dei fini, specie in termini di tutela del privato.
Ma seguiamo ancora l’argomentare della Plenaria e guardiamo quali sono a detta del giudice amministrativo le criticità della rinuncia abdicativa.
a) essa non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante. Se l’atto abdicativo è astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è altrettanto idoneo a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’Autorità espropriante. Ai sensi dell’art. 827 c.c. l’acquisto, peraltro a titolo originario e non derivativo, si realizzerebbe in capo allo Stato e non in capo all’Autorità espropriante. Né l’effetto traslativo può essere recuperato attraverso l’ordine di trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno, atteso che le vicende della trascrizione si pongono solo sul piano dell’opponibilità verso terzi degli atti giuridici dispositivi di diritti reali, ma non disciplinano la validità e l’efficacia giuridica degli stessi.
b) la rinuncia viene ricostruita quale atto implicito, senza averne le caratteristiche essenziali. La rinuncia abdicativa, se riferita al ricorso giurisdizionale, non viene effettuata dalla parte, né personalmente, né attraverso un soggetto dotato di idonea procura. La domanda risarcitoria non può costituire univoca volontà espressa di rinuncia al bene; l’istituto della rinuncia abdicativa si pone come radicalmente estraneo alla teorica degli atti impliciti che riguarda solo gli atti amministrativi e non gli atti del privato.
c) infine: essa non è provvista di base legale, in un ambito, come quello dell’espropriazione, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato con forza sia a livello costituzionale (art. 42 Cost.), sia a livello di diritto europeo (CEDU). Si è ricordato, infatti, sotto questo profilo, che occorre evitare, in materia di espropriazione cd. indiretta, di ricorrere a istituti che in qualche modo si pongano sulla falsariga della cd. occupazione acquisitiva, cui la giurisprudenza fece ricorso negli anni Ottanta del secolo scorso per risolvere le situazioni connesse a una espropriazione illegittima di un terreno che avesse tuttavia subìto una irreversibile trasformazione in forza della costruzione di un’opera pubblica.
Rispetto a questa dirompente affermazione, il Consiglio di Stato si pone il problema delle sue ricadute sulla parte privata, un po' come aveva fatto con la sentenza n. 13/2017 con l’affermazione del cd. prospective overrulling.
Quale tutela, dunque, in caso in “erronea” domanda risarcitoria?
L’ordinamento processuale offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello: la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni (art. 32 c.p.a.); la rimessione in termini per errore scusabile (art. 37 c.p.a.); l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali.
Invero come accennato le criticità restano, e sono tante. Come diremo, peraltro, si trascineranno nella successiva sentenza n. 6 del 2021.
Prima di tutto, di nuovo, ad essere evocata è la cornice generale dei rapporti pubblico/privato: il diritto privato viene implicitamente bollato come «terra di nessuno»[21] ed emerge una velata diffidenza del g.a. per un meccanismo di tutela affidato al soggetto leso.
Da un punto di vista più strettamente tecnico, il riferimento alla teoria dell’atto amministrativo implicito sembra scarsamente pertinente rispetto alla rinuncia abdicativa alla proprietà, che è istituto del tutto differente per presupposti, ambito di operatività e conseguenze. Peraltro, le più recenti acquisizioni civilistiche ammettono la rinuncia abdicativa implicita. In questo senso i giudici si limitano a escludere la rilevanza dell’art. 827 c.c. (che disciplina l’appartenenza allo Stato dei beni vacanti), ma non richiamano altre norme come l’art. 1070 c.c. (rinunzia della proprietà a favore del proprietario del fondo dominante), l’art. 1104 c.c. (abbandono del diritto del comunista a favore degli altri partecipanti). Infine, si osserva che il mancato effetto traslativo in capo all’ente espropriante non impedisca di considerare legittima l’operazione di sussunzione della rinuncia abdicativa nella domanda giudiziale di risarcimento del danno[22].
Taluni sono arrivati a parlare, commentando questa operazione ermeneutica, di abdicazione di giustizia[23].
Secondo questa prospettiva critica il richiamo alla tutela proprietaria costituzionale e convenzionale europea si rivela singolare all’interno della decisione, sol che si osservi che l’affermazione del conseguente principio di diritto è la circoscrizione dei poteri di reazione del privato e, comunque, la riserva alla sola amministrazione occupante della decisione sulla sorte del bene (restituzione o acquisizione).
Sicché a fronte dell’illecita occupazione di un bene immobile la determinazione legislativa delle legittime modalità di esproprio non può essere considerata come limite all’ordinario potere dispositivo del proprietario. Si ritiene, in tal senso, che «il problema, all'evidenza, ruota tutto attorno all'effettività delle tutele. Nel nuovo assetto delineato dall'adunanza plenaria la palla passa dal privato (e dal giudice) alla pubblica amministrazione: nel che, beninteso, sta il rovesciamento di prospettiva che consente di sterilizzare l'insana ansia del privato di dettare i tempi della traiettoria che dovrebbe portare alla finale (magari, comunque, tardiva) soddisfazione delle sue ragioni e alla pubblica amministrazione di tornare alla compostezza del suo privilegio, con agio di decidere come le conviene»[24]. Si prospetta così un’opzione alternativa: trattandosi di illecito permanente funzionerebbe sempre il principio della property rule, che deve funzionare di default, al privato spetta comunque l’azione restitutoria, assuma essa carattere reale (art. 948 c.c.) o personale (art. 2043-2058 c.c.), oltre che risarcitoria.
Dall’asserita esaustività e autosufficienza dell’istituto dell’acquisizione ‘sanante’ non si potrebbe far derivare la limitazione o, meglio, l’elisione degli ordinari poteri, dispositivi e di azione, del privato che abbia sofferto l’illecita condotta dell’amministrazione, se non operando un salto logico e giuridico inammissibile. In ragione di tale impropria operazione logica, verrebbe creata una norma che non poggia su alcun fondamento e che è in contraddizione con la legge di Hume, ossia frutto di un salto logico dalla realtà dell’essere a quella del dover essere[25]. In altri termini, si compie una operazione di normogenesi, logicamente invalida e giuridicamente inammissibile, non foss’altro perché contraria al principio di divisione dei poteri. Peraltro, conducendo ad un esito abdicatorio del diritto di proprietà del privato.
Si arriva per questa via alla prospettazione di un possibile difetto di giurisdizione ex art. 111 Cost. (eccesso di potere giurisdizionale), tema alquanto delicato dopo la notissima vicenda che ha portato alla recente sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, nel caso Ranstad, che non a caso si colloca a metà strada tra questioni di stretto diritto processuale, come la nozione di “giurisdizione” o di interesse strumentale, e vicende profonde, di ordine perfino istituzionale di dialogo/scontro tra Corti, che toccano i confini disciplinari tra pubblico e privato.
6. Come detto i nodi della tutela vengono al pettine in Ad. plen. 6 del 2021, che evidenzia ulteriormente le criticità derivanti da Ad. plen. n. 2/2020. Nel contrasto tra certezza e stabilità dei rapporti vs. legalità nazionale e convenzionale ci troviamo dinanzi una giurisprudenza amministrativa all’apparenza molto sbilanciata sulla prima. Di nuovo quindi si misura uno scarto rispetto alla tradizione ante-sentenze della Corte costituzionale del 2010 e del 2015.
Il Tribunale di Cagliari nel 2006 ritiene che la fattispecie che gli viene portata all’attenzione è un caso di occupazione appropriativa, ma rigetta espressamente la domanda per prescrizione. Il Tar Sardegna respinge quindi un successivo ricorso sulla medesima vicenda ribadendo che si tratta di occupazione appropriativa, e che l’iniziale richiesta risarcitoria fosse da considerare come rinuncia abdicativa alla proprietà dell’opera. Nel frattempo, tuttavia, tale sistemazione viene superata da Ad. plen. n. 2/2020, secondo la quale l’acquisto della proprietà da parte della p.a. può ormai avvenire solo ex art. 42-bis, in base a una – pretesa – rigorosa applicazione del principio di legalità. Quindi, come detto, la Plenaria del 2020 affronta il conseguente tema dei riflessi processuali con riferimento ai giudizi già instaurati a seguito della proposizione dell’azione risarcitoria nel precedente assetto pretorio. Il punto è che nel caso all’esame della Plenaria del n. 6/2021 tali ausili alla parte privata finiscono per non operare, per la peculiarità della fattispecie. La domanda di fondo, infatti, è se il giudicato che si è formato sulle domande risarcitorie e petitorie proposte alla luce del precedente assetto pretorio «copra» anche l’acquisizione della proprietà in capo alla p.a. ovvero se residui uno spazio per attivare la tutela delineata nel 2020 della Plenaria.
Ad. plen. n. 6 del 2021 lo esclude perentoriamente.
In caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto (per prescrizione) della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile contenente l’accertamento del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino, sia dell’azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis, d.P.R. n. 327/2001. Insomma: un completo deficit di tutela. Al fine della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente che, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte-motiva in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto.
Tale presa di posizione è passibile di critiche sul piano sostanziale e su quello processuale.
Per l’Adunanza Plenaria il giudicato civile si è «formato sia sull’inesistenza del diritto al risarcimento dei danni perché estinto per prescrizione», sia sul suo immediato e diretto presupposto logico-giuridico costituito dal «regime proprietario del bene conseguente all’accertato perfezionamento della c.d. ‘occupazione acquisitiva’» e, dunque, sull’acquisto a titolo originario del bene da parte dell’amministrazione in virtù della sua “irreversibile trasformazione”. E tuttavia, dal momento della produzione dei fatti alla introduzione del giudizio civile e alla successiva sentenza, per poi arrivare alla Plenaria del 2021, si è verificato il completo e assoluto mutamento della qualificazione pretoria del fatto illecito (da istantaneo a permanente) ed è stato escluso che dal medesimo potessero scaturire effetti incidenti sul diritto di proprietà. L’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda attorea non è subordinato alla sussistenza nella pronuncia (e nel dispositivo) della formale chiara e univoca statuizione costitutiva del trasferimento del bene in favore dell’amministrazione in base alla “occupazione appropriativa” (né poteva essere così, perché ormai la tesi dell’occupazione acquisitiva era superata). Sicché, è lecito chiedersi, si può immaginare che il giudicato si estenda a una prassi (prima praeter, poi contra legem) ormai obsoleta o ci sarebbe stato invece un obbligo di interpretazione conforme a Cedu?[26].
A tal fine si propone, da parte di alcuni[27], l’autonomia fra due giudizi e la possibilità del g.a. di apprezzare autonomamente la fondatezza, in fatto e in diritto, della sentenza civile. Da escludere in questo caso, visto il superamento della fattispecie dell’occupazione acquisitiva. Resta il problema del giudicato e del suo potenziale contrasto alla Cedu, in particolare all’art. 1 Protocollo 1 annesso alla Cedu. Sul punto esiste, come noto, la chiusura della Corte costituzionale, che con sentenza n. 123/2017 ha dichiarato la questione di costituzionalità dell’art. 395 c.p.c. per un verso inammissibile per altro verso infondata. Si afferma ivi che è rimessa agli Stati medesimi la scelta di come meglio conformarsi alle pronunce della Corte, senza indebitamente stravolgere i principi della res iudicata o la certezza del diritto nel contenzioso civile, in particolare quando tale contenzioso riguarda terzi con i propri legittimi interessi da tutelare. Al netto delle criticità che tale sentenza poteva o meno presentare, il momento dell’intervento legislativo sembra finalmente arrivato, come conferma l’art. 1, comma 10, della legge delega di riforma del processo civile, n. 206/2021.
Sul fronte delle critiche più schiettamente processuali, invece, si ritiene che né il c.p.c. né il c.p.a. conferiscono alla sentenza civile efficacia di giudicato nel processo amministrativo[28].
Ma soprattutto è la discussa figura pretoria del “giudicato implicito”, da taluni criticamente definito «invisibile»[29], ove riferita alla cd. pregiudizialità logica ed alla cd. pregiudizialità tecnica, che fa discendere l’esistenza di una decisione vincolante per le parti su situazioni sostanziali diverse da quelle oggetto di domanda da un evento su cui le parti stesse non hanno esercitato alcun controllo. Tale evento è il ragionamento compiuto dal giudice per pronunciarsi sulla (unica e vera) domanda proposta: la logica dell’implicito è infatti inesorabile nell’attrarre tutte le premesse fondanti l’accertamento sulla domanda, solo in virtù del fatto che sono tali, alla stessa natura di tale accertamento. Ma quando tali premesse hanno consistenza di altra e diversa posizione sostanziale di cui nessuna parte ha chiesto la tutela, la loro semplice ricognizione in sentenza, benché logicamente necessaria, non è “decisione/accertamento” ma atto solipsistico del giudice insuscettibile di giustificare un vincolo da giudicato in capo a chi, come le parti del processo, vi è rimasto estraneo. Men che mai questo vincolo può ascriversi ad esigenze di economia processuale e di garanzia della certezza e stabilità dei rapporti giuridici come fa il Consiglio di Stato riprendendo affermazioni tralaticie della giurisprudenza civile di legittimità. Obiettivi di celerità dei giudizi e di armonia delle decisioni possono perseguirsi costruendo un giudicato dai limiti molto ampi, ma sempre e solo a patto di rispettare le regole del due process[30]. Proprio quelle regole che la lezione del giudicato implicito invece nega, e per mano di giudici ai quali, secondo la Costituzione repubblicana, neppure competono valutazioni di policy processuale. Il tema della ragionevole durata del processo e dell’economia processuale, declinato secondo il discorso del giudicato implicito, si è accompagnato ultimamente a un’idea utilitaristica di giustizia (es. abuso del processo e meritevolezza della tutela) che, sulla base di generiche clausole generali (es. buona fede, solidarietà sociale) ha portato a una normogenesi pretoria per principi alquanto discutibile[31].
7. Il tema dell’acquisizione sanante, nei suoi persistenti nodi aperti, conferma che la vicenda delle occupazioni illegittime dell’amministrazione continua a non avere pace, nonostante gli importanti assestamenti che si registrano da poco più di un lustro, grazie alla giurisprudenza finalmente confluente nel 2015 di Corte costituzionale e Cassazione.
E tuttavia i tanti aspetti problematici ancora non chiariti stentano a trovare, come visto, confluenze giurisprudenziali come avvenuto sull’an dell’istituto.
L’idea di fondo di chi scrive è che ciò è avvenuto perché, al fondo, si hanno visioni opposte su temi di respiro teorico generale, attinenti sotto il profilo sostanziale il rapporto pubblico/privato, sotto quello processuale il rapporto fra certezza e ragionevolezza dei tempi della tutela e legalità nazionale ed europea.
Da amministrativista, fermandomi a guardare il mio ambito disciplinare, e senza coinvolgere qui l’opinione del civilista, osservo che tali antitetiche opinioni si incontrano anche all’interno dei cultori della mia disciplina.
Per un verso, infatti, c’è chi critica la levata di scudi contro un diritto privato raffigurato come un mondo popolato da sterili e primitivi egoismi connotati soltanto da una rozza dimensione economico-patrimoniale, unitamente alla per contro insistita raffigurazione in chiave salvifica di un diritto amministrativo (e del suo giudice)[32].
Sul versante opposto c’è chi, richiamando i classici del pensiero liberale, su tutti Vittorio Emanuele Orlando, ritiene di fare un’apologia del diritto amministrativo e del suo giudice[33], e di criticare la dottrina che negli anni ha prefigurato una progressiva civilizzazione del diritto amministrativo, attaccando altresì taluni momenti di discutibile accondiscendenza nei confronti del giudice della giurisdizione, magari secondo quella logica confusiva della costruzione di un diritto “comune”, che, a ben vedere, sarebbe soltanto un cavallo di Troia del diritto amministrativo e della sua tradizionale anima garantista.
Il noto caso Randstad, deciso con una sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia del 21 dicembre 2021, costituisce la cartina di tornasole di tale dibattito, a volte anche aspro, tra settori disciplinari e ordini giurisdizionali.
È vero altresì che si registrano prospettive riconcilianti e ireniche, che teorizzano la conclamata crisi della dicotomia pubblico/privato e la necessità di ripensare i paradigmi dello Stato diritto.
Basta scorrere le pubblicazioni degli ultimi anni, tra le quali emerge un’elegante analisi in senso genealogico della parabola moderna della grande dicotomia e le ragioni della sua persistente crisi[34], accompagnandola magari con analisi in senso sincronico[35].
Si vedrà come la cifra di queste impostazioni sia quella che ravvede interconnessioni, sovrapposizioni, perdita di identità, che creerebbero maggiore ricchezza e ambiguità, richiedendo canoni e paradigmi nuovi, anche di carattere empirico[36].
Anche nella manualistica universitaria e per concorsi, spesso ascrivibile alla penna di magistrati, osserviamo questo riposizionamento sistematico: penso a testi quali “Dal diritto civile al diritto amministrativo”[37], nel quale si parla di due discipline in corso di allineamento, che si muovono lungo uno sky-line frastagliato, o ad recenti altri testi in cui si parla ormai di superamento della contrapposizione tra istituti di diritto pubblico e di diritto privato, vedendosi nel diritto amministrativo il nuovo diritto comune dei rapporti giuridici complessi[38].
Anche la teorica del “diritto debole”[39] si muove su tale linea: «occorre ripartire dalla neutralità del rapporto giuridico, inteso come relazione materiale» tra interessi sostanziali, «come substrato teorico e tecnico per una rivisitazione in senso funzionale della relazione tra diritto pubblico e privato».
Insomma: la sfida sistematica è aperta, e da essa passa la soluzione delle questioni che continuano a tormentare l’istituto dell’acquisizione sanante, prima che torni a farsi sentire la Corte di Strasburgo.
*Relazione al corso organizzato dalla Struttura di formazione decentrata della Corte di Cassazione su “Occupazioni illegittime e acquisizione sanante. Ancora nodi gordiani?”, Roma, 15 marzo 2022. Destinata agli Scritti in onore di C.E. Gallo.
[1] Per un affresco generale sui corsi e ricorsi della “grande dicotomia”, cfr. B. Sordi, Diritto pubblico e diritto privato. Una genealogia storica, Bologna, 2020.
[2] Cfr. A. Romano Tassone, Introduzione ai lavori, relazione al Convegno su “Espropriazione per pubblica utilità”, svoltosi a Reggio Calabria l’11 e 12 ottobre 2013, reperibile sul sito www.associazione111.it.
[3] Già a far data dal ventennio fascista. Emblematico, sul punto, S. Pugliatti, Interesse pubblico e interesse privato nel diritto di proprietà, in Atti del primo Congresso nazionale di diritto agrario (1935), ora in Id., La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1954, 1.
[4] N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Roma-Bari, 2007.
[5] S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Bologna, 1990.
[6] L. Nivarra, La proprietà europea tra controriforma e “rivoluzione passiva”, in Eur. dir. priv., 2011, 583 ss.
[7] R. Conti, L’occupazione acquisitiva: tutela della proprietà e dei diritti umani, Milano, 2006
[8] Cfr. ad. es. Cass., sez. un., n. 5902 e 6583 del 2003.
[9] V. il caso Scordino: Scordino c/Italia, Sez. I, 15 luglio 2004; Sez. I, 29 luglio 2004; Sez. IV, 17 maggio 2005; Grande Chambre, 29 marzo 2006; Sez. IV, 6 marzo 2007.
[10] Cons. St., ad. plen., 29 aprile 2005, n. 2.
[11] In tal senso, mi permetto di rinviare già a G. Tropea, Le persistenti “valvole di sicurezza del sistema”: l’acquisizione sanante come questione di stretto diritto processuale?, in Dir. proc. amm., 2016, 591 ss.
[12] Tar Puglia, Lecce, n. 785/2011.
[13] Cons. St., sez. IV, n. 3561/2011.
[14] G. Veltri, La tutela restitutoria in materia espropriativa: lo stato della giurisprudenza ed i nodi ancora irrisolti, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] F. Saitta, Verso un “giusto” procedimento espropriativo, in Dir. amm., 2013, 627 ss.
[16] Sul tema v. Cass., sez. un., 20 luglio 2021, n. 20691.
[17] Cons. St., sez. IV, 21 settembre 2015, n. 4403.
[18] Cons. St., sez. IV, n. 3346/2014.
[19] Sull’attuale inapplicabilità dell’usucapione v., da ultimo, Tar Toscana, 15 febbraio 2022, n. 174.
[20] Ad. plen. n. 10/2020.
[21] G.D. Comporti, La strana metafora della terra di nessuno: le adiacenze possibili tra diritto pubblico e diritto privato alla luce dei problemi da risolvere, in Dir. pubbl., 2021, 529 ss.
[22] A. Vacca, Profili strutturali dell’attività di ius dicere nell’abdicazione del diritto di proprietà, in Riv. dir. proc., 2021, 158.
[23] C. Bona-R. Pardolesi, Rinunzia abdicativa, abdicazione di giustizia?, in Foro it., 2020, III, 134 ss.
[24] C. Bona-R. Pardolesi, Rinunzia abdicativa, abdicazione di giustizia?, cit.
[25] A. Vacca, Profili strutturali dell’attività di ius dicere nell’abdicazione del diritto di proprietà, cit., 166.
[26] W. Gasparri, Occupazione appropriativa, rigetto della domanda risarcitoria e acquisto del bene: alla ricerca dei limiti oggettivi del giudcicato, in Urb. app., 2021, 501.
[27] B. Merola-S. Perongini, Occupazione acquisitiva: giudicato implicito civile ed efficacia preclusiva nel processo amministrativo, in Urb. app., 2021, 507.
[28] B. Merola-S. Perongini, Occupazione acquisitiva: giudicato implicito civile ed efficacia preclusiva nel processo amministrativo, cit., 507.
[29] A. Panzarola, Contro il cosiddetto giudicato implicito, in www.judicium.it, n. 3/2019.
[30] C. Delle Donne, “Giudicato implicito” vs giusto processo: a che punto è la notte? (Intorno ad A.P. n. 6 del 2021), in pubblicazione in www.judicium.it.
[31] Sul punto sia consentito il rinvio a G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, Napoli, 2015. Cfr. anche C.E. Gallo, L’abuso del processo nel giudizio amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2008, 1005 ss.
[32] G.D. Comporti, La strana metafora della terra di nessuno: le adiacenze possibili tra diritto pubblico e diritto privato alla luce dei problemi da risolvere, cit., passim.
[33] M. Mazzamuto, Il riparto di giurisdizione. Apologia del diritto amministrativo e del suo giudice, Napoli, 2008. Per un’aggiornata difesa del giudice amministrativo cfr. C.E. Gallo, Attualità del giudice amministrativo, in www.giustiziainsieme.it, 15 giugno 2021.
[34] B. Sordi, Diritto pubblico e diritto privato. Una genealogia storica, cit.
[35] A. Zoppini, Il diritto privato e i suoi confini, Bologna, 2020.
[36] S. Cassese, Diritto privato/diritto pubblico: tradizione, mito o realtà?, in Dialoghi con G. Alpa, un volume offerto in occasione del suo LXXI compleanno, a cura di G. Conte, A. Fusaro, A. Somma, V. Zeno-Zencovich, Roma, 2018, 56
[37] A. Plaisant, Dal diritto civile al diritto amministrativo, IV es., Udine, 2020.
[38] G.P. Cirillo, Sistema istituzionale di diritto comune, Padova, 2021. Ma v. già le pagine di M.S. Giannini, Diritto amministrativo, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, spec. 866.
[39] M. Protto, Il diritto debole, Torino, 2019.
Il rinvio dell’udienza nel processo amministrativo tra poteri del giudice e diritti delle parti (Nota a Cons. giust. amm. Reg. Sicilia, 31 gennaio 2022, n. 153)
di Michele Ricciardo Calderaro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Il rinvio dell’udienza: il ruolo della discussione orale nel processo amministrativo e la necessità di evitare pronunzie a sorpresa. – 3. Una comparazione processualistica: il rinvio dell’udienza nel processo civile e penale. - 4. Il rinvio dell’udienza di discussione: potere o dovere del giudice amministrativo? – 5. Osservazioni critiche: in alcuni casi sussiste il diritto delle parti al rinvio dell’udienza.
1. Il caso di specie.
La sentenza che si annota interviene su una fattispecie molto peculiare attinente alle tasse portuali, di imbarco e sbarco, introdotte dall’art. 33 della l. n. 82/1963, dapprima per alcuni porti, e applicate, a partire dal 1994, con la l. n. 84/1994, alla totalità dei porti, con devoluzione per intero, alle Autorità portuali competenti[1], delle tasse portuali sulle merci sbarcate e imbarcate, a partire dal 2006.
La questione attiene all’individuazione del soggetto su cui ricade l’onere di queste prestazioni patrimoniali.
In particolare si può affermare che si è dinnanzi ad una tassa di scopo di una prestazione doverosa, collegata, diversamente dalla imposta, al soddisfacimento di un servizio o di una funzione differenziata e determinabile, così da essere dovuta non dalla generalità dei contribuenti in ragione del loro status economico, ma solo dai fruitori, attuali o potenziali, di tale servizio o di tale funzione; più nello specifico, di una prestazione stabilita per fare fronte a spese volte a realizzare opere, specialmente, di infrastrutturazione[2].
Si ricade, pertanto, entro il campo di operatività di cui all’art. 23 Cost., ovvero delle prestazioni patrimoniali che possono essere imposte solo in forza di una legge e non anche di un provvedimento amministrativo[3].
Tuttavia, al di là della questione sostanziale sottostante che si è introdotta sommariamente, l’oggetto di interesse della sentenza che si commenta concerne il regime processuale del rinvio dell’udienza di discussione richiesto da una dalle parti nel corso dello svolgimento del giudizio di appello a seguito dell’introduzione di un documento sopravvenuto.
Ed è su questo che ci si deve soffermare.
2. Il rinvio dell’udienza: il ruolo della discussione orale nel processo amministrativo e la necessità di evitare pronunzie a sorpresa.
Nel giudizio di appello dinnanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia l’appellante, ovvero l’Autorità di sistema portuale del Mare di Sicilia orientale, tramite il suo difensore, l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, ha chiesto di essere autorizzato a presentare un documento sopravvenuto, ritenuto di essenziale rilievo ai fini del decidere e ha chiesto rinvio della discussione della causa.
In particolare, il documento in questione è un decreto del presidente dell’Autorità portuale del Mare di Sicilia occidentale n. 374 dell’11.12.2021, con il quale si è proceduto alla revisione dei diritti portuali, ponendoli a carico delle imprese portuali anche per ogni contenitore imbarcato-sbarcato.
Il collegio ha ritenuto non sussistenti i presupposti per concedere il richiesto rinvio ad altra udienza.
Secondo il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, nell'ordinamento processuale vigente non esiste norma giuridica o principio ordinamentale che attribuisca alle parti in causa il diritto al rinvio della discussione del ricorso, fuori dai casi tassativi di diritto a rinvio per usufruire dei termini a difesa previsti dalla legge.
Al di fuori di tali ipotesi, le parti hanno solo la facoltà di illustrare le ragioni che potrebbero giustificare un eventuale differimento dell'udienza.
Ciò in quanto alle parti spetta la disponibilità delle proprie pretese sostanziali e, in funzione di esse, del diritto di difesa in giudizio, ma le stesse non hanno anche la disponibilità dell’organizzazione e dei tempi del processo, che compete al giudice, al fine di conciliare e coordinare l’esercizio del diritto di difesa di tutti coloro che si rivolgono al giudice.
La decisione finale sui tempi della decisione della controversia spetta al giudice, e la domanda di rinvio deve fondarsi su “situazioni eccezionali” (come recita il comma 1-bis dell’art. 73 c.p.a.: “Il rinvio della trattazione della causa è disposto solo per casi eccezionali, che sono riportati nel verbale di udienza (…)”).
Tali situazioni eccezionali possono essere integrate solo da gravi ragioni idonee a incidere, se non tenute in considerazione, sulle fondamentali esigenze di tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantite, atteso che, pur non potendo dubitarsi che anche il processo amministrativo è regolato dal principio dispositivo, in esso non vengono in rilievo esclusivamente interessi privati, ma trovano composizione e soddisfazione anche gli interessi pubblici che vi sono coinvolti.
Nella specie, la motivazione indicata nella istanza di rinvio non rientra tra quelle che potrebbero giustificare un eventuale differimento perché attinente alla sopravvenuta entrata in possesso di un documento utile ai fini della causa.
Secondo l’orientamento consolidato del giudice amministrativo, pertanto, non sussiste un diritto della parte al rinvio della discussione della causa, spettando la decisione finale in ordine ai concreti tempi della discussione comunque al giudice[4], il quale deve verificare l'effettiva opportunità di rinviare l'udienza, giacché solo in presenza di situazioni particolarissime il rinvio dell'udienza è per lui doveroso, e in tale ambito si collocano, fra l'altro, i casi di impedimento personale del difensore o della parte, nonché quelli in cui, per effetto delle produzioni documentali effettuate dall'Amministrazione, occorra riconoscere alla parte, che ne faccia richiesta, il termine di sessanta giorni per la proposizione dei motivi aggiunti.
Questa tesi, ampiamente suffragata dal Consiglio di Stato, sembra aver trovato anche un fondamento normativo.
Difatti, il d.l. 9 giugno 2021, n. 80, conv. in legge 6 agosto 2021, n. 113, ha modificato l’art. 73 del Codice del processo amministrativo inserendovi un comma 1-bis ove si prevede che “non è possibile disporre, d'ufficio o su istanza di parte, la cancellazione della causa dal ruolo. Il rinvio della trattazione della causa è disposto solo per casi eccezionali, che sono riportati nel verbale di udienza, ovvero, se il rinvio è disposto fuori udienza, nel decreto presidenziale che dispone il rinvio”.
Questa novità è stata prontamente accolta con favore dal giudice amministrativo[5], perché la disposizione dovrebbe inquadrarsi nel più ampio contesto di riforma del processo amministrativo volto a contrastare la formazione di nuovo arretrato nella giustizia amministrativa che incide, a sua volta, sul grado di efficienza e di affidabilità dell'intero sistema economico nazionale[6], chiamato peraltro a fronteggiare le nuove sfide del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (P.N.R.R.).
Con la disposizione in esame il legislatore avrebbe, in via generale, ritenuto prevalente l'interesse pubblico alla celerità della decisione[7], in coerenza con il principio della ragionevole durata del processo[8], rispetto a quello, particolare ed eccezionale, di protrazione della trattazione della causa.
Questa esigenza è certamente condivisibile, occorre però comprendere come ciò si concili con le incomprimibili garanzie difensive delle parti.
Nella ricostruzione tradizionale del processo amministrativo l’udienza di discussione veniva configurata come una delle fasi principali, momento indispensabile di contatto tra le parti ed il collegio giudicante[9].
Questa visione, specialmente a seguito dell’introduzione del Codice del processo, è stata parzialmente superata.
La prassi di articolare diffusamente gli scritti difensivi, difatti, ha portato il legislatore a prevedere nel Codice che la discussione debba avvenire in modo sintetico dopo aver concesso tuttavia la possibilità alle parti di illustrare le proprie domande ed eccezioni in modo particolarmente ampio negli scritti difensivi da depositare antecedentemente all’udienza di discussione, ovvero nelle memorie e nelle repliche.
Si è passati, quindi, da un’impostazione in cui era possibile in sede di discussione orale della controversia arrivare sino ad ampliare l’oggetto della domanda[10] ad un processo in cui l’udienza di discussione ha, proprio per l’ampiezza degli scritti difensivi delle parti, un’importanza più limitata, anche se non del tutto svanita.
Si pensi a quanto previsto dallo stesso art. 73 del Codice al comma 3.
Qui si dispone che, “se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio, il giudice la indica in udienza dandone atto a verbale. Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, il giudice riserva quest'ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie”.
È il problema delle c.d. pronunzie della terza via.
Il Codice prevede un vero e proprio obbligo per il giudice amministrativo: questo dovere del giudice di venire in soccorso alle parti ex art. 73, co. 3, cod. proc. amm. è posto a garanzia della pienezza del contraddittorio; costituisce cioè un meccanismo di tutela volto ad evitare pronunzie "a sorpresa" su profili che esplicano una influenza decisiva sul giudizio[11], con la conseguenza che l'omessa comunicazione di una eccezione rilevata d'ufficio determina nel giudizio di appello l'annullamento con rinvio della causa[12].
Il Codice si è preoccupato di garantire l’integrità del contraddittorio, tutelando le parti contro le sentenze della terza via pronunziate su questioni nuove, non poste all’attenzione delle stesse.
È evidente che in questo caso il ruolo dell’udienza di discussione come momento di necessario dialogo collaborativo tra parti e giudice è fondamentale. Se una delle parti non fosse presente in udienza e la controversia fosse decisa per una questione rilevata d’ufficio su cui non è stato instaurato il contraddittorio il suo diritto di difesa non potrebbe che risultare ampiamente compromesso.
Il problema è stato avvertito in modo particolare successivamente alla modifica che la legge cost. 23 novembre 1999, n. 2 ha apportato all’art. 111 Cost. ove è stato introdotto il primo comma secondo cui “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.
La necessità di evitare decisioni a sorpresa nel processo amministrativo era già stata, in realtà, evidenziata precedentemente alla modifica costituzionale[13], in quanto si sosteneva, giustamente, che i principi del giusto processo costituzionalizzati nel 1999 fossero già presenti nel nostro ordinamento[14].
La riforma costituzionale ha però avuto l’effetto di valorizzarli ancor di più e portare prima la giurisprudenza e poi il legislatore a riflettere su quali fossero le modalità migliori per tutelare l’integrità del contraddittorio nel processo amministrativo[15], che ha risentito molto, sul punto, anche delle correlative novità apportate nel giudizio civile.
Ed infatti, l'obbligo del giudice di provocare il contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio, a pena di nullità della sentenza, è stato espressamente introdotto, nel processo civile, prima per il giudizio di Cassazione con la novella apportata all'art. 384, co. 3, cod. proc. civ. dall'art. 1, d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40; poi, in via generale, con quella apportata all'art. 101, co. 2, c.p.c. dall'art. 45, co. 13, della l. 18 giugno 2009, n. 69.
Quest’obbligo, in quanto correlato al potere-dovere del rilievo d'ufficio delle questioni non riservate all'eccezione di parte, quale espressione di un principio generale del processo, doveva ritenersi operante quantomeno dopo l'entrata in vigore delle novelle apportate al cod. proc. civ. anche nel processo amministrativo già nella disciplina previgente l'entrata in vigore del nuovo cod. proc. amm., ove risulta ormai codificato dall'art. 73, co. 3; ma anche a prescindere dalle stesse, esso era, come detto, già in precedenza ricavabile — rectius, ricavato — in via sistematica dalla garanzia costituzionale del giusto processo[16].
Al di là dell’espressa codificazione della norma del Codice del processo, il principio risulta ancor di più rafforzato dalle modifiche apportate dalla legge n. 69 del 2009 al cod. proc. civ., ed in particolare all’art. 101, dedicato alla garanzia del contraddittorio[17].
Questa norma, difatti, dopo aver previsto che “il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa”, dispone al co. 2 che “se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”[18].
Come si può notare, al di là della fisiologica differenza dei termini, la norma dell’art. 73, co. 3 del Codice del processo amministrativo presenta un contenuto simile a quanto previsto nel co. 2 dell’art. 101, cod. proc. civ.[19], con la differenza che però questa prevede testualmente, quale conseguenza della sua inosservanza da parte del giudice, la nullità di ogni sentenza della terza via[20]: non è così nel processo amministrativo, perché, la nullità è circoscritta ai soli casi in cui si registra, in concreto, una violazione del contraddittorio come garanzia costituzionale, ex artt. 24, co. 2 e 111, co. 1 Cost., delle parti[21].
La preoccupazione del legislatore di evitare che vi sia una pronunzia assunta su una questione non sottoposta all’interlocuzione delle parti è forte e gli interventi normativi adottati in questo senso paiano adeguati, ma sul punto, sin dall’inizio degli anni 2000, è intervenuta in maniera decisa anche la giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Questa, difatti, già con la sentenza n. 1 del 2000, sulla spinta della riforma sul giusto processo dell’art. 111 Cost., ha affermato in modo risoluto che il giudice amministrativo, prima di decidere una questione rilevata d'ufficio, sulla base dell’art. 183, co. 3, cod. proc. civ. deve indicarla alle parti[22], per consentirne la trattazione, in attuazione del principio del contraddittorio[23].
È evidente che il ruolo della discussione in udienza pubblica non può perciò essere del tutto marginalizzato. Ciò che occorre comprendere è se e quando il giudice amministrativo debba disporre il rinvio dell’udienza.
3. Una comparazione processualistica: il rinvio dell’udienza nel processo civile e penale.
Si è anticipato che sino alle modifiche intervenute nel 2021 il rinvio dell’udienza non trovava espressa disciplina nel Codice del processo amministrativo.
Diversa è la situazione per quanto concerne il processo civile e il processo penale ove la disciplina è articolata.
Partiamo dal primo.
L’art. 115 delle disposizioni attuative Cod. proc. civ. dispone anzitutto che il collegio può rinviare la discussione della causa per non più di una volta soltanto per grave impedimento del tribunale o delle parti e non oltre la seconda udienza successiva a quella fissata dal giudice istruttore.
Qui occorre già tenere conto della prima differenza del processo amministrativo rispetto a quello civile: difatti, come è noto, nel primo non è presente la figura del giudice istruttore[24].
L’art. 115, tuttavia, non si limita a dettare questa prescrizione, rinviando invece ad un’altra norma delle disposizioni attuative, ed in particolare a quella dell’art. 82, dedicata al “rinvio delle udienze di prima comparizione e d’istruzione”.
Nello specifico, il quarto comma di questa disposizione prevede che “il giudice istruttore può, su istanza di parte o d'ufficio, fissare altra udienza d'istruzione, ferme le disposizioni dell'articolo precedente. Il decreto è comunicato dal cancelliere alle parti non presenti alla pronuncia del provvedimento”, mentre il quinto prescrive che, “se le parti alle quali deve essere fatta la comunicazione prevista nel primo e nel terzo comma precedenti, o alcuna di esse, non compariscono nella nuova udienza, il giudice istruttore verifica la regolarità della comunicazione e ne ordina, quando occorre, la rinnovazione, rinviando la causa, secondo i casi, all'udienza di prima comparizione immediatamente successiva, ovvero ad altra udienza d'istruzione”.
Queste disposizioni attuative debbono essere lette unitamente all’art. 168-bis, cod. proc. civ., che, disciplinando la designazione del giudice istruttore, fissa il principio secondo cui, “se nel giorno fissato per la comparizione il giudice istruttore designato non tiene udienza, la comparizione delle parti è d'ufficio rimandata all'udienza immediatamente successiva tenuta dal giudice designato” (co. 4); e, inoltre, che “il giudice istruttore può differire, con decreto da emettere entro cinque giorni dalla presentazione del fascicolo, la data della prima udienza fino ad un massimo di quarantacinque giorni. In tal caso il cancelliere comunica alle parti costituite la nuova data della prima udienza” (co. 5)[25].
Da ultimo, occorre ancora tenere conto, per il procedimento dinnanzi al tribunale in composizione monocratica, che l’art. 281-sexies cod. proc. civ. fissa il principio secondo cui “il giudice, fatte precisare le conclusioni, può ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza o, su istanza di parte, in un'udienza successiva e pronunciare sentenza al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”[26].
Dalle disposizioni del codice emerge un quadro definito della disciplina del rinvio dell’udienza nel processo civile.
In caso di grave impedimento di una delle parti il collegio può rinviare la discussione della causa.
Una lettura piana dell’art. 115 disp. att. cod. proc. civ. dovrebbe condurre a ritenere che il collegio ha il potere, ma non il dovere, di rinviare la discussione della causa al verificarsi di determinate condizioni.
Questa sembra essere la lettura dominante che emerge dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Difatti, è principio consolidato quello secondo cui l'istanza di rinvio dell'udienza di discussione della causa per grave impedimento del difensore deve fare riferimento all'impossibilità di sostituzione mediante delega conferita a un collega, venendo altrimenti a prospettarsi soltanto un problema attinente all'organizzazione professionale del difensore[27], non rilevante ai fini del differimento dell'udienza[28].
La carenza organizzativa del difensore incaricato non consente la concessione del differimento dell'udienza fissata, di modo che è del tutto legittima la sentenza pronunciata a seguito del diniego del provvedimento di rinvio[29].
Ciò anche laddove la parte sia rappresentata all'udienza di discussione da altro difensore, che sostituisca ildominus impedito a presenziarvi e che si limiti a richiedere il differimento per grave impedimento dipendente da concomitante impegno professionale del medesimo dominus, impegno di cui il difensore presente in sostituzione non provi l'esistenza e l'anteriorità rispetto alla controversia da discutere, così precludendo di ricondurre l'istanza di rinvio a legittima causa e non a mera strategia difensiva[30].
L’orientamento della Cassazione, che, come si vedrà, è ripreso anche dalla giurisprudenza amministrativa, appare troppo limitativo delle facoltà processuali delle parti.
Il grave impedimento che comporta la necessità di rinvio da parte del giudice deve concretizzarsi in un impedimento personale che non consenta al difensore neanche di delegare un sostituto processuale o di un delegato d’udienza.
La lettura non appare soddisfacente perché la presenza in udienza del difensore o di un suo sostituto non è equivalente e perciò interscambiabile.
Il sostituto, per quanto possa essere adeguatamente a conoscenza della controversia, non può sostituirsi completamente al difensore patrono della causa, che in udienza avrà la possibilità di illustrare gli aspetti più problematici della fattispecie al giudice.
Ciò vale nel processo civile come in quello amministrativo.
Per quanto articolati siano nelle discipline vigenti gli scritti difensivi antecedenti all’udienza, la presenza del difensore nella stessa è fondamentale, specialmente, come si è visto precedentemente, con riferimento alle questioni sollevate d’ufficio dal giudice, che possono essere valutate solamente dal difensore[31].
In modo altrettanto evidente, occorre sottolineare che la cattiva organizzazione del difensore non può divenire il grimaldello per configurare l’istanza di rinvio dell’udienza come abuso del diritto o, rectius nel caso di specie, del processo[32].
È chiaro che il giudice ha il potere di direzione del processo e dei suoi tempi di svolgimento, ma le garanzie difensive ed il diritto ad un equo processo non possono essere soppressi in nome soltanto di una astratta celerità del giudizio.
Una disciplina non dissimile è prevista nel codice di procedura penale.
L’art. 420-ter, co. 5, stabilisce che, in caso di assenza del difensore, dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, purché prontamente comunicato[33], il giudice, con ordinanza, anche d’ufficio, rinvia ad altra udienza.
Questa disposizione non si applica però “se l'imputato è assistito da due difensori e l'impedimento riguarda uno dei medesimi ovvero quando il difensore impedito ha designato un sostituto o quando l'imputato chiede che si proceda in assenza del difensore impedito”.
Anche in questo caso l’orientamento della Cassazione è alquanto rigoroso con riferimento alla richiesta di rinvio del difensore per impedimento dovuto ad altro impegno professionale.
Difatti, si afferma che il difensore che chiede il rinvio del dibattimento per assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento per concomitante impegno professionale non può limitarsi a documentare la contemporanea esistenza di questo, ma deve fornire l'attestazione dell'assenza di un codifensore nell'altro procedimento e prospettare le specifiche ragioni per le quali non possa farsi sostituire nell'uno o nell'altro dei due processi contemporanei, nonché i motivi che impongono la sua presenza nell'altro processo, in relazione alla particolare natura dell'attività che deve svolgervi, al fine di dimostrare che l'impedimento non sia funzionale a manovre dilatorie.
L'impossibilità di farsi sostituire in entrambi i processi non deve solo essere affermata, ma deve essere illustrata e giustificata, non potendo ritenersi sufficienti a tal fine affermazioni del tutto apodittiche e prive anche di un minimo nucleo giustificativo[34].
Anche queste affermazioni vanno recepite con buon senso.
Certamente, data l’organizzazione del processo penale, il difensore potrà articolare la sua attività nominando sin da subito un sostituto ma laddove non lo faccia e vi sia un unico difensore possono sussistere ragioni di grave impedimento che forniscono un valido titolo all’istanza di rinvio motivate, per esempio, da gravi ragioni di salute (si pensi, d’altronde, alle situazioni createsi con la pandemia da Covid-19 relative a quarantene o isolamenti domiciliari) o attinenti alla propria sfera personale[35].
4. Il rinvio dell’udienza di discussione: potere o dovere del giudice amministrativo?
Occorre ora verificare come in questo quadro generale si collochi il rinvio dell’udienza nel processo amministrativo, date le sue peculiarità.
Si è già anticipato che, per quanto sia articolata la trattazione scritta, rimane fondamentale il ruolo dell’udienza di discussione.
Con la sentenza che si commenta, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia sostiene la tesi secondo cui, nell'ordinamento processuale, non esiste una norma o un principio ordinamentale che attribuisca alle parti in causa il diritto al rinvio della discussione del ricorso, fuori dai casi tassativi di diritto a rinvio per usufruire dei termini a difesa previsti dalla legge.
È il caso, ad esempio, della richiesta di rinvio d’udienza per poter proporre motivi aggiunti nel caso di impugnazione di un nuovo provvedimento sopravvenuto connesso a quello già oggetto di ricorso.
In questi casi, il giudice, salva l'ipotesi eccezionale di veri e propri abusi processuali, non può negare il rinvio né subordinarlo a un suo scrutinio preventivo dei motivi aggiunti, nei termini in cui sono preannunciati dalla parte che abbia dichiarato di volerli proporre, perché ciò si risolverebbe in un'inammissibile valutazione prognostica sull'idoneità della domanda (o del motivo) all'accoglimento prima ancora che questa sia stata compiutamente proposta, incidendo sulla stessa sua proposizione[36].
Vi sono però altri casi in cui sembra difficile negare che le parti possano avere titolo a chiedere il rinvio dell’udienza.
È vero che non esiste una norma del Codice che attribuisce alle parti un diritto al rinvio dell’udienza, anzi l’unica disposizione prevista al riguardo, introdotta peraltro solo nel 2021, è quella del co. 1-bis, art. 73 secondo cui “il rinvio della trattazione della causa è disposto solo per casi eccezionali, che sono riportati nel verbale di udienza, ovvero, se il rinvio è disposto fuori udienza, nel decreto presidenziale che dispone il rinvio”.
Occorre, tuttavia, interpretare correttamente questa norma alla luce dell’ordinamento processuale amministrativo.
Il processo amministrativo si regge sul principio della domanda[37], instaurandosi solamente perché il ricorrente vi ha interesse[38].
È difficile, pertanto, trovare un senso logico ad un’astratta impossibilità di rinvio di discussione della controversia qualora, per esempio, il ricorrente e l’Amministrazione stiano, nelle more del giudizio, cercando di individuare una soluzione conciliativa della controversia, potendo ciò astrattamente condurre il giudice a chiudere il processo con una pronunzia di cessazione della materia del contendere che soddisferebbe tutte le parti in causa.
Quindi, laddove le parti rappresentino concordemente l'esistenza di vicende esterne al processo, tali da poter determinare il superamento della situazione di fatto o di diritto sulla quale si è originariamente innestata la vicenda processuale, in modo da rendere la sentenza inattuale o potenzialmente interferente con lo svolgimento dell'attività amministrativa ancora in corso[39], dovrebbe ritenersi l’esistenza di un dovere del giudice di rinviare l’udienza ad una data utile alla parti per giungere ad un’eventuale soluzione deflattiva del contenzioso.
Il giudice amministrativo in merito a queste soluzioni è alquanto rigido sostenendo che le parti non hanno il potere di incidere sull’organizzazione e sui tempi del processo[40].
Secondo l’orientamento prevalente, non esiste in capo alle parti un diritto al rinvio della discussione, poiché il principio dispositivo deve essere calato nel sistema di giustizia amministrativa, dove l'esistenza di interessi pubblici, al cui assetto occorre dare certezza, impone, salvo situazioni oggettive tempestivamente allegate – non ricomprendenti neppure l’esigenza di acquisire mezzi istruttori necessari per la migliore difesa in giudizio[41] - che, una volta fissata (su istanza di chi promuove il giudizio), l'udienza di discussione del ricorso, essa si svolga nella data stabilita[42].
Alle parti sarebbe riconosciuta la sola facoltà di illustrare le ragioni che potrebbero giustificare il differimento dell'udienza o la cancellazione della causa dal ruolo, rimettendone al Collegio la valutazione dell'opportunità[43].
Ne consegue, quindi, che, secondo l’orientamento della giurisprudenza, anche del Consiglio di Stato, le parti non hanno un diritto all’istanza di rinvio, ma è il giudice che ha il potere, e non un dovere, di disporre il rinvio al ricorrere di determinate circostanze. Il potere diviene un dovere solo a fronte di situazioni eccezionali, che incidano direttamente sul diritto di difesa delle parti.
Un caso di esercizio di questo potere può essere, ad esempio, quello della costituzione delle parti oltre il termine, che come è noto, è solo ordinatorio.
Difatti, ove la costituzione tardiva comporti una lesione del diritto di difesa della controparte, il giudice può disporre il rinvio dell'udienza a data fissa, nel termine che riterrà congruo rispetto alle eccezioni sollevate per la prima volta in udienza al fine di consentirne la valutazione a garanzia del contraddittorio sostanziale[44].
Il potere di cui è titolare il giudice amministrativo deve essere però correttamente inquadrato nelle tradizionali classificazioni giuridiche.
Non si tratta di un potere discrezionale, che significhi bilanciamento di vari interessi pubblici, ma è invece il potere di cui normalmente dispone, che è un potere interpretativo, il potere di interpretare, cioè, le disposizioni processuali, al fine di raggiungere l'obiettivo proprio del processo, che è quello di rendere giustizia in tempi ragionevoli[45].
Così, proprio perché si tratta di un ordinario potere interpretativo, il giudice amministrativo ha ritenuto recentemente che la pendenza della questione innanzi all'Adunanza Plenaria in merito alla corretta interpretazione dell'art. 48, co. 17, 18 e 19-ter, d. lgs 18 aprile 2016 n. 50, cod. contratti pubblici, in materia di raggruppamenti temporanei di imprese e procedure di liquidazione, non giustifica il rinvio dell'udienza di trattazione in attesa della decisione del giudice della nomofilachia sul contrasto giurisprudenziale, fermo restando che non vi sono motivati dubbi in ordine alla corretta interpretazione da dare alle disposizioni applicabili nella fattispecie[46].
Il potere interpretativo del giudice, come si è visto, diviene doveroso a fronte di determinate circostanze che possano ledere il diritto di difesa di una delle parti.
Rimane da comprendere se il motivato impedimento personale del difensore a partecipare alla discussione configuri in capo alla parte un vero e proprio diritto al rinvio.
Il primo principio da tenere in considerazione è che, ove venissero accolte generiche e non motivate istanze di differimento rispetto a quelle tassativamente previste a tutela del diritto di difesa, rischierebbe di essere pregiudicato il diverso principio, parimenti di rango costituzionale, della ragionevole durata del processo[47].
Non è questo il caso dell’istanza di rinvio motivata da un legittimo impedimento del difensore a partecipare all’udienza.
In questo caso, analogamente a quanto avviene dinnanzi alla richiesta di un termine di differimento per poter proporre motivi aggiunti a fronte di produzioni documentali, l’esercizio del potere da parte del giudice è doveroso[48]e, in maniera corrispondente, si può ritenere che in capo alla parte si configuri un diritto al differimento dell’udienza.
La conclusione pare essere pacifica ma occorre dare conto di un orientamento che, sulla falsariga di quanto avviene nel processo civile, è fin troppo rigoroso.
Si afferma, infatti, che la richiesta di rinvio d'udienza presentata da uno dei difensori in ragione della sua impossibilità a partecipare all'udienza deve essere esaminata con riferimento, oltre che al principio del giusto processo, anche al principio della ragionevole durata e della leale collaborazione processuale, dovendosi considerare non solo le esigenze del difensore che chiede il rinvio, ma anche le esigenze organizzative generali del Tribunale e quelle delle altre parti.
In tal senso, non esisterebbe in capo alle parti un diritto potestativo al rinvio della discussione ogni qualvolta il difensore si trovi nell'impossibilità di presentarsi personalmente in udienza per assolvere al proprio mandato, dovendosi valorizzare il dovere di cooperazione che fa obbligo al difensore, il quale sia nelle obiettive condizioni di non poter comparire, di porre in essere ogni attività, materiale o giuridica, necessaria e sufficiente a rendere ugualmente possibile la celebrazione del processo, anche attraverso l'istituto della sostituzione processuale[49].
L’assunto, astrattamente considerato, deve essere contestato.
È vero che la richiesta di rinvio non può essere utilizzata per porre in essere solamente una pratica difensiva dilatoria, perché ciò si porrebbe in contrasto con le esigenze di ragionevole durata del processo e di conseguente deflazione del contenzioso.
Deve essere, però, il giudice a verificare che tutto questo non si verifichi.
La presenza del difensore patrono della causa alla discussione è, come si è detto, il più delle volte fondamentale ed è difficilmente colmabile con l’istituto della sostituzione processuale.
Primo perché il difensore che patrocina la causa è in grado di illustrare in sede di discussione aspetti della controversia che il collegio potrebbe voler chiarire.
Secondo, ma non quanto ad importanza, perché in sede di discussione potrebbero essere sollevate dal giudice questioni d’ufficio cui il sostituto processuale difficilmente è in grado di replicare, con la conseguenza che verrebbe lesa l’integrità del contraddittorio.
Così, salvo che l’istanza di rinvio paia, ictu oculi, concretizzare un abuso del processo, a fronte del legittimo impedimento personale del difensore si deve affermare la configurazione di un diritto della parte al rinvio della discussione, sempre subordinato alla sussistenza del consenso delle altre parti.
5. Osservazioni critiche: in alcuni casi sussiste il diritto delle parti al rinvio dell’udienza.
La pronunzia del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia che si commenta si inserisce nel filone tradizionale della giurisprudenza secondo cui, al di fuori dei casi eccezionali direttamente incidenti sul diritto di difesa delle parti, non esiste un diritto al rinvio dell’udienza in capo alle stesse.
In effetti, se si guarda al dato letterale delle norme del Codice del processo questo orientamento è confermato, anche dopo l’introduzione del co. 1-bis all’art. 73.
Occorre, però, fare attenzione e ricostruire correttamente il quadro ordinamentale.
In linea di principio, al giudice amministrativo, in virtù del suo potere di direzione del processo, spetta un potere, che si è detto essere interpretativo e non certamente discrezionale, di rinvio dell’udienza.
L’esercizio di questo potere diviene doveroso laddove ci siano delle situazioni che incidano direttamente sul diritto di difesa delle parti e sull’integrità del contraddittorio sostanziale: si pensi alla richiesta di proposizione di motivi aggiunti di ricorso a fronte della produzione documentale di controparte o al legittimo impedimento del difensore di una delle parti qualora il giudice voglia sollevare una questione d’ufficio.
In questi casi, non si può negare, come invece sembra fare la giurisprudenza, che in capo alle parti sussista un diritto al rinvio.
Sotto questo profilo, la questione non può essere liquidata semplicemente affermando, come fatto anche dalla pronunzia in commento, che “pur non potendo dubitarsi che anche il processo amministrativo è regolato dal principio dispositivo, in esso non vengono in rilievo esclusivamente interessi privati, ma trovano composizione e soddisfazione anche gli interessi pubblici che vi sono coinvolti”.
Quali sono questi interessi pubblici coinvolti?
Anzitutto, principi di rango costituzionale.
Quindi, certamente, la ragionevole durata del processo. Ma occorre anche considerare il principio del giusto processo e la necessità di garantire la pienezza del contraddittorio.
Ecco, in tutti i casi ove questa possa venire lesa, vi è un diritto delle parti al rinvio della discussione che, se caratterizzato dal consenso di tutti, determina un dovere del giudice di procedere al differimento dell’udienza.
[1] Sulla controversa natura giuridica della Autorità portuali v. F. Benvenuti, La disciplina degli enti portuali e il provveditorato al Porto di Venezia, in Riv. dir. nav., 1959, 3 ss.; L. Acquarone, Aspetti pubblicistici della disciplina delle imprese portuali, in Ann. Genova, 1965, 44 ss.; Id., Demanio marittimo e porti, in Dir. mar., 1983, 84 ss.; G. Sirianni, L’ordinamento portuale, Milano, Giuffrè, 1981; G. Pericu, Porto (navigazione marittima), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1985, vol. XXXIV, 18 ss.; G. Falzea, Riflessioni sulla natura giuridica e sulle funzioni dell'ente portuale, in Studi in onore di G. Vignocchi, Modena, Mucchi Editore, 1992, 579 ss.; E. Bani, Autonomia e ‹‹indipendenza›› dell'autorità portuale, in Aa. Vv., Autorità portuali e nuova gestione dei porti, Padova, Cedam, 1998, 106 ss.; Id., Porto e funzione portuale: premessa ad uno studio del bene porto, Milano, Giuffrè, 1998; S.M. Carbone, La cd. privatizzazione dei porti e delle attività portuali in Italia tra disciplina nazionale e diritto comunitario, in Dir. maritt., 2000; G. Vermiglio, Autorità portuale, in Encicl. dir., Agg., VI, Milano, Giuffrè, 2002, 192 ss.; A.M. Citrigno, Autorità portuale, Milano, Giuffrè, 2003; M.R. Spasiano, Spunti di riflessione in ordine alla natura giuridica e all’autonomia dell’autorità portuale, in Foro amm. TAR, 2007, 2965 ss.; M. Calabrò, Il controverso inquadramento giuridico delle autorità portuali, in Foro amm. TAR, 2011, 2923 ss.; M.R. Spasiano (a cura di), Il sistema portuale italiano tra funzione pubblica, liberalizzazione ed esigenza di sviluppo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013; M. Ragusa, Porto e poteri pubblici: una ipotesi sul valore attuale del demanio portuale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017; P. Rubechini, Critica della ragion portuale: una prima analisi del d.lgs. n. 169/2016, in Giorn. dir. amm., 2017, 19 ss.; A. Natalini, S. Scognamiglio(a cura di), Porti: storia, economia, amministrazione del sistema portuale italiano, Bologna, Il Mulino, 2020.
[2] Sul punto, per un’ampia disamina, cfr. F. Tundo, Il regime tributario delle Autorità portuali, in Riv. dir. trib., 2011, 681 ss.; G. Croce, La tassa portuale, in Dir. e prat. trib., 2005, 20897 ss.; G. Marongiu, Sulla natura e sulla debenza della “tassa portuale”, in Fisco, 2004, 43 - p. I, 7244 ss.; M. Basilavecchia, Le problematiche tributarie nella gestione del demanio marittimo, in Boll. trib., 2002, 1367 ss.;
[3] Per un’analisi del dettato costituzionale cfr., ex multis, A. Fedele, Art. 23, in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1978, 103 ss.; E. Tosato, Prestazioni patrimoniali imposte e riserva di legge, in Aa. Vv., Scritti in onore di Gaspare Ambrosini, Milano, Giuffrè, 1970, Vol. III, 2134 ss.; S. Fois, La riserva di legge. Lineamenti storici e problemi attuali, Milano, Giuffrè, 1963; v., inoltre, R. Balduzzi, F. Sorrentino, Riserva di legge, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1989, Vol. X, 1207 ss.; E. Corali, Cittadini, tariffe e tributi: principi e vincoli costituzionali in materia di prestazioni patrimoniali imposte, Milano, Giuffrè, 2009.
[4] V., da ultimo, Cons. Stato, Sez. III, 24 maggio 2021, n. 3990, in www.giustizia-amministrativa.it.
[5] Così, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 17 dicembre 2021, n. 13120, in Guida dir., 2022, 2 ss.
[6] Sulle problematiche delle udienze da remoto per lo smaltimento dell’arretrato nel processo amministrativo v. le riflessioni di F. Volpe, Il processo amministrativo dopo l’estate del 2021, in Giustiziainsieme, 1° ottobre 2021.
[7] Sul punto cfr. M. Sinisi, Il giusto processo amministrativo tra esigenze di celerità e garanzie di effettività della tutela, Torino, Giappichelli, 2017; V. Parisio (a cura di), I processi amministrativi in Europa tra celerità e garanzia, Milano, Giuffrè, 2009.
[8] Sull’applicazione di questo principio cfr. N. Bassi, Ragionevole durata del processo e irragionevoli lungaggini processuali, in Giorn. dir. amm., 2009, 1182 ss.; M. Poto, Processo e ragionevole durata: la bestiola tutta pace e tutta flemma, in Resp. civ. e prev., 2008, 1071 ss.; C. Saltelli, La ragionevole durata del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2007, 979 ss.; F. Auletta, La ragionevole durata del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2007, 959 ss.; in generale cfr. G. Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc., 2011, 505 ss.; L.P. Comoglio, La durata ragionevole del processo e le forme alternative di tutela, in Riv. dir. proc., 2007, 590 ss.
[9] Cfr. M. Nigro, L'ammissione delle prove nel processo davanti al Consiglio di Stato: poteri collegiali e poteri presidenziali, in Foro amm., 1966, III, 209 ss.
[10] Per una ricostruzione di questa evoluzione del processo amministrativo v. M. Nigro, Processo amministrativo e motivi di ricorso, in Foro it., 1975, V, 18.
[11] Profili che si possono concretizzare in qualunque questione di diritto o di fatto nonché ogni elemento valutativo, fino ad allora ignorato, che, se considerato rilevante, esige di venir sottoposto a contraddittorio: sul punto cfr. G. De Giorgi, Poteri d'ufficio del giudice e caratteri della giurisdizione amministrativa, in Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo, Annuario 2012, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013, 23 ss.
[12] Sul punto cfr. Cons. Stato, Sez. III, 24 marzo 2020, n. 2065, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] V., ad esempio, C.E. Gallo, Lo svolgimento del giudizio nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1986, 520 ss.
[14] Così M.P. Chiti, Influenza dei valori costituzionali e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1994, 117 ss.
[15] Su come il dovere di collaborazione del giudice con le parti, che si concretizza nell’obbligo di indicazione delle questioni rilevate d’ufficio, debba farsi discendere dai precetti costituzionali dell’art. 111, co. 1 Cost. ma altresì dall’art. 24 Cost., cfr. F. Ceglio, Le sentenze della “terza via” nel processo amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2007, 905 ss.
[16] In tema cfr. l’affermazione di Cons. Stato, Sez. II, 12 dicembre 2019, n. 8447, in Foro amm., 2019, 2003 ss.
[17] Su questa disposizione cfr. D. Buoncristiani, Il nuovo art. 101, comma 2º, c.p.c. sul contraddittorio e sui rapporti tra parti e giudice, in Riv. dir. proc., 2010, 403 ss.
[18] Secondo la giurisprudenza di Cassazione, come ad esempio Cass. civ., Sez. III, 5 maggio 2021, n. 11724, in Giust. civ. Mass., 2021, l'obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio, stabilito dall'art. 101, co. 2, cod. proc. civ., non riguarda le questioni di solo diritto, ma quelle di fatto ovvero quelle miste di fatto e di diritto, che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio, bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero una attività assertiva in punto di fatto e non già mere difese.
[19] Secondo G. Crepaldi, Le pronunce della terza via, Torino, Giappichelli, 2018, 67, “in entrambi i giudizi, civile ed amministrativo, deve ammettersi che le rispettive discipline consentano l’introduzione di tutti gli strumenti utili ad una difesa in senso ampio, dal deposito di memorie contenenti le rispettive posizioni e le ragioni giuridiche rispetto alla questione rilevata d’ufficio, sino alla produzione di mezzi di prova, primi fra tutti i documenti, compresa la possibilità che le parti rimodulino la propria pretesa modificando le domande e le eccezioni già presentate”.
[20] In tema cfr. M. Gradi, Il principio del contraddittorio e la nullità della sentenza della “terza via”, in Riv. dir. proc., 2010, 827 ss.; A. Giordano, La sentenza della “terza via” e le “vie” d'uscita. Delle sanzioni e dei rimedi avverso una “terza soluzione” del giudice civile, in Giur. it., 2008, 913 ss.
[21] Sul punto cfr. L. Bertonazzi, Forma e sostanza nel processo amministrativo: il caso delle sentenze “a sorpresa” e dintorni, in Dir. proc. amm., 2016, 1048 ss., che riprendendo le parole di S. Chiarloni, Questioni rilevabili d'ufficio, diritto di difesa e “formalismo delle garanzie”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, 569 ss., osserva come si è evitato di importare nel processo amministrativo “un caso tipico formalismo delle garanzie”.
[22] Quest’orientamento dell’Adunanza Plenaria non era condiviso da parte della dottrina perché si riteneva che l’art. 183, co. 3, cod. proc. civ. non potesse ricomprendersi tra le norme di diritto processuale comune applicabili (anche) al processo amministrativo né estensibile allo stesso in via analogica stante la sua stretta attinenza alle funzioni — collaborative rispetto alle parti in causa — proprie del giudice istruttore nell'ambito della prima udienza di trattazione: così, ad esempio, G. Iudica, Questioni rilevabili d'ufficio e contraddittorio nel processo amministrativo, in LexItalia, n. 1/2000.
[23] Cons. Stato, Ad. Plen., 24 gennaio 2000, n. 1, in Foro it., 2000, III, 305, con nota di A. Travi, Riduzione del termine per l'appello nei giudizi in tema di opere pubbliche; in Dir. proc. amm., 2001, 12 ss., con nota di F. Ceglio, L’Adunanza Plenaria indica un nuovo modello di processo amministrativo: la decisione n. 1 del 2000.
[24] Per una ricostruzione generale della fase istruttoria nel giudizio amministrativo si rinvia a C.E. Gallo, La prova nel processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 1994; più di recente v. altresì P. Lombardi, Riflessioni in tema di istruttoria nel processo amministrativo: poteri del giudice e giurisdizione soggettiva “temperata”, in Dir. proc. amm., 2016, 85 ss.; L. Giani, Giudice amministrativo e cognizione del fatto (il pensiero di Antonio Romano), in Dir. amm., 2014, 537 ss.
[25] Cass. civ., Sez. II, 26 agosto 2021, n. 23455, ha statuito che il rinvio d'ufficio dell'udienza, a norma dell'art. 168-bis c.p.c., co. 4, non determina la riapertura dei termini per il deposito della comparsa e per la proposizione dell'appello incidentale. La sentenza è reperibile in ilprocessocivile.it, 14 settembre 2021, con nota di F. Agnino, La Corte di Cassazione torna sugli effetti del differimento dell’udienza ex art. 168-bis c.p.c.
[26] Cass. civ., Sez. III, 10 giugno 2020, n. 11116, in Giust. civ. Mass., 2020, ha affermato che, in tema di decisione della causa ai sensi dell'art. 281 sexies cod. proc. civ., la facoltà delle parti di chiedere un differimento dell'udienza di discussione può essere esercitata esclusivamente dopo la pronuncia dell'ordine del giudice di discussione orale, poiché solo in tale momento e non prima si determina l'avvio del relativo subprocedimento e si attivano i corrispondenti poteri delle parti, i quali intanto hanno ragione di estrinsecarsi in quanto il magistrato si sia indotto a procedere con la definizione immediata.
[27] Cass. civ., Sez. VI, 28 gennaio 2021, n. 1793, in Giust. civ. Mass., 2021.
[28] In questo senso Cass. civ., Sez. Un., 26 marzo 2012, n. 4773, in Giust. civ. Mass., 2012, 3, 397 ss.
[29] Così, ad esempio, Cass. civ., Sez. VI, 15 ottobre 2018, n. 25783, in Giust. civ. Mass., 2018; Cass. civ., Sez. III, 6 maggio 2016, n. 9245, in Giust. civ. Mass., 2016; con riferimento all’applicazione di questa disposizione anche al processo tributario e sull’irrilevanza, per il rinvio dell’udienza di discussione, della successiva assunzione di altro impegno professionale cfr. Cass. civ., Sez. VI, 15 luglio 2016, n. 14600, in Giust. civ. Mass.
[30] Così Cass. civ., Sez. I, 27 agosto 2013, n. 19583, in Giust. civ. Mass., 2013.
[31] Non si può che concordare con C.E. Gallo, L’impedimento del difensore ed il rinvio dell’udienza nel processo amministrativo, in Foro amm. CdS, 2011, 1031 ss., secondo cui “il sostituto processuale od il delegato d'udienza non sono di norma in grado di far fronte alla rappresentazione di una questione rilevabile d'ufficio e, a questo punto, l'unica soluzione ragionevole del problema non potrà che essere un rinvio dell'udienza di discussione”.
[32] E quindi, compiere un atto formalmente lecito, tendente però a perseguire finalità estranee al suo scopo: così F. Cordopatri, L’abuso del processo nel diritto positivo italiano, in Riv. dir. proc., 2012, 874 ss.; sul punto cfr. altresì, tra gli studi più recenti, L. De Gaetano, Alcune riflessioni in materia di abuso del processo ed eccezione di legittimazione passiva sollevata in appello, in Dir. proc. amm., 2021, 432 ss.; P.M. Vipiana, L’abuso del processo amministrativo, in G. Visintini (a cura di) L’abuso del diritto, Napoli, Esi, 2016, 247, secondo cui la valenza certa dell’abuso del processo, quale argomentazione giuridica, è quella di costituire uno schema argomentativo “in cui collocare una serie di istituti che già trovano la loro disciplina in sede normativa. A tale livello l’abuso del processo assurge a mero minimo comun denominatore di tali istituti: una sorta di fil rouge fra essi oppure, in altri termini, una scatola in cui collocarli tutti. In tale ruolo l’abuso del processo è una figura inidonea a ledere: sicuramente non indispensabile, ma forse non inutile a creare, a fini sistematici e didattici, una base unitaria ad un numero di istituti eterogenei”; sul cattivo esercizio del diritto nel processo amministrativo si rinvia altresì a S. Foà, Giustizia amministrativa, atipicità delle azioni ed effettività della tutela, Napoli, Jovene, 2012, 156 ss.; M. Fornaciari, Note critiche in tema di abuso del diritto e del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2016, 593 ss.; M.G. Pulvirenti, Riflessioni sull’abuso del processo, in Dir. e proc. amm., 2016, 1091 ss.; A. Panzarola, Presupposti e conseguenze della creazione giurisprudenziale del c.d. abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2016, 23 ss.; G. Corso, Abuso del processo amministrativo?, in Dir. proc. amm., 2016, 1 ss.; G. Tropea, Spigolature in tema di abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2015, 1262 ss.; Id., Abuso del processo nella forma del venire contra factum proprium in tema di giurisdizione. Note critiche, in Dir. proc. amm., 2015, 685 ss.; S. Baccarini, Abuso del processo e giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015, 1203 ss., secondo cui “non si tratta di comportamenti vietati o comunque illeciti perché in diretta violazione delle norme processuali, ma di uso improprio di uno strumento processuale, in sé lecito, che produce effetti pregiudizievoli sul procedimento”; G. Verde, L’abuso del diritto e l’abuso del processo (dopo la lettura del recente libro di Tropea), in Riv. dir. proc., 2015, 1085 ss.; Id., Abuso del processo e giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2015, 1138; K. Peci, Difetto di giurisdizione e abuso del processo amministrativo, commento a Cons. St., Sez. III, 13 aprile 2015, n. 1855, in Giorn. dir. amm., 2015, 691 ss.; E. Boscolo, Le condizioni dell’azione e l’abuso del processo amministrativo, in Giur. it., 2014, 8 ss.; S. Chiarloni, Etica, formalismo processuale, abuso del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 1281 ss.; quanto all'utilità dell'introduzione del concetto di abuso del processo nel giudizio amministrativo cfr. C.E. Gallo, L’abuso del processo nel giudizio amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2008, 1022, secondo cui “si tratta di una norma di chiusura, volta a reprimere un uso distorto dello strumento processuale, che, di conseguenza, è utile per il fatto di esserci, anche se ci si augura che non debba mai essere utilizzata, risultando bastante il suo significato educativo”; N. Paolantonio, Abuso del processo (diritto processuale amministrativo), in Encicl. dir., Giuffrè, Milano, 2008, Annali, II, tomo I, 6, secondo cui, ai fini della costruzione di una definizione di abuso del processo amministrativo, occorre tenere conto della particolare posizione delle parti nel giudizio amministrativo; tale circostanza, secondo l’Autore, reca due conseguenze di non poco momento: “la prima è che gli schemi classici dell’abuso processualcivilistico non trovano sempre pedissequa applicazione nel processo amministrativo: basti pensare al regime della condanna alle spese di lite in caso di soccombenza, assai di rado utilizzata dal giudice amministrativo, sia in sede cautelare che di merito, in virtù di un’atavica quanto ingiustificata esigenza di salvaguardia del pubblico erario. La seconda è che la sostanziale disparità delle parti nel processo amministrativo è essa stessa causa, talora, d’abuso, sia delle parti (dell’amministrazione, ma anche del ricorrente), sia del giudice”; si rinvia, inoltre, al contributo di G. De Stefano, Note sull’abuso del processo, in Riv. dir. proc., 1964, 582 ss.
[33] Cass. pen., III, 26 maggio 2021, n. 35974, in Dir. e giust., 2021, 5 ottobre, ha specificato che la richiesta di rinvio dell'udienza per legittimo impedimento del difensore, anche qualora inviata in cancelleria mediante posta elettronica certificata, determina comunque l'onere del giudice di valutare l'impedimento dedotto.
[34] Così Cass. pen., Sez. V, 7 ottobre 2020, n. 30741, in Dir. e giust., 2020, 5 novembre.
[35] Cfr., al riguardo, l’orientamento già espresso da Cass. pen., Sez. I, 9 dicembre 2008, n. 47753, in Cass. pen., 2003, 12, 4785; Cass. pen., Sez. V, 1° luglio 2008, n. 29914, ivi, 2009, 10, 3916; Cass. pen., Sez. V, 20 settembre 2006, n. 35011, ivi, 2008, 3, 1074.
[36] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. V, 9 luglio 2019, n. 4793, in www.giustizia-amministrativa.it.
[37] In generale, sul principio della domanda, cfr. C. Consolo, Domanda giudiziale, in Dig. disc. priv., VII, Torino, Utet, 1991, 44 ss.; G. Verde, Domanda (principio della), I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., XXI, Roma, 1989, 1 ss.
[38] In tema v. M. Ramajoli, L’atto introduttivo del giudizio amministrativo tra forma e contenuto, in Dir. proc. amm., 2019, 1051 ss.
[39] Sul punto v. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 28 febbraio 2018, n. 2215, in Foro amm., 2018, 287 ss.
[40] Da ultimo, ad esempio, Cons. Stato, Sez. III, 24 maggio 2021, n. 3990, in www.giustizia-amministrativa.it.
[41] Così si è espresso T.A.R. Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 18 aprile 2017, n. 139, in Foro amm., 2017, 929 ss.
[42] Così T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 14 maggio 2020, n. 672, in Foro amm., 2020, 1101 ss.
[43] Da ultimo, T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. II, 23 aprile 2021, n. 377, in www.giustizia-amministrativa.it.
[44] Così Cons. Stato, Sez. III, 20 gennaio 2016, n. 196, in www.giustizia-amministrativa.it; da ultimo T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 15 gennaio 2019, n. 45, in Foro amm., 2019, 146 ss.
[45] Concorde è l’opinione di C.E. Gallo, L’impedimento del difensore ed il rinvio dell’udienza nel processo amministrativo, cit., 1031 ss.
[46] Così T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 17 dicembre 2021, n. 13120, in Guida dir., 2022, 2.
[47] T.A.R. Toscana, Sez. II, 12 marzo 2018, n. 369, in www.giustizia-amministrativa.it.
[48] V., ad esempio, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 16 gennaio 2020, n. 505, in www.giustizia-amministrativa.it.
[49] In questo senso T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 18 maggio 2017, n. 382, in www.giustizia-amministrativa.it.
Una vita piena di letteratura e di processi: Pier Paolo Pasolini*
di Umberto Apice
Tra gli autori “ribelli”, che, consapevolmente o no, con la loro opera o con la loro vita, infrangono le leggi (quelle che la società a loro contemporanea cristallizza come regole convenzionali del vivere civile, ma talvolta le stesse leggi dell’ordinamento giuridico), un rilievo di primo piano spetta al più controverso scrittore-poeta del Novecento italiano: Pier Paolo Pasolini, la cui breve vita, come ha scritto Piergiorgio Bellocchio, fu “subito, nel bene e nel male, letteratura”. All’indomani della sua morte per mano – apparentemente – di un giovane che aveva le caratteristiche fisiche di uno dei suoi personaggi, un illustre giurista, Stefano Rodotà, scriverà che a carico di Pasolini non si sono celebrati tantissimi processi, ma “un processo solo, ininterrotto per almeno vent’anni, che si gonfia e si arricchisce, di dirama e si ritrae, sempre con lo stesso oggetto e la stessa finalità, mettere in dubbio la legittimità dell’esistenza di una personalità come Pasolini nella società e nella cultura italiana. […] Pasolini è la somma di tutti i vizi, incarna il sogno di chi vorrebbe il Male con una sola testa per decapitarlo con un colpo solo”[1].
Nel 1961 Pasolini ha 39 anni ed è un artista affermato[2]: ha già pubblicato i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), oltre che la raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci (1957), e ha diretto il film Accattone (1961). È diventato un personaggio, un caso: il suo modo d’intendere l’ “impegno” è nuovo, rivoluzionario, investe le concezioni politiche, ma anche i rapporti personali; il suo modo di vivere non simulatamente l’omosessualità è provocatorio; il suo progetto letterario deriva dall’ idea gramsciana di un romanzo nazional-popolare ma nello stesso tempo, aspramente, se ne distacca. Nel cinema propone una rilettura “sacrale” del neorealismo, collegando marxismo e semiologia, spiritualismo e approccio sociologico. Erano gli anni in cui la sinistra diffidava di chi, pur professandosi di sinistra, osava lanciare critiche – come faceva Pasolini – al marxismo reale. In più, Pasolini era uno scrittore trasgressivo: come trasgressivi erano stati Oscar Wilde, Jean Genet, William Burroughs; come lo sono in genere tutti gli artisti che rendono inconsueto ciò che è familiare e che fanno diventare problematico ciò che la gente considera scontato. Era facile identificare in lui il simbolo della trasgressione, dell’alterità sessuale, dell’anticonformismo: e, negli ambienti della destra “nostalgica”, erano tantissimi quelli che provavano nei suoi confronti un tale sentimento paranoico di avversione da essere spinti a criminalizzarlo. Ne sono prova i numerosi processi e le numerose denunce-querele, di cui alcune su fatti estremamente improbabili, a suo carico: tra cause civili e penali (furto di manoscritti, rissa, atti osceni in luogo pubblico, diffamazione, calunnia, spettacolo osceno, stampa pornografica, ubriachezza, corruzione di minorenne) il numero dei processi - considerando i vari gradi - può calcolarsi intorno all’ottantina.
Perché questo mio discorso su Pasolini parte dal 1961? Perché il 30 novembre 1961 il quotidiano romano Il Tempo, foglio indipendente ma vicino alla destra, pubblica a piena pagina: “Denunciato per tentata rapina Pier Paolo Pasolini ai danni dell’addetto a un distributore di benzina”. L’articolo è accompagnato da un fotogramma tratto dal film Il gobbo di Carlo Lizzani: Pier Paolo Pasolini attore ha un mitra in mano. Prende così inizio un processo che mi sembra emblematico nella esistenza di Pasolini e nella radiografia di un’Italia ancora vischiosamente fascista. Lui conosceva bene quel rito misterioso che si chiama processo, perché cercava di essere sempre presente nelle udienze che lo riguardavano: voleva guardare da vicino quel meccanismo perverso che è il processo penale. Il destino volle, poi, che, poco prima della fine dei suoi giorni, un suo scritto che provocò molte discussioni (e, chissà, forse anche la sua tragica morte) fosse un articolo di giornale intitolato proprio Il Processo (in Il Corriere della Sera, 24 agosto 1975), dove si affacciava l’ipotesi che fosse necessario mettere sotto processo (metaforico ed etico, prima che politico o giudiziario) tutti i vertici del partito che aveva fino allora governato, con l’indicazione precisa dei nomi – come Zola nel suo J’accuse scritto per la liberazione di Alfred Dreyfus – da Andreotti a Fanfani, da Gava a Restivo: “ammanettati” in un’immagine metaforica, ma non per questo meno affermativa di “una verità storica inconfutabile”.
Per comprendere la biografia di Pasolini, bisogna partire da una premessa: che Pasolini apparteneva a una categoria speciale di intellettuale. Alla stessa categoria apparterrà uno scrittore che non è ancora nato al tempo della morte di Pasolini: Roberto Saviano. Esistono due tipi di intellettuali – dirà Saviano – quelli che raccontano la vita osservandola come da dietro a un paravento, e quelli che ci si devono schiantare addosso, perché solo quando sono al tappeto, agonizzanti, allora riescono a descriverla. Pasolini era del secondo tipo: dentro alla vita. “Scrivere sì, commentare sì, fare analisi sì, ma solo dall’alba al tramonto, perché – sparito il sole – iniziava il suo corpo a corpo con la vita ”[3].
Torniamo alla notizia di stampa apparsa su Il Tempo. Non era una bufala (anche se l’illustrazione col mitra, traslata dal film di Lizzani, era il più lampante esempio di giornalismo scorrettamente suggestivo): era, invece, con tutta evidenza una bufala la denuncia, che, presentata da un ragazzo della provincia laziale, racconta di un’inverosimile tentata rapina in un distributore di benzina e annesso bar – tabacchi della periferia di San Felice Circeo dove Pasolini e Sergio Citti erano alloggiati da qualche giorno per scrivere una sceneggiatura. Questo il racconto della denuncia: un uomo, poi subito identificato per Pasolini, sarebbe entrato nel bar, dopo una breve chiacchierata col ragazzino della mescita avrebbe calzato guanti, estratto una pistola, messo un colpo in canna, puntato la pistola alla tempia del ragazzino, cercato di aprire il cassetto degli incassi, e infine sarebbe stato messo in fuga dalla prontezza del ragazzo che aveva impugnato un coltello. Altri particolari fluviali usciranno fuori: Pasolini che chiude la porta dall’interno con la chiave prelevata dall’esterno, le pallottole che erano d’oro, il cappellaccio che era nero, Pasolini che desiste dopo la reazione della vittima e lancia la minacciosa frase “Noi due ci rivedremo”. E come si discolpa Pasolini? Sin dal primo verbale e per tutti gli anni del processo (saranno sei, con cinque pronunce di diversi consessi giudicanti) Pasolini non negherà di essersi fermato presso quel distributore e di avere scambiato qualche parola con il ragazzo (solo qualche parola, “visto che il suo silenzio era sempre più strano ed a mio avviso dovuto a una psicologia patologica o alla selvatichezza della vita che conduceva”), ma negherà recisamente la parte gangsteristica e quel finale da film sulla mafia (“Noi due ci rivedremo”). In quel periodo – risponderà Pasolini a qualche intervistatore – c’erano coinquilini che facevano sottoscrizioni per farlo sloggiare, direttori di giornali che davano ordini perché il suo nome venisse scritto solo in notizie di cronaca nera, bande di facinorosi che alle prime dei suoi film inscenavano virulente proteste, procedimenti penali che fioccavano contro film e romanzi ritenuti osceni. È ovvio che un processo come quello che vede parti civili due giovincelli innocenti (Bernardino De Santis, l’aggredito, e il fratello Benedetto, titolare dell’esercizio) e come imputato un famoso corruttore di minorenni avrebbe agito da cassa di risonanza per una già iniziata campagna di stampa demonizzante. Possono sembrare manovre ottuse e idiote; ma tutto tiene se lo scopo è additare un bersaglio da colpire e distruggere.
Nel periodo di tempo che precedette il dibattimento di primo grado, precisamente il 2 gennaio 1962, su Paese sera esce una poesia di Pasolini dal titolo Ipotesi sul Circeo: “Vuole ciò che vuole:/ il bandito che arriva/ dall’odiato sole/ per oscura attrattiva…./ Ah, qualsiasi ipotesi/ sia severa e buona; / timorati idioti,/ suona per voi vergogna./ Corruzione o miseria/ o nevrosi: qualsiasi/ sia la censura vera/ è per voi una spia;/….”. Quale sia il riferimento diretto ai fatti del processo è difficile dirlo; o, per lo meno, è difficile dire che la poesia possa offrire un apprezzabile contributo probatorio o confessorio. Eppure, l’alacre avvocato della parte civile chiede che copia della poesia venga acquisita agli atti. Richiesta rigettata: ma rimane l’interrogativo sul perché di una richiesta così assurda. Abbiamo modo di sapere, invece, che cosa pensasse Pasolini della disavventura che gli stava capitando. Orbene, Pasolini si rifiutava di credere all’ipotesi dei due De Santis “comprati”. Più che al complotto preferiva credere alla loro buona fede, o all’allucinazione, o alla nevrosi. L’idea di un complotto gli doveva sembrare paradossale e sproporzionata: essere inviso al fanatismo fascista, questa sì gli sembrava un’idea verosimile, ma non qualcosa di più.
La condanna ci sarà: quindici giorni di arresto (con la condizionale), che ovviamente sembrerà “mite” ai giornali che riportano la notizia. Forse verrà abbozzata in quei giorni la poesia (rimasta inedita fino alla sua morte) sul “terrore per il padre non simile ai padri”, che fa parte dell’autobiografia in versi.
Il successivo iter processuale registrerà altre decisioni di diverso tenore: amnistia applicata in appello, annullamento in cassazione, insufficienza di prove in un nuovo giudizio di appello. E intanto si moltiplicavano le traversie giudiziarie inflitte a Pasolini: guardate a posteriori, oggi, solo una mente sprovveduta può pensare che le varie iniziative provenissero sempre da isolati e fanatici pivelli. Poi, la morte. Per mano di una o più persone: massacrato di botte a margine di un convegno d’amore mercenario. Molti si dissero: “È morto in sintonia con la sua vita”, tirando un sospiro di sollievo, perché non poteva rinfacciare più niente a nessuno e non poteva più arrogarsi il diritto di fare processi (metaforici) a chi deteneva il potere legittimamente. Ad altri però venne un dubbio, che fosse proprio questo il vero movente del delitto: farlo tacere per sempre, impedirgli di fare processi alla classe dirigente. Delitto politico, quindi. Ma non in senso traslato, simbolico: un gruppetto di marchettari, mossi a livello cosciente da una loro logica eminentemente “privata” e a livello inconscio da una logica “politica” indotta dall’esecrazione che era stata ad arte creata intorno alla figura di Pasolini. No: per alcuni (e non sono pochi) si trattò di delitto politico in senso proprio: l’esecuzione del delitto, cioè, prese il via a seguito di precisa commissione da parte di mandanti che si erano determinati in base a un preciso movente “politico”. Ciò, quattordici anni dopo la strampalata accusa della tentata rapina al Circeo: al termine di una vera e propria persecuzione giudiziaria e quando gli atti di accusa – disperate e utopistiche requisitorie – contro la classe politica al potere erano divenuti incalzanti, ossessivi: “Io so i nomi dei responsabili delle stragi, io so nomi e cognomi”.
Negli anni che precedettero la sua morte Pasolini ripensò a quel pomeriggio e a quella sosta nel distributore di San Felice Circeo e, da poeta, raccontò come andarono le cose: “Là dentro c’era un ragazzo torvo,/ col grembiule credo di ricordare, i capelli/ fitti da donna/ la pelle pallida e tirata, una certa folle innocenza negli occhi,/ di santo ostinato, di figlio che si vuole uguale alla buona madre./ In pratica, lo vidi subito, un povero ossesso,/ cui l’ignoranza dava tradizionali sicurezze,/ trasformando la sua cadaverica nevrosi in rigore/ d’obbediente figlio/ identificato coi padri./ Come ti chiami, che fai, vai a ballare, hai la ragazza,/ guadagni abbastanza,/ furono gli argomenti con cui retrocessi dal primo impeto della vecchia libidine/ della controra come un pesce seccato./ Voi avete visto il mio Vangelo,/ avete visto i volti del mio Vangelo./ Non potevo sbagliare, e talvolta le decisioni dovevano avvenire/ in pochi minuti:/ non ho sbagliato mai/ perché la mia libidine e la mia timidezza/ mi hanno costretto a conoscere bene i miei simili./ Conobbi subito anche lui,/ il misero indemoniato del casale, assediato dal sole./ L’inverno veniva,/ era lì nel suo volto,/ con le sue tenebre e le sue case silenziose, la sua castità./ Mi ritirai./ Ma non in tempo perché egli non sentisse, come una donna,/ il terrore per il padre non simile ai padri/ che avevano costituito, per la sua obbedienza, il mondo”[4].
Cosa si può leggere in questa pagina autobiografica? Anzitutto, quello che ugualmente emerge da tutta la sua opera: che la vita, per Pasolini, non era altro che un vasto campo di sperimentazioni talvolta anche dolorose e drammatiche, il cui unico scopo e possibilità di significato era nel dare nutrimento all’espressione poetica.
Inoltre, col senno di poi, vi possiamo scorgere quell’intreccio inestricabile e misterioso che, nel vissuto di un artista, si viene a costituire tra un’incontenibile vitalità e un drammatico disagio esistenziale.
*Paragrafo estratto dal capitolo “Crimini, processi e letteratura” del libro di Umberto Apice - già autore di Processo a Pasolini. La rapina del Circeo, ed. Palomar, 2007 - “Una musa per Temi. Diritto e processi in letteratura”, casa editrice Lastaria, in uscita il prossimo 15 aprile e pubblicato in anteprima su GiustiziaInsieme.
[1] STEFANO RODOTÀ, Il processo. In memoria di Pier Paolo Pasolini, in LAURA BETTI (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione e morte, Milano, 1977.
[2] Utilizzo, per questa parte riguardante la figura di Pasolini, molti materiali provenienti dal mio Processo a Pasolini. La rapina del Circeo, Bari, 2007, chiedendo scusa al lettore per molte implicite autocitazioni.
[3] ROBERTO SAVIANO, Gridalo, Firenze, 2020.
[4] P.P.PASOLINI, Il poeta delle ceneri. Autobiografia in versi: l’opera fu ritrovata da Enzo Siciliano in un cassetto, fra le carte dello studio di Pasolini in via Eufrate, dopo la sua morte; e fu pubblicata, per la prima volta, nel 1980 sulla rivista “Nuovi Argomenti”.
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