ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La sottile linea rossa tra propaganda e crimine internazionale
di Ezechia Paolo Reale
L’informazione indipendente e libera è una risorsa irrinunciabile per ogni democrazia e ai giornalisti, soprattutto a quelli impegnati sui fronti delle guerre, della lotta alle criminalità organizzate e dell’opposizione alle dittature va tributato da chiunque un omaggio e un ringraziamento sincero, mentre il rispetto e il ricordo vanno ai giornalisti che sui quei fronti hanno perso la vita.
In tanti, giustamente, hanno ricordato il 3 maggio, in occasione della giornata internazionale della libertà di stampa, esempi fulgidi e luminosi di giornalisti caduti nell’adempimento del proprio dovere, a volte per il concretizzarsi del rischio insito negli scenari nei quali operano ma più spesso uccisi da mani potenti per la loro capacità di cercare caparbiamente e far conoscere verità scomode.
Io, invece, voglio attingere alle mie letture scientifiche per ricordare oggi alcuni esempi negativi.
Ricordarli non solo per fare in modo che possano risaltare ancor di più le gesta positive delle donne e degli uomini che sono simbolo della vera libertà di stampa ma soprattutto perché non si perda la memoria di errori che, se dimenticati, saremo condannati a ripetere, come ci ricorda il filosofo e poeta spagnolo George Santayana.
Il mio contributo al dibattito è una brevissima sintesi, priva di commenti, dei processi internazionali svolti, o in corso di svolgimento, a carico di giornalisti, o meglio di propagandisti, che hanno supportato dittature, incitato e giustificato guerre, violenze e genocidi senza che la tessera “press” abbia garantito loro alcuna immunità perché, per usare le parole del Pubblico Ministero di uno di tali processi “la responsabilità del genocidio non è limitata a coloro che materialmente commettono gli omicidi. Coloro che diffondono il messaggio d’odio attraverso i mezzi di comunicazione e convincono le persone normali ad uccidere sono molto peggio di coloro che mettono in esecuzione le loro parole”.
La promozione e l’esecuzione di vaste e ripetute campagne di odio e disinformazione, indirizzate contro uno specifico gruppo nazionale, religioso, etnico, politico o sessuale, infatti, non è solamente moralmente o deontologicamente censurabile ma può, a determinate condizioni, costituire un potente incentivo o una consistente agevolazione alla realizzazione di crimini internazionali e, quindi, integrare un’ipotesi di concorso dei responsabili dell’informazione distorta e violenta nella realizzazione di tali crimini.
È una scelta che ha radici lontane, tanto che già il 3 novembre 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella sua risoluzione A/RES 110, facendo seguito alla proposta dell’apposita Commissione del 28/10/1947 (doc. A/428), condannò “ogni forma di propaganda, in qualsiasi paese condotta, indirizzata o comunque idonea a provocare o incoraggiare ogni minaccia alla pace, ogni violazione della pace o qualsiasi atto di aggressione”.
Il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966 sottolinea, poi, al suo articolo 20 che “qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge – e – qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisce incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza deve essere vietato dalla legge”.
La giurisprudenza internazionale conosce rilevanti esempi, di giornalisti, editori e conduttori di trasmissione radiofoniche riconosciuti colpevoli di crimini internazionali per le parole di odio e di disinformazione veicolate al pubblico attraverso i mezzi di comunicazione.
Il giornalista Julius Strejcher, fondatore ed editore della rivista settimanale “Der Sturmer”, fu condannato a morte, eseguita mediante impiccagione, dal Tribunale di Norimberga per crimini contro l’umanità perché le falsità con le quali aveva descritto gli ebrei e le loro azioni si erano rivelate un formidabile incentivo per attivare la persecuzione contro gli ebrei e giustificare omicidi e stermini.
Hans Fritzsche era conduttore di un programma radiofonico di successo e poi sottosegretario, con delega al settore radiofonico, del Ministero della Propaganda del regime nazista, diretto da Paul Joseph Goebbels, il quale non poté, invece, essere processato per essersi suicidato dopo aver ucciso i sei figli e la moglie
Il conduttore fu giudicato da un tribunale tedesco, nell’ambito dei processi ai criminali di guerra dei quali il Tribunale di Norimberga non si era occupato per la minor importanza dei soggetti che se ne erano resi responsabili, e condannato a nove anni di lavori forzati per aver agevolato, attraverso i suoi discorsi di odio e disinformazione trasmessi via radio, la creazione nel popolo tedesco di un diffuso sentimento favorevole alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei che rese successivamente possibile, o comunque agevolò, la realizzazione dei crimini perpetrati dai nazisti e dalle truppe tedesche.
Otto Dietrich, capo ufficio stampa del Reich e sottosegretario allo stesso Ministero della Propaganda, subì analogo processo con analoghe imputazioni e una condanna a sette anni di reclusione.
Ma il caso più recente e più significativo, conosciuto come “media case” o “hate media trial”, è quello esaminato dal Tribunale Internazionale per il Ruanda che portò già nel 2003 alla condanna all’ergastolo di Ferdinand Nahjmana e a 35 anni di reclusione a Jean-Bosco Barayagwiza, fondatori della “Radio Televisione Libera delle Mille Colline”, conosciuta come Radio Machete” e “Radio Odio” e alla condanna all’ergastolo per Hassan Ngeze, giornalista fondatore ed editore del settimanale Kangura, per la campagna di odio e di disinformazione diretta verso l’opinione pubblica che portò al genocidio dei Tutsi, una delle etnie presenti nel paese, mentre un altro giornalista di nazionalità belga, attivo in Radio Machete, Georges Ruggiu, si era già riconosciuto colpevole ed era stato condannato a 12 anni di reclusione.
La condanna fu allora salutata con favore, tra gli altri, da “Freedom House” e “Reporter senza Frontiere”.
Nel motivare l’entità della pena inflitta a Nahjmana il Presidente del Tribunale Internazionale evidenziò che lo stesso “era pienamente consapevole del potere delle parole e usò la radio – un mezzo di comunicazione che raggiunge un vasto pubblico – per disseminare odio e violenza. Senza un’arma da fuoco, un machete o qualsiasi arma fisica causò la morte di migliaia di civili innocenti”.
Ancora oggi è in corso, avanti il Meccanismo Residuale Internazionale per i Tribunali Penali, una Corte che si occupa dal 2010 dei casi residui che sarebbero stati di competenza dei Tribunali Internazionali per il Ruanda e per la ex Jugoslavia, oramai disciolti, il processo a carico di uno degli editori di Radio Machete, Felicien Kabuga, sfuggito precedentemente all’arresto ma poi catturato a Parigi nel maggio del 2020 ed ora in carcere all’Aja in attesa della celebrazione del processo.
È importante la celebrazione della della giornata dedicata alla libertà di stampa, ma solo se dedicata alla vera libertà di stampa, con un pensiero particolare a tutti i giornalisti indipendenti che hanno perso la vita o sono impegnati negli scenari di guerra o nei paesi oppressi dalle dittature per documentare l’assurdità di atrocità e violenze che avrebbero dovuto restare sepolte nel passato e che invece si affacciano minacciose sul nostro futuro.
Quale dirigente? Le domande di un presidente a tre giudici
Intervista di Paolo Sordi a Enrico Contieri, Paolo Mariotti e Raffaella Marzocca
L’identikit d’un buon direttivo, l’importanza delle sue competenze, la soluzione dell’annosa questione della conferma quadriennale. Paolo Sordi, presidente del tribunale di Frosinone, ha posto questi e altri temi a Enrico Contieri, giudice a Torre Annunziata, Paolo Mariotti, gip a Spoleto, e Raffaella Marzocca, consigliere d’appello a Venezia, entrati tutti in magistratura nell’ultimo decennio.
Premesso che frequenza e modalità delle relazioni tra il dirigente dell’Ufficio e i magistrati che vi sono addetti sono necessariamente condizionate anche dalle diverse dimensioni dei singoli Uffici giudiziari, quali principali caratteristiche dovrebbe presentare secondo voi, in generale, il rapporto tra dirigente e magistrati dell’Ufficio?
Contieri A mio giudizio, il rapporto tra il dirigente e i magistrati dell’ufficio deve essere pienamente paritario, fondato cioè sull’idea che il dirigente è tale perché svolge funzioni non “superiori”, ma di organizzazione dell’ufficio e di coordinamento dell’attività dei magistrati che vi lavorano.
Il corretto assolvimento di tali compiti, che è funzionale a garantire alla collettività il migliore servizio possibile nelle – spesso per nulla ottimali – condizioni date, implica ovviamente un certo margine di discrezionalità decisionale; questa, tuttavia, non deve mai tramutarsi in un puro decisionismo verticistico, ma va intesa come assunzione, da parte del dirigente, della responsabilità di una scelta maturata all’esito di un confronto dialettico in condizioni di piena parità tra tutti i colleghi che, se certamente non può sfociare nell’assemblearismo, deve implicare un costante confronto e una piena apertura ad accogliere le proposte e le soluzioni provenienti da questi ultimi.
Purtroppo, questo modo di intendere i rapporti all’interno degli uffici giudiziari, pur se limpidamente scolpito nell’art. 107 Cost., appare sempre più insidiato anche nei tribunali, e non solo nelle procure, da una visione verticistica e gerarchica dei rapporti tra dirigente e magistrati dell’ufficio e da un’ottica efficientistica, burocratizzante e para-aziendalistica del servizio giustizia, entrambe particolarmente favorite dalle riforme degli ultimi anni e ancor più da quella imminente.
Il rischio sempre più concreto è il ritorno ad un assetto precostituzionale dei rapporti negli uffici giudiziari, all’idea di una magistratura “bassa”, che svolge funzioni giurisdizionali con approccio impiegatizio, e una “alta”, formata da una élite dirigenziale sempre più autoreferenziale, che intende il rapporto con i colleghi in termini di sovraordinazione gerarchica.
E questo tradisce lo spirito e la lettera della Costituzione repubblicana, mina la credibilità della magistratura nel suo complesso, insidia alle radici l’indipendenza interna e, in definitiva, non assicura adeguata ed incisiva tutela ai diritti delle persone, soprattutto di quelle meno tutelate, che è la funzione essenziale alla quale i magistrati sono chiamati e che, sola, li legittima in un sistema democratico.
Mariotti Alla necessità (possibilmente sostenuta da viva curiosità) che il dirigente conosca la distribuzione dei carichi di lavoro e le criticità che caratterizzano ciascuna sezione o ufficio, dovrebbe fare da contraltare la disponibilità del magistrato ad impostare il dialogo in modo chiaro, sottolineando i problemi del proprio ruolo evitando tuttavia di porvi particolare enfasi quando ciò non risulti giustificato.
Il dirigente è chiamato a fare scelte, a volte difficili; tali scelte inevitabilmente scontenteranno alcuni magistrati dell’ufficio e il solo modo per instaurare e mantenere un rapporto caratterizzato da reciproca stima è quello di agire nel solo, rigoroso, percepibile e superiore interesse dell’ufficio, scevro da condizionamenti dovuti a preferenze personali o legati a “logiche di gruppo”, fonti di malcontento e di relazioni umane ostili.
Collegandomi a quest’ultimo aspetto, mi sembra corretto evidenziare l’importanza della serenità nel rapporto tra i magistrati e in particolare con il dirigente dell’ufficio; trovarsi nella posizione di gestire continui conflitti con il dirigente dell’ufficio influisce negativamente sulla produttività e sull’organizzazione dell’ufficio, oltreché sulla salubrità dell’ambiente lavorativo. Credo che, nelle situazioni critiche, sia un preciso dovere di tutti, a livello umano, la ricerca di un sano compromesso.
Marzocca Ritengo in primo luogo che il dirigente debba farsi percepire da tutti i colleghi come primus inter pares. La sua autorevolezza per me è legata alla capacità di ascolto, di coinvolgimento dei magistrati dell’ufficio nelle questioni inerenti l’organizzazione ed il funzionamento del tribunale, nella disponibilità ad accettare suggerimenti e anche opinioni diverse dalle sue, salvo poi dover prendere una decisione equilibrata e sostenibile idonea a raggiungere l’obiettivo prefissato.
Il dirigente non deve ritenersi depositario di verità assolute ma capace di accogliere con umiltà i suggerimenti di tutti, fermo restando che dovrà poi assumere motivatamente la propria decisione, anche se ad alcuni non gradita, purché frutto di attenta ponderazione delle posizioni dei magistrati dell’ufficio in bilanciamento con le esigenze perseguite. Non vorrei mai sentire “si fa così perché lo ho deciso io” ma “si fa così perché è il modo che consente di raggiungere l’obiettivo contemperando le contrapposte necessità e con il minor sacrificio”.
Rispetto a quali aspetti organizzativi ritenete che debba essere principalmente assicurato il coinvolgimento dei magistrati addetti all’Ufficio e pensate che le forme di coinvolgimento attualmente previste siano adeguate?
Contieri Ovviamente, la necessità di un pieno coinvolgimento dei magistrati nelle decisioni inerenti alle problematiche dell’ufficio, sempre proficua, diventa cruciale negli aspetti organizzativi direttamente incidenti sull’attività giurisdizionale. Mi viene in mente, come esempio, anche perché di estrema attualità, l’organizzazione dell’Ufficio per il processo. Si tratta, come tutti sanno, di una struttura inedita e profondamente innovativa sia sotto il profilo ordinamentale, sia dal punto di vista funzionale; i compiti di queste nuove figure ibride, a cavallo tra l’attività amministrativa e quella giudiziaria, sono vari e molteplici, sì da poter essere adattati alle concrete esigenze dei singoli uffici e addirittura delle singole sezioni.
Si tratta, perciò, di una grossa sfida, che, per non risolversi in un fallimento, presuppone un’organizzazione razionale ed efficace dei compiti dei funzionari e delle concrete modalità di svolgimento del loro lavoro; e, soprattutto nella parte in cui questo si affiancherà a quello dei magistrati, il pieno e attivo coinvolgimento di questi ultimi nell’individuazione delle specifiche attività da affidare ai funzionari e nella designazione delle concrete modalità di svolgimento dei loro compiti diventa essenziale, perché, come sempre, soltanto scelte corali e condivise, e non calate acriticamente dall’alto, possono rivelarsi efficaci.
Mariotti Le forme di coinvolgimento previste attualmente possono essere considerate adeguate al raggiungimento dello scopo.
Non esistono regole capaci di imporre un clima di reciproco ascolto e collaborazione; è l’interpretazione delle regole che fa la differenza.
Così, se il dirigente attribuisce un valore meramente formale al momento in cui ci si riunisce per discutere le proposte di modifica tabellare, limitandosi a comunicare decisioni già prese, lo spazio per i contributi organizzativi dei singoli magistrati inevitabilmente assume valore prossimo all’irrilevanza.
Per scongiurare questa prospettiva, e al fine di valorizzare il contributo di ciascuno, sarebbe forse ipotizzabile prevedere che il dirigente, all’atto della convocazione della riunione, comunichi in modo sintetico ma sufficientemente dettagliato la soluzione organizzativa che intende proporre al fine di consentire al singolo magistrato di organizzare preventivamente le proprie idee e discutere con i colleghi per individuare soluzioni alternative, in ipotesi maggiormente vantaggiose per l’ufficio.
Marzocca Sicuramente deve essere assicurato un coinvolgimento per la formazione delle tabelle triennali, per le questioni inerenti le modalità di assegnazione dei procedimenti, per discutere delle migliori prassi nella gestione delle udienze, ad esempio in relazione a tempi e modi di verbalizzazioni particolarmente corpose o alla richiesta di produzioni documentali in udienza; ancora dovrebbe assicurarsi un coinvolgimento per gestire le situazioni di emergenza, come è stata la gestione dei procedimenti durante il periodo della pandemia, per discutere su orientamenti giurisprudenziali in materie in cui vi sia stata un’evoluzione normativa, giurisprudenziale o dottrinaria, per discutere di applicazioni o supplenze interne al fine di ottenere copertura transitoria di posti vacanti, per distribuire le nuove risorse, come gli UPP o l’ingresso di nuovi colleghi o personale amministrativo negli uffici.
Le forme di coinvolgimento attualmente previste mi sembrano adeguate, se effettivamente applicate e se utilizzate in modo continuativo e favorendo e stimolando la più ampia partecipazione.
A vostro avviso, un elevato grado di competenza del dirigente dell’Ufficio nell’ambito dell’attività giurisdizionale è funzionale ad un efficace svolgimento delle funzioni direttive?
Contieri Più che funzionale, direi che è essenziale. Presupposto essenziale per essere un buon dirigente è, oltre ad un elevato grado di competenza in materia ordinamentale, anche la piena consapevolezza dell’attività propriamente giurisdizionale, del tipo di decisioni e provvedimenti che vengono quotidianamente adottati nelle singole materie in cui la stessa si articola; la questione è, non a caso, collegata a quella di cui abbiamo appena parlato: soltanto un dirigente che conosce ancora il “mestiere” e continua a sentirsi innanzitutto un “magistrato” può assolvere correttamente al proprio ruolo.
A questo, ovviamente, deve affiancarsi una costante presenza in ufficio, poiché anche la conoscenza delle dinamiche quotidiane che si sviluppano al suo interno, delle concrete modalità di funzionamento e delle criticità del servizio è essenziale per poter assicurare il buon funzionamento del servizio.
E di questo, a mio avviso, dovrebbero tenere conto sia il legislatore, in chiave di riforma degli indicatori per il conferimento delle funzioni direttive e semi-direttive, sia, a legislazione data, il sistema del governo autonomo al momento della scelta tra più aspiranti.
Mariotti L’aver raggiunto un elevato livello di competenza nell’ambito dell’attività giurisdizionale si suppone favorisca un approccio consapevole da parte del dirigente.
Tuttavia, non si deve dimenticare che per organizzare un ufficio giudiziario è necessario possedere abilità e conoscenze non coincidenti con quelle che servono al magistrato per esercitare la funzione giurisdizionale.
Sarebbe illusorio pensare che ad un brillante curriculum del magistrato corrisponda un saggio esercizio della funzione organizzativa, trattandosi di attività sostanzialmente diversa.
A tal proposito, ricordo di essere stato ospite, per due settimane, in alcuni tribunali olandesi nell’ambito di un programma di scambio organizzato dall’EJTN; il modello di amministrazione e gestione di taluni servizi è molto diverso ed è felicemente caratterizzato da ibridazione.
La funzione direttiva è esercitata collegialmente da magistrati e manager pubblici; i rapporti con la stampa sono curati da giornalisti e magistrati; questi ultimi, nel periodo in cui lavorano nell’ufficio stampa, non svolgono attività giurisdizionale.
La fiducia dei cittadini olandesi nella magistratura è molto elevata.
Quel sistema giudiziario, tuttavia, presenta minori criticità organizzative: le risorse sono adeguate al raggiungimento degli obiettivi, la struttura del provvedimento giurisdizionale è semplificata, il processo meno formalizzato; quindi, un manager pubblico può approcciarsi al sistema giudiziario con poche barriere alla comprensione (così come il cittadino).
Nel nostro sistema, caratterizzato da notevole complessità, ritengo sia difficile pensare ad un “modello di amministrazione” che si discosti da quello attuale.
Marzocca L’elevato grado di competenza nell’ambito giurisdizionale è sicuramente un presupposto fondamentale per conoscere la realtà che si deve gestire e per organizzarla nel modo più efficiente ed efficace. Aver maturato una profonda conoscenza dell’esercizio della funzione giurisdizionale consente di comprendere le problematiche che si trovano ad affrontare i colleghi dell’ufficio, sia dal punto di vista delle materie trattate e del carico di lavoro, sia sotto il profilo relazionale nei rapporti tra colleghi e con il foro.
È evidente che quello della competenza in ambito giurisdizionale non può essere il parametro esclusivo, perché serve anche una capacità di gestire i rapporti interpersonali e di mediazione, un’attitudine a cogliere ed a valorizzare le potenzialità di ciascuno, un’apertura mentale per promuovere modalità di collaborazione anche con altri soggetti istituzionali, ad esempio università ed ordine degli avvocati, anche nell’ottica di sviluppo di buone prassi.
Di particolare importanza nel declinare l’esercizio della funzione direttiva è la capacità di comprendere e supportare i colleghi che versino in situazione di difficoltà, per costruire rapporti improntati sulla fiducia e sulla condivisione, con la consapevolezza che a fianco di ogni potere c’è una grande responsabilità.
Nel procedimento di conferma dei dirigenti degli uffici, dovrebbe essere raccolto anche il contributo dei magistrati addetti all’Ufficio? Se sì, con quali modalità?
Contieri Credo che il procedimento di conferma, così come attualmente regolato, sia profondamente insoddisfacente, non diversamente – d’altronde – dal sistema delle valutazioni di professionalità. Esso si fonda su elementi di conoscenza parziali e di natura essenzialmente formale ed è incentrato più sulla valutazione astratta di titoli e “numeri”, che sulla verifica delle concrete modalità con cui le funzioni sono state assolte; questo fa sì che il procedimento per lo più si risolva (così come, appunto, quello della valutazione di professionalità) in un passaggio sostanzialmente burocratico, dall’esito pressoché scontato, salvi casi eccezionali. E la prova inconfutabile di ciò è il fatto che rarissimi sono i casi di mancata conferma di un dirigente.
Un simile procedimento è dunque inadeguato a fungere da reale strumento di verifica dell’attività svolta, ed anzi rischia di essere addirittura controproducente, nella misura in cui diviene strumento di legittimazione di dirigenti inadeguati.
Credo, perciò, che raccogliere la valutazione dei magistrati dell’ufficio nella verifica dell’operato del semidirettivo e del direttivo, possa rappresentare uno strumento di acquisizione di nuovi e preziosi elementi di conoscenza che non potrebbe essere altrimenti acquisiti e che invece potrebbero rivelarsi fondamentali non soltanto nel procedimento di conferma, ma anche, ad esempio, in quello di nomina di aspiranti direttivi che abbiano in precedenza svolto funzioni semidirettive.
A tal fine, potrebbe pensarsi a dei questionari che, in modo anonimo, consentano ai magistrati dell’ufficio di esprimere il proprio parere in merito alla gestione dell’ufficio da parte del dirigente e ai diversi elementi di valutazione su cui si fonda il procedimento di conferma. Ovviamente, il parere non dovrà consistere nell’espressione di un semplice voto, ma in un’argomentata motivazione critica fondata su concreti elementi di fatto, che assicurino l’obiettività del giudizio.
Mariotti Non è assolutamente un quesito facile.
Istintivamente risponderei caldeggiando la valorizzazione del parere dei singoli magistrati per la conferma del dirigente.
Riflettendo in maniera più calma, osserverei che i provvedimenti organizzativi del presidente del tribunale sono oggetto di parere del Consiglio giudiziario e di approvazione del CSM, e che i magistrati possono partecipare a tale procedimento presentando osservazioni; l’esito di queste procedure costituisce una preziosa e adeguata base valutativa.
Inoltre, un eccessivo allargamento delle fonti di valutazione comporta rischi non irrilevanti; il furore valutativo, alla base di paventati interventi legislativi, in cui i magistrati sono allo stesso tempo tutti valutati e valutatori secondo una logica di iper-controllo, determinerebbe una verosimile distorsione dei comportamenti con finalità di preventiva difesa.
A tal proposito è giusto osservare che il sistema di valutazione condiziona le scelte del valutato; così, l’esigenza di ottenere il gradimento per la conferma potrebbe influenzare il modo di agire dei dirigenti.
Il punto è che al dirigente dell’ufficio dovrebbe essere garantita la forza e la tranquillità di prendere decisioni coraggiose, esponendosi al possibile malcontento di taluni colleghi; se tale opzione dovesse diventare eccessivamente gravosa, si rischierebbe l’adozione di decisioni incapaci di incidere concretamente sull’ufficio ovvero, in misura maggiore rispetto a quanto già avviene, lo scarico di oneri o responsabilità su chi mostra meno attitudini reattive.
Dunque, l’eventuale partecipazione dei magistrati al procedimento di conferma dovrebbe essere modulata con grande attenzione.
Le innegabili problematiche, sottese alla elaborazione di tale proposta, probabilmente derivano dal mancato pieno funzionamento degli strumenti di controllo e di valutazione già esistenti.
Forse è questo l’aspetto su cui su indirizzare una seria e approfondita riflessione».
Marzocca Credo che per la conferma dei dirigenti dovrebbe essere sicuramente acquisito il contributo dei magistrati addetti all’ufficio, perché così come un buon dirigente può ottenere buoni risultati, un cattivo dirigente può “distruggere” un ufficio, creare dissapori, lasciare spazio ad eccessivi personalismi, non essere un punto di riferimento o addirittura essere un ostacolo al buon funzionamento dell’ufficio o di una sezione.
Per la modalità potrebbero utilizzarsi delle schede da compilare online, come quelle di valutazione dei relatori dei corsi della SSM, in forma anonima ed i cui risultati pervenissero direttamente alle segreterie dei consigli giudiziari e della commissione competente del CSM. Gli aspetti da valutare potrebbero essere la capacità di coinvolgimento, di ascolto, di risoluzione dei problemi rappresentati e di organizzazione del lavoro in modo razionale e sostenibile.
In caso di segnalazioni negative con numeri percentuali significativi potrebbe essere disposta adeguata istruttoria da parte dei Consigli giudiziari. Io fino ad ora ho sempre avuto dirigenti capaci, sia direttivi che semidirettivi, ma non può darsi per scontato che ciò accada in tutti gli uffici».
Consigli Giudiziari: paure, potere, funzionalità di Claudio Castelli
Il disegno di legge sull’ordinamento giudiziario introduce per i componenti avvocati del Consiglio Giudiziario una facoltà di voto sui pareri per la valutazione di professionalità dei magistrati con voto unitario e solo se il Consiglio dell’Ordine abbia effettuato segnalazioni sul magistrato: una normativa contorta e compromissoria. Normativa contrastata da ampi settori della magistratura per l’assenza di terzietà degli avvocati nominati nei Consigli Giudiziari che continuano la loro attività professionale. Il rischio è di un dibattito puramente ideologico ed uno scontro tra categorie. L’attuale normativa già dà ampi spazi di partecipazione e interlocuzione agli Ordini degli Avvocati in materia sinora pochissimo utilizzati. Anche se vi sono esperienze positive. Per gli avvocati l’idea di valutare i propri giudici viene vissuta per i rapporti reciproci quanto meno come imbarazzante. Una proposta alternativa che riconduce nell’alveo istituzionale la collaborazione con gli avvocati è di coinvolgere direttamente l’Ordine degli Avvocati territoriale a dare un parere sulle valutazioni, in modo da responsabilizzare e spersonalizzare la scelta.
Sommario: 1. I Consigli Giudiziari nel nuovo disegno di legge sull’ordinamento giudiziario – 2. Il pericolo di un dibattito meramente ideologico – 3. L’attuale normativa – 4. Lo stato dell’arte: un bilancio post 2006 - 5. Una proposta alternativa.
1. I Consigli Giudiziari nel nuovo disegno di legge sull’ordinamento giudiziario
Nel disegno di legge per la riforma dell’ordinamento giudiziario approvato in data 26 aprile 2022 dalla Camera dei Deputati all’art.3 lettera a) è previsto che nell’esercizio della delega il funzionamento del Consiglio Giudiziario sia così modificato:
“a) introdurre la facoltà per i componenti avvocati e professori universitari di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni relative all’esercizio delle competenze del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari di cui, rispettivamente, agli articoli 7, comma 1, lettera b), e 15, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25, con attribuzione alla componente degli avvocati della facoltà di esprimere un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione; prevedere che, nel caso in cui la componente degli avvocati intenda discostarsi dalla predetta segnalazione, debba richiedere una nuova deter- minazione del consiglio dell’ordine degli avvocati.”
Onde consentire ciò, nella lettera b) viene previsto che il C.S.M. ogni anno debba individuare i nominativi dei magistrati per i quali nell’anno successivo matura uno dei sette quadrienni utili ai fini delle valutazioni di professionalità e ne dia comunicazione al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati.
La disciplina introdotta è con evidenza contorta e compromissoria: - la componente degli avvocati ha una mera facoltà di esprimere un voto; - il voto deve essere unitario e può essere espresso solo se il consiglio dell’ordine ha effettuato segnalazioni sul magistrato in valutazione. E’ sempre prevista la partecipazione alle discussioni e il diritto di assistere alle deliberazioni da parte dei componenti avvocati e professori.
Se ne trae tra l’altro una divaricazione di facoltà e diritti, prima inesistente, tra i componenti avvocati ed i componenti professori universitari
2. Il pericolo di un dibattito meramente ideologico
Tale proposta ha provocato una forte reazione da parte di ampi settori della magistratura. Prendendo il contenuto di uno dei documenti che maggiormente ha interpretato questo dissenso, quello elaborato dai magistrati di Busto Arsizio, viene rimarcato che:
“1) Diritto di tribuna ai laici e diritto di voto all’Avvocatura in sede di Consiglio Giudiziario sulla valutazione del magistrato: nell’ambito dell’autogoverno della Magistratura, il riformatore introduce un fattore di controllo esterno sull’operato e sulla professionalità del magistrato, senza peraltro contemplare nessun requisito di terzietà per neutralizzare i possibili conflitti d’interesse. L’Avvocatura, per definizione, parteggia, presta il suo patrocinio ed è interprete di pratici e specifici interessi – da cui dipende il compenso legittimo spettante all’avvocato –, pertanto il membro laico che esercita la professione forense non avrebbe i requisiti formali d’indipendenza, poiché la sua valutazione sarebbe comunque condizionata dall’interesse specifico (e di categoria) di cui rimane portatore. Il ‘valutatore’ del magistrato deve essere ed apparire imparziale. Così si avrebbe una sostanziale erosione dell’autogoverno della magistratura.”
Come ben si capisce la preoccupazione riguarda l’assenza di terzietà data dal fatto che, a differenza che per gli avvocati eletti al Consiglio Superiore della Magistratura, non è prevista alcuna cancellazione o sospensione dall’albo. Il timore è che nella valutazione possano incidere o rientrare contrasti professionali o decisioni o iniziative sgradite. La questione può apparire inesistente in situazioni in cui non vi è conflittualità tra magistratura e foro, ma sappiamo che in alcune sedi non è purtroppo così.
Il formidabile rischio che si avverte è che il dibattito scivoli da quello, che dovrebbe essere centrale, della migliore funzionalità del Consiglio Giudiziario ad uno scontro tra categorie, con logiche di reciproci timori da un lato e di potere categoriale dall’altro.
Da un lato vi è un desiderio dell’avvocatura di affermazione della rilevanza della propria categoria, ma anche la paura degli avvocati di entrare in rotta di collisione con singoli magistrati ed interi uffici, con un inevitabile danno sulla propria attività professionale. D’altro conto la magistratura teme da parte degli avvocati la confusione tra ruolo istituzionale e professione privata: la paura dei magistrati di essere valutati non per le proprie capacità, ma per avere condotto indagini o processi scomodi o nei quali uno o più degli avvocati interessati hanno avuto torto o comunque avrebbero ragione per qualche rimostranza. Paure che derivano inevitabilmente dal fatto che, a differenza dal C.S.M., gli avvocati continuano a svolgere la loro attività e potrebbero essere condizionati da casi specifici. Al riguardo la posizione in cui si troverebbero gli avvocati è diversa da quella che può avere un pubblico ministero (o un giudice) che magari si è trovato in contrasto con un altro magistrato, dato che diverso è il ruolo istituzionale e la natura pubblica ed imparziale che inevitabilmente un magistrato ha e deve avere.
D’altro canto gli avvocati sono e potrebbero essere un preziosissimo sensore che riveli difficoltà, anomalie, malfunzionamenti, di grande aiuto per la funzionalità del sistema.
La contrapposizione che si crea rischia di essere meramente ideologica perché già oggi il D.Leg. n.160/2006 ha forti aperture alla partecipazione degli avvocati nei Consigli Giudiziari, in larga parte ignorate e non utilizzate.
3. L’attuale normativa
Un intervento degli avvocati è difatti già oggi previsto sia per le valutazioni di professionalità, sia per le conferme di incarichi direttivi e semi direttivi, per non parlare del Presidente del Consiglio Nazionale Forense che siede come membro di diritto partecipando e votando su tutto nel Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione.
L’art. 11 co. 4 lettera f) del Decreto Legislativo n.160/2006 prevede che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati possa far pervenire in occasione delle valutazioni di professionalità “segnalazioni.....che si riferiscano a fatti specifici incidenti sulla professionalità, con particolare riguardo alle situazioni eventuali concrete e oggettive di esercizio non indipendente della funzione e ai comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica.”
La legge dà grande rilievo a tali segnalazioni ponendole sullo stesso piano del rapporto del capo dell’ufficio come uno dei canali informativi che contribuiscono a formare il parere del Consiglio Giudiziario.
Le informazioni su fatti specifici vengono anche acquisite d’ufficio nell’ambito della procedura di conferma degli incarichi direttivi e semi direttivi sulla base di quanto disposto dalla Circolare CSM 24 luglio 2008.
Un ulteriore tassello viene dato dal nuovo Decreto Legislativo 31 maggio 2016 n.92 che all’art 2 disciplina la procedura di conferma dei giudici di pace, dei giudici onorari di tribunale e dei viceprocuratori onorari già in servizio. In tale norma viene previsto un vero e proprio parere espresso dal Consiglio dell’Ordine territoriale forense in cui però devono essere “indica(ti) i fatti specifici incidenti sulla idoneità a svolgere le funzioni, con particolare riguardo, se esistenti, alle situazioni concrete e oggettive di esercizio non indipendente della funzione e ai comportamenti che denotino mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica.”
4. Lo stato dell’arte: un bilancio post 2006
Il bilancio che si trae da questa partecipazione e dall’utilizzo di queste ampie facoltà riconosciute ai Consigli dell’Ordine degli avvocati relativamente ai magistrati professionali non è incoraggiante. Pur mancando una verifica su scala nazionale risulta che i casi in cui i Consigli forensi abbiano effettuato segnalazioni sono rarissimi, quando non inesistenti.
La facoltà riconosciuta dalla legge è quindi rimasta pressoché lettera morta.
A differenza di quanto sta invece accadendo in relazione alla magistratura onoraria ove i Consigli dell’Ordine sono invece quanto mai presenti nelle segnalazioni, esprimendo anche pareri negativi.
Non si dice nulla di nuovo se si riscontra che la doppia composizione prevista dagli artt. 15 e 16 D. Leg. n. 25/2006 era stata una soluzione di compromesso e di verifica.
Oggi ci sono gli elementi per superarla? Ed un suo superamento rappresenta l’assestamento di un nuovo equilibrio di potere o è funzionale agli scopi di verifica della professionalità che si pone la legge?
La tentazione di ridimensionare la magistratura attraverso l’avvocatura è indubbia, ma se andiamo a verificare come vanno le cose in concreto ci sono esempi anche positivi. Mi rifaccio alla mia esperienza di sei anni di presidenza di un Consiglio Giudiziario in cui a fronte di molti rapporti critici nei confronti di magistrati onorari non abbiamo avuto alcuna segnalazione nei confronti dei magistrati togati. Nel contempo però i Consigli dell’Ordine competenti hanno formulato due pareri critici in sede di conferma di incarichi direttivi e semidirettivi che, a seguito di una lunga istruttoria, ha portato a pareri negativi unanimi del Consiglio Giudiziario. Per non parlare di una delicatissima pratica di vigilanza relativa ad un ufficio del distretto qualche anno fa condotta con determinazione grazie all’unanimità del Consiglio in tutte le sue componenti. Ad un clima disteso e collaborativo ha forse contribuito il diritto di tribuna riconosciuto a livello regolamentare sin dal 2016. Trattare alla luce del sole (salvo ovviamente casi in cui vi siano situazioni sensibili che richiedono riservatezza) le pratiche anche relative alle valutazioni di professionalità e ai pareri per incarichi direttivi e semidirettivi non solo è stata una dimostrazione di trasparenza, ma ha evidenziato la serietà dell’approccio che i magistrati hanno sul tema e come si cerchi di arrivare a fotografie realistiche e non ad un appiattimento.
5. Una proposta alternativa
Da tempo si discute di superare la doppia composizione dei Consigli Giudiziari, dando anche ai componenti avvocati e professori il diritto di voto in tema di valutazioni di professionalità e di pareri. Era la proposta avanzata dalla Commissione Vietti, anche se va rammentato che l’ipotesi su cui si lavorava era di un decentramento pieno, che attribuiva pieni poteri ai Consigli Giudiziari in tema di valutazioni di professionalità. Tale ipotesi induceva alcuni a ritenere che fosse necessaria, almeno in tale fase, la voce anche di esterni alla magistratura. Comunque anche tale ipotesi non si confrontava con le ragioni per cui gli spazi dati dalla normativa del 2006 erano stati scarsamente utilizzati. Probabilmente le ragioni erano da ravvisarsi nel fatto che l’avvocatura non vive con serenità l’idea di valutare la professionalità dei suoi giudici, che, salvo casi specifici, viene vissuta come imbarazzante.
Il disegno di legge approvato dalla Camera in realtà risolve limitatamente questi problemi, e con una formulazione contorta, rischia di accentuarli. Difatti il limitato peso della presenza laica non deriva né dal numero limitato, né dalla mancata partecipazione a altre tematiche, ma dall’assenza di una vera rappresentatività e responsabilità. Le stesse modalità di nomina di avvocati e professori universitari fa sì che gli stessi siano molto parzialmente rappresentativi della comunità locale degli avvocati. Né gli stessi, al di là del loro valore e autorevolezza, sono portatori di una reale responsabilità istituzionale (ovviamente esistente sotto il profilo personale, ma non a nome dell’università o dell’avvocatura).
Per questo la scelta che apparirebbe più efficace e istituzionalmente corretta non è quella della composizione mista sui temi che riguardano valutazioni e pareri, ma un coinvolgimento diretto del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati che dovrebbe essere chiamato a dare un proprio parere (che può anche consistere in un semplice “Nulla da osservare”) sulle valutazioni. Questo da un lato responsabilizzerebbe l’organo e dall’altro spersonalizzerebbe il parere.
Non mi ha mai, di converso, persuaso la richiesta di reciprocità, ovvero di partecipazione dei magistrati ai Consigli dell’Ordine o ai Consigli di disciplina degli avvocati. I nostri sono mestieri e ruoli diversi, con un ruolo istituzionale da un lato ed una professione privata (sia pure esercente un fondamentale diritto costituzionale) dall’altro, su cui è bene non fare confusione. Non solo, ma parificare le due partecipazioni vorrebbe dire mettersi in quell’ottica di confronto e scambio di potere tra categorie che invece è bene evitare, puntando su di una collaborazione rispettosa di differenze e ruoli.
Rileggere Sciascia attraverso “Diritto Verità Giustizia”*
di Michele Perrino
Sommario: 1. Premessa - 2. Diritto - 3. Giustizia - 4. Verità.
1. Premessa
Il libro intorno alla cui presentazione ci hanno riunito oggi i curatori, Luigi Cavallaro e Roberto Conti, dedicato quale “Omaggio a Leonardo Sciascia” per il centenario dalla sua nascita, muove dal felice intento, del resto esplicitato dagli stessi nell’introduzione, di lasciarsi interrogare dagli inquieti confronti del grande scrittore con i temi del diritto, della verità e della giustizia; e al contempo di interpellare l’Autore, attraverso le sue opere, alla ricerca di risposte o contributi di riflessione intorno a temi così di vertice e che tanto attraversano l’esperienza dei giuristi, ma in effetti l’esperienza umana.
Nasce da qui una silloge di saggi importanti, ognuno a confrontarsi con diverse opere, con diversi profili della produzione letteraria dello scrittore, sempre alla stregua dei tre assi fondamentali che danno il titolo alla raccolta.
Nel presentare questa preziosa opera a più voci, siamo qui chiamati in realtà, attraverso di essa, pur sempre a rendere omaggio a Leonardo Sciascia, e a misurarci ancora una volta con le sollecitazioni e sfide dello scrittore sui temi che stanno al cuore dell’esperienza giuridica, riflettendo sulla concezione di Sciascia e sulla sua trasposizione letteraria.
Leggere “Diritto, verità e giustizia”, per rileggere Sciascia. Una riflessione e insieme una meta-riflessione dunque – perché in contrappunto con la riflessione a sua volta offerta da chi ha contribuito all’opera che presentiamo – per concorrere alla quale anch’io mi muoverò lungo i tre assi individuati dai curatori, prendendomi però la licenza di un’inversione: Diritto, Giustizia e Verità.
2. Diritto
I curatori richiamano nell’introduzione la “crisi della sussunzione sillogistica”, della “capacità ordinatrice della fattispecie legale di matrice statuale”, che è anzitutto crisi di passaggio dei giuristi della nostra generazione, rispetto alle ingenue precomprensioni che sorreggevano l’entusiasmo degli esordi.
In qualche modo, ognuno di noi ha dovuto compiere nella sua formazione e poi esperienza giuridica quel passaggio, denso di implicazioni filosofiche, teorico-generali, anche esistenziali: il passaggio dalla legge alla sua interpretazione e applicazione, a quell’universo di esperienza - dal linguaggio al giudizio (interpretativo, decisorio) - che chiamiamo diritto.
Nell’opera di S., la legge si presenta con più di un volto, non sempre rassicurante o razionale.
C’è la Legge dello Stato, con il sistema della pubblica amministrazione della giustizia, e c’è il sistema delle leggi della mafia, con il distorto senso della giustizia di quel mondo (Il giorno della civetta).
C’è “la legge che nasce dalla ragione ed è ragione”, e la “assoluta irrazionalità della legge, ad ogni momento creata da colui che comanda, dalla guardia municipale o dal maresciallo, dal questore o dal giudice; da chi ha la forza, insomma” (ancora Il giorno della civetta).
D’altra parte, traspare dalla pagina di S. una concezione al contempo della necessità e della pluralità degli ordinamenti, e ben lo segnala Irti col suo saggio (“Il giorno della civetta” e il destino della legge, 21 s.), nel trascorrere fra la dimensione statuale e quella delle formazioni sociali, comprese all’estremo quelle criminali, fino all’universo delle relazioni familiari. Come traspare dalle parole del pittore protagonista di Todo Modo, quando chiede a don Gaetano: “Se qui fossimo nell’isolamento più assoluto, al di fuori di una giurisdizione, non crede che saremmo costretti a inventare tra noi la legge che Scalambri rappresenta e a perseguire il colpevole?” (Todo modo).
Ancora, la legge dello Stato non sempre è figlia della ragione, ed a tratti si presenta come una angustia: quella “angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi” che turba il capitano Bellodi (Il giorno della civetta), facendogli vagheggiare uno stato di eccezione, da cui subito si ritrae.
Al tempo stesso, non sembra che S. acceda ad una concezione formalista della Legge, che cioè essa possa identificarsi con il Diritto senza passare attraverso l’incontro con i fatti, la persona, le esigenze di giustizia.
È sempre il capitano Bellodi a parlare con accenti critici della “astrazione in cui le leggi vanno assottigliandosi attraverso i gradi di giudizio del nostro ordinamento, fino a raggiungere quella trasparenza formale in cui il merito, cioè l’umano peso dei fatti, non conta più; e, abolita l’immagine dell’uomo, la legge nella legge si specchia” (Il giorno della civetta).
Qui S. espressamente parla di “formalismo giuridico”, ma senza approvarlo; in ciò, sembra, con posizione diversa da quella ribadita – in ossequio alle sue note concezioni generali – da Natalino Irti nel suo contributo al volume, per il quale l’astrazione “che progredisce e s’affina nei gradi del giudizio, è la cifra autentica della legge moderna, la quale, appunto, si scuote di dosso la densa e oscura polvere della particolarità, e guarda alla ‘configurazione’ dei fatti. E così soltanto può valere per tutti, e farsi misura e forma di indefiniti fatti del futuro” (Irti, op.cit., 21)
Non è così, credo, per S.: e lo rileva Nicolò Lipari (Diritto e letteratura in “Todo modo”, 104), quando cita le parole dell’A. “la democrazia ha anzi tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la legge uguale per tutti, la giustizia”; e quando ancora Lipari richiama le parole qui prima ricordate del capitano Bellodi come una condanna del formalismo giuridico, che propugna nell’astrazione la via ad una concezione “pura” del diritto.
Alle soglie della pensione, persino il procuratore di “Porte aperte”, che pur aveva richiamato il “piccolo giudice” alla regola per cui “la pena di morte è ormai da dieci anni la legge dello Stato: e la legge è legge, noi non possiamo che applicarla, che servirla”, giunge a chiedersi “se, da morti che seppelliamo morti, davvero abbiamo il diritto di seppellire i morti per pena capitale”, fino all’ammissione finale: “qualcosa, in quell’affermare la legge fino a quel punto, mi infastidisce, mi inquieta”.
Se è vero, come osserva Irti, che Dike invoca Nomos, per attuarlo o rinnovarlo, e che la giustizia “ha bisogno della positività normativa e fuori da questa non può uscire” (Irti, op.cit., 24); se è vero che “Una pretesa di giustizia, che non tenda a effettuale vigore di norma, e dunque a tradursi in diritto positivo, è consolante illusione o ingannevole vagheggiare” (op.cit., 25); è anche vero che – e questo sembra, almeno, la visione di Sciascia – la Legge non attinge la dimensione del Diritto se non all’incontro con il peso dei fatti, il volto della persona umana, le istanze di giustizia.
3. Giustizia
E si viene così all’asse che pongo per secondo in questa riflessione, la giustizia.
Scrive Lipari della “antica inesauribile tenzone tra Nomos e Dike, tra le forme degli enunciati normativi e l’aspirazione a conseguire un risultato di giustizia che appaia condivisibile alla società di riferimento” (Lipari, op.cit., 94)
Compito dell’ordinamento è perseguire esiti di giustizia, che consistono nell’approssimarsi il più possibile a risultati conformi agli obbiettivi anche di valore in gioco ma nel rispetto rigoroso delle regole.
Ha d’altronde ragione Irti nel rimarcare che Dike non può fare a meno di Nomos, che non v’è giustizia senza la legge positiva ed il suo rispetto, pur con l’anelito al rinnovamento, “ad emanare nuovo diritto in luogo dell’antico” (Irti, op.cit., 24), dal momento che “la giustizia si risolve nella pretesa di tutelare una o più categorie di interessi, o realizzare uno o più ideali, e perciò si innalza a giudice del diritto positivo, dicendolo giusto se soddisfa quegli interessi e ingiusto si li lascia privi di protezione” (ivi).
E però, qui si intravede, guardando all’opera di S., il nucleo drammatico di quella “tenzone” di cui parla Lipari.
Per un verso, S. respinge ad esempio l’idea che possa aversi giustizia facendo a meno delle garanzie di legge, come prima si diceva ricordando i pensieri del capitano Bellodi, che per un attimo vagheggia una eccezionale sospensione dei diritti così da liberarsi dai relativi vincoli, per subito però rifiutarne l’idea come una tentazione.
E parla sempre di Bellodi, Irti, quando ricorda che “quella libertà ottenuta, negli anni del fascismo, dalle dure repressioni del prefetto Mori, non gli sembra valere, a lui partigiano e credente nella giustizia della Repubblica, il costo delle altre libertà” (Irti, op.cit., 19).
Così, la giustizia non può essere ricercata “con ogni mezzo”: come sembra invece evocare, ma criticamente, il titolo di Todo Modo, tratto da una frase degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (Todo modo para buscar la voluntad divina =Ogni mezzo per cercare la volontà divina), che per certi versi si riallaccia all’immagine inquietante della Zattera della Medusa tratta dal celebre dipinto di Géricault, di cui don Gaetano parla sempre in Todo Modo (sia pure come immagine della Chiesa, ma in effetti come metafora di una dimensione umana generale), sulla quale quindici sopravvivono su centoquarantanove, al prezzo di azioni disumane: “E quello che hanno fatto quei quindici per salvarsi?”, chiede lo scrittore protagonista del romanzo. “Non mi interessa”, risponde don Gaetano (Todo Modo).
Una sentenza che condanni un colpevole sulla base di un giudizio irregolare, magari all’esito di una indagine illegittima e passando attraverso la lesione dei presidi di garanzia, è una sentenza giusta? Solo perché riesce nell’intento di ghermire il colpevole? Non è questa la concezione di S.
Per altro verso, pur nel postulare il rispetto della Legge, in tale rispetto non si esaurisce certo la Giustizia, se non guardando al volto della persona umana, se non nella considerazione della complessità dell’umana esperienza, pur allorquando la Legge sia di questa dimentica o traditrice e solo formale paladina.
Una giustizia cieca e sorda rispetto alla persona non è tale, come quella propugnata dal Presidente Riches, ne Il contesto: “Non ci sono più individui, non ci sono responsabilità individuali”. “L’individuo non c’è”. “La sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo”.
In questo senso, la visione di S. sembra quella di una giustizia come “esigenza che postula una esperienza personale”, come scrive Lipari (op.cit., 103), rileggendo Todo Modo.
Aggiungerei che v’è per S. un “senso della giustizia” che misura la legge e a volte si contrappone alla legge, al diritto ed alla “giustizia” come sistema istituzionale: come accade nelle pagine del Consiglio d’Egitto, quando l’abate Vella avverte “improvvisamente l’infamia di vivere dentro un modo in cui la tortura e la forca appartenevano alla legge, alla giustizia: lo sentiva come un malessere fisico, come un urto di vomito” (lo ricorda Donini, Tra diritto pubblico e diritto penale: approssimazioni a “Il Consiglio d’Egitto”, 43).
Qui allora la “giustizia legale” è avvertita come “impostura”; come nel commento di Di Blasi ne Il Consiglio d’Egitto, richiamato da Donini (op.cit., 39): “ogni società genera il tipo d’impostura che, per così dire, le si addice”, erigendo un “diritto oppressore e falsario” (Donini, op.cit., 45).
D’altra parte, anche quello del “senso di giustizia” è tema denso di contraddizioni.
È il “senso di giustizia” ad animare Bellodi (Il giorno della civetta), o il commissario Rogas (Il contesto); ma ad un proprio “senso di giustizia” pretenderebbe di ispirarsi in certe sue azioni anche la mafia, assumendone una nozione “istintiva”, naturale, vista come “un dono”, capace di decidere le vertenze e portare la pace anche nel mondo criminale.
Questa dimensione naturale, a ben vedere intuitiva del “senso di giustizia” per S. non si ritrova purtroppo nelle aule di giustizia, e di ciò l’A. constata anche il pericolo dell’alibi inopinatamente offerto al ragionamento criminale: “Se noi due stiamo a litigare per un pezzo di terra, per una eredità, per un debito; e viene un terzo a metterci d’accordo, a risolvere la vertenza…In un certo senso, viene ad amministrare giustizia: ma sapete cosa sarebbe accaduto di noi due, se avessimo continuato a litigare davanti alla vostra giustizia? Anni sarebbero passati, e forse per impazienza, per rabbia, unno di noi due, o tutti e due, ci saremmo abbandonati alla violenza…” (Il giorno della civetta).
In questo senso, il tema della Giustizia si pone anche come problema del “giudicare”, che dovrebbe essere vissuto come “dolorosa necessità”, assumendo “il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio” (L.Sciascia, La dolorosa necessità del giudicare, 153).
Richiamando il precetto evangelico “non giudicate affinché non siate giudicati”, don Gaetano osserva che in tal modo “non si proibisce il giudicare, ma lo si pone in diretto e inevitabile rapporto con l’essere giudicati”, lo ricorda Lipari (op.cit., 102), come una prospettiva che dovrebbe costantemente dare misura e prudenza al giudizio.
Pur se dolorosamente assente dalle aule giudiziarie, così come nelle parodistiche interpretazioni della cultura e prassi mafiosa, quel “senso di giustizia” di cui l’opera di S. è costantemente alla ricerca è però la spinta che sorregge l’azione di certi suoi protagonisti: è cioè restituito dalla letteratura.
Solo nella letteratura e nell’arte si fa, si restituisce giustizia.
Come scrisse l’A.: “Tutto è legato, per me, al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo. Un problema che si assomma nella scrittura, che nella scrittura trova strazio o riscatto…” (L. Sciascia, 14 domande a Leonardo Sciascia, a cura di C. Ambroise, in Opere 1956-1971, Milano, Bompiani1989, pp. XIII).
In ciò del resto mi viene da accostare S. a F.Dürrenmatt, ed al suo racconto La panne. Una storia ancora possibile (1956), dove il protagonista, ospitato per puro caso (una panne, un guasto dell’auto appunto) nella casa di un giudice in pensione, viene da questo insieme ad altri ex uomini di legge fatto oggetto di un finto processo, nel quale attraverso un gioco surreale emerge la verità di un inconfessato delitto, grazie al fatto, come dice il padrone di casa, che “noi quattro qui seduti a questo tavolo siamo ormai in pensione e perciò ci siamo liberati dell'inutile peso delle formalità, delle scartoffie, dei verbali, e di tutto il ciarpame dei tribunali. Noi giudichiamo senza riguardo alla miseria delle leggi e dei commi”, attingendo però – nel gioco del racconto e dell’invenzione, liberi dagli ingranaggi giudiziari ufficiali – una forma di giustizia fuggita alla pubblica autorità.
In questo senso, come scrive Lipari (op.cit., 107), le opere di letteratura “non si limitano a raccontare il diritto, ma semmai concorrono a formarlo” (ivi); e ancora “Sciascia ha concepito la letteratura come vita, in chiave etica, quale veicolo per la ricerca della verità e della giustizia” (op.cit., 108).
Ed è, appunto, nella Giustizia quale obbiettivo di una lotta, di una ricerca costante, che S. coinvolge il lettore, come fa con il finale di Todo Modo, allorquando nell’astenersi dal fornire una soluzione “incita implicitamente il lettore a cercare in sé stesso la risposta alla domanda di giustizia” (Lipari, op.cit., 104); facendo della scrittura strumento per additare la giustizia quale oggetto di una ricerca inesauribile, là dove “ciò che caratterizza la giustizia è proprio questo atteggiamento di ricerca. Giusto è colui che ricerca la giustizia; non colui che crede di averla trovata” (Lipari, op.cit., 104).
4. Verità
Da ultimo, il tema della verità.
La mia convinzione, tratta dalla rilettura di S. cui il libro che oggi commentiamo mi ha utilmente spronato, è che S. creda nella possibilità di raggiungere, “vedere” la verità. In ciò confermando il profilo del seguace di un approccio razionalista, di cultore del pensiero del secolo dei lumi; meno forse però nel modo di attingere la stessa verità, dato che Alétheia non è nell’opera sciasciana il frutto immancabile di un disvelamento razionale, l’esito sicuro di un percorso raziocinante, pur doverosamente immerso nella realtà, secondo il metodo illuminista appunto, anziché cartesianamente a priori.
Per S., dicevo, v’è uno scarto anzitutto fra verità e diritto
La verità non sta nel diritto, come lo scrittore che oggi celebriamo addita al lettore, ad esempio – e lo coglie Donini nella sua lettura de Il consiglio d’Egitto” – allorquando denuncia “la menzogna del diritto, perché quando questo afferma il vero, nel caso del falso di Vella, copre il privilegio, ma altrettanto lo copre quando uccide per alto tradimento un riformatore illuminato come D Blasi” (Donini, op.cit., 32).
Né la verità si rintraccia nel giudizio, come in quei processi che l’ispettore Rogas ripercorre ne Il Contesto alla ricerca degli errori giudiziari da cui trarre indizi per rintracciare l’assassino dei giudici, o come quelli teorizzati, nello stesso libro, dal cinico e autoreferenziale Presidente Riches, per il quale gli individui pur al centro dei processi svaniscono in una nebbia indistinta e impersonale.
S. non nutre fiducia che la verità possa essere mai compiutamente intercettata nei processi, nelle aule giudiziarie, né che la giustizia, per essere tale, debba coincidere con l’attingimento della verità, anziché di una verità, la più onestamente e legittimamente ricercata e raggiungibile qui ed ora, nel contesto dato.
D’altra parte, osserverei, nella applicazione della legge attraverso il giudizio non è pretesa umanamente e ragionevolmente proponibile quella di attingere immancabilmente la verità, piuttosto che una verità. Nel giudizio si tratta di adeguare la legge ai fatti, per giungere ad una decisione che il più possibile si approssimi ad un esito accettabile e ragionevole, perché conforme agli obbiettivi perseguiti dalla legge. Non di svelare la verità, la cosiddetta verità “materiale”.
È però, per S., in qualche modo, “La verità è sotto gli occhi di tutti”, come si legge in Todo modo (citando dal romanzo di Edgar Allan Poe, La lettera rubata).
Come quella verità per cui è don Gaetano (chi altri?), ad avere commesso i primi due omicidi. O come la verità perfino dichiarata dal pittore/protagonista che si autoaccusa dell’omicidio di don Gaetano, senza apparire però credibile agli astanti.
A volte la verità è magari in fondo al pozzo (“se ci si butta giù, non c’è più né sole, né luna; c’è la verità”, nelle parole di Don Mariano ne “Il giorno della civetta”); ed è una verità che costa sofferenza, e senza bellezza. Scabra e rischiosa come il fondo di un pozzo, appunto, nel quale occorre gettarsi per raggiungerla. Don Mariano risponde del resto così alla domanda di Bellodi “Per lei, vedo, la bellezza non ha niente a che fare con la verità”.
Ma la verità comunque per S. c’è, è lì davanti ed è attingibile. Il problema è il come.
È la letteratura che attinge quella verità, che sembra eternamente sfuggire al diritto ed alla cosiddetta “verità giudiziaria”.
Anche l’ispettore Rogas (ne Il contesto), allorquando indaga sui fascicoli trattati da alcuni dei giudici uccisi, alla ricerca del possibile colpevole del delitto, dice S. che “trasse la convinzione di quanto non fosse difficile, in fondo, distinguere, anche sulle morte carte, nelle morte parole, la verità dalla menzogna; e che un qualsiasi fatto, una volta fermato nella parola scritta, ripetesse il problema che i professori ritengono s’appartenga soltanto all’arte, alla poesia”.
In questo senso, la letteratura “Per S. ha una potente funzione euristica e arrivò a identificarla tout court con la verità” (Squillacioti, La giustizia come letteratura, 148).
Una verità che abita la letteratura, la parola scritta, pur talora fra qualche oscillazione o ambiguità, che però, come scrive ancora Squillacioti (op.cit., 145) è proprio il modo attraverso cui “la letteratura consente di giungere a una conoscenza profonda del reale”.
Vi è qui, come già per il senso di giustizia, ancora una volta una nozione intuitiva, naturale, quasi istintiva della verità, colta dallo sguardo dell’osservatore con l’ausilio della letteratura (non si dimentichi che l’ispettore Rogas, ne Il contesto, è un raffinato e colto lettore), piuttosto che per il tramite di un percorso razionale, di un concatenato ragionamento.
E mi pare di scoprire in ciò quanto sia da rivedere l’idea, che in qualche modo avevo mutuato da semplificazioni correnti e da non abbastanza ponderate letture, di S. come solo e strenuo cultore di un pensiero illuminista e razionalista, anziché quale interprete inquieto e sensibile della complessità dell’esperienza umana, anche nella sua dimensione cognitiva men che puramente razionale, e della letteratura come ritratto fedele di quella composita, non sempre razionalmente intellegibile né comunicabile esperienza.
*Testo dell’intervento all’incontro di studi tenutosi nell’Università di Palermo – Palazzo Steri il 7 maggio 2022 su Diritto Verità Giustizia - Omaggio a Leonardo Sciascia, a cura di L.Cavallaro e R.G.Conti, Bari, Cacucci Editore, 2021.
Sulla questione di legittimità costituzionale dell’obbligo di vaccinazione anti-Covid del personale sanitario. Nota a margine dell’ordinanza 22.03.2022, n. 351 del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana
di Fortunato Gambardella
Sommario: 1. L’iter della decisione - 2. Il caso giudiziario - 3. Il quadro normativo e di prima applicazione giurisprudenziale in materia di obbligo di vaccinazione anti-Covid del personale sanitario - 4. La valutazione di rilevanza della questione di costituzionalità - 5. Il giudizio di non manifesta infondatezza della questione alla luce dei precedenti della giurisprudenza costituzionale - 6. Qualche considerazione intorno alla legittimità dell’obbligo vaccinale nella prospettiva della dimensione collettiva della tutela della salute ai sensi dell’articolo 32 della Carta - 7. I dubbi sull’incidente di costituzionalità sulle norme in materia di consenso informato.
1. L’iter della decisione
Con ordinanza 22.03.2022 n. 351, il Consiglio di Giustizia amministrativa della regione Sicilia ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione ad alcune previsioni del decreto legge 1° aprile n. 44 (convertito in legge 28 maggio 2021, n. 76) in materia di vaccinazione obbligatoria del personale sanitario contro l’agente infettivo di Covid-19. Oggetto di specifica contestazione sono le disposizioni racchiuse nell’articolo 4 del testo normativo nella parte in cui, da un lato, dispongono l’obbligo vaccinale e la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie nell’ipotesi di inadempimento, dall’altro, non escludono l’onere di sottoscrizione del consenso informato nel caso di vaccinazione obbligatoria per la protezione da SARS-CoV-2.
La decisione è giunta all’esito di un’istruttoria procedimentale ampia e strutturata, nell’ambito della quale il giudice ha avanzato una specifica richiesta di chiarimenti affidata ad un organismo collegiale composto dal Segretario generale del Ministero della Salute, dal Presidente del Consiglio Superiore della Sanità e dal responsabile della Direzione generale di prevenzione sanitaria del medesimo dicastero.
Le delucidazioni richieste hanno riguardato, in primo luogo, alcuni profili intesi a verificare qualità e consistenza del ruolo affidato ai medici di base, tanto nella fase di avviamento, del singolo paziente, al trattamento sanitario obbligatorio, quanto nella fase di vigilanza successiva alla somministrazione del siero. In questa prospettiva è stato chiesto, ad esempio, se ai medici di base fossero state fornite adeguate direttive, prescrivendo loro di contattare i propri assistiti ai quali, eventualmente, suggerire test pre-vaccinali; oppure se fosse stato demandato ai medesimi il compito di comunicare tutti o alcuni degli eventi avversi (letali e non) e patologie dai quali fossero risultati colpiti i soggetti vaccinati.
Sotto altro profilo, il giudice ha quindi chiesto elementi istruttori in relazione ai dati raccolti dall’amministrazione circa l’efficacia dei vaccini, con specifico riferimento al numero dei vaccinati comunque contagiati successivamente al trattamento, nonché alla consistenza di ricoveri e decessi registrati nella popolazione dei vaccinati entrati in contatto con il virus.
2. Il caso giudiziario
La questione di costituzionalità viene sollevata nell’ambito di un giudizio di appello avverso l’ordinanza del T.A.R. Sicilia che ha respinto una domanda cautelare proposta da un tirocinante presso le strutture sanitarie dell’Università degli Studi di Palermo in contestazione di una nota, sottoscritta dal Rettore e dal Direttore Generale, con la quale veniva disposto che i tirocini di area medica/sanitaria potessero “proseguire in presenza all’interno delle strutture sanitarie, a seguito della somministrazione vaccinale anti Covid-19”.
L’ordinanza del giudice di prime cure veniva contestata sotto una pluralità di profili. Il primo gruppo dei quali faceva perno sull’asserita natura sperimentale[1] del vaccino, inidonea a fondare uno specifico obbligo vaccinale ostando a ciò il regolamento UE 2014 (articoli 28 e seguenti) e l’articolo 32 ultimo comma della Costituzione, il quale vieta trattamenti contrari alla dignità umana.
Nel medesimo capitolo, si inseriscono anche le censure relative ai rischi di eventi avversi a carattere di gravità, rilevati peraltro nell’ambito di un sistema di farmacovigilanza passiva (basata su segnalazioni spontanee ed incapace di offrire una stima ritenuta realistica) ed evidenziati in termini assoluti di una certa consistenza, tanto nell’VIII rapporto dell’AIFA quanto nell’ambito del database europeo “Eudravigilance”.
Altri motivi di gravame mettevano altresì in dubbio l’efficacia della terapia sanitaria profilattica in termini di riduzione del rischio di contagio e la stessa applicabilità delle relative norme impositive in capo agli studenti universitari, con conseguente compressione del diritto allo studio. Un ultimo gruppo di contestazioni riguardavano poi la violazione del principio di primazia del diritto euro-unitario con riferimento, tra l’altro, al consenso informato e al trattamento dei dati personali.
Il ragionamento sviluppato dal giudice per giungere alla sollevazione della questione di costituzionalità muove invece, com’è ovvio, dal duplice e progressivo riscontro della rilevanza della questione in rapporto al caso giudiziario e, successivamente, della sua non manifesta infondatezza. Quest’ultima valutazione, come vedremo, è condotta dal Consiglio assumendo, come parametro di riferimento, gli orientamenti che nel tempo la giurisprudenza costituzionale ha consolidato in tema di legittimità costituzionale dei trattamenti sanitari obbligatori.
3. Il quadro normativo e di prima applicazione giurisprudenziale in materia di obbligo di vaccinazione anti-Covid del personale sanitario
Il giudizio di rilevanza della questione muove, in particolare, dalla ricostruzione del quadro normativo di riferimento in materia di obbligo vaccinale del personale sanitario.
La previsione del medesimo è da rintracciarsi nell’art. 4 del d.l. n. 44/2021 che, in relazione uno tempo di vigenza originariamente fissato al 31 dicembre 2021, ha imposto il trattamento di profilassi, a titolo gratuito, a carico degli esercenti le professioni sanitarie e degli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali, qualificando peraltro la vaccinazione quale “requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati”.
Rispetto a questa previsione generale, l’unica eccezione normativamente riconosciuta veniva contemplata per le ipotesi di “accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”, rispetto alle quali la vaccinazione veniva riconosciuta come non obbligatoria e passibile, a seconda delle circostanze, di omissione o differimento.
Con successivi interventi normativi, il riferito impianto è stato ripetutamente modificato, sotto una pluralità di aspetti. Gli stessi hanno riguardato: l’individuazione delle categorie degli operatori di interesse sanitario tenuti al trattamento; l’estensione dell’obbligo alla dose vaccinale di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario; l’ampliamento della platea degli obbligati, fino a ricomprendere gli studenti dei corsi di laurea impegnati nello svolgimento dei tirocini pratico-valutativi finalizzati al conseguimento dell’abilitazione all’esercizio delle professioni sanitarie; la riconduzione delle ipotesi di esenzione dall’obbligo per accertato pericolo per la salute al rispetto di specifiche circolari del Ministero della salute.
Per quanto attiene, invece, alla tematica del consenso informato[2], a venire in rilevo è la disciplina generale racchiusa nella legge 22 dicembre 2017, n. 219, laddove, all’articolo 1 stabilisce che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”. Tale disposizione viene comunemente applicata anche per tutte le tipologie di vaccinazioni obbligatorie previste nel nostro ordinamento, non facendo eccezione il trattamento preventivo per l’infezione da SARS-CoV-2.
A corredo del dato normativo, l’ordinanza in commento passa poi in rassegna i principali arresti giurisprudenziali[3] che si sono sviluppati nell’applicazione delle riferite previsioni in tema di obbligo di vaccinazione anti-Covid a carico del personale sanitario e affine.
In questo quadro, il giudice siciliano cita l’ordinanza cautelare n. 192/2022 del 14.2.2022 del Tar Lombardia, sezione prima, che ha preannunciato l’incidente di costituzionalità dell’art. 4, comma 4, del d.l. n. 44/2021 (rinviando ad ulteriore e specifica ordinanza per la sollevazione della relativa questione), nella parte in cui prevede, a sanzione dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale, la sospensione dall’esercizio della professione sanitaria.
A sostegno, invece, della legittimità dei provvedimenti amministrativi di attuazione della relativa normativa, l’ordinanza riporta la posizione espressa dal Consiglio di Stato, sezione III, con sentenza 20 ottobre 2021, n. 7045, nell’ambito di un articolato ragionamento teso ad enfatizzare la rilevanza delle istanze di precauzione che, in un contesto pandemico emergenziale, acquisirebbero importanza tale da prevalere sulla libera autodeterminazione del singolo, il quale, all’opposto, cercherebbe conforto rispetto al cd. ignoto irriducibile, corrispondente alla circostanza per cui, ad oggi, non si dispone di tutti i dati completi per valutare compiutamente il rapporto rischio/beneficio nel lungo periodo come conseguenza dell’esecuzione del trattamento. Nel ragionamento del Consiglio di Stato, in particolare, l’istanza di una pronta tutela precauzionale trarrebbe la sua ragione di giustificazione più profonda nella valenza costituzionale del principio di solidarietà[4](articolo 2 della Carta), nel momento in cui lo stesso offre la possibilità di restituire il rapporto tra libertà e responsabilità individuale in termini di endiadi. Il Consiglio di Stato, in questa prospettiva, mette in risalto alcuni punti fermi del formante giurisprudenziale costituzionale[5]. Il discorso riguarda tanto il valore di premessa della solidarietà come “base della convivenza sociale normativamente prefigurata dalla Costituzione” (Corte cost., 28 febbraio 1992, n. 75) e della tutela della salute come “patto di solidarietà” tra individuo e collettività (Corte cost., 23 giugno 2020, n. 118), quanto la corretta ermeneutica intorno al valore della dignità della persona, che non può prescindere dalla protezione della salute di tutti, quale interesse collettivo (Corte cost., 7 dicembre 2017, n. 258) “conformemente, del resto, al principio universalistico a cui si ispira il Servizio sanitario in Italia (art. 1 della l. n. 833 del 1978), e nella prospettiva di assicurare la tutela primaria delle persone più vulnerabili”, la cui peculiare condizione li espone a più frequenti e intense occasioni di contatto nei luoghi di cura e assistenza.
4. La valutazione di rilevanza della questione di costituzionalità
La valutazione del Collegio in punto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale discende dal riscontro dell’applicabilità, al caso di specie, della normativa in tema di obbligo vaccinale del personale sanitario anche in relazione agli studenti in tirocinio.
In questa prospettiva, il C.G.A. sottolinea il carattere infondato di quei motivi di ricorso intesi a sostenere l’inapplicabilità agli studenti tirocinanti dell’obbligo vaccinale introdotto dall’articolo 4 del d.l. n. 44/2021 per “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario”. La contestazione proposta muoveva infatti dalla constatazione di un giudizio incentrato sull’impugnazione di provvedimenti rettorali, di esecuzione dell’obbligo normativo, adottati nella vigenza dell’originaria formulazione della disposizione, laddove l’estensione dell’ambito di applicazione agli studenti in tirocinio era stata esplicitata dal legislatore solamente in sede di conversione del successivo d.l. n. 172/2021 (che ha “rinnovato” l’obbligo vaccinale estendendolo fino alla dose di richiamo al ciclo vaccinale primario). Per questa via, parte ricorrente deduceva l’inesistenza dell’obbligo anteriormente alla sua esplicita introduzione, laddove il Collegio obietta che la normativa in tema di obbligo vaccinale dei sanitari fosse ab initio da interpretarsi “nel senso di includere i tirocinanti che, nell’ambito del percorso formativo, vengano a contatto con l’utenza in ambito sanitario, ricorrendo le medesime ragioni di tutela dei pazienti”. Quelle ragioni, in particolare, sono state evidenziate dalla già riferita decisione del Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 20 ottobre 2021, n. 7045, secondo la quale la vaccinazione obbligatoria per il personale medico e di interesse sanitario, in un’ottica di attuazione del canone costituzionale di solidarietà, risponde ad una chiara finalità di tutela, tanto del personale sui luoghi di lavoro, quanto degli stessi pazienti e degli utenti della sanità, pubblica e privata, a partire dalle categorie più fragili e vulnerabili, più di frequente bisognose di cura ed assistenza.
Del resto, nella medesima traiettoria, a giudizio del Collegio isolano, assumono rilievo dirimente anche le previsioni di cui all’articolo 2 del d.lgs. n. 81/2008 (integrato e modificato dal d.lgs. n. 106/2009), in materia di igiene e sicurezza del lavoro, che qualifica “lavoratore” la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, inclusi i soggetti beneficiari delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento, gli allievi degli istituti di istruzione ed universitari ed i partecipanti ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici.
5. Il giudizio di non manifesta infondatezza della questione alla luce dei precedenti della giurisprudenza costituzionale
Per quanto riguarda la valutazione di non manifesta infondatezza della questione, come anticipato, il C.G.A. si affida agli indirizzi già espressi dalla Consulta in materia di limiti di legittimità costituzionale dei trattamenti sanitari obbligatori[6].
Il punto di partenza di ogni ragionamento sviluppato dalla Corte è da rintracciarsi, ovviamente, nella necessità di individuare un punto di equilibrio tra le varie declinazioni della tutela salute che l’articolo 32 della Carta contempla: il diritto alla salute del singolo, il diritto dei terzi con cui il singolo interagisca, la salute come interesse collettivo. Quel punto di equilibrio reclama dunque la necessità di una espressa verifica proprio in tema di ammissibilità di trattamenti sanitari obbligatori, nel momento in cui il secondo comma del riferito articolo 32 ammonisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Se infatti il legislatore può imporre trattamenti sanitari, resta in ogni caso fermo che le relative norme impositive non possano non allinearsi a quella precisa traccia costituzionale che vuole la tutela della salute garantita in tutte le sue declinazioni, a partire dalla protezione del singolo nella sua autodeterminazione al trattamento sanitario.
Per questa via e alla luce degli arresti stratificatisi nel tempo nella giurisprudenza costituzionale, il C.G.A. mette in fila una serie di condizioni che debbano rispettare le norme che prevedano specifici obblighi di vaccinazione per non porsi in contrasto con l’art. 32 della Carta.
La prima di queste condizioni deriva dalla circostanza che il trattamento debba essere diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri.
Centrale, in particolare, nel ragionamento del Collegio, la posizione evidenziata dalla Corte nella sentenza 22 giugno 1990, n. 307 in tema di vaccinazione anti-polio, laddove la Consulta ebbe modo di ribadire che il trattamento vaccinale deve necessariamente mirare “a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale”.
Da quella decisione, peraltro, il giudice siciliano ricava anche le ulteriori condizioni di legittimità delle norme che contemplino trattamenti sanitari obbligatori.
Per quanto concerne la seconda, viene in rilievo, in particolare, quella parte della sentenza nella quale si chiarisce che “un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili”. Rispetto a questa specifica condizione, nella lettura di conformità costituzionale offerta dalla Corte nell’ambito di quella delicata ricerca di un punto di equilibrio tra le varie traiettorie della tutela costituzionale della salute, sembra che si riconosca pertanto una valenza specifica e prevalente alla dimensione individuale del diritto alla salute, posto che il principio di solidarietà verso i consociati, alla base della dimensione collettiva della tutela della salute può comportare “un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri”.
Approdando poi alla terza condizione di legittimità costituzionale delle norme che impongano trattamenti sanitari obbligatori, il necessario contemperamento tra dimensione individuale e dimensione collettiva del diritto alla salute impone inoltre che sia “assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito (ancora Corte cost., n. 307 del 1990; ma anche n. 258 del 1994)[7].
Poste le riferite condizioni di conformità al dettato costituzionale, il lavoro del C.G.A. si è sviluppato nei termini della verifica del loro rispetto nell’ambito delle odierne previsioni di obbligo vaccinale a carico del personale sanitario e di interesse sanitario.
Nessun dubbio circa il primo parametro (che il trattamento sia diretto a migliorare o a preservare lo stato di salute sia di chi vi è assoggettato, sia degli altri). In primo luogo, il C.G.A. non ritiene infatti convincenti le obiezioni circa la natura sperimentale (come tale non idonea a fondare uno specifico obbligo terapeutico) del siero, posto il rispetto di tutte le fasi procedurali descritte nel regolamento n. 507 della Commissione Europea del 29 marzo 2006, che ha disciplinato l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata dei medicinali.
Ma soprattutto, alla luce dei rapporti di monitoraggio offerti dall’Agenzia italiana del farmaco e dall’Istituto Superiore di Sanità, non è contestabile il profilo di efficacia complessiva della campagna di vaccinazione, “concepita, certo, con l’obiettivo di conseguire una rarefazione dei contagi e della circolazione del virus, ma anche allo scopo di evitare l’ingravescente della patologia verso forme severe che necessitano di ricovero in ospedale, obiettivo tuttora conseguito dal sistema preventivo in atto, il quale si avvantaggia, proprio grazie alla maggiore estensione della platea dei vaccinati, di una minore pressione sulle strutture di ricovero e di terapia intensiva”.
Elementi di criticità dirimenti, invece, il C.G.A. individua con riferimento alla questione del rischio di eventi avversi che, in rapporto ai riferiti indizi di costituzionalità offerti dalla Corte, come detto, devono presentarsi nei limiti di conseguenze normali e, quindi, tollerabili.
Sotto questo profilo, il ragionamento proposto si snoda lungo due piani. Il primo riguarda la consistenza degli eventi avversi, alla luce dei più recenti rapporti di cd. vaccinovigilanza predisposti dalle autorità competenti e da cui emerge un numero di eventi avversi da vaccini anti SARS-CoV-2 sensibilmente superiore alla media degli eventi avversi già registrati per le vaccinazioni obbligatorie in uso da anni. Sul punto, si legge nelle decisione: “vero è che le reazioni gravi costituiscono una minima parte degli eventi avversi complessivamente segnalati; ma il criterio posto dalla Corte costituzionale in tema di trattamento sanitario obbligatorio non pare lasciare spazio ad una valutazione di tipo quantitativo, escludendosi la legittimità dell’imposizione di obbligo vaccinale mediante preparati i cui effetti sullo stato di salute dei vaccinati superino la soglia della normale tollerabilità, il che non pare lasciare spazio all’ammissione di eventi avversi gravi e fatali, purché pochi in rapporto alla popolazione vaccinata, criterio che, oltretutto, implicherebbe delicati profili etici (ad esempio, a chi spetti individuare la percentuale di cittadini “sacrificabili”)”.
Il secondo si colloca invece a monte dell’attività di sorveglianza sugli eventi avversi e mette in dubbio la stessa idoneità del sistema, concretamente sperimentato, di farmacovigilanza[8] passiva. Si tratta di un modello che permette, sia ai professionisti del comparto sanitario che a singoli cittadini, la trasmissione di segnalazioni spontanee senza però offrire garanzie sulla corretta rilevazione dell’effettiva portata del fenomeno.
Tale metodologia, chiarisce il giudice, andrebbe invece integrata mediante azioni di farmacovigilanza attiva, ancora non praticate su larga scala e che consentono, invece, “di sottoporre ad osservazione per così dire asettica un campione di popolazione, della quale vengono raccolti, nel tempo, tutti i dati relativi allo stato di salute successivi all’assunzione del farmaco, consentendo di acquisire i dati di molte persone vaccinate e confrontarli con quelli che ci si aspetterebbe in quella fascia d’età solo per effetto del caso”.
Ulteriori elementi nella medesima direzione (quella di un sistema di vaccinazione diffusa incapace di contenere il rischio di eventi avversi nei confini della normale tollerabilità) vengono da ultimo rilevati sotto il profilo della inadeguatezza del modello di triage pre-vaccinale in concreto sperimentato, affidato esclusivamente al personale sanitario che esegue la vaccinazione. In assenza della specifica richiesta di esami di laboratorio preventivi o specifici accertamenti diagnostici, a giudizio del C.G.A., sarebbe stato opportuno immaginare un contributo della rete della medicina generale, anche nella prospettiva di mitigare le sacche di esitazione vaccinale.
Poste queste premesse, il giudice risolve nel senso della promozione dell’incidente di costituzionalità dell’art. 4, commi 1 e 2, del d.l. n. 44/2021 (convertito in l. n. 76/2021), nella parte in cui prevede, l’obbligo vaccinale per il personale sanitario e la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie come effetto del relativo inadempimento. Il conflitto con le disposizioni della Carta è ritenuto essere conseguenza della violazione dei “seguenti articoli della Costituzione: 3 (sotto i parametri di razionalità e proporzionalità); 32 (avuto riguardo alla compressione della libertà di autodeterminazione sanitaria in relazione a trattamenti farmacologici suscettibili di ingenerare effetti avversi non lievi né transitori); 97 (buon andamento, anche in relazione alle criticità del sistema di monitoraggio); 4 (diritto al lavoro), nonché art. 33 e 34 (diritto allo studio), oggetto di compressione in quanto condizionati alla sottoposizione alla vaccinazione obbligatoria; 21 (diritto alla libera manifestazione del pensiero, che ricomprende il diritto ad esprimere il proprio dissenso), in relazione all’obbligo di sottoscrizione del consenso informato per poter accedere ad un trattamento sanitario imposto; oltre che con il principio di proporzionalità e con il principio di precauzione desumibili dall’art. 32 Cost. (avuto riguardo alle più volte rilevate criticità del sistema di monitoraggio, nonché all’assenza di adeguate misure di attenuazione del rischio quali analisi e test pre-vaccinali e controlli post vaccinazione)”.
6. Qualche considerazione intorno alla legittimità dell’obbligo vaccinale nella prospettiva della dimensione collettiva della tutela della salute ai sensi dell’articolo 32 della Carta.
Ogni valutazione dell’ordinanza del C.G.A. che solleva la questione di legittimità costituzionale della normativa in tema di obbligo di vaccinazione anti-Covid (del personale sanitario e di interesse sanitario) non può che procedere su due livelli diversi di approfondimento. Il primo è legato all’operato del giudice a quo, il secondo attiene alla prospettiva del giudizio di costituzionalità.
Sotto il primo profilo, almeno per quanto concerne la contestazione delle disposizioni che impongono il trattamento sanitario obbligatorio e sanzionano l’inadempimento con la sospensione dall’esercizio della professione (più avanti qualche distinguo sarà proposto per quanto concerne la questione di costituzionalità sollevata avverso le norme in tema di necessario rilascio di apposito consenso informato), il ragionamento del giudice appare sviluppato con rigore e correttezza di metodo.
Questo metodo muove, come riferito, dal confronto con i parametri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale che ha ragionato sulla conformità alla Carta di altre previsioni normative in materia di trattamenti sanitari obbligatori. Quei parametri sono stati vagliati in relazione alle recenti norme dell’emergenza pandemica che prevedono il riferito obbligo di vaccinazione e fino a far emergere indizi di collisione con specifiche norme costituzionali, a partire dall’articolo 32 sul diritto alla salute. Tale norma, come abbiamo visto, viene infatti comunemente interpretata nel senso di non legittimare disposizioni di legge che impongano trattamenti sanitari dalla cui esecuzione possano derivare rischi per la salute del singolo che vadano oltre il limite della normalità e della tollerabilità. Tale limite è valutato dal C.G.A. come superato nel caso di specie, in considerazione dei risultati dei controlli di farmacovigilanza e pur con i limiti di un sistema fondato principalmente su segnalazioni a carattere spontaneo degli eventi avversi.
Ricostruito in questi termini, l’incidente di costituzionalità appare ragionevole nella sua proposizione, in quanto fondato su orientamenti specifici del giudice delle leggi, maturati intorno a vicende normative analoghe, quantomeno prima facie.
Peraltro, com’è noto, il tema della vaccinazione obbligatoria anti-Covid (nelle sue varie declinazioni e in relazione alle diverse fonti normative di introduzione) ha rappresentato, nel dibattito pubblico dell’ultimo periodo, un argomento lacerante, intorno a quale un chiarimento definitivo, dall’autorevole osservatorio Corte costituzionale, appare senza dubbio opportuno, specie in presenza di indizi di illegittimità ricavabili da orientamenti stratificati.
Sotto il diverso profilo, invece, delle prospettive del giudizio di costituzionalità, qualche dubbio sull’esito di abrogazione delle norme impugnate ci sembra si possa avanzare.
La questione arriva infatti alla Corte sulla scorta dell’esame di indirizzi che la stessa ha maturato rispetto a precedenti che probabilmente sono analoghi solo in prima apparenza. Quei precedenti fanno riferimento a normative approvate al di fuori di una condizione di emergenza pandemica, in un regime di normalità.
È un dato che la stessa ordinanza considera, peraltro, dimostrando consapevolezza dell’esito per nulla scontato del giudizio di costituzionalità, laddove, per quanto in forma incidentale, rileva che “vi è da dubitarsi della coerenza dell’attuale piano vaccinale obbligatorio con i principi affermati dalla Corte, in riferimento, va sottolineato, a situazioni per così dire ordinarie, non ravvisandosi precedenti riferiti a situazioni emergenziali ingenerate da una grave pandemia”.
Chi scrive ha già avuto modo di sottolineare, in questa sede ma in altro contributo a commento della riferita sentenza n. 7045/2021 del Consiglio di Stato[9], il carattere dirimente di una condizione di emergenza pandemica rispetto all’ordinario dispiegarsi delle misure di sanità pubblica, ovvero quell’insieme di strumenti legislativi, amministrativi e sanitari intesi a proteggere e migliorare la salute generale e la qualità della vita della popolazione complessivamente considerata.
Si tratta di interventi che comportano tendenzialmente azioni finalizzate alla prevenzione delle malattie ed a garantire l’assistenza sanitaria collettiva, discostandosi profondamente dagli interventi di medicina individuale, nell’ambito dei quali oggetto del “trattamento” è il singolo soggetto.
In questo quadro, le misure di incentivazione vaccinale, sia nelle forme dell’obbligo che della raccomandazione[10], occupano tradizionalmente uno spazio importante, reso più evidente dagli interventi legislativi del 2017[11], reintroduttivi dell’obbligo di profilassi sanitaria a carico dei minori in riferimento ad una pluralità di agenti patogeni.
Anche quest’ultima normativa peraltro ha originato un contenzioso innanzi alla Corte costituzionale, risolto con la sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018[12]. In quella decisione, com’è noto, la Consulta ha ribadito le condizioni che sostengono la conformità alla Carta delle norme in tema di vaccinazioni obbligatorie (ritenute rispettate nel caso di specie) e che abbiamo già evidenziato essere state assunte dal C.G.A. a parametro della più recente sollevazione dell’incidente di costituzionalità.
Quella normativa, in ogni caso, si colloca in un contesto nel quale le misure di sanità pubblica operano in una dimensione tradizionale e di tipo preventivo (implementate peraltro secondo tecniche precauzionali).
Diverso è il modo di agire, invece, delle misure di sanità pubblica in un contesto di pandemia, certificata dalla temporanea delibera governativa dello stato di emergenza di rilievo nazionale ai sensi dell’articolo 24 del Codice della protezione civile (Decreto legislativo n.1 del 2 gennaio 2018). Nel lessico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la condizione di pandemia consegue alla “la diffusione mondiale di una nuova malattia, molto contagiosa e ad alta mortalità, per la quale le persone non hanno immunità”. In questo contesto, le misure di sanità pubblica si trovano a dover intervenire non solo su di una popolazione da proteggere, con misure preventive di profilassi, ma su di una popolazione ammalata, da dover curare per via di un virus ad alta capacità di contagio[13] e di rilevante efficacia patogena. Le misure di sanità pubblica si calano dunque in una dimensione di contesto e in quella dimensione di contesto traggono la ragione della relativa legittimazione, anche in considerazione del diverso ruolo che sono chiamate a svolgere.
Con riguardo al nostro ordinamento, questo diverso modo di operare appare peraltro conforme all’impianto costituzionale che, all’articolo 32, sappiamo contemplare la tutela della salute nelle sue diverse traiettorie, tanto come diritto dell’individuo, quanto come interesse della collettività[14], in una dimensione che può essere letta anche in termini di dovere costituzionale[15]. Ciascuna di queste traiettorie può infatti assumere, a seconda dei contesti nei quali una determinata normativa è chiamata ad intervenire, rilievo prevalente per quanto non esclusivo.
Poste queste premesse si può pertanto avanzare qualche dubbio intorno alla circostanza che la Corte possa davvero applicare fedelmente quei precedenti che la stessa ha consolidato nel tempo rispetto a norme impositive di trattamenti sanitari in funzione di contenimento epidemico e non di contrasto pandemico.
La Corte potrebbe altresì operare nel senso di ricalibrare quelle condizioni che la stessa ha già descritto come legittimanti misure normative recanti obblighi di vaccinazione alla luce della ritenuta prevalenza, nel caso di specie e per il tempo del perdurare di conclamate e documentate condizioni emergenziali, della traccia di tutela della salute come interesse della collettività. Per questa via, alcuni dei parametri definiti dalla giurisprudenza della Corte potrebbero allora essere oggetto di rivalutazione e adeguamento alle condizioni di contesto nelle quali le norme sono chiamate ad operare. A partire dall’input secondo cui gli effetti avversi del trattamento sanitario debbano essere normali e tollerabili. Se si enfatizza infatti la dimensione collettiva della tutela della salute nella prospettiva dell’articolo 32, non può escludersi che quei canoni della normale tollerabilità possano essere valutati in relazione alla portata eccezionale del fenomeno pandemico, in un’ottica che, assunta la razionalità scientifica[16] dell’intervento, guardi principalmente alla proporzionalità[17] della misura rispetto all’obiettivo da raggiungere[18]: la cura della popolazione in un contesto di emergenza sanitaria.
7. I dubbi sull’incidente di costituzionalità sulle norme in materia di consenso informato
Come già anticipato, qualche dubbio in più, in termini di verifica della non manifesta infondatezza della relativa questione, solleva l’ordinanza in commento laddove propone incidente di costituzionalità anche rispetto all’articolo 1 della legge 22 dicembre 2019 n. 217, nella parte in cui non prevede l’espressa esclusione dalla sottoscrizione del consenso informato nelle ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori, nonché rispetto all’art. 4, del d.l. n. 44/2021, nella parte in cui non esclude l’onere di sottoscrizione del consenso informato nel caso della vaccinazione obbligatoria anti-Covid del personale sanitario, per contrasto con gli articoli 3 e 21 della Costituzione.
Sotto questo profilo, il giudice siciliano mostra di non condividere la tesi prospettata, in sede istruttoria, dall’organismo incaricato, secondo cui, nel caso di vaccinazione obbligatoria, il consenso andrebbe inteso quale presa visione, da parte del cittadino, delle informazioni fornite. Un argomento ritenuto irrazionale per considerazioni definite sia logiche che giuridiche, posto che “il consenso viene espresso a valle di una libera autodeterminazione volitiva, inconciliabile con l’adempimento di un obbligo previsto dalla legge”, qualificato come indispensabile ai fini dell’esplicazione di un diritto costituzionalmente tutelato quale il diritto al lavoro.
Si tratta di considerazioni che, in realtà, non sembrano porsi in linea di continuità con gli stessi indirizzi costituzionali che il C.G.A. ha scrupolosamente applicato per desumere la non manifesta infondatezza della questione di legittimità delle norme impositive dell’obbligo vaccinale.
Proprio la più volte richiamata decisione n. 307 del 1990 della Corte costituzionale ha ribadito infatti che le attività di somministrazione di un presidio farmacologico devono essere “accompagnate dalle cautele o condotte secondo le modalità che lo stato delle conoscenze scientifiche e l’arte prescrivono in relazione alla sua natura”. In questa prospettiva, la Corte ha chiarito come non potesse essere in alcun modo omessa specifica “comunicazione alla persona che vi è assoggettata, o alle persone che sono tenute a prendere decisioni per essa e/o ad assisterla, di adeguate notizie circa i rischi di lesione (…), nonché delle particolari precauzioni, che, sempre allo stato delle conoscenze scientifiche, siano rispettivamente verificabili e adottabili”.
Se è vero che la giurisprudenza costituzionale reclama dunque specifiche informazioni intorno a rischi del trattamento e precauzioni da sperimentare senza comunque imporre la raccolta di uno specifico consenso, è anche vero che lo strumento del consenso è sicuramente una tecnica che garantisce l’effettiva presa di conoscenza di un’informazione. Probabilmente è anzi l’unica tecnica compatibile con un dato costituzionale che, nell’ultima parte dell’articolo 32, ammonisce che la legge impositiva di un trattamento sanitario “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Il rispetto della dignità della persona impone pertanto che il legislatore metta in campo tutti gli strumenti di tutela del soggetto obbligato al trattamento vaccinale e, in questa prospettiva, la lettura offerta dall’autorità pubblica del consenso informato in termini di presa visione da parte del cittadino delle informazioni fornite appare assolutamente in linea con il dettato costituzionale nel momento in cui favorisce, più di ogni attività informativa unilaterale dell’amministrazione, una consapevolezza che, in ultima analisi, può consentire al vaccinato un più attento e meditato monitoraggio delle proprie condizioni di salute successivamente alla sottoposizione al trattamento vaccinale.
Più a monte, non sembra esserci ragione di distinguere, in punto di applicazione delle regole sul consenso informato, tra trattamenti sanitari liberi e trattamenti obbligati anche ragionando sul carattere coercitivo delle norme comunemente adottate per imporre specifici obblighi vaccinali. Per come il legislatore costruisce la fattispecie normativa in esame, appare infatti opportuno distinguere tra carattere obbligatorio del trattamento e carattere coercitivo in termini assoluti dello stesso. Sotto quest’ultimo profilo, nel caso dell’obbligo di vaccinazione anti-Covid per i sanitari (ma il discorso sarebbe riproponibile anche per altre ipotesi normative di vaccinazione obbligatoria[19], a partire da quelle imposte ai minori con la normativa del 2017), l’effetto coercitivo è sicuramente esistente, in quanto deriva dalla prospettiva di una sanzione particolarmente severa, ma relativo.
La sanzione stessa contempla infatti l’alternativa, dal prezzo altissimo, corrispondente alla sospensione dal lavoro[20]. Quell’alternativa, come l’esperienza pratica ha del resto evidenziato, lascia al singolo uno spazio, ancorché estremamente compresso, di autodeterminazione in ordine alla sottoposizione all’atto sanitario imposto.
Peraltro, concludendo, la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione, nella sua severità, resta, in ogni caso, il frutto di una precisa scelta del legislatore, che, nell’ambito della recente normativa emergenziale, cristallizza evidentemente una prevalenza della tutela della salute nella sua dimensione collettiva rispetto alla tutela del diritto al lavoro. Si può allora contestare quella scelta del legislatore e lo si è fatto promuovendo, opportunamente, l’incidente di costituzionalità sulle relative norme, ma viene da dubitare che, in ogni caso, la questione di legittimità delle disposizioni in materia di consenso informato possa trovare lo spazio per una definizione che sia svincolata dall’esito dell’impugnazione costituzionale delle norme sull’obbligo di trattamento vaccinale.
[1] Sul tema, A. Cauduro, Autorizzazione all’immissione in commercio condizionata e vaccinazione Covid-19, in questa Rivista, 2021; M. Maggiolini, R. Rolli, “Authorities” e gestione dei farmaci. La rete amministrativa del farmaco tra AIFA ed EMA, in DPCE Online, 2021, 2.
[2] Per un inquadramento generale, M.N. Bugetti, La disciplina del consenso informato nella legge 219/2017, in Rivista di diritto civile, 2019, 1.
[3] In tema si veda anche D. Donati, La legittimità dell’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari, in Giornale di diritto amministrativo, 2022, 2.
[4] Nell’ambito di una traccia più volte evidenziata dalla Corte costituzionale. Si veda C. Cost. n. 268/2017. Sul tema si rinvia a N. Vettori,L’evoluzione della disciplina in materia di vaccinazioni nel quadro dei principi costituzionali, in Rivista italiana di medicina legale e del diritto in campo sanitario, 2018, 1.
[5] M. C. D’Arienzo, Al di là del nesso autorità/libertà: i recenti sviluppi della politica vaccinale italiana alla prova dei fatti e nell’interpretazione della giurisprudenza costituzionale ed amministrativa tra diritto alla salute pubblica, rischi per la salute individuale, garanzia ed effettività dei diritti fondamentali ed equilibrio economico-finanziario, in Diritto e processo amministrativo, 2019, 2.
[6] Sul tema si veda F. Minni, A. Morrone, Il diritto alla salute nella giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, in Rivista AIC, 2013, 3.
[7] F. Passananti, Le vaccinazioni obbligatorie o raccomandate ed il diritto all’indennizzo, in www.ambientediritto.it, 2021, 2.
[8] In argomento, G. Massari, La sicurezza dei farmaci in Italia, tra vincoli sopranazionali e riparto interno di competenze, in Istituzioni del Federalismo, 2015, 1. La normativa europea in materia di farmacovigilanza è stata modificata con l’adozione, nel 2010, del Regolamento UE 1235/2010 e della Direttiva 2010/84/UE. Per le modalità operative, si veda il Regolamento di Esecuzione (UE) 520/2012 del 19 giugno 2012.
[9] F. Gambardella, Obbligo di vaccinazione e principi di precauzione e solidarietà, in questa Rivista, 2021.
[10] B. Liberali, Vaccinazioni obbligatorie e raccomandate tra scienza, diritto e sindacato costituzionale, in BioLaw Journal – rivista di BioDiritto, 2019, 3.
[11] Decreto legge 7 giugno 2017, n. 73.
[12] V. Ciaccio, I vaccini obbligatori al vaglio di costituzionalità. Riflessioni a margine di Corte cost., sent. n. 5 del 2018, in Giurisprudenza costituzionale, 2018, 1.
[13] Peraltro, il dato secondo cui “nell’introduzione dei vaccini obbligatori la contagiosità non costituisce una condizione sempre indefettibile” è evidenziato, con riguardo al caso della vaccinazione per il tetano, da V. De Santis, Dalla necessità dell’obbligo vaccinale alla realtà del green pass, in Nomos – Le attualità del diritto, 2021, 3.
[14] Sulla “struttura duale” dell’articolo 32 della Costituzione, L. Longhi, I trattamenti sanitari obbligatori costituzionalmente orientati tra proporzionalità e solidarietà, in Rassegna di diritto pubblico europeo, 2021, 1. Nella vasta bibliografia sul tema, si rinvia ampiamente a: R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, Torino, 2007; M. Cocconi, Il diritto alla tutela della salute, Padova, 1998; M. Luciani, Salute (ad vocem), in Enciclopedia Giuridica, XXVII, Roma, 1991, 4; B. Pezzini, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Diritto e società, 1983; C. Mortati, La tutela della salute nella Costituzione italiana, in Rivista degli infortuni e delle malattie professionali, 1961.
[15] F. Grandi, L’art. 32 nella pandemia: sbilanciamento di un diritto o “recrudescenza” di un dovere?, in Costituzionalismo.it, 2021, 1.
[16] D. Zanoni, Razionalità scientifica e ragionevolezza giuridica a confronto in materia di trattamenti sanitari obbligatori, in Costituzionalismo.it, 2020, 1.
[17] La circostanza per cui la proporzionalità, elemento essenziale dell’approccio precauzionale, trova un diverso punto di equilibrio a seconda del contesto nel quale vengono assunte le misure precauzionali è rilevata con attenzione da F. Scalia, Principio di precauzione e ragionevole bilanciamento dei diritti nello stato di emergenza, in Federalismi.it, 2020, 32.
[18] In questo senso, A. Patanè, La costituzionalità dell’obbligo vaccinale all’interno del difficile equilibrio tra tutele e vincoli nello svolgimento dell’attività lavorativa, in Lavoro Diritti Europa, 2021, 2.
[19] Per un approfondimento, K. Mascia, Prestazione del consenso informato in ambito di vaccinazioni obbligatorie, in Danno e responsabilità, 2019, 5.
[20] Sulla vaccinazione come onere e non obbligo a carico del personale sanitario, C. Pisani, La disciplina della sospensione del lavoratori non vaccinati, in Giurisprudenza italiana, 2, 2022: “non si tratta di violare la libertà del lavoratore-cittadino di non vaccinarsi, bensì di prendere atto che la persona non può sdoppiarsi, sicché inevitabilmente alcune sue vicende o scelte della sua vita privata possono incidere negativamente sul rapporto di lavoro, sia per quanto riguarda il funzionamento dell’organizzazione, sia per quanto riguarda i requisiti soggettivi del lavoratore stesso”.
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