ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Cassazione disconosce la scientificità della c.d. sindrome da alienazione parentale. Commento a Cass. Civ. 24 marzo 2022 n. 9691
di Ilaria Boiano
Con l’ordinanza n. 9691 del 24 marzo 2022 la Suprema Corte ha annullato la decisione di decadenza dalla responsabilità genitoriale sul figlio minore e di trasferimento del bambino in casa-famiglia, pronunciata dal Tribunale per i minorenni di Roma e confermata dalla Corte di appello nei confronti di una donna che da anni ormai insieme al figlio minorenne vive nella paura di provvedimenti ablativi a causa dell’operatività indisturbata nei procedimenti affrontati del costrutto ascientifico dell’alienazione parentale e di tutti i suoi derivati, che agisce come espediente giudiziario per limitare fino a recidere la genitorialità delle donne.
Questo contributo, dopo una breve panoramica della motivazione dell’ordinanza del 24 marzo 2022, n. 9691, non intende ripercorrere norme, giurisprudenza o dottrina, ma nello spirito perseguito da Giustizia Insieme di promozione del confronto tra magistratura, avvocatura, studiosi del diritto e società civile quale pratica irrinunciabile, intende condividere un’esperienza.
In questo momento in cui una nuova riforma in materia è ormai quasi integralmente operativa e la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e ogni forma di violenza nei confronti delle donne documenta la grave vittimizzazione di donne e figli nei giudizi in tema di responsabilità genitoriale, ritengo necessario porre delle domande per l’avvio di un percorso di autentica autocritica del diritto delle relazioni familiari così come oggi in concreto è praticato all’interno delle aule giudiziarie, asservito a logiche corporativiste che piegano il concetto del “superiore interesse del minore” tenendo ben presente che leggi e giurisprudenza devono confrontarsi con la vita delle singolarità concrete soggette non solo all’autorità giudiziaria, ma anche a un’assistenza legale spesso spregiudicata e ad altre discipline che hanno invaso il diritto.
Un tentativo questo motivato dall’auspicio della riscoperta di un umanesimo giuridico di cui poche tracce si intravedono, paradossalmente, proprio nella pratica giudiziaria che del “troppo umano” è chiamata a occuparsi. Le domande poste non troveranno di certo risposte esaustive, ma solo tentativi di riflessioni che partono dall’esperienza, storica fonte del diritto che merita oggi di vedersi restituita dignità.
Sommario: 1. I principi di diritto affermati dall’ordinanza n. 9691/2022 - 2. Qual è l’impatto della “cattiva scienza” e del “cattivi scienziati” sul diritto delle relazioni familiari? - 3. Quale rapporto tra Stato e società è sotteso a una giurisprudenza di merito che impone la relazione paterna con l’uso della coercizione fisica?
1. I principi di diritto affermati dall’ordinanza n. 9691/2022
Il provvedimento in commento interviene nel contesto di una vicenda familiare e processuale molto articolata, tuttavia sempre più comune dinanzi agli uffici giudiziari: una donna decideva di interrompere la relazione sentimentale con il compagno a causa di una dimensione di vita comune connotata da forme di controllo coercitivo che le rendevano la vita dolorosa, e chiedeva la regolamentazione dell’affidamento del figlio minore dinanzi al Tribunale ordinario.
Mentre la donna lamentava profili di inadeguatezza del padre, questi, attribuiva alla madre del bambino comportamenti ostativi all’esercizio della sua genitorialità avvalorati anche in sede di valutazione delle competenze genitoriali da parte di consulente tecnico d’ufficio.
Ogni richiesta di approfondimento sui comportamenti paterni posta dalla madre è stata negli anni sistematicamente ignorata oppure ritenuta pregiudizialmente indicativa di un’incapacità della stessa di garantire l’accesso del figlio al padre.
Come sempre più spesso accade su indicazione dell’avvocatura, il padre giungeva a richiedere al Tribunale per i minorenni la decadenza della responsabilità genitoriale della donna solo sulla base di presunti ostacoli materni alla sua paternità e il conseguente collocamento del figlio in una struttura extrafamiliare.
Il tribunale per i minorenni di Roma, dopo una prima decisione di allontanamento del minore e suo collocamento presso il padre con educatore domiciliare permanente poi annullato dalla Corte di appello di Roma nel gennaio 2020, pronunciava la decadenza della responsabilità genitoriale della signora e il collocamento extrafamiliare del minore, ciò senza ascoltare la sua volontà.
La Suprema Corte, annullando suddetta decisione confermata dalla Corte di appello di Roma nel luglio 2021, ha ribadito la necessità di un bilanciamento nell’individuare le misure da adottare nei giudizi riguardanti la responsabilità genitoriale e la tutela della cosiddetta bigenitorialità tra il risultato atteso e l’impatto delle misure sul complessivo equilibrio psicofisico dei minori, in un’accezione del superiore interesse del minore che sia in concreto declinata a partire dalla prospettiva dei bambini e delle bambine e non già nella cornice rivendicatoria degli adulti, come già chiarito nel medesimo caso dalla Corte di appello di Roma con ordinanza n. 2 del 2020 che annullava una prima volta l’allontanamento del minore dalla madre.
La sezione I civile ha cassato, inoltre, la decisione della Corte di appello di Roma poiché, scrivono gli Ermellini, ha inteso realizzare il diritto alla bigenitorialità rimuovendo la figura genitoriale della madre e ciò sulla base di apodittiche motivazioni che richiamano le consulenze tecniche svolte nel corso del procedimento, tutte improntate alla cornice dell’alienazione parentale, nonostante la stessa sia notoriamente un costrutto ascientifico.
La Suprema Corte evidenzia ancora una volta, sulla scorta dell’apparato motivazionale dell’ordinanza del 17 maggio 2021, n. 13217, che “il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre”. Il collegio osserva, inoltre, che il diritto alla bigenitorialità così come ogni decisione assunta per realizzarlo non può rispondere a formula astratta “nell’assoluta indifferenza in ordine alle conseguenze sulla vita del minore, privato ex abrupto del riferimento alla figura materna con la quale, nel caso concreto, come emerge inequivocabilmente dagli atti, ha sempre convissuto felicemente, coltivando serenamente i propri interessi di bambino, e frequentando proficuamente la scuola”.
La Corte Suprema rileva ancora che l’autorità giudiziaria di merito ha del tutto omesso di considerare quali potrebbero essere le ripercussioni sulla vita e sulla salute del minore di una brusca e definitiva sottrazione dello stesso dalla relazione familiare con la madre, con la lacerazione di ogni consuetudine di vita, ignorando così che la bigenitorialità è, anzitutto, un diritto del minore.
L’interesse superiore del minore non può essere declinato a partire da diritti di terzi, neppure se tra questi vi sia il genitore che chiede di vedersi garantire la relazione che assume pretermessa, dal momento che “l’interprete è chiamato, dunque, ad una delicata interpretazione ermeneutica di bilanciamento la cui specialità consiste nel predicare in ogni caso la preminenza del diritto del minore e la recessività dei diritti che con esso possano collidere” (Cass., 24 marzo 2022, n. 9691).
L’autorità giudiziaria, di conseguenza, non potrà prescindere da una valutazione che declini il superiore interesse del minore secondo tre distinte accezioni che la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ratificata dall’Italia con l. n. 176/91, codifica in modo preciso ponendole tra loro strettamente collegate. Anzitutto, ricorda la Suprema Corte, il superiore interesse del minore “esprime un diritto sostanziale, cioè il diritto del minorenne a che il proprio superiore interesse sia valutato e considerato preminente quando si prendono in considerazione interessi diversi, al fine di raggiungere una decisione sulla problematica in questione, e la garanzia che tale diritto sarà attuato ogni qualvolta sia necessaria una decisione riguardante un minorenne, un gruppo di minorenni identificati o non identificati, o minorenni in generale”. Inoltre, il miglior interesse del minore configura un principio giuridico interpretativo fondamentale e di conseguenza, sottolinea la Corte di cassazione, laddove una disposizione di legge risulti “aperta a a più di un’interpretazione si dovrebbe scegliere l’interpretazione che corrisponde nel modo più efficace al superiore interesse del minore”.
Da ciò discende anche una regola procedurale che la Corte di cassazione individua nell’attenta verifica e valutazione rigorosa dell’impatto positivo o negativo della decisione sul minorenne o sui minorenni in questione, valorizzando in ogni caso il miglior interesse del minore con prevalenza su altri diritti la cui attuazione possa, seppur parzialmente e indirettamente, comprimerlo.
La Cassazione, inoltre, ritiene nullo il provvedimento dell’autorità giudiziaria di merito per non avere proceduto all’ascolto del minore, adempimento a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo. Gli Ermellini ribadiscono sul punto che “in tema di affidamento dei figli minori l'ascolto del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, atteso che è espressamente destinato a raccogliere le sue opinioni e a valutare i suoi bisogni”.
La Corte precisa, inoltre, che “tale adempimento non può essere sostituito dalle risultanze di una consulenza tecnica di ufficio, la quale adempie alla diversa esigenza di fornire al giudice altri strumenti di valutazione per individuare la soluzione più confacente al suo interesse”.
La Suprema Corte, infine, interviene a chiarire che l’esecuzione con la forza dell’allontanamento dei bambini e delle bambine da un genitore contro la loro volontà e in assenza di concreto pregiudizio è da ritenersi fuori dai principi dello Stato di diritto: ciò vuol dire non che occorre una legge per disciplinare modalità di esecuzione di allontanamenti coercitivi a danno dei minori di età dai genitori di riferimento, bensì che la pratica è in sé estranea all’ordinamento stesso per la sua portata violenta e autoritaria.
2. Qual è l’impatto della “cattiva scienza” e del “cattivi scienziati” sul diritto delle relazioni familiari?
Come approfondito ormai da anni (tra i vari CAPRIOLI, La scienza "cattiva maestra": le insidie della prova scientifica nel processo penale, Cass. pen., fasc.9, 2008, pag. 3520), le scienze posso costituire un alleato per l’attività giudiziaria, ma spesso con insidie e inganni, come “un compagno di viaggio che può anche condurre il processo in una direzione sbagliata” e che pone dubbi sulle garanzie dell'affidabilità e dell'attendibilità delle risorse tecnico-scientifiche utilizzate nel processo.
Come possono il giudice e le parti «esercitare un controllo effettivo su un'attività probatoria [...] in cui un esperto impiega conoscenze che essi non posseggono» (DOMINIONI, La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Giuffrè, 2005, p. 68 ss.). La dottrina, ragionando sull’ingresso della prova scientifica nel processo penale, indica sullo sfondo di tale questione non solo un tema di giustificazione razionale delle decisioni del giudice (l’autore si riferisce a quello penale, ma l’argomentazione ben si adatta a quello civile e minorile) – ma anche di responsabilità del giudicante, giungendo a denunciare il rischio di gravi distorsioni della giustizia, dal momento che “il processo deciso da un responso peritale indecifrabile e insuscettibile di controllo da parte del giudice è un processo che assomiglia pericolosamente agli antichi riti ordalici”( FOCARDI, La consulenza tecnica extraperitale delle parti private, Cedam, 2003, p.14).
La funzione giurisdizionale torna ad assumere contorni irrazionalistici e superstiziosi: il giudice sfugge alle sue responsabilità per affidarsi nuovamente a qualcosa che si colloca sopra la stessa autorità giudiziaria, la sovrasta ammantandosi di oggettività che, come noto, neppure la scienza “dura” assicura (GIORELLO, Di nessuna chiesa, Raffaello Cortina Editore, 2005, p. 11 s.).
La scienza può rappresentare una "cattiva maestra" del giudice per tre diverse ragioni e in tre diverse circostanze: 1) quando è cattiva scienza, cioè quando si vogliano impiegare nel processo strumenti tecnico-scientifici che non garantiscono in sé e per sé, a prescindere dall'applicazione buona o cattiva che se ne faccia nel caso concreto, un margine sufficiente di affidabilità e attendibilità; 2) quando è una buona scienza applicata male, cioè applicata, nel caso concreto, da cattivi scienziati (CENTONZE, Scienza "spazzatura" e scienza "corrotta" nelle attestazioni e valutazioni dei consulenti tecnici nel processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, p. 1237); 3) quando è una buona scienza correttamente applicata in sede processuale che viene, tuttavia, utilizzata in modo improprio o fuorviante dal giudice in sede di decisione.
Tenendo conto delle tre menzionate circostanze, la psicologia giuridica oggi all’opera senza controllo nei tribunali italiani in tema di valutazione della genitorialità nei procedimenti di affidamento dei figli e di responsabilità genitoriale si colloca proprio tra le cattive maestre (MERCER-DREW, Challenging Parental Alienation. New Directions for Professionals and Parents, Routledge, 2022), poiché quel poco che potrebbe salvarsi in una cornice di inaffidabilità e inattendibilità complessiva (cattiva scienza), è applicato da cattivi scienziati e comunque utilizzato in modo fuorviante dall’autorità giudiziaria.
Attraverso gli incarichi di consulenze tecniche sono veicolate, infatti, all’interno degli uffici giudiziari
attività profiling stereotipato e sessista dei genitori e i conflitti e i “problemi relazionali” nel nucleo familiare sono generalmente stabilizzati nella forma dell’alienazione genitoriale e delle sue più recenti declinazioni (conflitto di lealtà, rapporto simbiotico, sindrome della madre malevola, ecc.). Tutti costrutti questi veicolati dalle consulenze tecniche d’ufficio e recepiti dalla prosa giudiziaria di merito per fissare le problematiche delle relazioni familiari in un regime patologico, generalmente imputato alla madre, colpevole di ogni disfunzione, ancora di più se osa attivare gli strumenti di difesa contro la violenza nelle relazioni di intimità.
E all’esito di ciò, mentre si tacciono e mistificano i comportamenti violenti o comunque inadeguati dei padri, nonostante i tentativi dei minori coinvolti di rappresentare ai consulenti la loro esperienza dolorosa, si diagnosticano invece futuri e futuribili rischi psicopatologici per i minori alla luce di tratti della personalità e comportamenti mai tenuti dalle madri, ma frutto di una prognosi avulsa dai fatti, per lo più ancorata a interpretazioni e valutazioni sulla base delle quali suggeriscono al giudice percorsi di supporto che implicano il coinvolgimento di una pletora infinita di soggetti (terapia al minore, terapia genitoriale, educatori domiciliari, supporto parentale (parent child support, rigorosamente a pagamento), ma anche coordinatori genitoriali, fino a prospettare alle donne allontanamenti coattivi dei figli e collocamento in strutture extrafamiliari.
Un leit motiv che le donne si sentono ripetere nel corso delle consulenze è che “i fatti non contano”, peccato che stiamo parlando di professionisti che non operano nel loro studio privato in un contesto clinico e di libero affidamento del paziente, ma come ausiliari dell’autorità giudiziaria in un procedimento in cui invece proprio i fatti dovrebbero costituire la piattaforma di riferimento, poiché discostarsene implica anche responsabilità penali: omettere, come accade non di rado, di richiamare l’attenzione del giudicante su condotte di umiliazioni fisiche e psicologiche, urla, lanci di oggetti e danneggiamenti delle cose, percosse, è una condotta grave penalmente rilevante che dovrebbe determinare l’autorità giudiziaria procedente a non arrivare alla lettura delle conclusioni, per trasmettere senza indugio gli atti della consulenza alla Procura sia per la condotta commessa nei confronti del/della minore, sia per la condotta omissiva del consulente.
Il tutto avviene poi con la postura di chi detiene un potere pressoché illimitato: le donne che manifestano perplessità o sottopongono problematiche di sostenibilità dei percorsi imposti si sentono continuamente ripetere dai consulenti incaricati “il giudice fa quello che dico io, stia attenta”.
Peraltro, i fatti “non contano”, ma solo in modo selettivo: a titolo esemplificativo di tante conclusioni fotocopia contenute nelle relazioni “tecniche”, per spiegare la paura di una bambina a incontrare il padre non rileva se un padre l’ha afferrata per il collo così terrorizzandola, l’ha colpita con un pugno in un occhio, l’ha afferrata e lanciata con violenza sul divano (n.d.r. questo il racconto di una minore sentita nel corso di una consulenza tecnica dinanzi al Tribunale per i minorenni di Roma), mentre diviene centrale l’abbraccio della madre alla figlia al momento del passaggio presso il padre per desumere che l’unica responsabile del rifiuto della minore sia la madre. Con il suo gesto, infatti, secondo la logica e la scienza che guida gli “esperti” della bigenitorialità, la madre condizionerebbe la figlia causando la paura nei confronti del padre. Ed è la madre che dunque è chiamata a doversi mettere in discussione, per lo più in infiniti percorsi di supporto genitoriale che la espongono alle prepotenze mai sopite o sanzionate dell’altro genitore, mai posto dinanzi alle responsabilità (anche penali) delle sue condotte nei confronti della figlia.
Si coglie l’aporia di tutto quanto fin qui descritto se si traspone l’operazione che tante donne subiscono in sede civile e minorile al contesto penale: molte toghe sarebbero deposte in segno di protesta dinanzi a condanne pronunciate non sulla base delle prove dei fatti acquisite, ma esclusivamente sul profilo sociologico e di personalità dell’imputato. Operazione che ripugnerebbe al più moderato dei garantisti, e che peraltro è vietata dall’articolo 220 c.p.p. in quanto eredità del positivismo lombrosiano ripudiato dalla Costituzione e dalla cultura giuridica democratica.
Ancora, si pensi alla psicologia della testimonianza: nel momento in cui si riconoscesse che valutare le deposizioni testimoniali è da ritenersi affare squisitamente "scientifico" (DOMINIONI, La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Giuffrè, 2005, p. 73), il giudice non potrebbe astenersi dal disporre perizia, perdendo la capacità di misurarsi con il completo percorso valutativo cui è chiamato dinanzi alle prove testimoniali. È questa la direzione verso la quale la psicologia forense sta facendo pressioni e la riflessione sul prezzo di questa operazione sul processo penale e i suoi capisaldi non è più procrastinabile: il principale effetto della linea di tendenza fin qui tracciata è il progressivo assottigliarsi del "senso comune" (CANZIO, Prova scientifica, ricerca della "verità" e decisione giudiziaria nel processo penale, in AA.VV., Decisione giudiziaria e verità scientifica, cit., p. 71)- cioè del repertorio di conoscenze empiriche umane - come serbatoio delle regole di inferenza da utilizzare nel ragionamento probatorio. Il fenomeno assume talora dimensioni preoccupanti: lo spostamento della linea di confine tra il sapere comune e il sapere specialistico rischia di sottrarre all'organo giudicante competenze valutative e decisionali che riesce difficile non considerare appartenenti al suo esclusivo dominio in ragione dei principi costituzionali che governano l’esercizio della giurisdizione.
È altresì richiesto dai giudici ai consulenti di indicare le modalità di affidamento più adeguate, di indicare professionisti e strutture dove attivare eventuali percorsi ritenuti necessari, spesso private e a pagamento, al di fuori del sistema sanitario nazionale che, ricordiamo, non significa solo gratuità o progressività dei costi da sostenere in base al reddito, ma anche controllo della scientificità degli interventi cui le persone sono sottoposte.
I consulenti in autonomia o sulla base di quesiti concordati con gli ordini professionali nel corso delle operazioni di consulenza si pongono oltre la funzione valutativa del loro intervento perseguendo finalità trasformative dello status quo, ossia delle relazioni familiari.
Per cogliere l’abnormità di questa dimensione dell’incarico conferito ai consulenti in tema di genitorialità, ancora una volta è necessario spostarsi con il ragionamento in altro contesto: tecnicamente è come se al consulente tecnico incaricato di accertare le cause del crollo di un ponte si delegasse tanto l’accertamento della sussistenza dei presupposti giuridici per decidere sulla responsabilità civile delle parti convenute nel giudizio, quanto l’intervento necessario alla sua riparazione o si autorizzassero i consulenti a indicare ingegneri, architetti e operai cui affidare la ricostruzione, costringendo le parti (per esempio il Comune insieme alla società responsabile della gestione del tratto di strada), ad avvalersi del personale indicato con minacce di perdita rispettivamente della natura di ente locale e della possibilità di continuare a gestire il tratto di strada una volta ricostruito il ponte.
3. Quale rapporto tra Stato e società è sotteso a una giurisprudenza di merito che impone la relazione paterna con l’uso della coercizione fisica?
Nella pratica giudiziaria ancora si ritiene di tutelare astrattamente una bigenitorialità intesa quale componente imprescindibile del superiore interesse dei minori e condizione del loro equilibrio psicofisico, per tradursi, in concreto, nella sola verifica del materiale “accesso” di un genitore ai figli (per lo più il padre), in un contesto nel quale l’altro genitore (di solito la madre) ha chiesto protezione per sé e/o i figli da condotte di violenza psicologica e/o fisica del padre ovvero nel caso in cui i figli manifestino disagio, fino al totale rifiuto di incontrare l’altro genitore.
Il rifiuto o disagio dei minori non viene approfondito ricorrendo agli ordinari mezzi di prova e al loro ascolto diretto per indagare gli eventi traumatici riconducibili al genitore nei confronti del quale il minore esprime una paura tale da precludere una frequentazione serena.
Per porre rimedio ai danni che deriverebbero, secondo la prospettiva veicolata dalla psicologia forense in sede giudiziaria, da una società “senza padre” e quindi senza “norma”, si prescrive l’intervento di servizi sociali, consulenti di coppia, psicoterapeuti, figure che nello svolgimento delle funzioni di volta in volta delegate dall’autorità giudiziaria, costruiscono nuovi obblighi, presidiati non dalla legge, ma proprio dalla paura di vedere allontanato da sé i figli/le figlie, che da strumento eccezionale di prevenzione di un pregiudizio concreto e grave, diviene ordinario mezzo di coercizione e sanzione del comportamento di un genitore che si assume non collaborativo nei confronti dell’altro, (per lo più le donne) e di “terapia” volta a ristabilire la relazione tra i figli e il genitore rifiutato.
Ebbene, in questi termini, si ingenera un paradosso che smaschera la completa estraneità all’ordinamento giuridico della prospettiva perseguita dalla giurisprudenza di merito: mentre un minore viene ridotto sempre più spesso a res di un’esecuzione assistita dalla forza pubblica, con autorizzazione a rimuovere ogni ostacolo all’esecuzione dei provvedimenti[1], nei confronti degli adulti si chiarisce che la frequentazione del figlio secondo i tempi e le modalità definite dal giudice della crisi familiare non è suscettibile di esecuzione diretta (in forma specifica), perché non è ipotizzabile che un terzo estraneo possa sostituirsi al genitore. Trattandosi, infatti, di un dovere funzionale allo scopo di garantire al figlio attenzioni, cura ed affetto, non è ipotizzabile, e giustamente, che il genitore possa essere coartato, mediante il meccanismo di cui all’art. 614 bis c.p.c., ad un rapporto che implica un coinvolgimento anche affettivo; si ritiene che la misura coercitiva potrebbe anzi essere finanche dannosa perché il genitore, per sottrarsi alla minaccia di dover pagare una somma di denaro, potrebbe prendere il figlio con sé senza averne cura[2].
La misura dell’allontanamento forzoso dei minori dal genitore di riferimento si traduce nei confronti del minore proprio in una coercizione della relazione affettiva preclusa nei confronti dell’adulto, mentre si ignora la paura del minore nei confronti del genitore presso il quale deve essere trasferito contro la sua volontà o che comunque rifiuta, anche allorché questo stato d’animo rivela in concreto la non corrispondenza tra l’interesse preminente da tutelare e il provvedimento adottato[3].
Sul tema appare significativa risalente giurisprudenza che, dando prova di un esercizio della giurisdizione civile e minorile capace di ascolto autentico e di vicinanza alla materialità della vita delle persone, comprese i minori, sui quali i provvedimenti hanno effetto, in presenza di obbligo di consegna del minore contro la volontà di quest'ultimo, a fronte del rifiuto, decideva per la sospensione del processo rimettendo la questione al giudice della cognizione[4], ovvero ha dichiarato l'incoercibilità degli obblighi di fare riguardanti la consegna di minori, se risulti provato che la separazione dei minori dai precedenti affidatari di fatto provocherebbe loro danni gravissimi sul piano dell'equilibrio psicofisico[5].
L’allontanamento coatto del figlio dal genitore di riferimento è eseguito attualmente secondo prassi operative contra legem, come chiarito dalla Corte Suprema nell’ordinanza n. 9691/2022, che sono il risultato della combinazione sproporzionata di più istituti, da quelli del testo unico di pubblica sicurezza fino a quelli del codice di procedura penale, in un’escalation provvedimentale dell’autorità giudiziaria minorile che perde di vista il bambino/la bambina e i suoi diritti e libertà fondamentali, per perseguire esclusivamente la tutela dell’autorità delle decisioni giudiziarie e l'interesse all'esecuzione delle sentenze e dei provvedimenti con mezzi e modalità sproporzionate e irragionevoli non consentite neppure in sede di esecuzione della pena.
La compressione dei diritti fondamentali del minore perdura successivamente per un tempo non determinato dalla legge e neppure dall’autorità giudiziaria che, in presenza del rifiuto del minore nei confronti dell’altro genitore, integra l’allontanamento con la “misura accessoria” del collocamento in struttura residenza extra-familiare e con divieto, anche sine die, di frequentazione e contatto del genitore da cui sono allontanati, in una condizione di totale isolamento da tutto ciò che era parte della dimensione esistenziale pregressa, con una limitazione della libertà personale illegittima mascherata da “protezione del minore”, lasciato senza nessun’autentica opportunità di contatto con soggetti terzi rispetto a coloro che sono coinvolti nella definizione dell’intervento recepito dall’autorità giudiziaria e nell’attuazione stessa del provvedimento giudiziario.
La lettura sistematica delle disposizioni invocate dall’autorità giudiziaria per giustificare la decisione dell’allontanamento forzoso del minore dal genitore di riferimento contro la volontà del minore e per presunte condotte di plagio, in un ordinamento che ha espunto la corrispondente fattispecie incriminatrice per illegittimità costituzionale, restituisce una grave e diffusa compressione della libertà personale, del diritto alla salute e al rispetto della vita privata e familiare nei confronti dei figli minorenni, ma anche del genitore dal quale il minore viene allontanato, in particolare sotto il profilo di una sistematica violazione del principio di riserva di legge, ma anche una violazione di fatto della riserva di giurisdizione. Dalla disamina della giurisprudenza di merito più recente emerge, infatti, che l’allontanamento viene adottato al di fuori dei casi previsti dalla legge con un’interpretazione analogica della nozione di comportamento maltrattante nei confronti dei figli che la legge pone a fondamento dell’adozione della misura di allontanamento dalla casa familiare, includendovi il costrutto ascientifico dell’alienazione parentale. La misura, inoltre, è posta in esecuzione mediante una coercizione psicologica e fisica ai danni del minore, condotta che di per sé costituisce una forma di violenza che viola gli articoli 13 e 32 Cost. e l’articolo 3 CEDU.
L’esecuzione coatta nei confronti dei minori della misura dell’allontanamento dalla casa abituale di residenza e dal genitore di riferimento contro la volontà del minore, destinatario di coazione psicologica e fisica, integra violazione dell’articolo 3 CEDU, in quanto risulta raggiungere un livello severo di gravità all’esito della valutazione intrinsecamente relativa delle circostanze del caso.
Tra le circostanze oggetto di valutazione ai fini della sussistenza di una violazione dell’articolo 3 CEDU sono da intendersi compresi innanzitutto l’età del destinatario della misura, le sue condizioni psicofisiche, la natura e il contesto del trattamento, il modo in cui se ne prospetta l’esecuzione (con ausilio delle forze di polizia e coattivamente contro la volontà del minore), la sua durata (sine die), i suoi effetti fisici e mentali. Anche se le autorità che hanno disposto la misura giustificano l’esecuzione coatta di un allontanamento che terrorizza il bambino motivandola con la finalità di ristabilire l’accesso del padre al figlio in attuazione degli obblighi positivi derivanti dall’art. 8 CEDU, questa motivazione non esclude una violazione dell'articolo 3 nei confronti del minore coinvolto (si veda la sentenza Peers c. Grecia, no 28524/95, § 67, CEDH 2001-III, § 74, nella parte in cui si legge che non esclude la violazione dell’art. 3 l’assenza di finalità denigratorie). Non si può trascurare, inoltre, che la Corte di Strasburgo ha evidenziato che nei casi che riguardano questioni di collocamento dei bambini e di restrizioni di accesso, gli interessi del bambino devono prevalere su tutte le altre considerazioni[6] e deve essere esercitata la massima cautela quando si ricorre alla coercizione in questo settore delicato[7]. È la stessa Corte a rammentare che il fatto che gli sforzi delle autorità a ristabilire una relazione genitore-figlio siano stati vani non porta automaticamente a concludere che lo Stato si è sottratto agli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 della Convenzione, dal momento che l’obbligo per le autorità nazionali di adottare misure per riunire il figlio e il genitore con cui non convive non è assoluto, la comprensione e la cooperazione di tutte le persone interessate costituiscono sempre un fattore importante e i tribunali per ripristinare i rapporti genitore-figlio possono adottare solo misure "ragionevoli" agendo con la massima prudenza; dinanzi alla volontà di un minore, quest’ultimo non può essere costretto con la forza ad allacciare una relazione genitoriale che rifiuta e dinanzi a ciò non può essere invocata la violazione dell'art.8 della Convenzione EDU (cfr. C. EDU Spano c. Italia, 2020).
Di certo, inoltre, l’obbligo positivo derivante dall’articolo 8 CEDU non può tradursi nell’attuazione di misure che violano l’obbligo di astensione da trattamenti inumani e degradanti vietati dall’art. 3 CEDU. E infatti, se le autorità nazionali devono sforzarsi di agevolare la collaborazione, un obbligo per le stesse di ricorrere alla coercizione in materia non può che essere limitato: esse devono tenere conto degli interessi e dei diritti e delle libertà di tutte le persone coinvolte, in particolare degli interessi superiori del minore e dei diritti conferiti allo stesso dalla Convenzione[8]. In quest’ottica, l’asserito esercizio dell’articolo 8 della Convenzione non può autorizzare neppure un genitore a far adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del figlio[9].
Ciò che invece si rileva nelle prassi diffuse sul territorio è che i minori sono esposti a trattamenti inumani e degradanti al di fuori di ogni ragionevole bilanciamento delle posizioni giuridiche rilevanti ma contrapposte dei genitori con il loro superiore interesse, concetto che rimane vuota formula, dal momento che si ignora l’impatto delle misure disposte di volta in volta sul «benessere del bambino» di valenza costituzionale (articolo 32 Cost.), avvalendosi finanche dell’ausilio di personale medico-sanitario al di fuori dei rigorosi confini tracciati dalla legge n. 833 del 1978.
[1] Tribunale di Pisa, 8 giugno 2021; Tribunale per i minorenni di Roma, 4 giugno 2021; Tribunale per i minorenni di Roma, 26 luglio 2021. Ciò si traduce in concreto in dispiegamento di forze dell’ordine, ambulanza, vigili del fuoco, porte abbattute e immobilizzazione delle persone presenti e impossibilità di contatto alcuno, neppure un saluto di commiato tra figlio e genitore.
[2] Cass. 6 marzo 2020, n. 6471, in Foro it., fasc. 7, 2020.
[3] Sul punto Corte di appello di Roma, 3 gennaio 2021, n. 2: «non appare realistico presumere che la paura [del bambino], e la paura della madre che [il bambino] mostra di avere recepito, possano essere superate imponendo il suo allontanamento dalla sua casa e dai suoi affetti ed un collocamento coattivo in casa del padre. [il bambino] si troverebbe così […] incastrato nella duplice sofferenza di un drastico quanto per lui incomprensibile sradicamento dal proprio ambiente e dai propri affetti, e di una esposizione forzosa ad una situazione per lui fonte di ansia e paura e comunque estranea».
[4] Pret. Parma 3 aprile 1984, in Giur. mer., 1985, 1100, con nota di L. Oddiz, L'esecuzione coattiva ex art. 612 c.p.c.
[5] Pret. Palermo 16 aprile 1987, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 1988, 1057,
[6] Strand Lobben e altri c. Norvegia [GC], no. 37283/13, § 204, 10 settembre 2019)
[7] Mitrova e Savik c. ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, n. 42534/09, § 77, 11 febbraio 2016, e Reigado Ramos c. Portogallo, n. 73229/01, § 53, 22 novembre 2005
[8] Voleský c. Repubblica ceca, n. 63267/00, § 118, 29 giugno 2004.
[9] Elsholz c. Germania [GC], n. 25735/94, §§ 49 50, CEDU 2000 VIII.
Il necessario contraddittorio col privato nell’esercizio dei poteri discrezionali: l’efficacia invalidante del preavviso di rigetto (nota a Cons. St., Sez. II, 14 marzo 2022, n. 1790)
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Una breve premessa: l’efficacia invalidante dell’omesso invio del preavviso di rigetto. – 2. Il caso di specie. – 3. La disciplina del preavviso di rigetto alla luce del d.l. n. 76/2020. – 4. La categoria dei vizi non invalidanti: le due diverse ipotesi dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990. – 5. I dicta della sentenza: l’efficacia invalidante dell’omesso preavviso di rigetto e il carattere processuale dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990. – 6. Alcune brevi considerazioni conclusive.
1. Una breve premessa: l'efficacia invalidante dell'omesso invio del preavviso di rigetto.
La sentenza si inserisce nell’ambito della problematica relativa all’annullabilità del provvedimento adottato in assenza del dovuto preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis, l. n. 241/1990. Antecedentemente alla riforma dell’art. 10-bis ad opera del d.l. n. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni), si discuteva se, in caso di omissione dell’invio di tale comunicazione, il provvedimento così adottato dovesse considerarsi ex se illegittimo o se residuasse uno spazio di applicazione del disposto dell’art. 21-octies, comma 2, prevedente la disciplina dei c.d. vizi non invalidanti. Più precisamente la giurisprudenza si interrogava sulla possibilità di assimilare il preavviso di rigetto alla comunicazione di avvio del procedimento ai fini dell’applicazione della seconda parte della succitata disposizione, secondo la quale il provvedimento amministrativo non è (comunque) annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. A risolvere tale contrasto è intervenuto il citato d.l. n. 76/2020, il quale ha precisato che «La disposizione di cui al secondo periodo [dell’art. 21-octies, comma 2] non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis». La pronuncia in commento, recettiva di tale nuovo regime differenziato del preavviso di rigetto in termini di efficacia invalidante, contiene anche delle interessanti precisazioni sulla natura della modificata normativa, che viene ritenuta applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento.
2. Il caso di specie.
La sentenza in commento origina dal complesso svolgimento di un provvedimento disciplinare a carico di un carabiniere condannato in sede penale per il reato di detenzione e spaccio di sostanza stupefacente. La sanzione della perdita del grado veniva annullata per ben due volte prima di essere ritenuta legittima dal competente Tribunale Amministrativo Regionale. Una volta intervenuta la riabilitazione, il carabiniere chiedeva di essere reintegrato in servizio e, in mancanza di una risposta da parte dell’amministrazione, presentava un nuovo ricorso al T.A.R. per l’accertamento dell’obbligo di provvedere sulla sua istanza. Nelle more della definizione del giudizio avverso il silenzio, l’amministrazione resistente respingeva l’istanza di reintegrazione in servizio per la gravità dei fatti commessi e il pregiudizio arrecato all’Arma dei Carabinieri. Avverso tale provvedimento (e avverso i pareri presupposti) veniva proposto ricorso per motivi aggiunti nell’ambito del quale, tra i motivi dedotti, veniva eccepita la violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241/1990 per la mancata comunicazione del preavviso di rigetto. Il giudice di prime cure, però, non accoglieva le censure proposte dal ricorrente che, a questo punto, le reiterava in appello per contestare l’illegittimità della sentenza di primo grado. Il Consiglio di Stato, investito della questione, ha capovolto la sentenza del giudice di prime cure ritenendo l’appello fondato limitatamente al motivo relativo alla violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241/1990.
3. La disciplina del preavviso di rigetto alla luce del d.l. n. 76/2020.
La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza è un istituto di partecipazione procedimentale introdotto nella legge sul procedimento amministrativo dall’art. 6, l. n. 15/2005, che ha introdotto l’art. 10-bis nella l. n. 241/1990, poi modificato dalla l. n. 180/2011 e da ultimo riformato in maniera significativa dal d.l. n. 76/2020, convertito in l. n. 120/2020[1].
L’istituto è stato ribattezzato da dottrina e giurisprudenza “preavviso di diniego” o “preavviso di rigetto”[2] e prevede l’obbligo per la pubblica amministrazione, prima di respingere l’istanza presentata da un privato, di indicare allo stesso i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza presentata, ai fini di concedere all’interessato un termine di dieci giorni per presentare le proprie osservazioni (eventualmente corredate da documenti) che andranno valutate dalla pubblica amministrazione, la quale dovrà indicare le ragioni dell’eventuale mancato accoglimento delle stesse nel provvedimento finale (ragioni tra le quali non possono rientrare inadempienze o ritardi attribuibili alla pubblica amministrazione). Il preavviso di rigetto non si applica alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali[3].
Con il d.l. n. 76/2020 (così come convertito dalla l. n. 120/2020)[4], l’istituto ha subito un’incisiva rivisitazione che si può riassumere in quattro modifiche[5].
La prima modifica consiste nel mutamento degli effetti della comunicazione sulla possibile durata del procedimento, poiché la stessa diviene definita come causa di “sospensione” e non di “interruzione” del termine di conclusione del procedimento, che riprende a decorrere una volta presentate le osservazioni (o decorso il termine di dieci giorni per proporle) nella misura pari a quella residua[6].
La seconda modifica riguarda l’intensità dell’obbligo motivazionale sulle osservazioni presentate dai privati in riscontro al preavviso di rigetto. Nella nuova formulazione della disposizione è stato specificato in modo più puntuale che la pubblica amministrazione “è tenuta” a spiegare quali sono le motivazioni che hanno portato a non accogliere le osservazioni presentate (confermando il diniego) indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza di tali osservazioni[7].
Il terzo aspetto inciso dalla riforma riguarda i limiti che il preavviso di rigetto può imporre nei confronti della riedizione del potere a seguito di annullamento in giudizio del provvedimento adottato in assenza della comunicazione di cui all’art. 10-bis. Il legislatore, infatti, inserendo ex novo un periodo nel corpo della disposizione, prevede che, nel caso in cui un provvedimento preceduto dal preavviso di rigetto sia annullato in giudizio, la pubblica amministrazione a cui spetti il riesercizio del potere, non possa addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del procedimento annullato. La pubblica amministrazione, pertanto, nell’adottare il nuovo provvedimento sarà limitata sia dalla sentenza giurisdizionale di annullamento, che dagli elementi di fatto e di diritto relativi alla prima istruttoria ed emergenti nel preavviso di rigetto[8].
La quarta modifica concerne l’efficacia invalidante dell’omessa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, per effetto della quale, alla fine della disposizione dell’art. 10-bis, è stata aggiunta la specificazione che il secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2 non si applica al provvedimento adottato in violazione della normativa sul preavviso di rigetto. Per un’adeguata comprensione di detta modifica, che riguarda specificamente la sentenza in commento e sulla quale si ritornerà appresso, pare opportuno fornire preliminarmente qualche breve cenno sulla disciplina dell’art. 21-octies, comma 2 e sulla categoria dei c.d. vizi non invalidanti.
4. La categoria dei vizi non invalidanti: le due diverse ipotesi dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990.
Con l’espressione “vizi non invalidanti” si intendono quei vizi formali che, a determinate condizioni, non comportano l’annullamento del provvedimento illegittimo[9]. Essi costituiscono l’espressione del c.d. principio della dequotazione dei vizi procedimentali, secondo il quale un provvedimento affetto da un vizio di forma o del procedimento non deve essere annullato quando il vizio non influisca sul contenuto dispositivo del provvedimento.
La categoria dei vizi formali del procedimento ha trovato una sua prima codificazione con l’emanazione del correttivo del 2005 alla legge sul procedimento amministrativo e precisamente con l’introduzione dell’art. 21-octies, comma 2 dell’art. 241/1990, che ha introdotto due diverse tipologie di provvedimenti sottratti alla sanzione dell’annullamento: a) il provvedimento vincolato affetto da vizi procedimentali o formali (primo periodo); b) il provvedimento viziato da omessa comunicazione di avvio del procedimento (secondo periodo)[10].
L’ipotesi di cui al primo periodo si applica solo ai provvedimenti vincolati, concerne tutti i vizi formali e procedimentali e il fatto che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso deve essere palese; l’ipotesi di cui al secondo periodo si applica sia ai provvedimenti vincolati che discrezionali, concerne il solo vizio dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento e il fatto che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso deve essere dimostrato in giudizio dalla pubblica amministrazione[11].
Il legislatore, con l’art. 21-octies, sembra aver recepito il criterio del mancato interesse a ricorrere: il privato non ha interesse a far valere un vizio che non ha influito sul contenuto dispositivo del provvedimento in quanto la vittoria che otterrebbe attraverso la caducazione di quell’atto sarebbe una “vittoria di Pirro”, ossia apparente e meramente provvisoria poiché l’amministrazione potrebbe riadottare un atto emendato dal vizio procedimentale e dello stesso contenuto di quello annullato[12].
Più di recente la norma è stata completata con l’aggiunta di cui all’art. 12, lett. i) del d.l. n. 76/2020 (convertito in legge n. 120/2020) che ha aggiunto, in coda al secondo periodo, la specificazione che «La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis». Viene così risolto, per via legislativa, il dibattito giurisprudenziale, precedentemente insorto, in merito all’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) al caso dell’omesso invio della comunicazione del preavviso di rigetto[13].
5. I dicta della sentenza: l’efficacia invalidante dell’omesso preavviso di rigetto e il carattere processuale dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990.
La sentenza in commento costituisce un’applicazione della modifica legislativa apportata con il d.l. n. 76/2020 e si pone in contraddizione col prevalente orientamento giurisprudenziale che, prima di tale modifica, ammetteva l’estensione dell’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) anche all’omessa comunicazione del preavviso di rigetto[14].
Secondo il Collegio, infatti, con la succitata riforma è stata esplicitata una netta distinzione tra il regime giuridico da applicare al caso di omissione della comunicazione di avvio del procedimento e quello di omissione del preavviso di rigetto per i procedimenti ad istanza di parte. Mentre nel caso di omissione della comunicazione di cui all’art. 7 si potrà applicare l’ipotesi di cui al secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, nel caso di omissione della comunicazione di cui all’art. 10-bis, potrà trovare applicazione solo la prima parte dell’art. 21-octies, comma 2, che concerne i vizi formali e procedimentali relativi ai soli provvedimenti vincolati.
Per verificare l’efficacia invalidante (o meno) dell’omissione del preavviso di rigetto, pertanto, dopo la riforma risulta centrale la verifica della sussistenza di un potere discrezionale, in presenza del quale non sono applicabili i meccanismi di possibile “sanatoria processuale” previsti per la violazione delle norme sul procedimento dall’art. 21-octies, comma 2, in caso di mancato invio del preavviso di rigetto[15].
Nel caso di specie viene affermata la pacifica natura discrezionale del potere esercitato, attraverso il richiamo di quella giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale sussiste una discrezionalità valutativa dell’amministrazione militare che emana provvedimenti sanzionatori nelle ipotesi di perdita del grado a seguito di condanna senza procedimento disciplinare[16].
Il Collegio, infine, richiama anche quella giurisprudenza secondo la quale la disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, andrebbe qualificata come norma di carattere processuale[17]. La stessa, pertanto, deve essere applicata anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento (in base al principio del tempus regit actum) e, dunque, anche ai procedimenti antecedenti alla sua entrata in vigore, come quello che interessa il caso di specie, ove, nel caso di omissione del preavviso di rigetto, resta preclusa all’amministrazione la possibilità di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato[18].
6. Alcune brevi considerazioni conclusive.
A prescindere dalla condivisibilità o meno dell’intervento normativo di riforma dell’art. 21-octies, comma 2, si deve rilevare come la pronuncia in commento sia coerente con la vigente formulazione della norma che non sembra lasciare spazio a interpretazioni estensive, per effetto delle quali il secondo periodo del succitato comma 2 sarebbe applicabile anche al caso di omesso invio della comunicazione di cui all’art. 10-bis. A tale omissione – che va pacificamente qualificata come una violazione di “norme sul procedimento” – rimane, invece, applicabile il primo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, la cui applicazione è limitata ai provvedimenti vincolati[19].
Per verificare se l’omesso invio del preavviso di rigetto sia da considerarsi un vizio invalidante o meno, pertanto, in primo luogo occorrerà indagare se il potere esercitato possa considerarsi discrezionale e, in secondo luogo, sarà necessario verificare se sussistono gli altri requisiti per l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, che è l’unica norma in grado di “sanare” detto vizio.
In caso contrario, ossia in caso di annullamento del provvedimento per la mancanza del preavviso di rigetto, la pubblica amministrazione sarà “libera” di riesercitare il suo potere nei limiti del principio del c.d. one shot temperato e nel rispetto dell’eventuale effetto conformativo desumibile dalla sentenza di annullamento del primo provvedimento.
La sentenza in commento è di sicuro interesse anche nella parte in cui afferma la natura processuale dell’art. 21-octies, comma 2, poiché, inserendosi senza soluzione di continuità nel solco della prevalente giurisprudenza sul punto, consente di definire in senso ampliativo il perimetro applicativo della disposizione nella sua attuale formulazione[20].
Sul punto, però, non appare destituita di fondamento l’impostazione di chi valorizza la natura sostanziale dell’istituto, richiamando il disposto dell’art. 21-nonies, comma 1, il quale vieta alla pubblica amministrazione di annullare il provvedimento amministrativo nei casi previsti dall’art. 21-octies, comma 2, dando un’evidente rilevanza extra-processuale alla norma[21].
Nella consapevolezza che il dibattito sulla natura giuridica dell’art. 21-octies, comma 2 riguarda entrambe le ipotesi in esso contenute, a parere di chi scrive, si potrebbe provare a ipotizzare una distinzione tra i due diversi periodi del comma 2[22]. Se, infatti, il secondo periodo ha un carattere marcatamente processuale, dato che la non annullabilità del provvedimento è condizionata dalla dimostrazione “in giudizio” del fatto che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, altrettanto non può dirsi per il primo periodo dove la non annullabilità per vizi formali è correlata alla circostanza che “sia palese” che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso[23].
[1] Tra i tanti contributi relativi all’art. 10-bis, l. n. 241/1990 si vedano: L. FERRARA, La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (art. 10 bis, legge n. 241/1990) nel riformato quadro delle garanzie procedimentali, in AA.VV., Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, 2007, vol. II, 83 ss.; A. RALLO, Comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10 bis l. 241/90 e partecipazione post-decisionale: dal contraddittorio oppositivo al dialogo sul possibile, in AA.VV., Scritti in onore di V. Spagnuolo Vigorita, Napoli, 2007, vol. II, 1080 ss.; E. FREDIANI, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al “preavviso di rigetto”, in Dir. amm., 2005, 1003 ss.; S. TARULLO, L’art.10-bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, in www.giustamm.it., 2005; E. FREDIANI, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al preavviso di rigetto, in Dir. amm., 2005, p. 1005 ss.; C. VIDETTA, Note a margine del nuovo art. 10 bis della l. n. 241 del 1990, in Foro amm. TAR, 2006, p. 837 ss.; S. FANTINI, Il preavviso di rigetto come garanzia "essenziale" del cittadino e come norma sul procedimento, in Urb. app., 2007, p. 1388 ss.; F. SAITTA, Preavviso di rigetto ed atti di conferma: l’errore sta nella premessa, in Foro amm. TAR, 2008, 3235 ss.; F. TRIMARCHI BANFI, L’istruttoria procedimentale dopo l’articolo 10-bis della legge sul procedimento amministrativo, in Dir. amm., 2011, p. 353 ss.; P. LAZZARA, La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, in A. ROMANO (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, p. 386 ss.; G. TROPEA, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive ed approdi, in Dir. proc. amm., 2017, p. 1235 ss.; D. VAIANO, Il preavviso di rigetto, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 641 ss.; P. CHIRULLI, La partecipazione al procedimento (artt. 7, 8, 10-bis l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. SANDULLI (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2020, p. 291 ss.; M.R. SPASIANO, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, in Dir. econ., n. 2/2021, p. 25 ss.; M. BROCCA, Il preavviso di rigetto e la costruzione della decisione amministrativa (nota a Tar Campania, Napoli, sez. III, 7 gennaio 2021, n. 130), in Giustizia insieme, 25 febbraio 2021; M.R. CALDERARO, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, in www.federalismi.it, n. 12/2022, p. 126 ss.
[2] Secondo G. MILO, Il preavviso di diniego dopo la legge n. 11 settembre 2020 n. 120, in www.ambientediritto.it, n. 4/2020, è preferibile «utilizzare l’appellativo “preavviso di diniego” perché si tratta per l’amministrazione di valutare un’istanza in un procedimento amministrativo in cui vi è cura diretta dei diversi interessi pubblici, mentre normalmente il termine “rigetto” si utilizza quando si tratta di accogliere o rigettare un ricorso in un procedimento amministrativo di secondo grado». Viene, però, rilevato come la giurisprudenza utilizzi alternativamente entrambe le nozioni. Infatti, l’istituto è qualificato sia come preavviso di diniego (ex multis Cons. St., Sez. II, 09.12.2020, n. 7841, in www.giustizia-amministrativa.it) sia come preavviso di rigetto (ex multis Cons. St., Sez. III, 5.12.2019, n. 8341, in www.giustizia-amministrativa.it).
[3] L’inciso della disposizione prevedente tali esclusioni era stato eliminato dal d.l. n. 76/2020, ma è stato reinserito in sede di conversione con la legge n. 120/2020.
[4] Per una sintesi delle principali misure contenute nel d.l. n. 76/2020 si rinvia a: M. MACCHIA, Le misure generali, in Giorn. dir. amm., n. 6/2020, p. 727 ss.
[5] Per un approfondimento sull’ultima riforma dell’istituto si rinvia ai contributi di: G. SERRA, Brevi note in merito alla riforma dell’art. 10 bis della L. n. 241/1990 ad opera del c.d. Decreto Semplificazioni (D.L. n. 76/2020), in www.lexitalia.it, n. 6/2020; F. FRACCHIA - P. PANTALEONE, La fatica di semplificare: procedimenti a geometria variabile, amministrazione difensiva, contratti pubblici ed esigenze di collaborazione del privato “responsabilizzato”, in www.federalismi.it, n. 36/2020, p. 33 ss.; G. MILO, Il preavviso di diniego dopo la legge n. 11 settembre 2020 n. 120, cit.; M.R. SPASIANO, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, cit.; L. FERRARA, La preclusione procedimentale dopo la novella del preavviso di diniego: alla ricerca di un modello di rapporto e di giustizia, in Dir. amm., 2021, 573 ss.
[6] Sul dovere di concludere il procedimento si segnala per tutti: A. POLICE, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 273 ss., a cui si rinvia per gli ulteriori riferimenti giurisprudenziali. Sulle più recenti novità in materia di conclusione del procedimento si segnala pure: A. BARTOLINI, Il termine del procedimento amministrativo tra clamori di novità ed intenti di pietrificazione, in Giustizia insieme, 27 luglio 2021. Sebbene la disposizione del 10-bis, l. n. 241/1990 anteriormente 2020, parlasse esplicitamente di “interruzione”, una parte della dottrina aveva rilevato qualche perplessità sul punto, evidenziando come, nonostante il dato testuale, non fosse chiaro se il legislatore volesse introdurre un termine interruttivo o sospensivo (in tal senso vedasi: S. TARULLO, L’art. 10-bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, cit. e G. CREPALDI, La sospensione del termine per la conclusione del procedimento amministrativo, in Foro amm. C.d.S., 2007, p. 108 ss.). La giurisprudenza, invece, anteriormente alla modifica normativa del 2020, si è pronunciata in maniera pressoché uniforme a favore della natura interruttiva del termine (in tal senso vedasi ex multis: Cons. St., Sez. VI, 25 novembre 2019, n. 8017 e Cons. St., Sez. IV, 14 maggio 2018, n. 2859, in www.giustizia-amministrativa.it).
[7] Secondo G. MILO, Il preavviso di diniego dopo la legge n. 11 settembre 2020 n. 120, cit., pp. 7-8, «la disposizione precisa, … in contrasto con quanto fino ad ora affermato dalla giurisprudenza, che i motivi ostativi indicati nel preavviso di diniego devono coincidere con quelli posti a fondamento del successivo provvedimento negativo che potrà essere integrato soltanto da considerazioni che sono la conseguenza delle osservazioni. … Il preavviso di diniego pertanto delimita, in modo vincolante, le ragioni ostative che possono condurre ad un provvedimento finale negativo per il privato». In senso conforme, M.R. CALDERARO, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, cit., pp. 147-148, precisa che «Ciò non vuol dire, ovviamente, che deve sussistere un rapporto di perfetta identità tra il preavviso di rigetto e l’atto conclusivo del procedimento, né una corrispondenza piena tra i due atti, ben potendo l’Amministrazione meglio precisare nel provvedimento la propria determinazione, sempreché il contenuto del diniego si inscriva nello stesso schema delineato dalla comunicazione ai sensi dell’art. 10- bis».
[8] Le dimensioni del presente contributo non consentono di affrontare il tema nel quale si inserisce la presente disposizione che riguarda il bilanciamento tra il principio dell’inesauribilità del potere amministrativo e quello dell’effettività della tutela del privato (sull’inesauribilità del privato si rinvia a M. TRIMARCHI, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018). Questa disposizione, infatti, va contestualizzata nell’ambito di quella giurisprudenza secondo la quale l’amministrazione, dopo aver subito l’annullamento di un proprio atto, può rinnovarlo per una sola volta riesaminando la controversia nella sua interezza nel rispetto del giudicato formatosi (c.d. principio dell’one shot temperato). Sul tema si rinvia a: E. TRAVERSA, Il principio del one shot temperato tra effettività della tutela e inesauribilità del potere amministrativo, in Giur. it., 2017, 1672 ss. Sui rapporti tra il nuovo art. 10-bis e il principio del c.d. one shot temperato si rinvia alle considerazioni svolte da M.R. CALDERARO, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, cit., pp. 152-156, secondo il quale (p. 155) «la novella dell’art. 10-bis sembra, più che introdurre un principio di one shot assoluto, conformarsi all’orientamento giurisprudenziale maggioritario dell’one shot temperato. Non si è, difatti, dinnanzi ad un caso ove l’Amministrazione può pronunziarsi una sola volta in modo negativo sull’istanza del privato, prescrivendo, invece, il nuovo periodo dell’art. 10-bis, che, una volta intervenuto l’annullamento giurisdizionale del provvedimento di diniego, illegittimo perché magari insufficientemente motivato quanto al non accoglimento delle osservazioni presentate dal privato a seguito del c.d. preavviso di rigetto, l’Amministrazione debba decidere la fattispecie nella sua interezza, esercitando una volta per tutte il suo potere in modo conforme al giudicato e non basando un eventuale ulteriore provvedimento di diniego su circostanze e ragioni già emerse nella fase istruttoria e che sono state o avrebbero dovuto essere comunicate all’interessato». Sulla tematica del riesercizio del potere (pur declinata con riferimento all’introduzione dell’art. 21-decies, l. n. 241/1990) si vedano le considerazioni di: C.E. GALLO, La riemissione del provvedimento amministrativo, in Giustizia insieme, 22 ottobre 2021.
[9] Per un inquadramento generale della categoria si vedano: F. LUCIANI, Il vizio formale nella teoria dell’invalidità amministrativa, Torino, 2003; D.U. GALETTA, Violazione di norme sul procedimento amministrativo e annullabilità del provvedimento, Milano, 2003; A. POLICE, L’illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi c.d. formali e vizi sostanziali, in Dir. amm. 2003, p. 780 ss.; F.G. SCOCA, I vizi formali nel sistema delle invalidità dei provvedimenti amministrativi, in V. PARISIO (a cura di), Vizi formali, procedimento e processo amministrativo, Milano, 2004, p. 55 ss.
[10] In questi termini: N. DURANTE, I vizi formali del procedimento, alla luce del decreto-legge “Semplificazioni” e delle recenti pronunce dell’adunanza plenaria, in Riv. Corte conti, n. 6/2020, pp. 62-63.
[11] Per un’analisi più approfondita dell’art. 21-octies, l. n. 241/1990, sulla sua portata applicativa e sul rapporto tra i due diversi periodi della disposizione si rinvia a P. PROVENZANO, I vizi nella forma e nel procedimento amministrativo, Milano, 2015.
[12] In tal senso R. GIOVAGNOLI, I vizi formali e procedimentali, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, pp. 1150-1151, il quale precisa che «Mostrando, quindi, di concepire il giudizio amministrativo come un giudizio non (tanto) sull’atto, ma (soprattutto) sul rapporto, il legislatore pone ora la regola secondo cui, se dalla sentenza di annullamento può derivare solo un effetto caducatorio, ma nessun effetto conformativo, il provvedimento deve rimanere in vita, perché il privato non ha alcun interesse per caducarlo».
[13] Anteriormente a tale modifica normativa, in giurisprudenza si erano formati due diversi orientamenti contrapposti in merito alla possibilità di estendere la particolare sanatoria processuale dell’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) anche all’omesso invio del preavviso di rigetto (oltre alla mancata comunicazione di avvio del provvedimento). Secondo un primo orientamento (maggioritario e richiamato nella sentenza in commento), che professava la sussistenza di un’identità di funzione tra la comunicazione dell’art. 7 e quella dell’art. 10-bis, sarebbe poco logico che la violazione del preavviso di rigetto sia sanzionata più gravemente della omissione del contraddittorio procedimentale (vedasi ex multis: Cons. St., Sez. III, 1° agosto 2014, n. 4127, in www.giustizia-amministrativa.it). Secondo un opposto orientamento (minoritario), invece, non sarebbe possibile applicare estensivamente l’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) anche al caso di omesso preavviso di rigetto in assenza di un esplicito riferimento normativo in tal senso (vedasi ex multis: Cons. St., Sez. IV, 17 gennaio 2011, n. 256, in www.giustizia-amministrativa.it). Per un approfondimento su questo contrasto si segnala P. PROVENZANO, I vizi nella forma e nel procedimento amministrativo, cit., p. 193 ss., a cui si rinvia per i riferimenti giurisprudenziali e dottrinali sulle due opposte posizioni.
[14] Il Collegio ricorda come l’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo), in base alla prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato (antecedente alla riforma), veniva ritenuto applicabile anche al difetto del preavviso di rigetto, citando a tal proposito: Cons. St., Sez. IV, 27 settembre 2016, n. 3948 e Cons. St., Sez. VI, 27 luglio 2015, n. 3667, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it).
[15] In caso di omesso preavviso di rigetto nell’ambito di un procedimento avente carattere discrezionale, il secondo periodo del comma 2 dell’art. 21-octies non si applica per l’espressa esclusione legislativa, mentre il primo periodo del comma 2 dell’art. 21-octies non si applica perché lo stesso riguarda esplicitamente soltanto i provvedimenti vincolati. Il collegio, sul punto, richiama un precedente analogo della Sezione III: Cons. Stato Sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6378, in www.giustizia-amministrativa.it.
[16] Per il Collegio il carattere discrezionale del potere esercitato è desumibile dalla previsione testuale dell’art. 872, comma 3, c.o.m., che fa riferimento alla reiezione “nel merito” della istanza di reintegrazione. Infatti, «la riabilitazione in sede penale costituisce solo uno dei presupposti del provvedimento di reintegrazione in servizio, il quale resta attribuito ad una scelta di carattere discrezionale dell’Amministrazione». Sul punto viene richiamata la sentenza Cons. St., Sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 44, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale sussiste una discrezionalità valutativa dell’amministrazione militare anche nelle ipotesi di perdita del grado a seguito di condanna senza procedimento disciplinare, poiché spetta all’amministrazione valutare, anche in tali casi, se la concessione della reintegrazione risponda effettivamente non soltanto alle aspirazioni del militare riabilitato in sede penale, ma anche all’interesse pubblico di settore, in particolare con un apprezzamento in ordine alla riacquisizione da parte dell’interessato di quelle spiccate qualità morali che sono richieste per ogni appartenente al corpo.
[17] Si discute, in dottrina e in giurisprudenza, sulla natura dell’art. 21-octies, comma 2. Secondo una prima tesi (rimasta minoritaria in giurisprudenza), alla norma dovrebbe essere data una valenza sostanziale poiché la situazione di “non annullabilità” sarebbe già presente in un momento precedente rispetto a quello compiuto dal giudice non essendo condizionata dalla vicenda processuale successiva (Cons. St., Sez. V, 19 marzo 2007, n. 1307, in www.giustizia-amministrativa.it). In tal senso in dottrina si vedano i contributi di D. SORACE, Il principio di legalità e i vizi formali dell’atto amministrativo, in Dir. pubbl., 2007, p. 385 e N. DURANTE, I vizi formali del procedimento, alla luce del decreto-legge “Semplificazioni” e delle recenti pronunce dell’adunanza plenaria, cit., p. 64. Secondo un’opposta tesi (prevalente almeno in giurisprudenza), la norma avrebbe natura processuale perché non inciderebbe sulla struttura del vizio, ma individuerebbe una speciale fattispecie della carenza di interesse a ricorrere. Con riferimento alla consolidata giurisprudenza che qualifica come processuale la norma dell’art. 21-octies, comma 2, nella sentenza in commento vengono richiamate le recenti pronunce del Consiglio di Stato: Cons. St., Sez. II, 12 marzo 2020, n. 1800; Cons. St., Sez. II, 9 gennaio 2020, n. 165; Cons. St., Sez. V, 15 luglio 2019, n. 4964; Cons. St., Sez. VI, 20 gennaio 2022, n. 359; tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[18] A tal proposito viene citata: Cons. St., Sez. III, 22 ottobre, 2020, n. 6378, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Non si può che concordare coi rilievi critici formulati dalla dottrina sull’indeterminatezza dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo. Secondo M.R. SPASIANO, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, cit., p. 50, «In termini generali l’art. 21-octies è norma sostanzialmente sgradevole sotto molteplici profili: basti solo considerare quanto sia terminologia vana, oggi più che nel passato, trattare di “attività vincolata”. Esiste davvero un’attività vincolata in assoluto? E i tanti provvedimenti a natura vincolata che vengono poi corroborati da condizioni, imposizioni, divieti, ampliamenti assolutamente non previsti dalla norma non dovrebbero forse indurre a ritenere non più rinvenibile la categoria degli atti assolutamente vincolati? Non sarebbe più corretto ai fini dell’applicazione del 21-octies, comma 2, prima parte, non fare riferimento all’individuazione di attività vincolata, quanto al contenuto dispositivo del provvedimento e alla impossibilità di addivenire ad una determinazione anche solo in minima parte diversa da quella assunta?».
[20] R. GIOVAGNOLI, I vizi formali e procedimentali, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., p. 1161-1162, ci ricorda come la questione sul carattere processuale o sostanziale dell’art. 21-octies «non è di carattere meramente teorico, in quanto dalla sua soluzione dipendono la delimitazione dell’ambito di applicazione della norma sia nel tempo che nello spazio. In particolare, sotto il profilo temporale, il riconoscimento della natura processuale comporta l’applicabilità della norma anche ai giudizi in corso … Per quel che concerne, invece, l’efficacia nello spazio, dal riconoscimento della natura processuale deriva l’applicabilità della norma anche ai procedimenti che si svolgono nell’ambito delle amministrazioni locali».
[21] In tal senso vedasi: N. DURANTE, I vizi formali del procedimento, alla luce del decreto-legge “Semplificazioni” e delle recenti pronunce dell’adunanza plenaria, cit., p. 64, secondo il quale «L’art. 21-octies, c. 2, va letto in combinato disposto con l’art. 21-nonies, c. 1, che vieta alla p.a. di annullare d’ufficio il provvedimento illegittimo per ragioni di forma. Entrambe le disposizioni fanno parte di uno stesso precetto, che non può avere natura esclusivamente processuale, perché ha come destinatario non solo il giudice, ma anche la p.a.».
[22] La distinzione che viene proposta in questa sede non emerge nell’orientamento giurisprudenziale dominante, a cui aderisce la sentenza in commento, che attribuisce valenza processuale ad entrambe le ipotesi previste dall’art. 21-octies, comma 2: sia ai provvedimenti vincolati affetti da vizi formali (primo periodo), sia ai provvedimenti viziati da omessa comunicazione di avvio del procedimento (secondo periodo).
[23] La proposta differenziazione della natura giuridica tra i due periodi dell’art. 21-octies, comma 2, potrebbe spiegare la scelta lessicale del legislatore che ha deciso di distinguere i presupposti di operatività dei due diversi periodi anche con riferimento alla sede di accertamento dell’identità del contenuto dispositivo del provvedimento.
La libertà e il suo limite. Una riflessione sul diritto alla privacy a partire dalla sentenza Roe v. Wade
di Antonello Soro*
La sentenza Roe v. Wade ha avuto, tra gli altri, il merito di introdurre una nuova idea della privacy, come diritto al libero esercizio di scelte attraverso cui le “persone definiscono il significato della loro esistenza”. Quest’intima vocazione liberale ha consentito alla privacy di arricchirsi progressivamente di nuovi e più rilevanti significati, sino a divenire quella garanzia di libertà e dignità della persona dai rischi di prevaricazione del potere (anche tecnologico), rappresentata oggi dalla protezione dei dati personali. Il contributo ripercorre alcune delle più rilevanti declinazioni di questo diritto, nell’evoluzione che l’ha caratterizzato, nella costante dialettica tra libertà e limite.
La sentenza Dobbs della Corte suprema americana del 24 giugno, contraddicendo dopo 49 anni il precedente sinora indiscusso Roe v Wade, ha ritenuto l’aborto non un diritto della donna, ma una “grave questione morale” la cui regolazione vada demandata ai singoli Stati e non alla legislazione federale.
E nonostante la gravità e complessità, forse unica, della questione (politica e giuridica, oltre che etica) dell’aborto, la sentenza Dobbs segna, per molteplici ragioni, una netta regressione rispetto al precedente del 1973, importante anche per le implicazioni ulteriori e più generali che ha avuto sulla concezione del rapporto tra la libertà e i suoi limiti.
In questo senso, uno dei principali elementi innovatori della sentenza Roe v. Wadese è la nuova idea della privacy ad essa sottesa, come diritto di autodeterminazione sulle scelte caratterizzanti l’esistenza, rispetto alle quali lo Stato deve astenersi da ingerenze non giustificabili in nome di superiori interessi.
Si trattava dello sviluppo di una concezione almeno in parte anticipata dalla sentenza Griswold v. Connecticut di otto anni prima, sul diritto alla contraccezione. Già lì, infatti, si era compiuto il passaggio da un’idea di privacy ancora dal retaggio dominicale (un’ulteriore proiezione dello jus excludendi alios) a una più moderna, incentrata sul diritto di autodeterminazione nelle scelte qualificanti per la propria sfera personale. Con Roe v.Wade si accentua, ancor più, l’idea della privacy come libero esercizio di scelte attraverso cui le “persone definiscono il significato della loro esistenza” (Roe v. Wade, 410 U.S. 113, 1973), sancendo dunque un limite di non ingerenza del pubblico potere rispetto a tale sfera di determinazione individuale, autonoma e libera.
Quest’intima vocazione liberale ha consentito alla privacy – nel sistema americano ma soprattutto in quello europeo, grazie alla sinergia con la dignità personale – di arricchirsi progressivamente di nuovi e più rilevanti significati. L’originario “right to be let alone” di Warren e Brandeis del lontano 1890 è così divenuto quella garanzia di libertà e dignità della persona dai rischi di prevaricazione del potere (anche tecnologico), rappresentata oggi dalla protezione dei dati personali.
Tra quel diritto a sottrarsi allo sguardo indesiderato del 1890 e il diritto al governo dei propri dati di oggi, questo diritto “inquieto” - perché mai uguale a sé stesso, dinamico nel suo tentativo di governare il presente e il futuro- ha subito un’evoluzione straordinaria, che ne ha accentuato la funzione egalitaria e democratica, quale strumento di redistribuzione del potere, oggi soprattutto informativo.
Il passaggio più significativo, nel percorso verso la democratizzazione della privacy, si ha in Italia con lo Statuto dei lavoratori del 1970, di poco precedente Roe v. Wade.
Vietando il controllo a distanza e le indagini sulle opinioni politiche e sindacali, lo Statuto ha fondato infatti, proprio su questo diritto, un essenziale presidio di libertà dei lavoratori dalle ingerenze datoriali. Era così tracciata la strada che avrebbe reso la privacy uno straordinario strumento di tutela della libertà e della dignità di tutti: in particolare dei soggetti più vulnerabili, perché inermi di fronte a un potere, privato o pubblico, rafforzato dalla potenza geometrica della tecnica, ieri con le schedature datoriali, oggi con l’algoritmo dei riders, domani chissà.
Ciò che tuttavia, pur in questa “rivoluzione” della privacy è rimasto costante è la sua “cifra”, che si esprime nel senso del limite (dell’ingerenza, del potere, del dire e del non dire) e che si riflette in ogni sua declinazione e implicazione: dalla sanità (dove il medico, cui tutto si dice di noi, nulla deve dire al di fuori) alla trasparenza (dove la doverosa visibilità del potere e dell’agire pubblico presuppone, però, l’altrettanto necessaria opacità della vita intima, privata, che per nulla incide sul profilo pubblico); dalla navigazione on line (dove va selezionato adeguatamente ciò che, di noi e degli altri, esponiamo e ciò che invece dobbiamo custodire, per non divenire vittime del pedinamento digitale), all’intelligenza artificiale (dovendo selezionarsi opportunamente i dati con cui alimentare o, viceversa, non alimentare l’apprendimento automatico della macchina, per non determinare esiti discriminatori della decisione algoritmica).
Se, dunque, l’anima della privacy è proprio la tensione tra libertà e limite, ci sono due aspetti particolarmente emblematici di questa dialettica, sui quali vorrei soffermarmi: l’oblio e il rapporto con l’informazione.
Perché è su questo terreno che si misura, in modo più evidente e più significativo, il peso dell’omissione (delle parole, delle immagini, di tutto ciò che in qualche modo ci rappresenta)
Anzitutto l’oblio. Il diritto all’oblio, come particolare espressione del diritto alla privacy, è la sintesi del rapporto tra scorrere del tempo e memoria collettiva.
Se il primo, infatti, affievolisce la seconda, suggerendo il silenzio su eventi passati non così rilevanti da meritare rievocazione, la seconda cancella il primo, imponendo un eterno presente per quei fatti talmente costitutivi della storia di un popolo, di un Paese, da essere parte indelebile della sua identità e coscienza sociale.
L’oblio interseca la privacy al punto da divenirne, addirittura, una componente essenziale con l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione e ne riflette l’evoluzione.
Esso nasce, oltre vent’anni fa, come diritto a non subire gli effetti pregiudizievoli della ripubblicazione, a distanza di tempo, di una notizia pur legittimamente diffusa in origine, ma non giustificata oggi da nuove ragioni di attualità.
Si afferma, dunque, nel contesto mediatico tradizionale, scandito da notizie diffuse in momenti determinati dagli organi d’informazione e destinate, appunto, a una vita tendenzialmente breve in assenza di ulteriori ragioni che ne rinnovino l’interesse.
E proprio in tale contesto si è affermato, ad esempio, il diritto dell’ex terrorista a non vedersi nuovamente citato come tale in un articolo su fatti non legati al suo passato, a distanza di decenni dalla condanna e dopo aver scontato integralmente la sua pena cambiando radicalmente vita.
Egli, infatti, rivendicava il diritto a non vedere la sua intera esistenza ridotta a un passato da cui si era con fatica emancipato.
Lo sguardo solo retrospettivo dei media, annientandone il percorso di vita intrapreso e la sua scelta di essere “altro” da ciò che era stato, si risolveva in uno stigma perenne e deformante, ostativo anche al suo reinserimento sociale.
Rovesciando l’idea della damnatio memoriae, il marchio di “reo” imposto senza limiti temporali finisce così con il rappresentare una pena accessoria incompatibile con il valore che il sistema penale attribuisce al tempo in funzione dell’oblio: con gli istituti della prescrizione, della riabilitazione, della non menzione della condanna.
A fronte di un sistema penale tutto fondato su una scommessa razionale sull’uomo e sulla sua possibilità di cambiamento (la Costituzione legittima la pena solo in quanto tenda alla rieducazione del condannato), l’informazione non può schiacciare la persona al suo reato, risolverla tutta e soltanto in esso, anche quando se ne siano prese visibilmente le distanze.
I media non dovrebbero impedire ciò che neppure un giudice può fare, ovvero di essere anche altro da ciò che si è stati.
Ancor più profonda è poi la lesione dell’identità determinata dall’eterna memoria della rete, quando riduce un’intera esistenza, in tutta la sua insondabile complessità, a un momento, a un errore sia pur gravissimo, ma che comunque non la rappresenta più o, peggio, non l’ha mai rappresentata del tutto.
Ecco, quindi, il bisogno di oblio quale contrappeso a una memoria tanto eterna e inflessibile quanto parziale, una condanna senza appello, che non contempla riabilitazione.
Questo bisogno di emancipazione da una memoria capace di ipotecare presente e futuro ha conosciuto vari strumenti di tutela: dal divieto di ripubblicazione -che attinge alla sua dimensione difensiva e statica, quale pretesa a non essere più ricordati (o a non esserlo per come si era e non si è più)- all’aggiornamento della notizia che ne valorizza la componente dinamica e attiva, sino alla deindicizzazione, che incide non sulla notizia in sé- intatta nella fonte originaria- ma sulla sua reperibilità mediante i motori di ricerca.
Una notizia vera all’epoca ma oggi superata dai fatti merita certamente, se lesiva della dignità di qualcuno, di essere sottratta all’indiscriminata reperibilità dei motori di ricerca, per evitare che essa divenga l’unica o la prevalente rappresentazione del soggetto: la categoria (indagato, imputato, condannato, malfattore, ecc.) cui ricondurlo semplicemente digitandone il nome su Google.
Il diritto al ridimensionamento della propria visibilità mediatica, a tutela di un’identità ormai affrancata dalla dimensione statica e tendenzialmente immutabile cui è stata tradizionalmente ascritta, si è del resto riconosciuto, quale strumento di libertà, non soltanto a fronte di notizie risalenti e superate dai fatti (si pensi a un indagato poi assolto), ma anche a notizie false e quindi anche diffamatorie.
Ogniqualvolta, dunque, l’interesse alla indiscriminata reperibilità della notizia mediante motore di ricerca sia recessivo rispetto al rischio della biografia ferita.
Il diritto all’oblio non è, dunque, pretesa di auto rappresentazione, ma strumento di una memoria sociale selettiva, che coniugando diritto all’informazione e dignità, racconti ciò che va ricordato, mettendo in secondo piano ciò che non appartiene all’identità individuale né contribuisce a costruire la coscienza collettiva.
Ma il gioco tra parole dette e parole omesse è, in fondo, la grande sfida dell’informazione, che è corretta in quanto racconti la notizia senza violare la dignità, narri ciò che è di pubblico interesse e non ciò che semplicemente interessa il pubblico, lontano dal voyeurismo e senza mai confondere la cronaca con lo sguardo dal buco della serratura.
Non è facile, soprattutto al tempo del populismo penale, che identifica nella giustizia penale la principale se non l’unica forma di giustizia sociale.
E se da quest’attribuzione al giudiziario di aspettative che non gli sono proprie deriva, fatalmente, una lacerazione tra giustizia attesa e giustizia amministrata, essa si approfondisce sino a divenire insanabile, per la distorsione subita dal principio di pubblicità del processo.
Principio nato per sottrarre l’amministrazione della giustizia a quella segretezza che ne aveva fondato l’arbitrarietà, ma non per consentire la delocalizzazione della scena giudiziaria sul web, ove l’etica del limite e del dubbio sono sostituite dalla presunzione di colpevolezza.
E chi a vario titolo (indagato magari poi prosciolto, vittima, teste) compaia nelle indagini è messo a nudo anche negli aspetti più intimi e ininfluenti per il processo, con stralci d’intercettazioni spesso fuorvianti perché mal estrapolate dal contesto, che restano in rete per sempre, come un “fine pena mai”, anche in caso di assoluzione.
Ecco perché, con il web, la scelta delle parole dev’essere ancora più rispettosa di quel criterio di essenzialità su cui si fonda la deontologia giornalistica, nella consapevolezza di come i dettagli eccedenti le reali esigenze informative possano anche distruggere vite.
Quest’esigenza di selezione nulla ha a che vedere, naturalmente, con la censura o il depotenziamento dell’informazione, che dev’essere anche se necessario cruda e diretta, come nel caso della guerra, le cui immagini non possono non scuoterci o del corpo martoriato di Stefano Cucchi: chi avrebbe compreso il dramma di quegli abusi senza la forza di quelle foto?
Vi è forse un simbolo del costo umano di politiche migratorie miopi, più eloquente della foto del piccolo Alan Curdy sulle coste dell’isola di Budrum?
Perché a volte raccontare storie, dare un volto e un nome a drammi altrimenti percepiti come distanti, è necessario.
Ma ciò non implica, mai, indulgere sulle vulnerabilità.
Si tratta, allora, di promuovere un giornalismo di qualità, non di semplice e acritico “riporto”, che scavi a fondo della notizia ma non violi la dignità (come per le foto in manette) e non ricerchi il sensazionalismo anticipando giudizi di colpevolezza con la gogna del web (l’audio della preside del Liceo Montale in homepage…).
Ecco, dunque, che anche qui, la pietra angolare delle nostre democrazie, ovvero l’informazione, è tutta nell’equilibrio tra la libertà (di stampa, di espressione..) e il suo limite, per tenere assieme dignità personale ed esigenze collettive.
La privacy, questo diritto di libertà (come viene qualificato dalla Carta di Nizza), mai tiranno, perché nato sulla frontiera mobile degli altri diritti fino a divenirne un presupposto ineludibile, ci racconta tutto questo.
Ci narra di come, a volte, le parole vadano omesse per dirne, invece, altre, più importanti e meno “nemiche”, capaci di costruire anziché distruggere, di schiudere orizzonti anziché di tracciare sempre, soltanto, confini.
*Già deputato e Presidente del Garante per la protezione dei dati personali.
La struttura argomentativa dei provvedimenti, l’organizzazione del lavoro e la gestione dei carichi*
Intervento di Giorgio Fidelbo
1. Da sempre in Corte di cassazione si discute sulla motivazione dei provvedimenti.
Nel maggio del 1989 - non era ancora in vigore il nuovo processo penale - il Primo Presidente Brancaccio sollecitò una discussione tra i consiglieri diffondendo un “Appunto sulla motivazione in Cassazione”, in cui si indicavano alcuni criteri orientativi per la redazione delle sentenze, diretti a realizzare quella concisione cui allora si riferiva l'art. 132 cod. proc. civ. e a cui si sarebbe riferito l’art. 546, lett. e) del nuovo codice di procedura penale.
Può dirsi che ogni Primo Presidente della Corte di cassazione si è posto il problema della concisione e della chiarezza delle motivazioni, redigendo circolari o predisponendo protocolli su come dovesse essere strutturata la motivazione, sia dal punto vista formale, che da quello logico (ricordo i lavori dei presidenti Lupo, Santacroce, Canzio, Mammone).
Questo interesse, costante, per la redazione delle sentenze deriva dall’esigenza di ridurre l’eccesso di motivazione che, da sempre, caratterizza le argomentazioni delle nostre decisioni, tanto che la loro “sovrabbondanza” argomentativa ha suscitato l’interesse di un comparatista nord americano, Jhon Merrymann, che, alla fine degli anni settanta, in un lavoro intitolato “The Italian Style”, presentato da Stefano Rodotà nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma, nel valorizzare già allora il diritto giurisprudenziale, non mancava però di evidenziare nelle sentenze italiane l’autoreferenzialità e, appunto, l’eccesso di motivazione.
2. Si possono individuare almeno tre esigenze alla base dell’interesse per una motivazione “proporzionata”: a) migliorare l’organizzazione del lavoro del magistrato; b) aumentare la produttività (nel senso che motivazioni più stringate servono a definire un numero più alto di procedimenti); c) ridurre i tempi del processo.
Ebbene, se queste possono essere le ragioni per cui è necessario “lavorare” sulla motivazione va sottolineato – lo ha già detto il Primo Presidente nel suo intervento di apertura – che oggi il tema non può essere messo in relazione né con l’obiettivo di incrementare la produttività del consigliere di cassazione né con la finalità di ridurre i tempi del processo di legittimità, almeno per quanto concerne il settore penale della nostra Corte. Si tratta di due obiettivi che non appaiono giustificati neppure in relazione alle previsioni collegate al PNRR e al recupero di efficienza che si vuole realizzare nell’ambito del settore giustizia, perché occorre riconoscere che la Corte di cassazione penale è, oggi, il giudice forse più efficiente nel nostro sistema: dai dati statistici pubblicati nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021 risulta che la durata media dei procedimenti non supera i sette mesi, che la Corte di cassazione penale ha definito un numero di procedimenti (47.040) maggiore di quelli pervenuti (46.298), con un indice di ricambio del 101,6% e che vi è stata una consistente diminuzione delle pendenze, tanto che il Primo Presidente nella Relazione citata ha parlato di risultati “molto soddisfacenti che indicano la stabile costante affidabilità del sistema penale di legittimità, nonostante la grave crisi epidemiologica che ha colpito il Paese”.
In presenza di questi dati, uniti alla considerazione che ogni consigliere redige in media oltre 350 sentenze all’anno, alla Cassazione penale non può richiedersi un ulteriore aumento del carico di lavoro in termini di efficienza e nemmeno in funzione di realizzare una contrazione dei tempi di definizione dei procedimenti, anche nella prospettiva del nuovo istituto dell’improcedibilità.
Piuttosto il discorso sulla motivazione va visto in funzione del miglioramento delle condizioni di lavoro del consigliere, un miglioramento che punti ad innalzare la qualità delle sentenze, che devono essere espressione di un giudice che vuole essere “corte suprema”, non solo giudice di “terza istanza”.
L’obiettivo è quello di valorizzare le sezioni semplici, che devono contribuire in misura maggiore a “fare nomofilachia”, assieme alle sezioni unite, nella prospettiva di dare certezza ai cittadini e di assicurare la prevedibilità dei comportamenti.
Attualmente, le sezioni semplici si occupano, prevalentemente, dello ius litigatoris e, con estrema fatica, a causa del carico di ricorsi, riescono, talvolta, a gestire anche lo ius constitutionis, a cui invece è dedicata l’attività delle sezioni unite. Questa doppia natura della Corte di cassazione, sintetizzata nella felice definizione di “vertice ambiguo”, è nel DNA di questo giudice, in quanto, da un lato, l’art. 65 del R.D. n. 12 del 1941 attribuisce alla Corte di cassazione la funzione di “assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”, dall’altro, l’art. 111, settimo comma, Cost. prevede che contro tutte le sentenze è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge: la disposizione dell’ordinamento giudiziario disegna una Cassazione la cui unica attività sembrerebbe quella nomofilattica; la Costituzione, invece, la configura come giudice dei diritti, un giudice che deve garantire la piena attuazione della tutela dei diritti in ultima istanza. Funzione fondamentale quest’ultima per un giudice moderno, che dialoga continuamente con le Corti europee dei diritti, ma che non può esaurire le attribuzioni riconosciute alle sezioni semplici, alle quali deve essere assicurata anche la possibilità di contribuire all’uniforme interpretazione del diritto, in un rapporto collaborativo e dialettico con le sezioni unite, a cui resta affidato il compito principale di indicare le linee nomofilattiche, risolvendo i contrasti interpretativi tra sezioni semplici.
In assenza di una riforma che riguardi il procedimento in cassazione, in grado di realizzare una deflazione del carico ingestibile dei ricorsi, questi obiettivi possono essere raggiunti attraverso una diversa organizzazione del lavoro che punti ad un innalzamento della qualità della nostra giurisprudenza anche attraverso un miglioramento delle motivazioni delle sentenze.
3. Il gruppo di lavoro sulla motivazione, voluto fortemente dal Primo Presidente Pietro Curzio e dalla Presidente Aggiunta Margherita Cassano, si è occupato inizialmente della motivazione delle ordinanze di inammissibilità della settima sezione.
Come è noto, la settima sezione è una sezione strategica, in quanto, occupandosi di oltre il 40% dei circa 50.000 ricorsi che pervengono annualmente in Corte di cassazione e di cui rileva l’inammissibilità, consente alle sezioni semplici di potersi concentrare sui ricorsi e sui procedimenti più rilevanti, in questo modo assicurando una organizzazione virtuosa del lavoro dei giudici, sollevati dal controllo seriale delle inammissibilità. In altri termini, si realizza una ripartizione organizzativa di competenze, che ha prodotto efficienza al lavoro della Corte di cassazione.
Invero, questa sezione, istituita con la legge n. 128 del 2001, nasce con un obiettivo più ambizioso, che è quello di deflazionare il carico in entrata dei ricorsi. In mancanza di strumenti dedicati alla selezione in ingresso, come avviene in molte Corti Supreme europee, spetta alla settima sezione il ruolo di operare un controllo selettivo di ciò che può arrivare in decisione, controllo che avviene attraverso la verifica di ammissibilità dei ricorsi.
Nel gruppo di lavoro si è convenuto che la motivazione delle ordinanze di inammissibilità debba conformarsi a questa funzione della sezione, che non è quella di dare risposte alle questioni sollevate, ma di verificare la sola idoneità del ricorso a costituire il rapporto processuale e, quindi, ad introdurre al giudizio di cassazione. L’ordinanza della settima sezione deve adeguarsi a questa tipologia di controllo, distanziandosi dal concetto e dal contenuto della motivazione dei provvedimenti giudiziali così come generalmente intesa, per strutturarsi come una cesura selettiva che operi da sbarramento all’ingresso in Cassazione dei ricorsi inammissibili.
Per questo tipo di verifica è sufficiente un provvedimento che dia atto del controllo effettuato, con una motivazione assai contratta, che giustifichi il perché il ricorso non appare idoneo a stabilire un valido rapporto processuale. Su queste basi il gruppo di lavoro ha proposto un tipo di motivazione a “frase unica”, ma pur sempre individualizzata rispetto ai motivi dedotti nel ricorso.
Una motivazione così strutturata non appare in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU, che ha stigmatizzato alcune decisioni della Cassazione, ma con riferimento a tutt'altro aspetto, e cioè riguardo al tema dell'autosufficienza del ricorso, che ha già evocato il Primo Presidente.
Va detto che il ricorso ad una motivazione siffatta per le ordinanze di inammissibilità non è certo sufficiente ad implementare la capacità deflattiva, capacità che la “settima” in realtà non ha mai avuto dal momento che dalla sua istituzione si è registrato un tendenziale e progressivo aumento dei ricorsi, con l’unica flessione nel 2020, a causa del rallentamento del lavoro giudiziario per la crisi pandemica: occorrono altri sforzi organizzativi volti a rendere capace la settima sezione di dare risposte di inammissibilità veloci, tempestive, perché solo la tempestività nella dichiarazione di inammissibilità potrà sortire l’effetto di deflazionare il numero complessivo di ricorsi, evitando che vengano presentati solo - o anche - per allontanare il momento di irrevocabilità della decisione.
È noto che negli anni passati i tempi di definizione in settima sezione siano stati più lunghi rispetto ai tempi osservati dalle sezioni semplici ed è questa situazione patologica che ha impedito che il controllo sulla ammissibilità avesse una capacità deflattiva. Va detto che i tempi ultimamente si sono ridotti e quindi è opportuno puntare sull’obiettivo di un loro forte contenimento proprio per realizzare finalmente una contrazione del numero dei ricorsi.
4. Ma il discorso sulla motivazione riguarda soprattutto le sentenze che vengono elaborate dalle sezioni semplici: e qui il tema è più interessante, anche se più complesso.
Fino ad ora le indicazioni fornite dai vari protocolli e circolari interni hanno puntato sulla c.d. motivazione semplificata: secondo una prassi abbastanza diffusa si distingue, già in fase di deliberazione del ricorso, tra sentenze a cui si riconosce una valenza nomofilattica e sentenze che tale vocazione non hanno, per cui è in base a tale differenziazione che il collegio decide il tipo di motivazione, tra cui quella c.d. semplificata. Va detto, però, che dalle statistiche risulta che questa tipologia di redazione delle sentenze viene poco utilizzata - soprattutto in quelle sezioni che riescono a selezionare una percentuale alta di ricorsi da assegnare alla settima sezione -, perché le decisioni che vengono prese nelle sezioni semplici hanno ormai quasi sempre un tasso di complessità che non giustifica una motivazione semplificata.
Occorre muoversi in altre direzioni e ricorrere – come in più occasioni è stato detto dalla Presidente Margherita Cassano – a veri e propri protocolli logici della motivazione, che vanno costruiti e condivisi, secondo un’idea espressa anni fa da Francesco Iacoviello.
Cosa sono questi protocolli?
Dovrebbero discendere dall'analisi delle norme, individuando una tecnica operativa che comporta l'uso logico delle categorie giuridiche della motivazione, seguendo passaggi argomentativi coerenti per una serie di settori ed istituti giuridici, sostanziali e processuali. Si tratta di protocolli funzionali ad accorciare i tempi della decisione e anche quelli della stesura della motivazione, assicurando infine decisioni uniformi e, in linea di massima, anche prevedibili.
I protocolli non devono essere considerati limitazioni al libero convincimento del giudice o alla libertà di motivazione, in quanto devono rappresentare un metodo condiviso, in grado di mettere ordine logico ad una certa anarchia motivazionale che molto spesso si riscontra nelle nostre sentenze.
Invero, la nostra giurisprudenza ha conosciuto esempi di questi protocolli logici. Così, in tema di chiamata in correità, le Sezioni unite Marino hanno indicato un metodo, proponendo tipologie logiche della motivazione; lo stesso hanno fatto le Sezioni unite Franzese in materia di nesso di causalità o le Sezioni unite Fisia Italimpianti con riferimento alla confisca del profitto nei confronti dell’ente. Decisioni che, assieme a molte altre, hanno indicato dei percorsi logici di motivazione in settori particolari, percorsi che vengono oggi normalmente utilizzati, magari con scarsa consapevolezza.
Ricordava Margherita Cassano che il gruppo sulla motivazione si dovrà occupare delle sentenze in materia di cautela personale: anche in questo settore si dovrà cercare di individuare le “forme” logiche per la motivazioni, ad esempio, come sindacare il vizio di motivazione sui gravi indizi; quale sia il rapporto tra valutazione dei gravi indizi ed esigenze cautelari (se difettando le esigenze cautelari vada comunque affrontato preliminarmente l'esame dei gravi indizi, come avviene di solito oppure si possano trovare altre soluzioni).
Lo stesso tentativo di costruzione di protocolli logici potrà essere fatto per i provvedimenti di cautela reale, in cui non è deducibile il vizio di motivazione, oppure con riguardo alle misure di prevenzione, rispetto alle quali non vi sono elementi probatori da valutare, ma semplici elementi indiziari, il che rende molto diversa la stessa struttura della motivazione.
Ovviamente si tratta di protocolli sui quali occorre un confronto e che comunque sono destinati a indicare linee e percorsi motivazionali di tendenza, che - per quanto non vincolanti - possono tuttavia contribuire a rendere le decisioni e le connesse motivazioni più omogenee, arrivando a individuare lo “stile” delle sentenze della Corte di cassazione, uno stile non certo solo formale ma di contenuto.
5. Da ultimo, un cenno al tema dell'organizzazione del lavoro, cui pure la presente sessione di lavoro è dedicata.
Se l’obiettivo è quello di migliorare la nostra giurisprudenza puntando ad un maggiore impegno delle sezioni semplici nel ruolo nomofilattico, allora accanto ad una rinnovata attenzione sul fronte “motivazione” occorre prendere atto della necessità di mutare anche la logica e l’organizzazione del lavoro in Corte.
Il presupposto per operare un riassetto nell’organizzazione del lavoro in sezione è la piena condivisione della “cultura del precedente”, che non deve certo essere intesa come passiva omogeneizzazione rispetto alle decisioni delle sezioni unite, il cui effetto vincolante va inquadrato nell’ambito di un dialogo e confronto continui da parte delle sezioni semplici, che porti la giurisprudenza di legittimità ad essere coerente e nello stesso tempo capace di adeguarsi ai cambiamenti sociali ed economici in atto, superando, ove necessario, le stesse decisioni delle sezioni unite, secondo il procedimento previsto dall’art. 618, comma 1-bis cod. proc. pen.
Occorre, inoltre, ricercare una coerenza e una responsabilità soprattutto nell’interpretazione giudiziale, che porti, tra l’altro, al superamento dei contrasti giurisprudenziali interni alle sezioni, prima ancora di rimettere le questioni controverse alle sezioni unite.
Nella società complessa in cui viviamo, la mancanza di certezza nei rapporti giuridici, come pure la indefinibilità degli ambiti applicativi delle fattispecie penali produce formidabili conseguenze negative sui rapporti economici e sulle stesse condotte dei consociati. Non è più sopportabile che all’interno delle sezioni della Corte di cassazione permangano contrasti su materie anche di carattere sostanziale, cioè sull’applicazione di fattispecie penali, sui confini tra lecito e illecito penale. Il superamento dei contrasti non può avvenire solo rimettendo le relative questioni alla decisione delle sezioni unite, in quanto si rischierebbe di ingolfarle, rendendo meno efficace il ruolo nomofilattico che ad esse è attribuito.
Vanno invece valorizzate le riunioni sezionali e, soprattutto, modificato il modo di concepire il lavoro all’interno della sezione. È necessario imparare a lavorare assieme, a confrontarci in un continuo lavoro di gruppo, all’interno e all’esterno delle sezioni. Le tabelle organizzative attribuiscono ad ogni sezione la “competenza” su settori del diritto penale sostanziale e deve essere in primo luogo la sezione ad esprimere il diritto giurisprudenziale sulle sue materie, superando le interpretazioni contrapposte, spesso derivanti da impostazioni individualistiche. In altri termini, occorre avere la consapevolezza di far parte di una “istituzione” e sentire la responsabilità e il peso dell’interpretazione giurisprudenziale e dei suoi effetti.
Attraverso le riunioni di sezione è possibile stabilire un confronto funzionale ad evitare e a superare i contrasti, puntando ad una organizzazione virtuosa che riduca per lo meno il rischio di pronunce contraddittorie, nel tentativo di assicurare una giurisprudenza coerente e prevedibile. Si tratta di riunioni che vanno preparate e gestite ascoltando i diversi punti di vista, nel tentativo di individuare soluzioni condivise che poi trovino espressione nelle decisioni dei singoli collegi. Tutto ciò comporta un grosso impegno dei presidenti di sezione e di tutti i consiglieri, in una permanente dialettica che spesso si presenta difficoltosa, in quanto ci si misura con colleghi che hanno sensibilità e ideologie diverse dal punto di vista giuridico, talvolta concezioni lontane della stessa funzione del diritto penale.
Tuttavia, l’esigenza di puntare su una metodica di lavoro giudiziario diverso, in cui cioè lo scambio di idee e il confronto non avvengano solo al momento della decisione, ma vi sia una preparazione e uno studio preliminare attraverso riunioni periodiche di sezione che siano funzionali a trovare soluzioni condivise sulle scelte interpretative generali, trova conferma oggi nella stessa riorganizzazione giudiziaria, in cui si è introdotto l’ufficio del processo, in ausilio dell’attività del giudice, anche di quello di cassazione. E’ questa la dimostrazione che non è più concepibile un assetto organizzativo giudiziario solipsistico. Il modello organizzativo che deve assicurare coerenza al diritto giurisprudenziale della Corte di cassazione è costituito oggi dalla sezione, composta da magistrati, personale amministrativo e funzionari dell’ufficio del processo.
Se si condivide questo modello, il primo obiettivo da conseguire è, lo si ribadisce, quello di limitare i contrasti giurisprudenziali facendo ricorso, appunto, alle riunioni di sezione le cui conclusioni andranno rispettate, non perché siano vincolanti, ma in quanto si condivida il metodo.
Ciò significa che il collegio dovrà seguire l’orientamento emerso da tali riunioni, magari evidenziando in motivazione che si tratta di un orientamento da ritenere consolidato in sezione. Fermo restando che, nei casi difficili ovvero quando non si raggiunge una base allargata di condivisione, nulla impedisce il ricorso ragionevole alle sezioni unite.
6. Ci troviamo in una fase della nostra storia in cui la forte crisi di legittimazione e di autorevolezza della magistratura avviene in un momento in cui si è riconosciuto, finalmente, al diritto giurisprudenziale una natura “latamente creativa” – con tutti i limiti di una tale definizione –, un riconoscimento a cui avrebbe dovuto seguire un’assunzione ferma di responsabilità nella stessa attività interpretativa, assunzione che non sempre vi è stata. Per riconquistare credibilità nell’opinione pubblica e nei cittadini abbiamo il dovere di governare la nostra giurisprudenza: rendendola chiara nelle motivazioni, nutrendoci della cultura del precedente, sforzandoci di rendere le decisioni prevedibili e, da ultimo, iniziando a confrontarci seriamente sugli effetti del mutamento del diritto giurisprudenziale, soprattutto quando è in malam partem.
*Il testo riproduce l’intervento svolto alla prima sessione del convegno “Giurisdizione e motivazione. Dialogo a più voci tra linguaggio e organizzazione del lavoro”, tenutosi lo scorso 8 giugno 2022 a Roma, Corte Suprema di Cassazione, Aula Magna, organizzato da AreaDg Cassazione.
Crisi della legge o crisi del giudice? Considerazioni a margine di un recente scritto di Tomaso Epidendio
di Antonello Cosentino
Sommario: 1. La crisi della soggezione del giudice alla legge. - 2. Legge e principio di legalità. - 3. La crisi del giudice. - 4. Le prospettive.
1. La crisi della soggezione del giudice alla legge.
In un recente articolo su questa Rivista Tomaso Epidendio[1] ha tracciato il profilo della progressiva decostruzione del modello di magistratura tratteggiato nella nostra Costituzione.
In tale articolo si analizzano, con indubbia acutezza, i fattori, interni ed esterni alla magistratura, che hanno concorso al dissolvimento del sogno dei Padri costituenti di una magistratura interclassista, costituita come un “ordine” non gerarchico, autonomo e indipendente da ogni altro “potere”, legittimato dalla soggezione “soltanto” alla legge.
Nella scia del vivace dibattito suscitato dalle dense riflessioni sviluppate in quell’articolo, vorrei soffermarmi sul primo dei fattori ivi indicati tra le cause della fine di quel sogno: la crisi della soggezione del giudice alla legge.
Secondo l’Autore, «il giudice è sempre meno il tecnico che effettua operazioni di “sussunzione” del fatto nella fattispecie descritta dalla norma ed è sempre più l’autore diretto di “bilanciamenti” di valori, attraverso i quali ricostruisce il senso e seleziona le disposizioni applicabili per garantire la soluzione che, in base alla sua “precomprensione” (convinzioni personali di varia natura), risulta più “giusta” nel caso concreto».
Il tema della relazione tra la posizione della norma da parte del legislatore e la sua interpretazione da parte del giudice è tra i più antichi, controversi ed arati.
Vorrei iniziare le mie riflessioni partendo dalla metafora - utilizzata da Maria Rosaria Ferrarese a chiusura del suo bel libro Diritto sconfinato - del diritto-ragno e diritto-ape[2]; in tale metafora[3] il diritto-ragno - tipico delle tradizioni dei moderni stati nazionali europei, caratterizzati dal monopolio statale del diritto - era quello che, al pari, appunto, di un ragno, «stava ben radicato sul suo territorio, era statico ed autopoietico, e la sua tela non ammetteva intrusioni da parte di elementi estranei»; il diritto-ape - tipico del mondo pre-moderno e riemergente, secondo molti studiosi, della presente fase storica – è invece - al pari, appunto, di un’ ape - «instancabile, sempre in movimento, che cerca di nutrirsi proprio di elementi diversi e che vive di contatti numerosi e variabili con altri mondi … un diritto che sembra non volersi privare dell'ironico pendolarismo tra il grande e il piccolo, il nobile e il vile, che consente di vedere la verità umana contemporanea nelle sue contraddizioni e nelle sue illusioni».
Ecco, a me pare che questa immagine sintetizzi bene la dialettica culturale di questi anni, anni nei quali il diritto perde sempre più vistosamente il suo collegamento con la legge e diventa sempre più simile all’ape che al ragno; anni nei quali la funzione legislativa, come il potere che in essa si esprime, sembra indebolirsi progressivamente, a fronte dell’ampliamento dello spazio riservato alla creatività, da un lato, della giurisprudenza, e d’altro lato, delle prassi mercantili, delle esperienze di soft law, dei protocolli organizzativi (e talvolta normativi) tra ceti professionali e, addirittura, tra ceti professionali e poteri pubblici. Basta pensare, per percepire quasi tangibilmente cosa significa creazione del diritto “dal basso”, alla stupefacente esperienza delle prassi interpretative condivise - prassi interpretative, si badi, non soltanto prassi organizzative - elaborate negli osservatori sulla giustizia civile sorti in tutta Italia dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso[4]. Su questo sfondo si parla di “diritto giurisprudenziale”, di “dottrina delle corti”, di “crisi della fattispecie normativa”, di “comunità interpretante”, di “tramonto del mito del legislatore onnipotente”, e così via[5].
Su tali problematiche, però, mi sembra necessario svolgere qualche considerazione più specifica.
Lo stato moderno, come chiarì Giovanni Tarello[6], nasce con il superamento del particolarismo giuridico, vale a dire con il duplice superamento, da un lato, della coesistenza di diverse autorità regolatrici nello stesso contesto e, d’altro lato, della coesistenza di regimi giuridici differenziati in ragione dell’autorità regolatrice, delle qualità personali del destinatario della regola, dello spazio e del tempo in cui la regola deve trovare applicazione[7] .
È l’esigenza di superare il particolarismo giuridico, conseguente all’evoluzione della società e dell’economia europea sviluppatasi tra il XVIII e il XIX secolo, che ha imposto la codificazione del diritto privato, vale a dire la sistematizzazione, razionalizzazione e omogeneizzazione delle regole che lo compongono. La codificazione era foriera di eguale trattamento dei consociati davanti alla legge: era il presupposto del principio di eguaglianza formale: “dallo status al contratto”, per dirla con Summer Maine.
Emmanuel de Las Cases, nel suo Memoriale di Sant’Elena, riporta una frase pronunciata da Napoleone nell’ esilio atlantico: “Appena il codice comparve fu tosto seguito come supplemento da commentarii, spiegazioni sviluppi e che so io ? Io era solito esclamare: Eh! Signori, noi abbiamo spazzato le stalle di Augia, per Dio, non lordiamole un'altra volta”.[8] La frase viene commentata da Renato Rordorf[9] con la considerazione che «Napoleone, dopo tutto, era pur sempre figlio di una stagione nella quale al pensiero dell’illuminismo era toccato il compito di sgomberare il campo da una selva di consuetudini e di ordinamenti di ceto la cui opacità aveva generato, sul piano applicativo, gli abusi più gravi, sicché facilmente si comprende la ragione per cui in quel torno di tempo l’esigenza di riaffermare il primato di una legge scritta, chiara e da tutti ben conoscibile, era assolutamente prioritaria (come non menzionare qui Cesare Beccaria; e si può allora anche comprendere la crudezza del paragone napoleonico tra lo sterco delle stalle e l’attività interpretativa dei primi commentatori del suo codice)».
Oggi difficilmente qualcuno potrebbe seriamente pensare di paragonare l’attività interpretativa allo sterco delle stalle di Augia. Perché l’epoca nostra - l’epoca della pos-modernità, per dirla con Paolo Grossi[10] - «ha sperimentato la caduta di molte tra le illusioni suscitate dalla stagione dell’illuminismo, o che vi hanno fatto seguito, e tra esse anche quella di un diritto positivo in grado di esprimere comandi sempre così chiari ed univoci da consentirne l’applicazione quasi meccanica ad opera di un giudice destinato a fungere da mera “bocca della legge”»[11].
Oggi è chiarissimo che il “calculemus” di Leibenitz[12] non può funzionare.
Stanno entrando in crisi, d’altra parte, entrambi i presupposti fondativi del diritto moderno, l’accentramento della produzione del diritto nello Stato nazionale e il principio di eguaglianza formale.
Sotto il primo profilo, è evidente che la produzione normativa non è più monopolio degli Stati nazionali, i quali devono ormai dividere (o contendere) la funzione di produzione del diritto con soggetti pubblici interni ai confini (si pensi, per esempio, agli enti territoriali o alle autorità amministrative indipendenti nazionali) o esterni ai confini (si pensi al diritto dell’Unione europea o al diritto convenzionale derivante da trattati internazionali, in alcuni casi presidiato da specifici organi giurisdizionali, come la CEDU); o addirittura con soggetti privati investiti di compiti di regolazione settoriale (si pensi, per esempio, al sistema delle norme Uni-Iso o ai principi contabili emanati dall’ Organismo italiano di contabilità).
Sotto il secondo profilo, il principio di eguaglianza formale patisce la crisi del “soggetto unico di diritto”; come è stato efficacemente rilevato[13] «si hanno regole per i “cittadini” e per i “non cittadini” (a loro volta distinti in cittadini Ue e cittadini non Ue); si hanno regole per i cittadini di una certa regione e altre regole per i cittadini di un’altra regione; si hanno regole per i “consumatori” e regole per i “professionisti”; regole per gli “uomini” e regole per le “donne”; e così via».
Stiamo tornando, insomma, dal contratto allo status.
La contemporaneità pone allora in questione direttamente il ruolo della legge e la sua capacità ordinante; e, specularmente, pone in questione il ruolo del giudice, che è chiamato a tradurre la lettera della legge in un comando rivolto ad un individuo e, dunque, a far camminare la legge con le gambe degli uomini.
È innegabile, infatti, che l’aumento quantitativo della produzione normativa, l’opacità derivante dallo scadimento qualitativo della fattura delle disposizioni (a volte conseguente alla consapevole scelta del legislatore di rimettere all’interprete l’individuazione del punto di caduta finale di processi di mediazione di interessi sociali non interamente risolti in sede politica), la pluralità di fonti nazionali e sovranazionali di livello diverso, la crescente diffusione di disposizioni che esprimono regole elastiche (clausole generali) e di disposizioni che non esprimono regole ma principi[14], finisce con il potenziare il ruolo dell’interprete e con il conferirgli una funzione che può addirittura apparire creativa (inventiva, secondo la formula di Paolo Grossi[15]). Siamo molto lontani, oggi, dalle condizioni di stabilità e chiarezza delle leggi sul cui presupposto Montesquieu invitava ad accostarsi alle stesse “con mano tremante”.[16]
Fin qui, la mia consonanza con la riflessione di Tomaso Epidendio è completa.
2. Legge e principio di legalità.
Tale riflessione, tuttavia, cessa di persuadermi là dove descrive «la lunga parabola, che parte dalla celebre Assemblea della ANM di Gardone, attraversa la stagione dei cd. “Pretori d’assalto”, per approdare poi alle metodiche ermeneutiche delle cd. interpretazioni “costituzionalmente orientate” e, successivamente, “convenzionalmente o comunitariamente orientate”» come un percorso al cui esito «il giudice finisce per risultare non più soggetto a nulla: inebriato da una libertà mai prima conosciuta, non si avvede di perdere inconsapevolmente la radice costituzionale della sua legittimazione giudicante e non sa prevedere che, prima o poi, la tendenza all’omeostasi del sistema gli avrebbe chiesto il conto, avrebbe individuato nuove forme di responsabilizzazione, così da mettere a rischio quell’autonomia e indipendenza che il costituente voleva garantita da una soggezione, che, ormai non solo più scientificamente, ma sempre di più anche nella pratica, si riconosce impossibile, quella alla legge».
Non mi sembra, infatti, che la crisi della legge possa farsi coincidere tout court con la crisi del principio di legalità.
Soccorre, mi pare, l’antichissima distinzione tra jura e leges[17], su cui ancora pochi giorni fa è tornato, con l’usuale acutezza, Aurelio Gentili nel suo intervento al convegno “Nell’Ottantesimo del Codice civile. Giurisprudenza e Dottrina a confronto”, svoltosi in Cassazione nei giorni 20 e 21 giugno 2022.
La crisi della legge non si identifica con la crisi del diritto.
Come ha chiarito lucidamente Luigi Ferrajoli[18], il principio di legalità è un principio formale, in duplice senso. In primo luogo, nel senso che la legge può avere qualunque contenuto (Piero Calamandrei scriveva che «nello stampo della legalità si può calare oro o piombo»[19]). In secondo luogo, nel senso che esso non allude necessariamente alla legge quale legge dello Stato; esso allude, piuttosto alla logica del diritto. «Fa riferimento alla legge nel senso di norma generale ed astratta che predispone effetti in presenza dei presupposti, quali che siano, da essa prestabiliti; garantisce la prevedibilità, sia pure relativa, di tali effetti e dei loro presupposti e, insieme, del giudizio su di essi»[20].
In sostanza, sottolinea Ferrajoli, non ha nessuna importanza che le norme generali ed astratte richieste dal principio di legalità siano leggi dello Stato, o leggi regionali, o regolamenti dell’Unione europea o trattati internazionali o anche norme consuetudinarie. Ciò che importa, ai fini del ruolo garantistico svolto dal principio di legalità, è la predeterminazione normativa in astratto e formalmente vincolante dei presupposti delle decisioni giudiziarie.
Se infatti è innegabile che l’interpretazione di un testo, di qualunque testo - giuridico, religioso, letterario - può spesso offrire risultati non univoci e che, in particolare, accade sovente che un testo normativo mostri la pluralità di significati che esso racchiude solo quando viene chiamato ad essere applicato ad una concreta situazione di vita, è però altrettanto innegabile che esiste un limite nelle possibilità espansive dell’interpretazione e tale limite è fissato dal testo della disposizione, che l’interprete non può infrangere. Tale limite è stato tenuto ben presente e ben fermo nella giurisprudenza elaborata dalla magistratura italiana, anche dopo Gardone. Le interpretazioni costituzionalmente orientate, convenzionalmente orientate, eurounitariamente orientate che rispettano tale limite non sono contra jus e nemmeno contra legem; quelle che non lo rispettano sono, semplicemente, interpretazioni sbagliate.
Su questo punto la giurisprudenza della Suprema Corte è nettissima. Il chiaro rifiuto di un dictum giudiziale che fuoriesca dalla proposizione prescrittiva espressa dall’enunciato è stato affermato molte volte: cito solo due pronunce, entrambe provenienti dalla Sezioni Unite civili: la sentenza n. 15144/11, dove si afferma che «Nel quadro degli equilibri costituzionali (ispirati al principio classico della divisione dei poteri) i giudici (estranei al circuito di produzione delle norme giuridiche) sono appunto (per disposto dell'art. 101, comma 2, Cost.), "soggetti alla legge". Il che realizza l'unico collegamento possibile, in uno Stato di diritto, tra il giudice, non elettivo né politicamente responsabile, e la sovranità popolare, di cui la legge, opera di parlamentari eletti dal popolo e politicamente responsabili, è l'espressione prima»; e la sentenza n. 24413/21 dove si afferma che «l'interpretazione giurisprudenziale non può che limitarsi a portare alla luce un significato precettivo (un comando, un divieto, un permesso) che è già interamente contenuto nel significante (l'insieme delle parole che compongono una disposizione, il carapace linguistico della norma) e che il giudice deve solo scoprire. L'attività interpretativa, quindi, non può superare i limiti di tolleranza ed elasticità dell'enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell'inveramento della norma nella concretezza dell'ordinamento ad opera della giurisprudenza».
Ed allora, se la giurisprudenza di legittimità non teorizza in alcun modo una funzione creativa della giurisprudenza, il tema che oggi si pone a me pare essere, più che quello della crisi della soggezione del giudice alla legge, quello della caduta di fiducia dei cittadini nei confronti della magistratura[21]; in altri termini, il tema della crisi del giudice.
3. La crisi del giudice.
Il tema della crisi del giudice si declina sotto diversi profili; essi investono, tra l’altro:
- il modello ordinamentale, specialmente con riferimento all’appannamento del principio, fissato dall’articolo 107 Cost., per cui i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni; principio inverato nella storia della magistratura italiana grazie alla spinta culturale dell’Associazione Nazionale Magistrati, che nel congresso di Gardone del 1965 seppe cogliere il messaggio della Costituzione repubblicana con straordinaria lucidità e consapevolezza;
- il sistema dell’autogoverno, specialmente con riferimento ai meccanismi di valutazione dei magistrati, all’esercizio della discrezionalità nel conferimento di uffici direttivi e semidirettivi, alle prospettive della giustizia disciplinare;
- il ruolo costituzionale del giudice ordinario come giudice naturale dei diritti soggettivi, in un contesto normativo che rende sempre più complessa la ripartizione della giurisdizione tra i giudici ordinario, amministrativo e contabile e in un contesto politico e culturale che vede rilevanti settori delle classi dirigenti nazionali mettere in discussione il disegno costituzionale della «unità non organica, ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica, una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé» [22].
- da ultimo, ma non per ultimo, il senso e le prospettive dell’associazionismo giudiziario, per come esso si è evoluto nell’ultimo decennio, gradatamente appannando la propria capacità di elaborazione culturale ed appiattendosi su un ruolo di mera gestione del potere nel sistema dell’autogoverno, secondo un percorso per molti aspetti analogo a quello compiuto dai partiti politici italiani; pur consapevole del «gigantesco processo antropologico e sociale che vi è stato fra noi e la Carta scritta nel 1948»[23], io credo che a Gardone si debba ancora continuare a guardare (anzi, si debba tornare a guardare), perché, se è vero che (quasi) tutto è cambiato, dagli anni ’60, nella società italiana, mi pare altrettanto vero che le ragioni che impongono di presidiare il principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione con una magistratura disegnata come potere orizzontale non sono oggi meno forti di quanto lo fossero negli anni ’60.
Si tratta, evidentemente, di temi molto vasti, ognuno dei quali richiederebbe un approfondimento specifico. A me interessa sottolineare, in questa sede, la saldatura, ben messa in luce da Enrico Scoditti, tra indipendenza e responsabilità[24]: responsabilità, voglio aggiungere, multilivello: responsabilità del singolo magistrato, nel suo lavoro quotidiano (si tratti della conduzione di una udienza o dell’esame di un testimone o della redazione di una sentenza), così come nella sua attività associativa; responsabilità dell’ufficio nel suo complesso, nei rapporti con gli altri uffici, con l’avvocatura, con il territorio di riferimento; responsabilità del sistema dell’ autogoverno (che, sottolineo, non si risolve esclusivamente nel circuito CSM - Consigli giudiziari - Dirigenti degli uffici, ma coinvolge tutti i magistrati, perché ogni magistrato è titolare del dovere, prima che del diritto, di critica e di proposta) nell’esercizio della propria discrezionalità.
Un tema, tuttavia, mi pare che si imponga, prima di tutto e sopra tutto.
Io credo che la ricostruzione di un rapporto di fiducia, vorrei dire di una “connessione sentimentale”[25], tra la magistratura e la società italiana passi ineluttabilmente dal miglioramento del servizio reso ai cittadini, in termini di celerità di risposta, di capacità di ascolto, di accuratezza del lavoro giudiziario.
È nella quotidianità della vita giudiziaria che i magistrati si mostrano ai cittadini ed è lì, assai più che sui giornali e davanti ai dibattiti televisivi, che i cittadini si formano la loro opinione della magistratura. È lì che i cittadini possono sperimentare concretamente la fattiva presenza di un giudice che risponda tempestivamente alle loro domande. È decisivo, allora, affrontare il problema della durata dei processi, penali e civili.
Tale problema - che poi si risolve in quello del rapporto tra definizioni e sopravvenienze - è al centro del dibattito pubblico sulla giustizia da almeno trent’anni.
Esso è in parte legato a dati strutturali della società italiana; se si riflette su quanto pesano sull’amministrazione della giustizia le controversie in cui una delle parti è una pubblica amministrazione (basta pensare al contenzioso tributario e previdenziale) si coglie immediatamente come sul processo finiscano per scaricarsi anche molte inefficienze degli apparati amministrativi e come la magistratura italiana sia investita della gestione di tensioni nel rapporto tra mano pubblica e cittadini di cui le magistrature di altri Paesi a noi vicini non sono chiamate a farsi carico.
Al netto di tali profili strutturali, comunque - e per quanto più direttamente concerne l’amministrazione della giustizia, e, in particolare, l’amministrazione della giustizia civile - molto è stato fatto, non sempre utilmente, e molto c’è da fare.
Negli ultimi venti anni il legislatore è più volte intervenuto, nella materia civile, con iniziative volte sia a ridurre le sopravvenienze che ad aumentare la capacità del sistema di produrre decisioni.
Sotto il primo profilo, sono stati introdotti articolati meccanismi di mediazione, preventiva e successiva all’introduzione della lite, volti a favorire soluzioni stragiudiziali e, per altro verso, sono stati aumentati gli oneri fiscali del processo, rendendolo più costoso, in una prospettiva esplicitamente deflattiva (l’esempio più evidente è il raddoppio del contributo unificato in caso di rigetto dell’impugnazione[26]).
Sotto il secondo profilo, si è reiteratamente operato sul rito, irrigidendo preclusioni e termini e disciplinando le modalità redazionali degli atti, sia delle parti [27] che del giudice (si pensi ai rifermenti normativi alla concisione dei provvedimenti).
Questo insieme di interventi - che pure qualche risultato, in termini quantitativi, ha portato - non ha colto, a mio avviso, il cuore del problema ed ha recato non irrilevanti svantaggi di sistema.
Le limitazioni dell’accesso alla giustizia civile, sia sotto il profilo dell’incremento dell’onere economico imposto all’attore, sia sotto il profilo dell’introduzione di meccanismi di conciliazione limitativi della procedibilità, ha evidentemente un costo in termini di riduzione di tutele; un costo che mi sembra più allarmante in relazione al primo profilo, perché inequivocabilmente censitario.[28]
Gli interventi effettuati sul processo, per contro, sembrano perdere di vista che la disciplina processuale non è funzionale al tempo del processo ma alla qualità del medesimo. Essa deve, cioè, modellare un processo idoneo a pervenire a risultati di giustizia, ossia a produrre una decisione fondata sull’esatta interpretazione della legge applicata a fatti ricostruiti nel rispetto del contraddittorio delle parti secondo modalità che favoriscano la massima possibile approssimazione della verità processuale alla verità storica. Il tempo del processo è una variabile indipendente rispetto al rito.
Anche le esortazioni del legislatore alla brevità degli atti, sia delle parti che del giudice, non mi paiono congruenti al fine di ridurre la lunghezza dei processi. Non è in dubbio che la sinteticità sia un pregio: gli atti devono essere sintetici perché la sinteticità favorisce la chiarezza. Ma la sinteticità - o, per meglio dire, la diffusione generalizzata tra gli avvocati e i magistrati di uno stile di redazione dei rispettivi atti caratterizzato da sinteticità ed asciuttezza - non si impone per legge: è una conquista che richiede un lavoro culturale di lunga lena, che deve iniziare nelle università, proseguire nelle scuole di formazione, consolidarsi con l’esempio dei colleghi più anziani e nella pratica quotidiana. La regola di chi scrive di diritto, atti defensionali o sentenze, è quella di esporre, secondo l’aurea formula cartesiana, idee “chiare e distinte”, dicendo tutto quello che serve e solo quello che serve[29]; ma l’applicazione di tale regola è funzionale a farsi capire, non a ridurre i tempi dei processi.
4. Le prospettive.
Il problema di oggi, dunque, è quello di ricostruire il rapporto di fiducia tra la magistratura e la società italiana e, come ho sopra accennato, tale opera di ricostruzione passa imprescindibilmente dal potenziamento della capacità del sistema giudiziario di tutelare tempestivamente i diritti dei cittadini. Non è solo, va sottolineato, un problema di quantità: è anche, forse soprattutto, un problema di qualità. Le decisioni frettolose, le decisioni che comprimono ingiustificatamente l’istruttoria, quelle che non si confrontano con le argomentazioni delle parti, quelle che trascurano i precedenti giurisprudenziali, non definiscono un procedimento; si limitano a trasferirlo davanti al giudice dell’impugnazione. Da qui la necessità che i programmi che gli uffici sono chiamati a predisporre per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza non si risolvano in una rincorsa a spazzare in qualunque modo le scrivanie, ma valorizzino l’esigenza che le controversie, civili e penali, siano definite con pronunce che - sia che provengano da magistrati togati, sia che provengano da magistrati onorari – abbiano una tenuta che le renda sufficientemente accettate dalla comunità e, quindi, non vengano impugnate oltre le percentuali fisiologiche.
Per migliorare la risposta del sistema alle domande di giustizia provenienti dalla società mi pare che si debba puntare sulla realizzazione di tre convergenti obiettivi:
-aumentare il numero dei magistrati in operatività, coprendo interamente gli organici ampliati dal Ministero in attuazione delle disposizioni contenute nella legge 30.12.2018 n. 145 e, ovviamente, facendo corrispondere all’aumento dei magistrati in servizio un corrispondete aumento del personale amministrativo;
- aumentare la capacità di lavoro dei giudici, sollevandoli dall’ onere di attività che sottraggono tempo e possono essere svolte da persone dotate di profili professionali meno sofisticati (e meno retribuiti);
- aumentare la prevedibilità degli esiti delle controversie, mettendo la Corte di cassazione in condizione di svolgere con celerità la sua funzione di nomofilachia e, quindi, di offrire agli operatori un quadro interpretativo stabile.
Mi soffermo brevemente su ciascuno di tali punti.
Quanto al primo, le difficoltà mostrate dal tradizionale meccanismo del concorso in magistratura nel selezionare un numero di nuovi magistrati corrispondente ai posti messi a bando dimostra, a mio avviso, la necessità di ripensare a fondo il meccanismo di accesso alla magistratura. È certamente positiva l’innovazione introdotta dalla riforma Cartabia che consente la partecipazione al concorso con la semplice laurea. Ma, probabilmente, è il momento di cominciare a riflettere sulla possibilità di coinvolgere maggiormente la Scuola Superiore della Magistratura sia nella formazione dei laureati nella fase precedente al concorso, sia nello stesso meccanismo di selezione degli aspiranti magistrati, ragionando su modelli di “corso-concorso” utilizzati per altre pubbliche amministrazioni[30].
Quanto al secondo punto, ritengo realmente felice, e potenzialmente decisiva, l’innovazione dell’Ufficio per il processo. Pur con i limiti legati alla temporaneità del rapporto di lavoro degli addetti, alla carenza di spazi negli uffici, alle difficoltà della formazione dei nuovi assunti, l’Ufficio del processo rappresenta, tuttavia, una grandissima opportunità, che la magistratura non deve farsi sfuggire. Esso è la concretizzazione di un progetto al quale alcuni magistrati, con la fattiva collaborazione di una parte dell’avvocatura (penso, nuovamente, agli osservatori sulla giustizia civile) hanno cominciato a lavorare una ventina di anni fa, con i primi tirocinanti negli uffici giudiziari; un progetto (all’inizio si chiamava ufficio del giudice) che prendeva le mosse dalla considerazione dell’inadeguatezza di una organizzazione del lavoro che non prevedeva alcuno staff di supporto per il giudice. Il profilo più interessante di quei primi esprimenti fu che ai tirocinanti venivano affidate funzioni miste, in parte riconducibili a quelle di un “assistente di studio” (ricerche giurisprudenziali, redazione bozze), in parte tipiche del personale amministrativo (verbalizzazione delle attività di udienza, scarico dei ruoli); da qui la ridenominazione (che esprimeva un programma preciso) da “ufficio del giudice” ad “ufficio del processo”. Oggi l’ufficio del processo è una realtà che non solo può alleggerire il magistrato di taluni incombenti - liberando spazi da destinare allo studio, all’aggiornamento giurisprudenziale e, in ultima analisi, alla qualità del prodotto giurisprudenziale - ma che, in sinergia con l’informatizzazione del processo, può essere valorizzata per incidere in profondità sull’organizzazione del lavoro giudiziario, trasformando la pronuncia giudiziaria nel frutto del lavoro, non più di un singolo, ma di una équipe di cui il magistrato è il direttore.[31]
Quanto al terzo punto, va ribadito con la massima energia che l’efficienza della Cassazione è decisiva ai fini del funzionamento di tutti gli uffici giudiziari. Perché, se la nomofilachia funziona bene, cioè se la Cassazione è in grado di offrire interpretazioni delle leggi chiare e stabili e riesce ad intervenire rapidamente nella risoluzione delle questioni nuove che via via si presentano, i giudici di merito possono risolvere i casi al loro esame in maniera sicura ed uniforme. Ciò, per un verso, invera il principio costituzionale di eguaglianza, in quanto assicura che lo stesso caso sia deciso secondo la stessa regola di diritto davanti a tutti gli uffici giudiziari d’Italia, e, per altro verso, favorisce la graduale riduzione del contenzioso, conseguentemente abbreviando i tempi di definizione dei processi; se la questione di diritto è chiara, infatti, è più facile per le parti misurare la concreta convenienza di una controversia.
Sulla funzione di nomofilachia, tuttavia, è necessaria una puntualizzazione.
Tale funzione è attribuita dalla legge - e, precisamente, dall’articolo 65 dell’ordinamento giudiziario - alla Corte di cassazione, dinanzi alla quale il Pubblico Ministero conclude nell’interesse della legge. Ma nessuno oggi potrebbe ragionevolmente immaginare la nomofilachia come “ordine” di conformità che discende dal vertice e, certamente, ha ragione Giovanni Canzio, quando scrive che «dobbiamo guardarci da una nomofilachia verticale, riservata alla Corte di cassazione e declinata in senso gerarchico» e sottolinea che «la nomofilachia moderna non può essere che “orizzontale”, “circolare” e “cetuale”»[32]. Proprio l’esperienza, già sopra evocata, degli osservatori sulla giustizia civile, del resto, dimostra che la ricerca di prassi - non solo organizzative, ma anche interpretative - condivise tra giudici e avvocati costituisce una fortissima leva di miglioramento dell’amministrazione della giustizia, con particolare riguardo al profilo della prevedibilità delle decisioni. Anche alla luce di quella esperienza è evidente che oggi la nomofilachia non può essere intesa che come sintesi ed espressione di cultura e valori condivisi, come processo che coinvolge circolarmente la dottrina, l’avvocatura, i giudici di merito, i giudici speciali, le Corti sovranazionali[33]. Le Sezioni Unite – come esse stesse ci hanno spiegato nella sentenza n. 24414/21, «non sono sole» e la loro opera di nomofilachia «è un farsi, un divenire che si avvale dell'apporto dei giudici del merito e delle riflessioni del Collegio della Sezione rimettente, dell'opera di studio e di ricerca del Massimario, degli approfondimenti scientifici e culturali offerti dagli incontri di studio organizzati dalla Formazione decentrata presso la Corte, delle sollecitazioni e degli stimoli, espressione di ius litigatoris, derivanti dalle difese delle parti e del contributo, ispirato alla salvaguardia del pubblico interesse attraverso il prisma dello ius constitutionis, del pubblico ministero. Le Sezioni Unite sono dunque inserite in un contesto di confronto, di dialogo e di contraddittorio tra le parti, che consente alla Corte di legittimità di svolgere il suo ruolo con quella prudenza "mite" che rappresenta un connotato del mestiere del giudice».
Si tratta, all’evidenza, di un’attività che richiede studio, riflessione, dialogo e, quindi, postula condizioni operative difficilmente conciliabili con i numeri dei procedimenti che annualmente vengono iscritti davanti alla Corte di legittimità italiana.
Il tema del sovraccarico della Corte di cassazione è troppo noto per aver bisogno di essere illustrato. Tra le varie ipotesi affacciatesi nel dibattito pubblico per affrontare tale tema (rimodulazione del principio costituzionale della impugnabilità per cassazione di tutte le sentenze, eliminazione o riduzione del controllo della Cassazione sull’accertamento di fatto svolto dal giudice di merito, contingentamento e specializzazione degli avvocati abilitati al patrocinio in sede di legittimità) il legislatore ha scelto, per quanto concerne il civile, la strada della distinzione tra i procedimenti con valenza nomofilattica e quelli privi di tale valenza, con la cameralizzazione del giudizio relativo a questi ultimi; ciò, evidentemente, sull’implicito presupposto che la cameralizzazione riduca il tempo di lavoro necessario per la trattazione del procedimento e, quindi, consenta di destinare quel tempo all’incremento del numero dei procedimenti trattati.
In questa sede non è evidentemente possibile nemmeno accennare ai termini del problema. Quello che è certo, tuttavia, è che, proprio nel quadro della vasta e complessa azione riformatrice portata avanti dall’attuale Governo in materia di giustizia, appare non più differibile un serio esame della “questione Cassazione”, con un’assunzione di responsabilità collettiva che coinvolga l’intera magistratura – a partire dal suo organo di autogoverno - l’avvocatura, il modo accademico ed il mondo politico.
[1] Tomaso Epidendio, La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, in questa Rivista, 24 maggio 2022.
[2] Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, 2006, si veda cap. V, § 10.
[3] L’immagine che identifica le api con gli antichi e i ragni con i moderni - riferita non specificamente al diritto, bensì alla cultura in generale - risale a Jonathan Swift, che la usa nel suo La battaglia dei libri, ed è stata vigorosamente rilanciata da Marc Fumaroli in Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni, Adelphi, 2005.
[4] Sulle implicazioni di sistema dell’esperienza degli osservatori sulla giustizia civile, resta sempre centrale R. Caponi, L’attività degli osservatori sulla giustizia civile nel sistema delle fonti del diritto, in Foro It. 2007, V, col. 7.
[5] In questi termini, R. Rordorf, Editoriale del numero monografico Il giudice e la legge di Questione Giustizia (trimestrale) , 4/2016 , pag. 3.
[6] G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto. Il Mulino, Bologna, 1976.
[7] Così A. Natale, Introduzione al numero monografico Il giudice e la legge di Questione Giustizia (trimestrale) , 4/2016 , pag. 6.
[8] E. de Las Cases, Memoriale di Sant’Elena, Milano, Tipografia Editrice Verri, s.d., vol. II, pag. 217.
[9] Op. cit. pag. 4
[10] P. Grossi, Percorsi nel giuridico pos-moderno, Editoriale Scientifica, 2017.
[11] Così, ancora, R. Rordorf, op. loc. cit.
[12]Il riferimento è, ovviamente, alla Dissertatio de arte combinatoria, 1666. «Secondo ciò, quando sorga una controversia, non ci sarà più necessità di discussione tra due filosofi di quella che c’è tra due calcolatori. Sarà sufficiente prendere una penna, sedersi al tavolo e dirsi l’un l’altro: calcoliamo!» (la citazione è tratta da L. Catalani, “Calculemus!”: il sogno di Leibniz, https://medium.com/@luigicatalani/calculemus-il-sogno-di-leibniz-196b11a55766)
[13] A. Natale, op. cit., pag. 7
[14] Sull’aumento di incertezza indotto dall’operare dei principi al livello dell’interpretazione, sono preziose le brevi ma dense considerazioni di A. Proto Pisani, Brevi note in tema di regole e principi, Foro It., 2015, V, col. 455 e segg.
[15] Cfr. P. Grossi, L’invenzione del diritto, Laterza, 2017
[16] Per Montesquieu «È vero che talvolta occorre cambiare qualche legge. Ma il caso è raro; e quando avviene, bisogna ritoccarle con mano tremante: con tanta solennità e con tante precauzioni che il popolo debba concluderne che le leggi sono veramente sante; e soprattutto con tanta chiarezza che nessuno possa dire di non averle capite» (Lettere Persiane, lettera LXXVI).
[17] Sul tema, M. Donini, Iura et Leges. Perché la legge non esiste senza il diritto, in Sistema Penale, 20.12.2019, http://www.antoniocasella.eu/archica/Donini_iura.et.leges_20dic19.pdf
[18] L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, nel numero monografico Il giudice e la legge di Questione Giustizia (trimestrale) , 4/2016 , pagg. 13 e segg., da cui traggo le considerazioni svolte nel testo.
[19] P. Calamandrei, Prefazione a C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Le Monnier, 1945; la citazione è tratta da L. Ferrajoli, op. cit. pag. 23
[20] L. Ferrajoli, loc. ult. cit.
[21]In G. De Amicis, Per l’alto mare aperto…: la Magistratura tra sogni spezzati e nuove speranze, in questa Rivista, 25.6.22., si dà conto degli esiti di una indagine dell’Eurispes da cui emerge che solo l’8% dei cittadini ritiene che il settore giustizia funzioni bene, mentre più del 65% non serba fiducia nel sistema giudiziario.
[22] Così C. Mortati, nei lavori dell’Assemblea costituente (seduta pomeridiana del 27 novembre 1947), citato nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, par. 2.2. Quanto al menzionato contesto politico e culturale, mi riferisco ai progetti germogliati negli ultimi anni per modificare la composizione dei collegi e le funzioni delle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione; penso al “Memorandum sulle tre giurisdizioni” presentato il 15 maggio 2017 al Presidente della Repubblica, su cui A. Travi, Rapporti fra le giurisdizioni e interpretazione della Costituzione. Osservazioni sul Memorandum dei presidenti delle tre giurisdizioni superiori, in Foro it. 2018, V, 109, nonché, volendo, A. Cosentino, Brevi considerazioni a proposito del Memorandum sulle giurisdizioni, ivi, col. 117; penso al “Tribunale superiore dei conflitti”, oggetto di una proposta di legge presentata alla Camera il 22 maggio 2018, su cui F. De Stefano, I discutibili presupposti del Tribunale dei conflitti, in Questione Giustizia on line, 30.5.2019, nonché, volendo, A. Cosentino, Note critiche sull'ipotizzato tribunale superiore dei conflitti, in questa Rivista 27.2.2019; penso all’”Alta Corte”, oggetto di un disegno di legge costituzionale presentato al Senato il 28 ottobre 2021, su cui l’intervista di P. Filippi e R. Conti a A. Rossomando, in questa Rivista 5.2.2022, nonché, volendo, A. Cosentino, L'Alta Corte. È davvero una buona idea? in Questione Giustizia on line, 25.3.2022.
[23] Così E. Scoditti, L’ora della responsabilità per la magistratura, in Questione Giustizia on line, 17.6.2022.
[24] E. Scoditti, op. cit., dove si legge: «Non c’è indipendenza senza responsabilità, e non c’è responsabilità senza indipendenza: l’una è l’altra faccia dell’altra. La responsabilità non è un principio concorrente con quello di indipendenza, ma ne è il rovescio. Non è un limite dell’indipendenza, ma il suo contenuto. Il giudice per davvero responsabile, che è consapevole del dovere di rendere conto del proprio operato, è quello in grado di assumere il dovere di indipendenza da se stesso»
[25] La formula è di Gramsci: «non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio». A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Tomo II (Q. XVIII), p. 1505.
[26] Introdotto dall’articolo 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012 n. 228 (Legge di stabilità 2013).
[27] Paradigmatico è l’art. 13 ter del codice del processo amministrativo, alla cui stregua «le parti redigono il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato» e, conseguentemente, «L’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione.»
[28] Quanto all’enfasi posta dal legislatore sui meccanismi di definizione conciliativa della lite, una valutazione molto critica si legge in G. Scarselli, Osservazioni sul disegno di legge delega di riforma del processo civile, in questa Rivista 27.10.2021
[29] Nel recente convegno “Giurisdizione e motivazione. Dialoghi a più voci tra linguaggio e organizzazione del lavoro” organizzato da Area DG presso la Corte di cassazione lo scorso 8 giugno 2022, il Primo Presidente della Corte di cassazione, Piero Curzio, discorrendo delle sentenze, specialmente di legittimità, inutilmente prolisse, ha icasticamente indicato i tre vizi capitali da cui deve rifuggire l’estensore di una sentenza in quelli della incompetenza, del narcisismo e del carrierismo.
[30] In Francia, all'esito del tirocinio presso l’École Nationale de la Magistrature, è prevista una valutazione finale che «può avere quattro decisioni: 1) attitudine a tutte le funzioni giudiziarie; 2) Non idoneità; 3) Previsione di un ulteriore anno di stage in uffici giudiziari;4) raccomandazioni in ordine a specifiche funzioni. Rarissima la dichiarazione di inidoneità (negli ultimi corsi l’1%), più frequente il rinnovo dello stage in giurisdizione» (così M.G. Civinini ed E. Bruti Liberati, La formazione iniziale dei magistrati. Analisi di una esperienza e una proposta, in
in Questione Giustizia on line, 28.4.2021.
[31] in M.G. Civinini, Il "nuovo ufficio per il processo" tra riforma della giustizia e PNRR. Che sia la volta buona!, in Questione Giustizia on line, 28.4.2021, si legge la seguente, persuasiva, considerazione: «Si passa da una modalità fieramente individuale e artigianale a una modalità organizzata e collettiva che esalta la funzione del giudicare mentre rende più efficiente il sistema».
[32] G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Diritto Pubblico, 2017, 25.
[33] Sul tema, si veda l’ampia analisi di R.Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in questa Rivista 4.3.2021. Si veda anche F. De Stefano, Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile, in questa Rivista 3.3.2021, nonché A. Scarpa, Nomofilachia codificata e supremazia dei precedenti, in questa Rivista 23.2.2021.
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