ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Interdittiva antimafia e legittimazione all’impugnazione. La necessaria partecipazione dei soggetti direttamente coinvolti (nota a Consiglio di Stato Ad. Plen. N. 3/2022)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini*
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa ed i quesiti posti all’Adunanza Plenaria - 2. Sulla posizione del giudice rimettente - 3. Le motivazioni dell’Adunanza Plenaria - 4. Riflessioni conclusive.
1. Premessa: la vicenda contenziosa ed i quesiti posti all’Adunanza Plenaria
La compressione dei diritti coinvolti e stravolti dall’emissione di provvedimenti interdittivi trova nuovamente spazio nella giurisprudenza che sembra sempre più rivestire una posizione di chiusura nella tutela dei destinatari latu senso intesi. Qui, si vuole segnalare la recentissima Adunanza Plenaria n. 3/2022.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana con pronuncia non definitiva rimetteva all’Adunanza Plenaria l’articolata questione relativa alla impugnabilità dell’informazione antimafia interdittiva da parte di soci ed amministratori dell’impresa destinataria del provvedimento, ponendo il seguente quesito: se in materia di impugnazione di interdittive antimafia vada, o meno, riconosciuta, in capo ad ex amministratori e soci della società attinta, autonoma legittimazione a ricorrere, avuto riguardo alla situazione giuridica dedotta in giudizio, e se gli stessi vadano ritenuti soggetti che patiscano “effetti diretti” dall’adozione di provvedimenti di siffatta natura.
Preliminarmente occorre ricostruire la vicenda al fine di cogliere l’intensa portata della decisione. La controversia attiene la legittimazione all’impugnazione, da parte dei soci ed amministratori, della certificazione interdittiva, emessa dal Prefetto nei confronti della società per azioni.
Gli appellanti lamentavano la perdita della gestione dell’azienda, nella quale avevano investito ingenti capitali, nonché la preclusione all’esercizio delle rispettive cariche.
Per diretta conseguenza del provvedimento impugnato, veniva risolta la convenzione in essere con la società per la gestione del servizio idrico integrato e veniva nominato un Commissario Straordinario al fine di garantire la prosecuzione delle attività, estromettendo così gli odierni appellanti dalle cariche occupate e, pertanto, dalla gestione concreta della società.
La sentenza del Giudice di prime cure che riteneva il ricorso inammissibile per carenza di legittimazione attiva in capo ai ricorrenti veniva censurata poiché, secondo gli appellanti, la legittimazione ad agire deve essere riconosciuta in presenza di un interesse connotato dall’attualità e da concretezza.
Invero, seppur formalmente il destinatario del provvedimento sia la società, l’intera motivazione attiene ai presunti condizionamenti a carico delle società ed alle persone fisiche in quanto socie che ne risultano inevitabilmente pregiudicate.
L’impossibilità di gestire la propria impresa ed i propri investimenti per un lungo lasso di tempo, non può non ascriversi, secondo gli appellanti, al concetto di lesione diretta e personale della sfera giuridica dei soci, i quali agiscono al fine di conseguire una “posizione di vantaggio che attiene ad uno specifico bene della vita”.
Inoltre, ad avviso degli appellanti, l’orientamento della sentenza gravata, non è percorribile, in quanto lesivo del diritto di difesa sancito dagli artt. 24 e 113 della Costituzione, nonché dell’art. 6 della CEDU, poiché gli stessi, altrimenti, non disporrebbero di alcun rimedio giurisdizionale per impugnare l’informativa prefettizia ed il conseguente provvedimento di commissariamento.
L’Amministrazione resistente, tra le altre eccezioni, rilevava l’inammissibilità dell’appello poiché incentrato genericamente sul profilo dell’interesse a ricorrere, anziché sulla legittimazione ad agire.
Eccezioni preliminarmente rigettate dal giudice rimettente posto che il ricorso è da ritenersi ammissibile se al momento della sua proposizione sussistono le condizioni dell'azione, cioè la possibilità giuridica dell'azione, l'interesse ad agire e la legittimazione attiva [1].
2. Sulla posizione del giudice rimettente
La complessa composizione della controversia non può che muovere dai principali orientamenti giurisprudenziali relativi ai soggetti legittimati ad impugnare le informative prefettizie.
Secondo un primo orientamento, il ricorso è inammissibile per carenza di legittimazione attiva se proposto da soggetti diversi dall’impresa destinataria dell’interdittiva, in quanto il provvedimento prefettizio può essere impugnato solo dal soggetto che ne subisce gli effetti diretti sulla sua posizione giuridica di interesse legittimo [2].
Più isolata giurisprudenza [3], ma condivisa dal giudice rimettente, invece, riconosce la legittimazione ad impugnare l’informativa, a tutela di un proprio interesse morale, in ragione della lesione concreta ed attuale della situazione professionale e patrimoniale dei soggetti che abbiano dovuto rinunciare all’incarico di amministratori della società, nonché sotto il profilo della potenziale lesione dell’onore e reputazione personale dei soggetti sui quali venga ipotizzato un condizionamento mafioso.
Qui è da ricercare la legittimazione attiva di diversi soggetti in base ad una pluralità di profili di interessi rappresentati: per gli ex amministratori, dal “pregiudizio professionale” e sulla “espunzione da una attività professionale”; per i soci, su diritti di natura patrimoniale, consistenti nella “impossibilità di effettuare scelte imprenditoriali e quindi compromissione degli investimenti economici profusi nell’azienda”; per gli ex amministratori e/o soci, sul diritto alla “dignità e reputazione”, pregiudicati ove le proprie “vicende personali e familiari costituiscano diretto oggetto di motivazione”.
Partendo dalla lettura congiunta degli artt. 84 e 91 d.lgs. n. 159/2011, si evince che l’emanazione dei provvedimenti interdittivi costituisce frutto di un procedimento amministrativo caratterizzato dalla natura preventivo- cautelare che giustifica l’allontanamento dalle rigide garanzie del contraddittorio ex l. n. 241/1990, nonostante la decisione prefettizia si fondi su accertamenti complessi esposti ad ampi margini di errore [4].
Epperò, il sacrificio delle garanzie procedimentali dovrebbe almeno essere bilanciato dalla possibilità di ottenere in sede giurisdizionale la partecipazione dei soggetti che sono immediatamente e gravemente lesi dal provvedimento prefettizio, seppur non formalmente diretti destinatari dello stesso.
Una conclusione contraria “sottopone ad evidente tensione l’applicazione dell’istituto con i principi eurounitari, oltre che con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost.”. Nella specie, il provvedimento di rimessione rileva come “proprio la caratteristica della motivazione di tali provvedimenti evidenzia un irrimediabile vulnus laddove ai soggetti le cui vicende personali, anche molto risalenti e addirittura già oggetto di valutazione favorevole in occasione di precedenti provvedimenti favorevoli, vengano rivisitate in chiave opposta, non venisse consentito di interloquire, avuto riguardo alle conseguenze esiziali che poi derivano dall’interdittiva (anche) per gli stessi sul piano individuale e patrimoniale” e dunque la partecipazione al processo avrebbe l’obiettivo di sanare la carenza di contraddittorio procedimentale [5].
Invero, seppur il provvedimento prefettizio spesso origina da atti di procedimenti penali, il suo procedimento di emissione non contempla affatto le garanzie riconosciute in sede penale ma in qualche modo, per le ragioni già indicate si tende a compensare tale vulnuscon la partecipazione giudiziale che invece, risulta esclusa nel caso che ci occupa per difetto di legittimazione attiva [6].
3. La motivazione dell’Adunanza Plenaria
L’Adunanza Plenaria ritiene necessario, ai fini della soluzione del quesito, l’individuazione della possibile sussistenza di una situazione soggettiva in capo agli amministratori ed ai soci della persona giuridica, con la precisa conseguenza che, ove tale situazione venga individuata ed abbia la consistenza di interesse legittimo, su di essa potrà fondarsi la legittimazione ad agire in giudizio e medio tempore la legittimazione all’audizione procedimentale non sussistendo, in caso contrario, né la legittimazione ad agire in giudizio né quella a partecipare al procedimento.
Va rammentato che è la stessa legge n. 241 del 1990 a distinguere il concetto di “pregiudizio” a seconda delle diverse tipologie di “interesse” cui conseguono differenti forme di partecipazione procedimentale e posizioni processuali, quali quella della legittimazione ad agire o a resistere ovvero dell’intervento ad adiuvandum o ad opponendum [7].
Anche la recentissima riforma recata dal d.l. 6 novembre 2021 n. 152 [8], amplia le forme di partecipazione del destinatario dell’interdittiva, prevedendo che allo stesso venga data tempestiva comunicazione, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa ed assegnandogli un termine per presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché per richiedere l'audizione, esprimendo una apertura, tardiva ed ancora non pienamente satisfattiva, alla necessaria partecipazione procedimentale dei soggetti coinvolti dal provvedimento prefettizio che subiranno inevitabilmente uno stravolgimento della propria posizione ed al contempo limitando espressamente tale diritto solo al possibile soggetto destinatario della misura interdittiva (la persona giuridica) e non altri soggetti [9].
La ratio giustificatrice della legittimazione e dell’interesse al ricorso risiede nella natura soggettiva della giurisdizione amministrativa, che tende a tutelare la situazione soggettiva del ricorrente, correlata ad un bene della vita coinvolto nell’esercizio dell’azione autoritativa oggetto di censura [10]. Da tanto, a parere di chi scrive, dovrebbe discendere una più ampia partecipazione proprio a tutela del bene della vita coinvolto.
Dunque, esiste un rapporto diretto ed immediato tra l’esercizio del potere amministrativo e l’interessato all’esercizio del potere medesimo che non si coglie sul piano statico bensì su quello dinamico. Tale relazione diretta si concretizza nel fatto che il provvedimento amministrativo e suoi effetti interessano direttamente il patrimonio giuridico di un determinato soggetto, in senso compressivo o ampliativo.
Il giudice è tenuto a verificare l’esistenza in capo alla parte ricorrente di una posizione qualificata e differenziata, correlata al bene della vita oggetto di esercizio del pubblico potere, idonea a distinguere il ricorrente da ogni altro consociato e della lesione concreta ed attuale subita dal ricorrente [11].
Invero, riflesso della relazione diretta ed immediata tra soggetto titolare di interesse legittimo e pubblica amministrazione è il potere di agire in giudizio per la tutela del proprio interesse legittimo compresso dall’esercizio o dal mancato esercizio del potere amministrativo.
In sede di impugnazione si tende ad assicurare un vantaggio al soggetto che si ritiene leso mediante l’annullamento del provvedimento, ottenendo la pienezza del proprio patrimonio giuridico ovvero conseguendo un ampliamento del proprio patrimonio giuridico. In tal senso, vengono in soccorso le caratteristiche di personale e diretto dell’interesse legittimo al fine di definire l’ambito della titolarità e della conseguente tutela in sede procedimentale e giudiziale, ai quali si aggiunge il requisito dell’attualità, che rileva in relazione alla proiezione processuale della posizione sostanziale ed alla emersione della esigenza di tutela per effetto di un atto concreto e sincronicamente appezzabile di esercizio di potere, che rende necessaria l’azione in giudizio.
Il ricorso, secondo l’Adunanza Plenaria, è legittimato allorquando dall’annullamento del provvedimento, il ricorrente può conseguire quella utilità di cui è, o ritiene di dover diventare, o intende diventare, “titolare”. Al contrario, ove non è individuabile tale posizione, ma sono individuabili generiche posizioni di interesse, queste ultime – che possono subire indirettamente e/o di riflesso, un pregiudizio- legittimano i loro titolari a spiegare intervento in giudizio, ma non già ad impugnare autonomamente il provvedimento lesivo della sfera giuridica del soggetto con il quale intrattengono a diverso titolo rapporti giuridici.
Alla luce delle motivazioni sinora addotte, l’Adunanza Plenaria, rinviene carenza di legittimazione attiva in capo agli amministratori ed ai soci della società destinataria del provvedimento interdittivo poiché “il decreto prefettizio può essere impugnato dal soggetto che ne patisce gli effetti diretti, e quindi, dal destinatario dell’atto, e cioè dalla società, in quanto solo il destinatario subisce la lesione immediata e diretta alla sua posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo che consente il ricorso dinanzi al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 7, comma 1, c.p.a.” [12].
4. Riflessioni conclusive
L’Adunanza Plenaria ha omesso, nell’individuazione dei soggetti che subiscono gli effetti diretti del provvedimento, di valutare la pluralità di profili di interesse coinvolti e più precisamente rappresentati per gli ex amministratori, dal “pregiudizio professionale” derivante dalla sostituzione degli organi di gestione e dall’esclusione da una attività professionale che spesso costituisce l’unica fonte di reddito; per i soci, su diritti di natura patrimoniale, consistenti nella impossibilità di effettuare scelte imprenditoriali e quindi compromissione degli investimenti economici profusi nell’azienda.
Invero, il ricorso deve ritenersi ammissibile se nel momento in cui viene proposto sussistono le condizioni dell'azione, ovvero la possibilità giuridica dell'azione, l'interesse ad agire e la legittimazione attiva. L'interesse a ricorrere, in particolare, si concretizza nella possibilità per il ricorrente di ottenere un risultato favorevole, e sussiste se ed in quanto la lesione della posizione giuridica sia concreta e attuale, poiché solamente in questa ipotesi all'eventuale pronuncia giudiziale favorevole seguirà un'utilità personale, concreta ed attuale. Pertanto, la lesione derivante dal provvedimento deve essere diretta, cioè deve incidere in maniera immediata sull'interesse legittimo proprio della parte ricorrente.
Elementi che appaiono presenti nel caso che ci occupa e che evidenziano una chiusura dell’Adunanza Plenaria che fonda la propria decisione sull’assioma che la società è l’unico soggetto destinatario dell’atto prefettizio e pertanto, unico soggetto che si trova in rapporto di immediata inerenza con l’esercizio del potere interdittivo.
Non è chiaro il motivo per cui non possa riconoscersi in capo a soci ed amministratori la lesione diretta dei propri interessi per come sopra indicati che appaiono fortemente compromessi dall’emissione del provvedimento interdittivo.
Le deminutio subite dai soggetti ricorrenti trovano origine immediata nel provvedimento interdittivo e solo il suo annullamento può ripristinare la situazione preesistente relativa a tali soggetti.
A valle di quanto sinora esposto si esprime una riflessione aperta sulla questione, che non appare definita ma bisognosa di nuovi interventi, come del resto, l’intero apparato relativo ai provvedimenti interdittivi.
È veramente possibile trovare un effettivo equilibrio tra tutela di interessi pubblici e limitazione dei privati?
*Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire il primo paragrafo a Renato Rolli e i restanti a Martina Maggiolini.
[1] Giova al riguardo richiamare il generale principio di cui all'art. 81 c.p.c. per il quale: "Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui", applicabile anche nel processo amministrativo in forza del richiamo di cui all'art. 39 c.p.a.”. La giurisprudenza ha più volte chiarito che un soggetto giuridico, pur dotato di interesse di fatto può essere privo di giuridica legittimazione a proporre un'azione giudiziaria, qualora la stessa, sia volta a provocare effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera di un altro soggetto, in quanto l'esercizio nell'ambito del giudizio amministrativo dell'azione non può essere delegato fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato dall'azione sostitutoria di un altro soggetto.
[2] Ex multis Cons. Stato, sez. III, 14 ottobre 2020 n. 02/02/22, 6205, 22 gennaio 2019 n. 539, 16 maggio 2018 n. 2895, 11 maggio 2018 nn. 2824 e 2829
[3] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 4 aprile 2017 n. 1559
[4] Si consenta il rinvio a R. Rolli, M. Maggiolini, Il vaccino contro l’infezione mafiosa. Note in tema di interdittiva antimafia (nota a Consiglio di Stato, sez. I, parere 18 giugno 2021, n. 1060) Giustizia insieme, 2021
[5] Sia consentito il rinvio a R. Rolli, M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), Giustizia insieme, 2020
[6] Sia consentito il rinvio a R. Rolli, M. Maggiolini, Accertamento penale e valutazione amministrativa: pluriformi verità (nota Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, decreto presidenziale n. 544 del 3 agosto 2021), giustizia insieme, 2022
[7] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 8 aprile 2021 n. 2836; sez. IV, 16 febbraio 2010 n. 887
[8] Si veda R. Rolli, M. Maggiolini, Interdittiva antimafia tra norme costituzionali, euro unitarie e internazionali pattizie (Nota a Consiglio di Stato, sez. III del 25 ottobre 2021, n. 7165), in Giustizia insieme, 2022
[9] La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha più volte affermato che, nell’ambito del processo amministrativo impugnatorio, la legittimazione e l’interesse al ricorso integrano condizioni dell’azione necessarie per consentire al giudice adito di pronunciare sul merito della controversia, condizioni che devono esistere al momento della proposizione della domanda processuale e persistere fino alla decisione della vertenza ex multis Consiglio di Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 9
[10] Cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 7 aprile 2011, n. 4.
[11] V. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 7 aprile 2011, n. 4; sez. VI, 14 giugno 2021 n. 4598
[12] Si veda Cons. Stato, sez. III, 22 gennaio 2019 n. 539
A proposito di tutela delle “altre” situazioni di vulnerabilità da tutelare: un raffronto tra Corti costituzionali
di Beatrice Magro
Sommario: 1. Premessa - 2. L’irrilevanza dei motivi nell’art. 579 c.p. - 3. La tutela dei soggetti vulnerabili nell’art. 579 c.p. - 4. La sentenza della Corte costituzionale tedesca: l’autodeterminazione è il valore primario - 5. La decisione del Tribunale costituzionale tedesco: la tutela dei soggetti vulnerabili e la prognosi di pericolo di abuso - 6. La decisione del tribunale costituzionale austriaco - 7. Per chiudere: prove tecniche di regolamentazione a garanzia dell‘autodeterminazione nei progetti di legge tedeschi presentati da SPD e dai Verdi.
1. Premessa
La Corte costituzionale, con ordinanza n. 50 del 2022, ha dichiarato l’inammissibilità del quesito referendario che prospettava l’abrogazione parziale dell’art. 579 c.p.. La proposta, in sostanza, prendendo atto della sostanziale e cronica disapplicazione della norma, intendeva circoscrivere l’area della punibilità dell’omicidio del consenziente (parificato sotto il profilo sanzionatorio a quello comune) alle “sole” condotte di omicidio di vittima consenziente ma vulnerabile (perché di minore età, o il cui consenso è viziato a causa di infermità o per l’abuso di alcool o stupefacenti; oppure è estorto con violenza, minaccia o suggestione o carpito con inganno, così come indicato nel comma terzo; a contrario, intendeva lasciare nella sfera della atipicità (quindi della liceità penale) le condotte poste in essere su soggetto il cui consenso è espressione del suo pieno e libero arbitrio, in esplicazione della scriminante dell’art. 50 c.p., e quindi quale fattispecie concreta, sottratta all’applicazione sia dell’art. 575 c.p. sia dell’art. 579 c.p..
A questa iniziativa la Corte costituzionale ha risposto ritenendo che l’abrogazione dell’art. 579 del codice “avrebbe reso penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa al di fuori dei tre casi di “consenso invalido” previsti dal terzo comma dello stesso articolo 579”. Si legge in motivazione: “Non gioverebbe opporre – come fanno i promotori e alcuni degli intervenienti – che l’abrogazione dell’art. 579 cod. pen. richiesta dal quesito referendario, non essendo totale, ma solo parziale, garantirebbe i soggetti vulnerabili, in quanto resterebbero ancora puniti gli omicidi perpetrati in danno dei soggetti indicati dall’attuale terzo comma…..Le ipotesi alle quali rimarrebbe circoscritta la punibilità attengono, infatti, a casi in cui il consenso è viziato in modo conclamato per le modalità con le quali è ottenuto, oppure intrinsecamente invalido per la menomata capacità di chi lo presta. Le situazioni di vulnerabilità e debolezza alle quali hanno fatto riferimento le richiamate pronunce di questa Corte non si esauriscono, in ogni caso, nella sola minore età, infermità di mente e deficienza psichica, potendo connettersi a fattori di varia natura (non solo di salute fisica, ma anche affettivi, familiari, sociali o economici); senza considerare che l’esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive del titolare del diritto, che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate, va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili. In tutte queste ipotesi, l’approvazione della proposta referendaria – che, come rilevato, renderebbe indiscriminatamente lecito l’omicidio di chi vi abbia validamente consentito senza incorrere nei vizi indicati, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata – comporterebbe il venir meno di ogni tutela”.
In estrema sintesi, la validità costituzionale della norma nella sua interezza e la sua tenuta in termini di efficacia sarebbero da ravvisarsi per il fatto di comprendere altre forme di vulnerabilità, diverse ed ulteriori rispetto quelle elencate nel comma 3, ovvero di tipo economico, affettivo e familiare; inoltre la norma, nella sua globalità, consentirebbe un sindacato sui motivi che spingono la vittima a prestare il suo consenso. Tali situazioni di particolare ed ulteriore vulnerabilità sarebbero quindi, secondo l’interpretazione della Corte costituzionale, tutelate dalla norma nella sua interezza, con la previsione di una sanzione più affievolita rispetto quella prevista per l’omicidio comune.
Dunque, torna incessante, a supporto della perdurante legittimità della scelta di criminalizzazione contenuta nell’art. 579 c.p., l’argomento della suicidal vulnerability, presente anche nella decisione della Corte n. 242 del 2019 in tema di suicidio assistito, ossia della necessità di porre un argine ferreo a tutela dei soggetti esposti a condotte di manipolazione e di plagio che potrebbero essere convinti e compiere scelte di cui la stessa vittima, con il senno del poi, potrebbe pentirsi. È infatti empiricamente fondato il dato che il desiderio di morte non sia, in molti casi, espressione di un’autodeterminazione libera e ben ponderata. L’abrogazione anche parziale della norma provocherebbe prevedibilmente un sensibile aumento del rischio di maggiori condizionamenti culturali, di pressioni e di interferenze psicologiche, a scapito dei soggetti più deboli e più vulnerabili, costretti a confrontarsi con la prospettiva della morte anche contro le loro reali intenzioni o condizionati da motivazioni altruistiche: la volontà di non rappresentare un peso per la famiglia o per la società potrebbe rappresentare un ulteriore fattore di condizionamento culturale e di pressione per coloro che sono già in condizioni di dipendenza. Abusi, vulnerabilità e motivi sono quindi i concetti chiave che hanno guidato il ragionamento seguito dai giudici costituzionali a sostegno della necessità della norma nella sua interezza.
Ma siamo così sicuri che l’art. 579 v.p. consenta o dia spazio ad un sindacato sui motivi dell’azione? È possibile distinguere tra situazioni di vulnerabilità, alcune delle quali richiederebbero persino un aggravamento della pena prevista per la fattispecie base, da quelle condizioni di malattia irreversibile e sofferenza, ove l’applicazione della norma sarebbe contraria ai principi enunciati dalla medesima Corte costituzionale in tema di aiuto al suicidio?
Ritengo che la norma attualmente vigente, così come è formulata e che si vuole conservare, pecca per eccesso da un lato, lì dove, nel comma 3, appiattisce il consenso di coloro che sono esposti a forme di vulnerabilità specifiche e “tipizzate” (anche quelli affetti da patologie irreversibili e che lamentano sofferenze fisiche o psicologiche insopportabili), la cui tutela è affidata alla norma generale sull’omicidio, mentre, rispetto all’istanza di tutela di situazioni di vulnerabilità atipiche, diverse ed ulteriori da quelle tipizzate, pecca per difetto, non consentendo alcun sindacato sui motivi che potrebbero indurre la vittima a prestare il consenso o che hanno animato il reo a farsi interprete della sua volontà, in quanto incapace di penetrare nelle motivazioni degli attori del fatto.
2. L’irrilevanza dei motivi nell’art. 579 c.p.
Come si diceva, le ragioni dichiarate dalla Corte costituzionale sono quelle di volere garantire i soggetti fragili e vulnerabili da ogni possibile forma di interferenza nel processo motivazionale, riconducibile “a fattori di varia natura (non solo di salute fisica, ma anche affettivi, familiari, sociali o economici”) e che verrebbe preservata proprio dal comma primo dell’art. 579 c.p.
Tuttavia una analisi attenta della norma di cui all’art. 579 c.p. non fornisce grandi elementi a supporto dell’argomento, non consentendo affatto una valutazione dei motivi che hanno indotto a vittima a prestare il consenso.
Ed infatti, a dispetto di quanto si legge nella relazione ministeriale sul progetto del codice penale, il novum legislativo proprio dell’art. 579 c.p. non riflette l’esigenza di mitigare il rigore sanzionatorio dell’omicidio pietatis causa – quindi di dare rilevanza ai motivi che hanno spinto il reo a cagionare la morte di un uomo con il suo consenso - ma, viceversa, quella di correggere la troppo indulgente prassi liberale che si era diffusa nella vigenza del precedente codice, incline a punire la fattispecie concreta come aiuto al suicidio, piuttosto che come omicidio semplice. Tra le due norme - istigazione o aiuto al suicidio e omicidio semplice- si è quindi inserita la fattispecie speciale in commento, che presenta una cornice edittale inferiore rispetto a quella prevista per l’omicidio comune, ma che viene strutturata in modo talmente residuale, a causa dei richiami alla norma generale, da ridurne sensibilmente, in via di fatto, l’applicazione.
Il chiaro intento del legislatore emerge proprio da un’attenta analisi degli elementi costituitivi. Infatti, a ben vedere, l’omicidio con il consenso della vittima tratteggiato nel primo comma dell’art. 579 c.p. è totalmente avulso da qualunque contesto sociale e relazionale che ne denoti una minore gravità e pericolosità, dai motivi e dalle condizioni che inducono la vittima a prestare il consenso, dai motivi che animano l’agire dell’autore ad assecondare tale volere e che attenuano il disvalore del suo agire. In omaggio ad una concezione tanto formale quanto vuota della libertà negoziale, ciò che la norma punisce in modo più attenuato è – semplicemente - l’omicidio realizzato con il consenso di una persona libera, capace, perfettamente sana nella mente e nel corpo che, per qualunque motivo e in qualsiasi contesto di vita, accetti lucidamente di morire per mano altrui, prestando il suo consenso.
Questa valorizzazione dell’autodeterminazione della vittima, tale da affievolire il disvalore di un fatto di omicidio, non è affatto sintomatica di una minore colpevolezza o di una minore pericolosità del reo: nulla si specifica quanto alle condizioni della vittima né a quelle del reo; nulla trapela in ordine al contesto di vita - e psicologico - in cui matura questo insolito “accordo” tra autore e vittima, lasciando ipotizzare una fattispecie concreta in cui la pericolosità e colpevolezza del reo sia persino maggiore di quella che connota l’omicidio comune e semplice, non aggravato da circostanze.
Questa conclusione è tratta dalla lettura del comma secondo. Non possiamo trarre elementi che consentano di contestualizzare e ricostruire la drammaticità della vicenda umana sottesa - sintomatica di una minore colpevolezza e capacità a delinquere del reo - neppure dalla lettura del comma secondo, che pone il divieto di applicazione delle circostanze aggravanti di cui all’art. 61 c.p., dettato unicamente dalla ragione tecnica di consentire una effettiva diminuzione della pena che non sia compensata dal bilanciamento con eventuali circostanze aggravanti. Ne segue che l’omicidio del consenziente, quale figura speciale e attenuata rispetto quella comune, così come scolpito nel primo comma dall’art. 579, ben può comprendere tanto quello animato da motivi altruistici e/o pietistici (c.d. omicidio pietatis causa messo in atto col dichiarato fine di sottrarre la vittima ad ulteriori patimenti cagionati dallo stato patologico dal quale è affetta, e dunque con l’intima ambizione di strapparla ad una gratuita ed ineluttabile sofferenza), tanto quello che si svolge in un teatro ben diverso, innescato da un’iniziativa dell’autore, mosso da motivi egoistici, di lucro, di gioco, di sfida, di onore, abbietti o futili, sintomatico di una maggiore pericolosità, anche quando sia supportato da un assai teorico consenso libero e consapevole della vittima.
Ciò a maggior riprova, nell’ambito della struttura della fattispecie attenuata, della totale irrilevanza della condizione di sofferenza in cui si trova la vittima e, in generale, di particolari contesti di vita da cui scaturisce il fine altruistico, ben potendo, viceversa, la stessa norma essere applicata in casi di un malevolo e egoistico interesse del proponente a cagionare la morte della vittima con il suo consenso, stante la neutralizzazione delle aggravanti operata dal comma 2.
Ne risulta del tutto sconfermato l’assunto della corte costituzionale, ossia che la norma consente di accedere ai contesti di vita, familiare, economico sociale, in cui si matura l’accordo tra vittima e autore. La condotta del reo sembra comprendere un quid pluris rispetto una mera obbediente esecuzione materiale della volontà della vittima, e tratteggiare un’attività di proposta, di progettazione, di blando convincimento e suggerimento, se non ancora di violenza, minaccia, induzione in errore, istigazione, determinazione e persino di suggestione– ma ciò segna i labili confini di applicabilità della norma a favore della fattispecie generale di omicidio – a conferma dell’ipotesi ricostruttiva secondo cui la condotta del reo ben può essere animata da un interesse egoistico a cagionare la morte della vittima, e non solo da motivi altruistici o pietistici, persino espressivo un maggiore disvalore, e ciononostante sottratto all’applicazione delle circostanze aggravanti.
Inoltre, come vedremo nel paragrafo successivo, come se ciò non bastasse, qualunque forma di interferenza, di dialogo, ma anche di suggestione che incida delle “altre” condizioni di vulnerabilità della vittima, segna i labili confini di applicabilità della fattispecie attenuata con quella generale, neutralizzandone di fatto l’applicazione.
3. La tutela dei soggetti vulnerabili nell’art. 579 c.p.
Occupiamoci più dettagliatamente del comma 3 che, nel trattare le situazioni di vulnerabilità tipiche, rinvia alle disposizioni relative all’omicidio.
Invero, il maggiore disvalore dell’azione connotata da violenza, minaccia, induzione in errore e suggestione, a fronte di una compromessa autodeterminazione della vittima, costituisce il discrimen tra omicidio comune e fattispecie speciale, operando come causa di esclusione della tipicità della norma speciale che, solo allora, lascia riemergere tutte le potenzialità punitive delle circostanze aggravanti previste dall’art. 61 c.p. Sono quindi ripristinate le disposizioni dell’omicidio ogni qual volta che la manifestazione di volontà del consenziente sia viziata in conseguenza di presunzione legale o di accertamento in fatto, ovvero qualora la vittima sia minore di anni 18 o sia “inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica determinata da un’altra infermità o dall’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti”.
Inoltre, terza ipotesi di rinvio alla norma generale che punisce l’omicidio è quella in cui il consenso è l’effetto voluto dell’attività di coazione, convincimento, induzione, persuasione, promozione dell’autore, inclusa l’istigazione e la determinazione. Tra queste, si porta all’attenzione del lettore la condotta di “suggestione”, la cui genericità e vaghezza – ai limiti della costituzionalità - apre il varco ad ogni attività di interazione, qualunque forma di vulnerabilità, e la cui verifica, di fatto diabolica, ridimensiona fortemente l’applicazione del comma 1 dell’art. 579. La “suggestione”, infatti, comprende la condotta di colui che plagia e “fiacca la volontà della vittima al punto da renderla succube” (così la Relazione al codice penale, che parla di c.d. omicidio dell’apparente consenziente), in qualche modo incidendo su contesti relazionali di dipendenza e di disagio. Proprio l’inclusione delle condotte di “suggestione” - ancora più blande di quelle di istigazione o determinazione tipizzate dalla norma che punisce l’istigazione o aiuto al suicidio- sembra rimettere pericolosamente in discussione la coerenza del quadro normativo e ridefinire i rapporti tra norma generale e norma speciale, negando l’applicazione della seconda proprio ogni qual volta vi sia stata un’attività di interazione che si inneschi sulle condizioni “atipiche” di vulnerabilità della vittima, suggestionabile e persuadibile più facilmente, a prescindere da condizioni di incapacità mentale affievolita, per esempio, in ragione di condizioni di dipendenza economica, affettiva, sociale e relazionale.
Ancora una volta, risulta poco coerente l’argomento che fa perno sulla vulnerabilità e rilevanza delle condizioni della vittima, a fondamento della necessità di conservare la disposizione del primo comma.
4. La sentenza della Corte costituzionale tedesca: l’autodeterminazione è il valore primario
Dopo questa breve ricognizione della portata normativa dell’art. 579 c.p., volgiamo lo sguardo oltre l’ambito nazionale e prestiamo attenzione agli argomenti sostenuti dalle Corti costituzionali tedesca ed austriaca e i presupposti giuridico-culturali dai cui le Corti sono partite proprio in tema tutela dei soggetti vulnerabili.
Di particolare interesse è la decisione del Tribunale costituzionale tedesco del il 26 febbraio del 2020, concernente la fattispecie di aiuto negoziale al suicidio, in tema di rapporti tra autodeterminazione e tutela della vita e di soggetti vulnerabili, che ha dichiarato, senza mezzi termini, la totale illegittimità costituzionale del § 217 del StGB.
In sintesi, per il Tribunale tedesco il diritto allo svolgimento della personalità e il diritto inviolabile all’autodeterminazione offrirebbero una inequivocabile base costituzionale al diritto di morire, espressivo della decisione, assunta liberamente, di porre volontariamente fine alla propria vita e, persino, di poter fruire del supporto di terzi, che non è soggetto ad alcun sindacato, limite o condizione. Dal diritto a morire, quale estensione contenutistica dei diritti inviolabili dell’individuo, discende il diritto a stabilire le modalità della propria morte, comprese quelle che fruiscono dell’altrui assistenza. Perciò, vietare ai terzi di offrire un supporto, ponendo così l’individuo a realizzare la decisione in una condizione di inumana o irrealistica solitudine, o ad abbandonare il proposito, equivale, di fatto, a negare il diritto stesso. L’argomento centrale per affermare la incostituzionalità della norma valorizza i contenuti positivi e negativi del diritto al libero sviluppo della personalità desumibile dall’art. 2 co. 1° e 2, GG., come comprensivo, quale libertà negativa di agire, della facoltà di disporre della propria vita, quindi anche il diritto a morire. Nella sua conformazione quale diritto all’autodeterminazione alla morte il diritto generale della personalità comprenderebbe non solo il diritto dell’individuo di porre fine alla propria vita in modo autodeterminato, ma altresì la decisione di ricorrere al sostegno di terzi, che in quanto espressione dell’identità personale, non può essere sottoposto a limiti o condizioni. Si tratta di decisioni altamente personali e intimamente esistenziali, espressione dell’identità personale, connesse con il valore dell’autodeterminazione che impronta l’ordinamento. Qualunque sia il significato che l’individuo attribuisce alla propria vita, qualunque sia il motivo che induce una persona a concluderla, si tratta di rappresentazioni e di convinzioni personalissime che, in linea di principio, devono essere rispettate da parte dello Stato e della società, quale atto di autonoma autodeterminazione. Secondo la Corte costituzionale tedesca il diritto di disporre sulla propria vita non è limitato a particolari situazioni patologiche gravi od insanabili o a determinate fasi della vita e della malattia. Un restringimento dell’ambito della protezione a determinate cause e motivi equivarebbe ad una valutazione dei motivi che hanno indotto la persona a suicidarsi e ad una loro predeterminazione contenutistica, che rimane estranea alla concezione costituzionale della libertà. Al di là del fatto che tale limitazione potrebbe condurre a prassi incerte, esso si pone in contraddizione con l’idea, determinante per il Grundgesetz, della dignità dell’essere umano e del suo libero sviluppo in autodeterminazione e autoresponsabilità. Il radicamento del diritto alla morte autodeterminata nella garanzia della dignità umana di cui all’art. 1 co. 1° GG implica, appunto, che la decisione sulla conclusione della propria vita, assunta sotto la propria responsabilità, non abbia bisogno di alcun ulteriore fondamento o giustificazione.
Invero, il Tribunale costituzionale tedesco recepisce una premessa filosofico politica alla luce della quale leggere i diritti individuali tutelati nella Costituzione del 1949: il valore assoluto della autodeterminazione e della dignità (intesa in senso soggettivo e non statualistico oggettivante) dell’individuo, tanto represso e violato dal precedente assetto politico e costituzionale, perché asservito a logiche stataliste. La dignità non è un attributo ontologico e inderogabile del vivere in ogni circostanza che nessun giudizio soggettivo può mai scalfire, una dotazione coestensiva dell’essere umano che la rende un limite delle libertà, non un suo presupposto, ma la sua ragion d’essere. Questo è il leitmotiv che consente al Tribunale costituzionale di trarre, sic et simpliciter, e senza timore di incorrere in critiche, l’affermazione del diritto a morire e all’autodeterminazione alla morte quale species del generale diritto della persona, malgrado manchi nella Costituzione tedesca una esplicita base costituzionale, così come manca una espressa enunciazione del diritto a morire anche nella nostra carta costituzionale. A parità (o forte somiglianza) di norme costituzionali in tema di libertà e diritti individuali, la Corte italiana, espressione di una cultura giuridica secolare e radicata di avversione al suicidio e di repressione di ogni forma di partecipazione, ha assunto un presupposto filosofico-politico opposto, negando l’esistenza di un diritto a morire.
5. La decisione del Tribunale costituzionale tedesco: la tutela dei soggetti vulnerabili e la prognosi di pericolo di abuso
Inoltre, secondo la Corte tedesca, la libera decisione di concludere la propria vita non può rimanere confinata nella ipotetica e più assordante solitudine né relegata in una irrealistica e ristretta sfera privata. Sebbene si tratti di scelta di carattere personalissimo, essa si pone in interazione con la condotta altrui. Il diritto ad una propria morte è in stretto rapporto contenutistico e connessione funzionale con il diritto a fruire dell’aiuto e assistenza fornita da terzi perché nessuno è un’isola e l’autodeterminazione è un valore che o c’è o non c’è. L’individuo si trova in un contesto relazionale, in una fitta trama di rapporti e la vita comunitaria è il terreno di cultura dei diritti di libertà. In particolare i diritti alla personalità sono di fatto annullati se collocati fuori dal contesto sociale e relazionale.
Nell’ambito del diritto costituzionale, il sindacato sulle valutazioni prognostiche di pericolo in relazione alle condotte di abuso nei confronti dei soggetti vulnerabili, come quella posta alla base del divieto del § 217 StGB, non possono avere un valore assiologico permanente, ma puramente empirico. Quindi il legislatore è obbligato alla rettifica qualora la sua valutazione originaria qualora, in un momento successivo, alla luce dell’evoluzione del tessuto sociale, questa si rivelasse, anche solo in parte, erronea. Secondo la giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale, un tale obbligo di monitoraggio permanente è ancor più necessario in ragione del valore dei beni giuridici coinvolti, in relazione al tipo della sua messa in pericolo e in base all’immanente cambiamento delle relazioni sociali.
La decisione suicida, nella sua attuazione, può dipendere dal coinvolgimento dei terzi nella fase della ideazione e progettazione e in quella della sua attuazione. I terzi quindi devono poter offrire liberamente quel supporto, sia morale che materiale, necessario per la progettazione e realizzazione del proposto suicida. Altrimenti, il diritto al suicidio verrebbe di fatto svuotato. Quando l’esercizio di un diritto fondamentale dipende dal coinvolgimento di terzi e da ciò dipende anche il libero sviluppo della persona, non è conforme ai principi costituzionali limitarne l’ambito di esercizio vietando a soggetti terzi di offrire un sostegno o un supporto.
Le esigenze di tutela dei soggetti vulnerabili trovano spazio all’interno di una normazione che assume a valore centrale l’autodeterminazione. Le prevedibili aggressioni all’autodeterminazione del suicida, eccetto i casi di palese vizio della volontà, possono giungere da due versanti: dall’esterno, a causa della diffusione di modelli culturali favorevoli all’assistenza al suicidio e alla morte su richiesta; nelle relazioni intersoggettive, in caso di «pericolosi conflitti d’interessi», emozionali e anche economici cui è esposto il singolo e di deficit informativi. Queste situazioni possono minacciare concretamente l’autonomia personale e il legislatore deve contrastarle. Si impone quindi come legittimo lo scopo di contrastare le decisioni di fine vita che non siano sostenute da una libera, responsabile e ponderata autodeterminazione, scevra da qualunque interferenza motivazionale, in un’ottica di valorizzazione della libera volontà quale presupposto del diritto ad autodeterminarsi anche nella morte.
6. La decisione del tribunale costituzionale austriaco
Altra importante tappa della estensione del diritto all’autodeterminazione terapeutica anche alle fasi finali della vita umana, è costituita dalla pronuncia del Verfassungsgerichtshof austriaco del 11 dicembre 2020 sulla legittimità dei § 77 e 78 del codice penale, norme che puniscono, rispettivamente, l’omicidio del consenziente (§ 77 StGB), l’istigazione al suicidio (§ 78 primo inciso StGB) e l’aiuto al suicidio (§ 78 secondo inciso StGB).
In sintesi, tutti i ricorrenti ritengono che i §§ 77 e 78 StGB sanzionino penalmente la violazione dell’obbligo a continuare a vivere, qualora l’individuo non sia in grado di porre fine alla loro vita in modo autonomo, costringendo così individui sofferenti a sopportare situazioni inumane e degradanti, privi anche del sollievo dell’idea di poter ricorrere all’assistenza sanitaria quando non si ha più la forza di resistere (c.d. 'suicidio prolungato') o - per evitare conseguenze penali a carico dei familiari o medici che li supportano - che li costringa a recarsi all’estero per realizzare la propria volontà. Nella pratica, secondo i ricorrenti, le norme penali esistenti limiterebbero l’accesso legale ad un farmaco di ultima generazione, il Pentobarbital sodico, in uso nelle cliniche svizzere, che consentirebbe la realizzazione di una morte sicura, non violenta, indolore e non degradante. Le disposizioni di cui ai §§ 77 e 78 StGB, dunque, nell’impedire ai sanitari e a coloro che offrono la loro assistenza, la prescrizione e la somministrazione di tale farmaco, in numerosi casi impediscono la possibilità di poter accedere ad una morte autodeterminata e dignitosa medicalmente assistita.
Ripercorriamo le tappe del ragionamento seguito dal giudice costituzionale austriaco, il quale, pur non proclamando una amplissima estensione del principio di autodeterminazione e non affermandone la intrinseca insindacabiltà, come ha fatto quello tedesco, neppure lo delimita a specifiche condizioni che ne tratteggiano l’area di non punibilità solo con specifico riferimento al caso sottoposto al vaglio costituzionale, come ha fatto la Corte costituzionale italiana.
Va immediatamente chiarito che il Tribunale costituzionale assume come valore guida il diritto all’autodeterminazione dell’individuo, diritto la cui effettività comprende le fasi finali della propria vita che gode di ampia estensione e riconoscimento anche a livello di legislazione secondaria, come dimostra il § 110 StGB che punisce la fattispecie di “trattamento sanitario arbitrario” , ovvero in assenza del consenso del paziente, nonchè la legge sul Testamento biologico, la quale tuttavia circoscrive validità e vincolatività del disposizioni del paziente alle sole ipotesi di interruzione o di rinuncia di terapie. Altra norma di fondamentale importanza vigente nell’ordinamento austriaco è il § 49 della legge ÄrzteG del 1998 introdotta con la novella n. 20 del 2019. Tale norma, rubricata “Assistenza ai morenti” ("Beistand für Sterbende") stabilisce nel primo comma che «il medico ha il dovere di assistere i soggetti morenti da lui assunti in trattamento garantendo la loro dignità»[1], mentre nel secondo comma, in chiusura, dispone: « ai sensi del comma 1, è anche permesso nella cornice di indicazioni di medicina palliativa, assumere misure in favore di pazienti morenti il cui uso, finalizzato a mitigare dolori e sofferenze gravi, prevalga in relazione al rischio di un acceleramento della perdita di funzioni vitali essenziali». Sostanzialmente, con la disciplina del § 49 viene previsto un obbligo espressamente normato di assistenza farmacologica e di trattamento del dolore, ed anche se l’effetto indiretto di tale condotta possa costituire la causa della sua morte. In particolare la norma consente – o meglio obbliga - il medico ad adottare trattamenti palliativi nei confronti di pazienti morenti, anche se i benefici nell’alleviare il dolore e l’agonia superino il rischio che ciò possa accelerare la perdita delle funzioni vitali fondamentali e anche in caso di irreversibile compromissione di una o più funzioni vitali, al cui verificarsi è prevedibile il sopraggiungere della morte in breve tempo. In sostanza il comma 2 del § 49 della legge sulle professioni sanitarie consente la somministrazione di farmaci palliativi finalizzati a lenire gravissimi dolori anche se comportano un’accelerazione della perdita delle funzioni vitali, in tal modo sancendo definitivamente la legittimità della c.d. eutanasia attiva indiretta ovvero quella che si verifica come effetto non voluto, indiretto ma inevitabile di una condotta lecita, consistente nella somministrazione di terapie palliative. Nel complesso, la normativa vigente nell’ordinamento austriaco consente pacificamente di ritenere come condotta socialmente adeguata non solo l‘eutanasia mediante omissione (cd. eutanasia passiva), ma anche dell’ eutanasia attiva indiretta.
Alla luce di questo quadro normativo, il Tribunale costituzionale austriaco, nel respingere la richiesta di incostituzionalità rispetto alle prime due norme concernenti l’omicidio del consenziente e l’istigazione al suicidio, ha appuntato i suoi rilievi esclusivamente verso la condotta di aiuto al suicidio, dichiarandone l’illegittimità costituzionale. L’intervento ha quindi riguardato esclusivamente l’assistenza al suicidio, lasciando indenne il reato che punisce l’omicidio del consenziente (§77) e le condotte di induzione morale al suicidio (§78 primo inciso). Con riferimento all’impugnazione della norma che punisce l’omicidio su richiesta (Tötung auf Verlangen) e dei suoi rapporti con la norma generale che punisce l’omicidio, il Giudice delle leggi dunque ha respinto le richieste dei ricorrenti, evidenziando che una sua eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale comporterebbe l’espansione della portata applicativa della norma generale costituita dall’omicidio, con conseguente effetto di aggravamento della risposta sanzionatoria e compressione della liberta di autodeterminazione, a dispetto delle richieste dei ricorrenti. Ne consegue che in caso di un’abolizione del § 77 StGB, la condotta di un aiuto a morire (Sterbehilfe) rimarrebbe ancora punibile – ai sensi del § 75 StGB – e che il risultato cui mirano i ricorrenti –la depenalizzazione dell’eutanasia attiva – non potrebbe, di conseguenza, essere raggiunto, ma frustrato posto che l’abolizione del § 77 StGB avrebbe, quale conseguenza, addirittura un inasprimento della pena, cui i ricorrenti non mirano in alcun modo.
Peraltro, già la giurisprudenza aveva richiesto nel caso di morte su richiesta ai sensi del § 77 StGB, requisiti abbastanza stringenti: non basta un mero consenso che scaturisce da uno stato d’animo temporaneo ad integrare la norma di favore, ma occorre una seria richiesta da parte della vittima, tanto che se il suicidio in sostanza concretizza un’ipotesi di omicidio commesso dalla vittima quale autore mediato (als unmittelbare Täterschaft), la condotta non può essere sussunta ai sensi del § 77 né del §78 StGB ma costituisce omicidio vero e proprio.
Il quadro normativo nazionale e interno consente quindi al giudice costituzionale austriaco di affermare che l’ordinamento attribuisce al diritto all’autodeterminazione dell’individuo in materia di cure mediche un valore centrale e che tale valore, in quanto fondamentale, in linea di principio è ostile ad una contrapposizione o ad bilanciamento con altri interessi quali ad esempio la tutela del diritto alla vita, al contrario, costituendone una sua emanazione.
Ritiene il Bundesverfassungsgericht che, dal punto di vista dei diritti fondamentali, non fa alcuna differenza in linea di principio se il paziente sia sottoposto ad un trattamento medico e si trovi, al momento della richiesta di assistenza al suicidio, nelle condizioni di intollerabilità della sofferenza e di autodeterminazione, e quindi possa disporre per l’immediato per la sua morte, o che la decisione di fine vita sia assunta nell’ambito più ampio di un testamento biologico per il futuro, ove vengano pianificate anche le decisioni in ordine al rifiuto o interruzione di cure o in ordine alla somministrazione di terapie palliative. Piuttosto, è di cruciale importanza, in ogni caso, che la decisione sia espressione della sua libera autodeterminazione, sia radicata, autentica, persistente nel tempo.
L’indicazione è stata recepita dal legislatore austriaco che ha implementato i contenuti del testamento biologico, con inclusione anche delle condotte di assistenza materiale al suicidio mediante la somministrazione del Pentobarbital sodico nei confronti dei soggetti gravemente malati e prossimi alla morte.
7. Per chiudere: prove tecniche di regolamentazione a garanzia dell‘autodeterminazione nei progetti di legge tedeschi presentati da SPD e dai Verdi
Torniamo adesso alla decisione della Corte costituzionale federale tedesca e alle sue implicazioni.
Il punto di partenza è che la decisione dell'individuo di porre fine alla propria vita è un atto di autodeterminazione meritevole di rispetto. Decisiva è quindi la volontà del richiedente rispetto qualunque valutazione basata su criteri di ragionevolezza, su valori oggettivi e generali, insegnamenti religiosi, modelli sociali e ideologici su come affrontare la vita e la morte. I requisiti di accesso alla procedura sono differenti a seconda che il richiedente si trovi in una condizione di patologia grave e irreversibile oppure che aspiri al suicidio per motivi diversi dalla condizione patologica grave, ma in ogni caso deve essere rispettata la decisione, in quanto espressione dell’autonomia individuale, senza alcuna interferenza o giudizio o pregiudizio su come vivere e come morire.
Pertanto, secondo il Tribunale costituzionale tedesco, un divieto penale avente ad oggetto un atto di estrinsecazione dell’autonomia individuale può essere tollerato o accettato legittimamente a condizione che l'ordinamento giuridico garantisca in modo sufficientemente chiaro con regolamentazione apposita i requisiti di legittimità e le procedure di accesso a forme di assistenza al suicidio, tali da garantire al massimo che la morte sia effettivamente autodeterminata del paziente. Solo a seguito dell’introduzione di una normativa di settore che disciplina e garantisce l’accesso a sostanze stupefacenti al fine di poter realizzare la propria morte, sarà legittima la previsione di norme punitive e sanzionatorie a carattere penale o e amministrativo, poste a garanzia della libertà e autodeterminazione della volontà del paziente da pressioni esterne e interessi egoistici. La ragione e il limite dell’intervento legislativo deve essere quello di garantire che la decisione di suicidio sia basata su un autentico ed autonomo libero arbitrio.
Tuttavia, anche successivamente alla pronuncia della Corte costituzionale federale e al radicarsi di una giurisprudenza favorevole del BVerwG, secondo i sostenitori del diritto all’aiuto al suicidio, in assenza di una specifica regolamentazione, esistono ancora molti ostacoli che di fatto impediscono una piena fruizione del diritto da parte di tutti gli interessati, ovvero sia coloro che aspirano ad una morte determinata sia coloro che offrono il loro supporto. Infatti, i richiedenti assistenza al suicidio devono affrontare costi ingenti e sono esposti ad un mercato senza scrupoli, e anche coloro che sono disposti a fornire il loro supporto si vedono esposti a una incertezza giuridica che scaturisce da una inadeguata regolamentazione. Ad esempio, ai medici è fatto divieto di prescrivere il pentobarbital sodico, senza incorrere nella violazione della normativa in tema di sostanze stupefacenti e molti di loro devono confrontarsi, nella maggior parte degli Stati federali tedeschi, con il divieto professionale di assistenza al suicidio.
In questo contesto culturale si collocano i due progetti di legge di regolamentazione dell’assistenza al suicidio presentati dai Verdi (BTDrucks 19Wahlp. Suizidhilfe GrünenBundnis90) e dal SPD (BTDrucks 19 Wahlp. Suizidhilfe SPD FDP) in tema di attuazione del diritto all’assistenza al suicidio, finalizzati sostanzialmente a legalizzare la prescrizione e somministrazione medicalmente assistita del pentobarbital sodico.
In particolare, il disegno di legge presentato da SPD mira a salvaguardare il diritto alla morte autodeterminata del paziente da un lato, e dall’altro anche a garantire da rischi penali colui che vuole spontaneamente e senza alcun obbligo, offrirgli assistenza, regolamentando in modo chiaro e univoco i requisiti di regolamentazione e di normalizzazione della condotta del terzo di assistenza, morale e materiale, al suicidio. L'attenzione è quindi rivolta sia all'autonomia e alla libertà e responsabilità della persona disposta a morire in modo che si formi una determinazione autonoma, consapevole, matura, informata, duratura, supportata da garanzie e scevra da interferenze di ogni tipo, in modo da limitare al massimo l’emergere di situazioni di vulnerabilità; sia ad assicurare che coloro che forniscono assistenza o consulenza, anche solo morale, non incorrano in responsabilità penale.
Inoltre, da un lato si proclama il diritto a decidere della propria morte, ma dall’altra si stabilisce che “ nessuno è obbligato ad assistere al suicidio altrui (§§ 1 e 2). Il diritto costituzionale alla morte autodeterminata assicura la libertà di fruire dell’aiuto altrui, ma non include un diritto legale positivo all'assistenza concreta da un terzo, perché non solo la decisione di morire in modo autodeterminato richiede rispetto e accettazione, anche la decisione consapevole di una persona di non assistere ad un suicidio altrui impone uguale rispetto e accettazione.
Il focus del progetto di legge parte dalla premessa che le persone che intendono porre fine alla loro vita sono attualmente in gran parte lasciate sole nel loro dolore e nelle loro decisioni di fine vita, sia all'inizio di un processo decisionale, cioè quando la volontà di voler morire non è ancora saldamente determinata, sia quando si è già manifestato nella mente un pensiero o la decisione è già stata presa.
Del resto, il progetto di legge segue le indicazioni della Corte Costituzionale Federale, la quale aveva ben posto i requisiti di validità sostanziali della decisione: che si tratti di la volontà libera e non influenzata da un disturbo psichico o una pressione esterna, che la persona interessata sia effettivamente a conoscenza di tutti gli aspetti e le informazioni rilevanti in modo che possa soppesare i pro e i contro, che possa valutare le conseguenze e prendere una decisione con cognizione di causa, permanente nel tempo e quindi convinta e radicata (BVerfG, 26 febbraio 2020 - 2 BvR 2347/15 -).
Il disegno di legge al § 4 quindi prevede l’istituzione di centri di consulenza finalizzati ad evitare, quanto più è possibile, decisioni suicidarie affrettate e non formate autonomamente, dettando requisiti e procedure volte ad assicurare che la “decisione di fine vita” si concretizzi e culmini a seguito di un processo di informazione i cui contenuti, tempistica, modalità, sono ampiamente regolamentate: che si tratti quindi di una decisione formata in modo maturo, informato, tracciabile, trasparente, persistente. Nel dettaglio è disciplinata l’attività di consulenza, la quale mai deve consistere in giudizio, pressione, indirizzo verso una soluzione o l’altra, ma deve svolgersi in modo neutrale. Le persone che vogliono morire sono spesso sole con i loro pensieri e le loro decisioni. L’istituzione di questi consultori consente loro di esternare i loro pensieri ed emozioni anche più intimi, senza pregiudizi, in modo che sia sperimentato un vero supporto nell’eventuale percorso di autodeterminazione della volontà. Non importa quale decisione qualcuno prenda, né è necessario essere d’accordo con tale decisione. C'è un solo criterio: il rispetto del diritto all'autodeterminazione di ogni individuo.
Il disegno di legge mira quindi a creare un'infrastruttura di consulenza istituzionalizzata e organizzata e obbligatoria che faccia sì che le persone abbiano l'opportunità di affrontare il tema del suicidio e dell'assistenza al suicidio tempestivamente, in modo riservato, anche anonimo, qualificato professionalmente, disinteressato, non mosso da motivi di lucro, non influenzato da una preconcetta visione ideologica, neutra sotto il profilo dei contenuti ( § 4 del progetto)[2].
Successivamente alla esecuzione di tale consulenza il medico curante potrà prescrivere il farmaco pentobarbital sodico purchè, a sua volta, fornisca la sua consulenza, in modo da convincersi dell’intimo, informato radicato volontà del paziente. È indicato espressamente che le informazioni fornite dal medico curante integrano la consulenza completa fornita dai centri di consulenza ai sensi del paragrafo 4. Il contenuto delle informazioni mediche deve includere, in particolare, la descrizione delle reazioni dell'organismo all'ingestione di un farmaco ai fini del suicidio. Inoltre, devono essere valutati i possibili rischi, tra cui il fallimento del suicidio e il verificarsi di gravi danni fisici. Se la persona suicida è affetta da una malattia, il medico deve indicare opzioni di trattamento alternative e opzioni di trattamento medico palliativo e discuterne con il paziente (§6).
La prescrizione di un farmaco ai fini del suicidio è consentita solo se il medico curante ha ottenuto il certificato di consulenza ai sensi del paragrafo 4 e che la consultazione non sia stata effettuata più di otto settimane prima. Questo periodo garantisce, da un lato, che la consulenza sia stata regolarmente effettuata e sia pertinente rispetto la condizione di vita attuale della persona che è disposta a morire e, dall'altra, che la persona che viene consigliata sia ancora a conoscenza della conversazione. Se la consulenza non è stata data o se è trascorso un periodo troppo lungo, il medico non può prescrivere il farmaco (§ 6).
Inoltre, in ossequio al principio dei il c.d. “dei quattro occhi” si impone meccanismo procedurale di garanzia che vieta che coloro che forniscono consulenza possano materialmente supportare il paziente prescrivendo o anche supportando materialmente il suicidio. La norma tende a risolvere possibili conflitti di interessi.
Un breve cenno merita anche il BTTDrucks 19Wahlp. Suizidhilfe GrünenBundnis90, presentato dai Verdi, intitolato Legge a tutela del diritto alla morte autodeterminata il quale, senza modificare la normativa in tema di stupefacenti, esplicitamente sancisce nel paragrafo 1 il diritto all’accesso controllato a stupefacenti al fine di realizzare una morte, libera, degna, autodeterminata, espressione del libero arbitrio, e che stabilisce, d’altro lato, al comma 2 che “Nessuno è obbligato ad assistere al suicidio” (§1).
Il § 2 invece stabilisce i requisiti di liceità della decisione di fine vita, e in particolare tipizza i casi in cui deve escludersi la piena consapevolezza e intima volontarietà della richiesta, rinviando alla normativa di settore, e prevendendo anche l’acquisizione di una perizia.
Particolarmente interessante è il § 3 che tratteggia la Procedura di accesso in caso di emergenza medica e che rinvia ai requisiti indicati dalla legge sull’uso di stupefacenti a scopo terapeutico, cui vengono apportate delle modifiche, in modo da consentire la prescrizione e la distribuzione del pentobarbital sodico in caso di richiesta di assistenza medica al suicidio.
La procedura richiede che la decisione di fine vita sia espressa in una dichiarazione scritta la cui efficacia nel tempo è limitata ad un solo mese e che espressamente deve recare: i motivi che supportano la decisione di morire, la durata del suo manifestarsi, l’assenza da pressioni, preoccupazioni, coercizioni e influenze simili, nonché la specifica indicazione del perché le opzioni disponibili alternative, offerte da privati o da strutture pubbliche, non siano state ritenute soddisfacenti.
Anche questo progetto prevede l’istituzione di centri di consulenza autorizzato e indipendente, anche privato, che deve sentire il richiedente almeno due volte e che certifichi l’assenza di condizioni di abusi e di vulnerabilità e eventuali dubbi. Il colloquio deve riferire delle possibili alternative e prospettive di aiuto. I richiedenti assistenza al suicidio a morire possono essere supportati dai medici o da qualsiasi terzo (persone fisiche o giuridiche) nell'attuazione della loro volontà. Tuttavia, le persone fisiche o giuridiche che offrono assistenza terminale su base professionale possono svolgere tali servizi solo se sono autorizzate dall’autorità competente e a condizione di prestare assistenza disinteressatamente. L'autorizzazione può essere revocata se vengono meno i presupposti o se i prestatori di assistenza violano le disposizioni della legge.
Il progetto mira a regolamentare la prescrizione del farmaco a scopo terapeutico in sicurezza. Pertanto è previsto un dovere di conservazione del farmaco e un divieto di cessione ad altri a carico del personale sanitario e delle persone abilitate a prestare assistenza, in modo da impedire un accesso indiscriminato da parte di terzi fuori dalla procedura.
Inoltre è previsto un dovere di restituzione dei narcotici dispensati entro quattro settimane se le persone disposte a morire si sono astenute dall’attuare il loro desiderio, o comunque entro un anno dalla somministrazione del farmaco se il suicidio non si realizza.
Particolarmente interessante è che il progetto di legge presentato dai Verdi è l’unico che prevede reati e illeciti amministrativi a garanzia della procedura di consulenza, qualora si rendano informazioni inesatte o false al fine di ottenere la prescrizione del farmaco anche per altre persone, qualora si prescriva il farmaco senza che sia stato prestato il servizio di consulenza, o qualora si fornisca assistenza al suicidio in assenza di autorizzazione.
[1] Il § 49 comma 1 ÄrzteG obbliga il medico, fra l’altro, ad assistere coscienziosamente tutti i sani ed i malati da lui accettati a fini di consulenza medica, senza differenza di persona e secondo scienza ed esperienza, così come a garantire il benessere del paziente mediante il rispetto delle prescrizioni vigenti e degli standard di qualità specifici della professione.
[2] Si riporta per comodità la traduzione del § 4 Consulenza
(1) Chiunque abbia la propria residenza o dimora abituale in Germania ha il diritto a chiedere consulenze in materia di suicidio assistito. La consulenza è a tempo indeterminato e prescinde dalla realizzazione di risultati pratici.
(2) La consulenza deve trasmettere le informazioni che consentono alla persona di essere adeguatamente informata e di acquisire una base conoscitiva per valutare realisticamente i pro e i contro della decisione di morire. Essa include soprattutto informazioni su:
1. l'importanza e la portata del suicidio;
2. l’esistenza di soluzioni alternative al suicidio, a condizione che la persona che vuole suicidarsi renda disponibili le informazioni pertinenti, anche sul proprio stato di salute e, in caso di malattia, circa la sussistenza di opzioni e alternative terapeutiche e di medicina infermieristica o palliativa;
3. i requisiti dell'assistenza al suicidio;
4. le conseguenze di un suicidio e di un tentativo di suicidio fallito anche rispetto il suo ambiente personale e familiare più stretto;
5. Opportunità di usufruire di offerte di supporto e assistenza;
6. ogni ulteriore informazione medica, sociale e legale necessaria per le circostanze.
(3) Una persona che vuole suicidarsi deve ricevere una consulenza tempestivamente.
(4) La persona disposta a suicidarsi può rimanere anonima, se lo desidera.
(5) La consulenza non può essere fornita dalla persona che in seguito è coinvolta nell'assistenza al suicidio.
(6) Per quanto necessario, viene fornita consulenza in accordo con la persona suicida
1. da medici, specialisti, psicologi, socio-pedagogici, assistenti sociali o specialisti con formazione giuridica e
2. da altre persone, in particolare i parenti stretti.
(7) Dopo che la consulenza è stata completata, il centro di consulenza deve rilasciare un certificato con nome e data attestante che la consulenza ha avuto luogo. Se il consulente nutre dubbi fondati sul fatto che il paziente agisca in modo autonomo, informato, libero arbitrio ai sensi del § 3 paragrafo 1 e paragrafo 3, deve annotarlo sul certificato.
(8) La consulenza è gratuita per la persona e per le persone coinvolte ai sensi del paragrafo 6 numero 2.
Dalla conservazione generalizzata a quella mirata e rapida: la Corte di giustizia ridelinea i contorni della data retention
di Federica Resta*
Sviluppando, in maniera più articolata, principi già affermati in passato, la Corte di giustizia chiarisce come la conservazione dei tabulati a fini di accertamento e perseguimento dei reati non possa essere generalizzata e indifferenziata ma soltanto “mirata” sulla base di criteri soggettivi, geografici o di altra natura (purché oggettivi e non discriminatori) ovvero “rapida” (quick freeze). I principi affermati dalla Corte suggeriscono l’opportunità di una riflessione sulla compatibilità, con la disciplina europea, di quella interna, già peraltro recentemente riformata a seguito della sentenza del 2 marzo 2021.
Sommario: 1. Il contesto - 2. Le indicazioni della Corte - 3. I riflessi sulla disciplina interna
1. Il contesto
Con la sentenza del 5 aprile, la Corte di giustizia fornisce alcune, ulteriori indicazioni importanti sulla disciplina della data retention, suscettibili d’incidere profondamente sulla stessa natura di questo strumento investigativo.
A distanza di poco più di un anno dalla sentenza H.K. c. Prokuratuur (C 746-18)– con cui si è sottolineata l’esigenza di terzietà, rispetto al soggetto pubblico richiedente, dell’autorità titolare del potere di acquisizione dei tabulati [1]- la Corte torna su di un aspetto centrale della disciplina: i presupposti per la legittima conservazione dei dati di traffico a fini “di giustizia”.
Sviluppando ulteriormente e chiarendo i principi già affermati con le sentenze rese nel caso Tele2 Sverige (cause riunite C 203/15 e C 698/15) il 21 dicembre 2016 e La Quadrature du Net (C 511/18 e a.) del 6 ottobre 2020, la Corte di giustizia afferma oggi che:
1) l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58/CE come modificata dalla direttiva 2009/136/CE non consente, a fini di contrasto della “criminalità grave e di prevenzione delle minacce gravi alla sicurezza pubblica” la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, ma ammette:
– la conservazione mirata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione che sia delimitata, sulla base di elementi oggettivi e non discriminatori, in funzione delle categorie di persone interessate o mediante un criterio geografico, per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario, ma rinnovabile;
– la conservazione generalizzata e indifferenziata degli indirizzi IP attribuiti all’origine di una connessione, per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario;
– la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi all’identità civile degli utenti di mezzi di comunicazione elettronica, e
– il ricorso a un’ingiunzione rivolta ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica, mediante una decisione dell’autorità competente soggetta a un controllo giurisdizionale effettivo, di procedere, per un periodo determinato, alla conservazione rapida dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione di cui dispongono tali fornitori di servizi,
sempre che tali misure garantiscano, “mediante norme chiare e precise, che la conservazione dei dati di cui trattasi sia subordinata al rispetto delle relative condizioni sostanziali e procedurali e che le persone interessate dispongano di garanzie effettive contro il rischio di abusi”;
2) l’articolo 15, paragrafo 1, della citata direttiva 2002/58 è incompatibile con una “normativa nazionale in forza della quale il trattamento centralizzato delle domande di accesso a dati conservati dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica, provenienti dalla polizia nell’ambito della ricerca e del perseguimento di reati gravi, è affidato a un funzionario di polizia, assistito da un’unità istituita all’interno della polizia che gode di una certa autonomia nell’esercizio della sua missione e le cui decisioni possono essere successivamente sottoposte a controllo giurisdizionale”;
3) il diritto dell’Unione non consente la limitazione temporale, da parte del giudice, degli effetti di una declaratoria di invalidità di una normativa nazionale che impone ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, in quanto incompatibile con l’articolo 15, paragrafo 1, della citata direttiva 2002/58, pur essendo l’ammissibilità degli elementi di prova così ottenuti soggetta al principio di autonomia procedurale degli Stati membri, sempreché nel rispetto, in particolare, dei principi di equivalenza e di effettività.
Sotto il primo profilo, la Corte riprende e valorizza quanto affermato nella sentenza Tele2 Sverige, che ha dichiarato incompatibile con la direttiva 2002/58 (letta retroattivamente alla luce della Carta di Nizza e riespansa a seguito dell’invalidazione della 2006/24 ad opera della sentenza Digital Rights dell’8 aprile 2014) ogni previsione interna che, per fini di contrasto dei reati: a) imponga la conservazione, generale e indiscriminata, di tutti i dati di traffico e relativi all’ubicazione degli utenti dei mezzi; b) legittimi l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati per finalità ulteriori rispetto a quelle di contrasto dei “serious crimes”, in assenza di un previo vaglio giurisdizionale o comunque di un’autorità amministrativa indipendente e di garanzie relative alla conservazione dei dati nella Ue.
Le discipline interne sulla data retention devono pertanto prevedere- osservava la Corte nel 2016- l’accessibilità dei dati conservati solo da parte dell’autorità giudiziaria o di un’autorità amministrativa indipendente, in base a circostanze e procedure disciplinate dalla legge per esigenze di accertamento di gravi reati, notificando la misura all’interessato (come già affermato dalla Corte EDU nella sentenza Zakharov del 4.12.15), non appena le esigenze investigative lo consentano.
Ma l’aspetto maggiormente innovativo della pronuncia concerneva l’esigenza di rendere selettiva e mirata la stessa conservazione dei tabulati, limitandola in ragione del tipo di dato, del mezzo di comunicazione considerato, della durata della ritenzione, delle persone coinvolte (che devono avere un collegamento almeno indiretto con la commissione di gravi reati), finanche di criteri geografici che limitino la conservazione ad aree caratterizzate da rischi specifici. Già nel 2016, dunque, la Corte indicava specifici presupposti di ammissibilità della conservazione dei tabulati, che finivano con il mutarne profondamente la natura stessa di misura preventiva e come tale applicabile massivamente, in vista di un’acquisizione, soltanto eventuale, successiva e retrospettiva, in sede giudiziaria.
In tal modo, la Corte evidenziava un’ulteriore, rilevante implicazione del principio di proporzionalità tra limitazioni dei diritti fondamentali ed esigenze di pubblica sicurezza che- come chiarito nella sentenza Digital Rights del 2014- esige una differenziazione della conservazione dei dati specificamente modulata in base al tipo di delitto, alle esigenze investigative, al tipo di dato e di mezzo di comunicazione utilizzato.
2. Le indicazioni della Corte
Con la sentenza in commento la Corte sviluppa, con maggiore nettezza, quei precedenti, sulla base della considerazione dell’ingerenza della conservazione generalizzata dei tabulati sulla privacy “della quasi totalità della popolazione senza distinzione, limitazione o eccezione (…), senza che tali persone si trovino, neanche indirettamente, in una situazione idonea a dar luogo ad azioni penali”, tale da dover rappresentare “l’eccezione e non la regola “ (punti 66 e 65).
La Corte, quindi:
a) conferma la posizione tenuta ne La Quadrature du Net rispetto alla legittimità, ai soli fini di salvaguardia della sicurezza nazionale, del “ricorso a un’ingiunzione che imponga ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica di procedere a una conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, in situazioni nelle quali lo Stato membro interessato affronti una minaccia grave per la sicurezza nazionale che risulti reale e attuale o prevedibile, ove il provvedimento che prevede tale ingiunzione possa essere oggetto di un controllo effettivo, da parte di un giudice o di un organo amministrativo indipendente, la cui decisione sia dotata di effetto vincolante, diretto ad accertare l’esistenza di una di tali situazioni nonché il rispetto delle condizioni e delle garanzie che devono essere previste, e detta ingiunzione possa essere emessa solo per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario, ma sia rinnovabile in caso di persistenza di tale minaccia”. Ad avviso della Corte, infatti, “l’importanza dell’obiettivo della salvaguardia della sicurezza nazionale, letto alla luce dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE, secondo il quale la salvaguardia della sicurezza nazionale rimane di competenza esclusiva di ciascuno Stato membro, supera quella degli altri obiettivi di cui all’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, in particolare degli obiettivi di lotta alla criminalità in generale, anche grave, e di salvaguardia della sicurezza pubblica. Fatto salvo il rispetto degli altri requisiti previsti all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, l’obiettivo di salvaguardia della sicurezza nazionale è quindi idoneo a giustificare misure che comportino ingerenze nei diritti fondamentali più gravi di quelle che potrebbero giustificare tali altri obiettivi”.
La distinzione tra sicurezza nazionale e contrasto della criminalità, anche grave è così delineata dalla Corte: “l’obiettivo di preservare la sicurezza nazionale corrisponde all’interesse primario di tutelare le funzioni essenziali dello Stato e gli interessi fondamentali della società mediante la prevenzione e la repressione delle attività tali da destabilizzare gravemente le strutture costituzionali, politiche, economiche o sociali fondamentali di un paese, e in particolare da minacciare direttamente la società, la popolazione o lo Stato in quanto tale, quali in particolare le attività di terrorismo (…); a differenza della criminalità, anche particolarmente grave, una minaccia per la sicurezza nazionale deve essere reale ed attuale o, quanto meno, prevedibile, il che presuppone il verificarsi di circostanze sufficientemente concrete, da poter giustificare una misura di conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, per un periodo limitato. Una minaccia del genere si distingue quindi, per sua natura, per gravità e specificità delle circostanze che la costituiscono, dal rischio generale e permanente rappresentato dal verificarsi di tensioni o di perturbazioni, anche gravi, della pubblica sicurezza o da quello di reati gravi”. La Corte precisa inoltre, in replica a un’eccezione del governo danese, che l’eccezionale conservazione, generalizzata e indifferenziata, dei tabulati a fini di sicurezza nazionale, non legittima comunque, in ogni caso, l’accesso agli stessi nell’ambito di indagini penali.
b) escludendo l’equiparabilità (invocata dalla Commissione), alle esigenze di sicurezza nazionale, del contrasto della criminalità particolarmente grave, esclude che in tale ultimo ambito possa ammettersi la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati di traffico e relativi all’ubicazione, ammettendola soltanto relativamente ai dati relativi all’identità civile degli utenti dei mezzi di comunicazione elettronica e agli indirizzi IP attribuiti alla fonte di una connessione, sempre comunque nel rispetto dei requisiti sostanziali e procedurali già affermati e per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario[2] (punti 63, 65, 70). Per tali esigenze, la conservazione dei dati di traffico e relativi all’ubicazione (pur congiunta, se del caso, a quella relativa all’indirizzo Ip e all’identità degli utenti) è ammissibile solo se “mirata” (ovvero delimitata, sulla base di elementi oggettivi e non discriminatori, in funzione delle categorie di persone interessate o mediante un criterio geografico, per un periodo temporalmente limitato allo stretto necessario, ma rinnovabile) o rapida (realizzata cioè mediante provvedimento dell’autorità competente soggetto a un controllo giurisdizionale effettivo, che ingiunga ai fornitori di procedere, per un periodo determinato, alla conservazione rapida dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione di cui dispongono: punto 67).
Con riguardo a tali due ultime ipotesi, la Corte precisa che la conservazione “mirata” deve rispondere a requisiti di ordine soggettivo, spaziale, ovvero su altri presupposti purché obiettivi e non discriminatori, stabiliti dagli Stati “per garantire che la portata di una conservazione mirata sia limitata allo stretto necessario e per stabilire un nesso, almeno indiretto, tra gli atti di criminalità grave e le persone i cui dati sono conservati” (punto 83).
Per quanto concerne i requisiti di ordine soggettivo, la conservazione deve riferirsi a persone, l’acquisizione dei cui tabulati possa rivelare una connessione, almeno indiretta, con reati gravi o possa prevenire un grave rischio per la sicurezza pubblica o nazionale (ad es. con riguardo alle persone “precedentemente identificate, nell’ambito delle procedure nazionali applicabili e sulla base di elementi oggettivi e non discriminatori, come soggetti che costituiscono una minaccia per la sicurezza pubblica o la sicurezza nazionale” o che, nell’ambito di tale identificazione, fondata su elementi oggettivi e non discriminatori, sono sottoposte “ad indagine o ad altre misure di sorveglianza in corso o sono iscritte nel casellario giudiziario nazionale ove è menzionata una condanna precedente per atti di criminalità grave che possono comportare un elevato rischio di recidiva” (punti 77-78).
Il criterio spaziale di delimitazione della conservazione (da individuarsi comunque sulla base di parametri oggettivi e non discriminatori) deve riferirsi alla sussistenza, in una o più zone geografiche “di una situazione caratterizzata da un rischio elevato di preparazione o di commissione di atti di criminalità grave. Tali zone possono essere, in particolare, luoghi caratterizzati da un numero elevato di atti di criminalità grave, luoghi particolarmente esposti alla commissione di atti di criminalità grave, quali luoghi o infrastrutture frequentati regolarmente da un numero molto elevato di persone, o ancora luoghi strategici, quali aeroporti, stazioni o aree di pedaggio” (punto 79). I parametri da considerarsi a tal fine, ovvero l’elevato tasso di criminalità o l’esposizione del luogo al rischio di commissione di gravi reati vengono espressamente ritenuti, dalla Corte, non discriminatori anche in assenza di indizi concreti relativi alla preparazione o alla commissione di specifici atti criminosi nel momento e nella zona considerati (punto 80). Naturalmente, le zone geografiche selezionate possono e, se del caso, devono essere modificate in funzione dell’evoluzione delle condizioni che ne hanno giustificato l’individuazione, adeguando dunque la misura al mutare delle esigenze di contrasto, nel rispetto del principio di stretta necessità della limitazione del diritto alla privacy rispetto all’obiettivo del contrasto di reati gravi. La Corte precisa, infine, che l’eventuale difficoltà che uno Stato possa incontrare nel definire presupposti e limiti della conservazione mirata non può giustificare la previsione della conservazione generalizzata e indifferenziata dei tabulati, che da eccezione diverrebbe in tal modo regola.
Per quanto, invece, concerne la conservazione rapida dei tabulati dei quali i fornitori dispongano a fini commerciali (tecnici o di fatturazione), la Corte ammette che la legislazione nazionale ne preveda- a fini di contrasto di forme gravi di criminalità o per esigenze di sicurezza nazionale- la conservazione, per un periodo determinato, sulla base di un provvedimento dell’autorità competente “soggetto a un controllo giurisdizionale effettivo”. In tal caso, l’ordine di conservazione può estendersi, pur nella misura della stretta necessità, ai tabulati relativi a persone diverse “da quelle sospettate di avere progettato o commesso un reato grave o un attentato alla sicurezza nazionale, purché tali dati possano contribuire, sulla base di elementi oggettivi e non discriminatori, all’accertamento di un siffatto reato o attentato alla sicurezza nazionale, quali i dati della vittima o del suo ambiente sociale o professionale”. Inoltre, l’ordine di conservazione rapida può riguardare anche zone geografiche determinate in connessione, a vario titolo, con il fatto di reato e può, in ogni caso, intervenire sin dall’avvio delle indagini (punti 90 e 91).
3. I riflessi sulla disciplina interna
Benché, appunto, la sentenza del 5 aprile non sia realmente innovativa, ma riprenda principi già affermati, in particolare con le sentenze Tele2 e La Quadrature du Net, la nettezza e la particolare articolazione con cui essi sono oggi esposti suggeriscono una riflessione sulla compatibilità della disciplina interna (peraltro recentemente riformata proprio a seguito della sentenza H.K. del 2 marzo 2021) con quella europea.
In linea generale, il massimo punto di tensione con i principi affermati dalla Corte riguarda l’oggetto della selezione richiesta per escludere la massività della misura. La disciplina interna si è strutturata, peraltro non da ora, sulla riferibilità del criterio selettivo al solo momento acquisitivo. In altri termini, il criterio della gravità del reato è stato concepito come idoneo a modulare diversamente la profondità cronologica dell’acquisizione processuale, senza tuttavia incidere ex ante sulla fase della conservazione. E’ significativa, sul punto, la posizione espressa dalla sentenza 13 febbraio 2020, n. 5741 della Corte di Cassazione, secondo cui “non può ritenersi che la disciplina italiana di conservazione dei dati di traffico (c.d. data retention) sia in contrasto con le pronunce della Corte di giustizia datate 8 aprile 2014 e 21 dicembre 2016 poiché la suddetta normativa prevede la conservazione dei dati per un periodo limitato pari a 24 mesi, subordina la possibilità di acquisizione degli stessi soltanto per finalità di accertamento e repressione dei reati, prevede che l'utilizzazione degli stessi dati sia sottoposta al provvedimento di acquisizione emesso da parte del Pubblico Ministero e cioè di un organo giurisdizionale che procede nell'ambito di una attività di indagine preliminare. Ne deriva quindi affermare che la legislazione italiana non prevede la facoltà delle autorità pubbliche di accesso indiscriminato ai dati sensibili bensì la limita ai soli casi di indagini per fatti di reato svolte entro un determinato arco temporale di 24 mesi (elevati a 72 solo per fatti di reato di particolare allarme sociale) e la subordina alla autorizzazione proveniente da un organo giurisdizionale. […] Va pertanto ribadita la legittimità della normativa nazionale di riferimento costituita dall'art. 132 Codice della privacy, poiché la deroga al diritto alla riservatezza delle comunicazioni è prevista per un periodo limitato, ha come esclusivo obiettivo l'accertamento e la repressione dei reati è subordinato alla emissione di un provvedimento da parte di un'autorità giurisdizionale” (c.a.).
La soluzione interna è certamente coerente con la natura “retrospettiva” di questo mezzo di ricerca della prova, che presuppone una conservazione indistinta in vista di un’acquisizione solo eventuale. Inoltre, essa riflette – e rifletteva anche sul punto, poi modificato con il d.l. 132 del 2021, dell’attribuzione al solo pubblico ministero della potestà acquisitiva – la posizione tenuta dalla Corte costituzionale in relazione alla diversa ingerenza, sulla privacy, della data retention, rispetto a quella propria delle intercettazioni, tale da giustificarne la differente disciplina.
In linea con la teoria tedesca delle “sfere” concentriche lungo le quali si articolerebbe, con diversa intensità, la tutela dei diritti fondamentali, già con la sentenza n. 81 del 1993, la Consulta ha ravvisato nell’acquisizione dei tabulati un’incidenza solo marginale sul diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni di cui all’art. 15 Cost. Come sottolinea Carlotta Conti (Sicurezza e riservatezza, in Dir.pen.proc., 2019, n. 11, 1572), infatti, la natura emergente o periferica del diritto inciso è il parametro che induce la Corte a ritenere, secondo i principi di adeguatezza e proporzionalità, sufficiente un modello di tutela più tenue. La Corte allora delineava, dunque, parallelamente alle prove incostituzionali (e come tali inammissibili) perché, appunto, lesive di diritti costituzionalmente tutelati, la categoria delle prove (allora atipiche) “rafforzate” perché incisive su diritti di libertà, ammettendo per lesioni solo periferiche di tali diritti un bilanciamento “attenuato” che moduli le tutele in ragione dell’entità solo marginale della compressione del diritto.
Quest’impianto, pur ragionevole, mal si concilia ora con la posizione della Corte di giustizia, che muove dalla considerazione dell’impatto significativo della data retention sulla riservatezza individuale e, peraltro, di tutti i cittadini (nell’ipotesi, appunto, di una conservazione generalizzata, preventiva e indifferenziata) a prescindere da alcuna connessione con possibili reati.
La disciplina interna che- pur a fronte di una differenziazione per titolo di reato in fase acquisitiva presuppone, comunque, la conservazione preventiva e generalizzata dei dati di traffico relativo alla generalità indistinta dei cittadini - sembra dunque da rivedere nel suo impianto complessivo, almeno con riferimento ad alcune tipologie di dati.
Da un lato, andrà probabilmente operata una distinzione fondata sulla tipologia dei dati, con un regime differenziato e meno rigido per quelli relativi all’identità civile degli utenti dei mezzi di comunicazione elettronica e agli indirizzi IP attribuiti alla fonte di una connessione.
Dall’altro lato, sarà opportuno disciplinare i parametri, soggettivi, spaziali e se del caso di altra natura (purché, appunto, oggettiva e non discriminatoria) sulla base dei quali procedere alla conservazione mirata dei dati di traffico e relativi all’ubicazione da utilizzare a fini di contrasto di gravi reati (categoria suscettibile probabilmente di estendersi anche oltre quella dei delitti di competenza delle Procure distrettuali). Nella delineazione dei criteri di ordine soggettivo, sarà certamente da evitare ogni previsione suscettibile di far riemergere logiche da “tipo di autore” che rappresenterebbe l’esito paradossale di affermazioni, quali quelle della Corte di giustizia, mosse certamente da obiettivi diversi.
Per altro aspetto, diverrà tanto più opportuno disciplinare positivamente la cd conservazione rapida e il relativo accesso, definendo presupposti e modalità per l’attuazione tempestiva dell’ordine di quick freeze o, direttamente, di acquisizione dei dati, ipotizzando eventualmente anche procedimenti di convalida di ordini adottati d’urgenza al fine di impedire che il decorso del periodo massimo di memorizzazione per fini commerciali vanifichi elementi di prova.
Così come sarà opportuno chiarire- proprio alla luce della specifica differenza che emerge dalla sentenza tra la conservazione preventiva e generalizzata dei dati di traffico relativi alla generalità indistinta dei cittadini e l’acquisizione del dato relativo al traffico all’interno del singolo processo, accedendo a dati conservati in supporti nella disponibilità dell’a.g.- come quest’ultimo tema esuli dalla problematica affrontata dalla Corte.
Per quanto, infine, concerne la conservazione dei tabulati ai sensi dell’art. 4 d.l. 144 del 2005, convertito con modificazioni dalla l. 155 del 2005, essa, in quanto funzionale a fini di sicurezza nazionale, sembra riconducibile alla sfera di legittimità delineata dalla Corte di giustizia. Si potrebbe tuttavia riflettere sull’opportunità di una giurisdizionalizzazione piena anche di questo procedimento acquisitivo. La competenza del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma potrebbe, infatti ritenersi non del tutto in linea con l’esigenza del vaglio di un giudice o, comunque, di un’autorità indipendente ribadita dalla sentenza in commento, laddove si legga questo requisito alla luce dell’esigenza di terzietà richiesta, per l’organo titolare del potere autorizzatorio, dalla pronuncia H.K. del 2 marzo 2021. Analoga giurisdizionalizzazione piena potrebbe, peraltro, essere prevista per la diversa ipotesi di conservazione, essa sì, rapida di cui all’articolo 132, c.4-ter d.lgs. 196 del 2003 e s.m.i.,
Resta, però, da riflettere sulla ragionevolezza di una distinzione così significativa (in termini di strumenti investigativi esperibili) tra data retention funzionale ad esigenze di tutela della sicurezza nazionale e conservazione a “fini di giustizia”; distinzione certamente assai approfondita dalla sentenza in esame.
*Dirigente del Garante per la protezione dei dati personali. Le opinioni contenute nel presente contributo sono espresse a titolo esclusivamente personale e non impegnano in alcun modo l’Autorità)
[1] L’esigenza di piena giurisdizionalizzazione della procedura di acquisizione dei tabulati è stata valorizzata, dal legislatore interno, con il d.l. 132 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla l. 178 del 2021. La sentenza della Corte e il decreto-legge sono stati pubblicati e commentati su questa Rivista. La disciplina transitoria introdotta dall’art. 1, comma 1-bis, della legge di conversione del d.l. 132- che ha consentito l’utilizzazione dei dati relativi al traffico telefonico, al traffico telematico e alle chiamate senza risposta acquisiti nei procedimenti penali in data antecedente all’entrata in vigore della riforma- è stata, peraltro, ritenuta compatibile con l’art. 15, par. 1, della Direttiva 2002/58/CE “in quanto, in un’ottica di ragionevole ed equilibrato contemperamento di interessi diversi, persegue la finalità di non disperdere dati già acquisiti, subordinandone l’utilizzazione alla significativa illiceità penale di predeterminate ipotesi per cui è consentita l’acquisizione a regime e alla sussistenza di “altri elementi di prova”, quale requisito di compensazione della mancanza di un provvedimento giudiziale di autorizzazione all’acquisizione stessa “ dalla Terza sezione penale della Corte di cassazione, con sent. n. 11991 del 31/01/2022 (dep. 01/04/2022).
[2] In particolare al punto 156 de La Quadrature du Net, secondo cui “solo la lotta alle forme gravi di criminalità e la prevenzione delle minacce gravi alla sicurezza pubblica sono idonee, al pari della salvaguardia della sicurezza nazionale, a giustificare siffatta ingerenza. Inoltre, la durata della conservazione non può eccedere quella strettamente necessaria alla luce dell’obiettivo perseguito. Infine, una misura di questa natura deve prevedere condizioni e garanzie rigorose riguardo all’utilizzo di tali dati, segnatamente mediante tracciamento, in relazione alle comunicazioni ed attività effettuate online dagli interessati”.
Profili della presunzione di innocenza e della modalità della comunicazione nel d.lgs. n. 188 del 2021*
di Luigi Salvato
1. Per il tempo a disposizione, mi limito ad alcune sintetiche considerazioni in ordine alla presunzione di innocenza con riguardo alle modalità della comunicazione alla luce del d.lgs. n. 188 del 2021[1].
La premessa dalla quale muovere è che non irragionevolmente l’interesse suscitato dal decreto potrebbe destare sorpresa. Molta strada è stata infatti percorsa da quando la considerazione della presunzione di innocenza come una sorta di «stravaganza» germogliata «dai principi della Rivoluzione francese»[2] è stata accantonata dalla Costituzione, sia pure con la formula «presunzione di non colpevolezza», frutto di un compromesso che lasciava irrisolti alcuni problemi teorici. La presunzione di innocenza è assurta infatti a regola saldamente radicata nella coscienza, anche perché espressamente codificata[3] e nel tempo riempita di contenuto da numerose sentenze, in particolare, tra le altre, della Corte EDU[4], che l’hanno riferita alle dichiarazioni di tutte le autorità pubbliche[5], da rendere sempre «con tutta la discrezione e tutto il riserbo imposti dal rispetto della presunzione di innocenza»[6], avendola altresì inclusa la Corte di giustizia nell’ambito dei diritti fondamentali tutelati dall’ordinamento comunitario[7]. Numerose, sono state le prescrizioni dettate da fonti “interne” ed “esterne”, di vario rango[8], con riguardo proprio al profilo della comunicazione, dettagliate al punto da indurre a ritenere che tutto fosse stato già detto.
Così non è stato; l’insufficienza di queste fonti è sotto i nostri occhi e giustifica il recente intervento normativo. Al riguardo, basta considerare, in primo luogo, le criticità evidenziate dalla Commissione europea il 31 marzo 2020[9]; in secondo luogo, che il fenomeno definito nel 1993 da Daniel Soulez Larivièr «circo mediatico giudiziario»[10], sommamente lesivo della presunzione di innocenza, è stato aggravato dallo sviluppo delle nuove tecnologie.
2. Per porre rimedio a tali criticità, le «misure appropriate» richieste dall’art. 4 della direttiva[11] si sono concentrate, con il d.lgs. n. 188, sul versante delle autorità pubbliche; in particolare, anche rafforzando quelle di natura disciplinare, l’unico profilo al quale accenno, per ragioni di tempo e perché l’immaginario collettivo rimandato dai media le attribuisce una sorta di risolutiva funzione salvifica.
L’intervento, sotto questo profilo, è tuttavia sembrato quasi subito poco incisivo[12], al punto che costituisce oggetto di discussione la proposta di prevedere quale illecito disciplinare la violazione di tutti gli obblighi del richiamato art. 5[13].
Non pochi sono i dubbi e le preoccupazioni sollevati sulla congruità della disciplina: di quella introdotta dal d.lgs. n. 188, per difetto; di quella in itinere, per eccesso.
Sui dubbi e sulle preoccupazioni ‘per difetto’ occorrerà riflettere tenendo conto che, anche in mancanza di un ampliamento del catalogo degli illeciti[14], la violazione della presunzione di innocenza nella ‘comunicazione’, nella declinazione datane dal decreto legislativo, può integrare non poche fattispecie. Esemplificativamente: può determinare uno «ingiusto danno» (rilevante ai sensi dell’art. 2, lettera a); può costituire condotta gravemente scorretta (ex art. 2, lettera d); può permettere un’interpretazione più rigorosa dell’ingiustificata interferenza (art. 2, lettera e); può dare luogo ad una grave violazione di legge, ai sensi dell’art. 2, lettera g) (in presenza, ovviamente, di tutti i noti elementi richiesti ai fini disciplinari); può integrare l’illecito dell’art. 2, lettera l)[15]; può essere riconducibile all’art. 2, lettera n)[16].
I dubbi e le preoccupazioni ‘per eccesso’ dovranno invece essere approfonditi alla luce della considerazione che la gran parte dei nuovi (proposti) illeciti, certo quelli più problematici, sono previsti da clausole generali, quali sono quelle che consentono la diffusione delle informazioni «solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico», ovvero di tenere una conferenza stampa soltanto in presenza di «specifiche ragioni di pubblico interesse». Si tratta di clausole compatibili con il principio di legalità come declinato dalla Corte costituzionale[17]. Le espressioni identificano infatti con certezza il precetto e fanno riferimento a concetti di comune esperienza ed a valori etico-sociali oggettivamente accertabili dall'interprete, anche perché, al fine di stabilire se la fattispecie sia stata integrata, occorre accertare che sia stato leso il bene giuridico specifico oggetto della fattispecie, che si pone accanto a quello generale della credibilità del magistrato e del prestigio dell’ordine giudiziario[18].
Bene specifico tutelato dalle fattispecie è il diritto alla presunzione di innocenza, che si affianca a quello all’immagine di indipendenza, imparzialità e serenità di giudizio del magistrato, nonché all’inesistenza di una «possibile percezione di disparità di trattamento tra accusa e difesa», sicuramente già tutelato dalle vigenti previsioni in tema di modalità della comunicazione[19]. Nondimeno, va ricordato che accanto a tale diritto si pone altresì il diritto all’informazione, «cardine di democrazia nell’ordinamento generale»[20], anche in considerazione del ruolo della stampa di «cane da guardia» della democrazia[21], assumendo la libertà di stampa «un’importanza peculiare, in ragione del suo ruolo essenziale nel funzionamento del sistema democratico, nel quale al diritto del giornalista di informare corrisponde un correlativo “diritto all’informazione” dei cittadini»[22], costituendo l’accesso alla pubblica opinione non una «opportunità», ma una «necessità politica»[23], correttamente e chiaramente considerata – è opportuno sottolinearlo – anche dal d.lgs. n. 188, tenendo conto che, come di recente ricordato dal Presidente della Repubblica, «è opportuna la trasparenza della decisione da assicurare attraverso un’adeguata comunicazione istituzionale», nell’osservanza del «principale dovere che deve assumere il magistrato: l’eticità dei suoi comportamenti, anche nelle diverse forme di comunicazione»[24]. La questione, non esistendo nell’ordinamento costituzionale alcun diritto tiranno, resta dunque quella della modalità dell’informazione e del bilanciamento dei valori in gioco, bilanciamento difficile, ma non impossibile, anche tenendo conto delle coordinate fissate, anche di recente, dalla Corte costituzionale[25].
3. Queste sintetiche considerazioni permettono di ridimensionare alcune preoccupazioni e di dare risposta ad alcuni dubbi, ma forse non eliminano le perplessità per l’enfatizzazione della pregnanza dell’intervento disciplinare, e ciò per almeno tre ordini di ragioni.
La prima è che tale enfatizzazione conforta la preoccupazione, di recente ricordata dal Procuratore generale della Corte di cassazione, Giovanni Salvi[26], per la «crescente tensione per un diritto punitivo etico», che ripropone dinamiche degenerative concernenti il diritto penale (giustamente criticate ed irragionevolmente esportate), giungendo ad invocare, non correttamente, il diritto disciplinare quale strumento di garanzia dell’etica e della professionalità delle condotte dei magistrati. Essa rischia, inoltre, di tramandare l’inesatto convincimento sull’esistenza di un inscindibile nesso tra etica, deontologia e responsabilità disciplinare che, confondendo i diversi livelli di riprovevolezza dei comportamenti, ne impedisce un efficace contrasto sui differenti piani dell’etica (individuale e sociale) e della responsabilità sociale e deontologica, prima ancora che disciplinare, civile e penale, postulando un’inesistente, perniciosa, relazione che finisce con l’ostacolare anche l’irrogazione di quelle sanzioni (in senso lato) non condizionate alla celebrazione di un processo. L’enfatizzazione alimenta una concezione della responsabilità disciplinare erronea, che ne oblitera l’esclusivo carattere di rimedio preordinato a sanzionare la violazione dei doveri funzionali del magistrato nei confronti dello Stato e ad irrogare una sanzione che incide esclusivamente sul rapporto di impiego, all’interno di un procedimento cui il cittadino resta estraneo. Non è dunque (non può essere) strumento di garanzia della esattezza delle decisioni dei diritti lesi da provvedimenti e/o condotte non corretti, i quali restano tutelati e tutelabili con rimedi diversi, autonomi e indipendenti, oggetto di altri, differenti, procedimenti che non sono influenzati (e/o condizionati) da quello disciplinare e, dunque, sul piano dell’immediata tutela del diritto leso la misura disciplinare può rivelarsi non appagante e finanche fuorviante.
La seconda delle richiamate ragioni è costituita dal rischio che l’enfatizzazione del profilo disciplinare possa far perdere di vista, ed impedire di considerare al giusto, le cause della complessità della questione. Queste ultime sono anzitutto di sistema, rinvenendo radice nell’avanzata dello stato costituzionale che, ha scritto Peter Häberle, ha posto all’ordine del giorno la questione del peso dei problemi di verità e del diritto dell’uomo alla verità, assurto a diritto fondamentale quando si riconosca che la verità è una forma di giustizia[27]. Lo stato costituzionale si caratterizza tuttavia «per la consapevolezza di non essere in possesso di precostituite verità eterne, ma di essere invece destinato ad una mera ricerca della verità»; unica regola assoluta è quella, di metodo, della sua ricerca attraverso la dialettica ed il confronto. Per tale imperativa regola, nello stato costituzionale deve ritenersi rafforzata la distinzione tra verità «storica», «giornalistica» e «giudiziaria»: ciascuna può non essere identica all’altra; si collocano su piani diversi che non sempre si intersecano; vanno ricercate attraverso le procedure previste ed è questo che ne certifica la validità. Verità giudiziaria è solo quella raggiunta nella rigorosa osservanza del giusto processo di legge. Il giurista è tenuto a «valorizzare l’”autonomia” del suo discorso di verità ed elaborarlo specificandone gli ambiti e le funzioni: alla libera stampa è consentito un rapporto con la verità diverso da quello che coinvolge il giudice»[28]. Restano quindi valide le considerazioni con cui non un giurista, ma un intellettuale e giornalista, ricordò anni addietro che gli era capitato di indossare «una toga e di fare una dozzina di processi televisivi. Ma io scherzavo», osservando efficacemente: «la storia sputa sentenze che appartengono a lei sola, e la giustizia non deve imitarla, rincorrerla, ricalcarla, mescolarla a sé. Ne va del Vero giuridico, quell’approssimazione al fatto “come è accaduto” che ha un senso soltanto se non è intuizione, giudizio o accertamento storico, soltanto se si fonda su garanzie liberali di cui uno storico non saprebbe come servirsi»[29]. Se non comprendiamo questo, «allora la base delle nostre libertà è non già incrinata o messa in mora ma letteralmente distrutta» ed è sicura la perdita di «quella secolare conquista della civiltà giuridica secondo cui solamente all’esito di un giusto processo» si può essere definiti colpevoli[30].
La terza delle accennate ragioni di complessità è costituita dalla novità dell’irrompere del mondo di Internet, nel quale la valutazione ed il verdetto sono diventati frutto della «smisurata giuria pubblica» dei social media, che giudica in tempo reale, pretende una risposta immediata attraverso plebisciti governati dalla sola logica dell’emotività, a prescindere (e contro) i principi del giusto processo di legge, visto «come un lungo e a tratti noioso percorso burocratico per arrivare a definire qualcosa che […] nella coscienza collettiva è già certo»[31], come invece non è, ed è necessario ribadirlo con forza, senza stancarsi. Tutto ciò senza peraltro che il popolo dei social media abbia consapevolezza del rischio, insito negli stessi, della «relativa facilità con cui le emozioni negative possono essere usate per creare dipendenza e manipolare [che] produce risultati aberranti», a causa di una «sfortunata combinazione di biologia e matematica»[32].
Un passato non troppo remoto ci ha consegnato luminosi esempi del corretto modo del magistrato e del professionista dell’informazione di porsi di fronte al processo, in una vicenda in cui tutte le questioni che costantemente si ripropongono erano particolarmente esaltate; a questi dobbiamo avere riguardo, da questi dobbiamo trarre i dovuti insegnamenti. Mi riferisco al celeberrimo reportage di Hannah Arendt relativo al processo ad Adolf Eichmann[33]. L’Autrice sintetizzò con rara efficacia la diversità dei compiti della politica, dei giudici e dell’informazione («Ben Gurion non si “curava” della sentenza che sarebbe stata pronunziata», ma «è innegabile che emettere una sentenza era l’unico compito del Tribunale di Gerusalemme»), gli imperativi che ai diversi attori si impongono, di non cadere preda dell’opinione pubblica (il Presidente della Corte non esitò ad usare nel corso del processo la sua lingua materna, il tedesco, dimostrando «la sua notevole indipendenza di spirito che gli aveva permesso di non curarsi dell’opinione pubblica israeliana») e di non sostituirsi al giudice, ma di descrivere il processo, analizzarne le contraddizioni e ricercare verità e significati diversi da quella giudiziaria (come ella fece, senza indietreggiare di fronte al fuoco di fila delle polemiche che la travolsero perché aveva inteso adempiere a questo suo unico compito), nel massimo rispetto della dignità di coloro che sono coinvolti dallo stesso.
4. Riflettere su queste complessità è imprescindibile per identificare le «misure appropriate» ai fini del ragionevole bilanciamento della presunzione di innocenza e del diritto all’informazione, per evitare che restino vane le molte (finanche troppe, visti i risultati) parole spese sulla modalità della comunicazione. La riflessione permette di apprezzare anzitutto la necessità di ripristinare, nel significato più profondo, il principio di competenza, relegato negli ultimi anni tra i vecchi, inutili arnesi, come non è e non può essere. Dobbiamo accantonare l’idea che tutti possano fare tutto. Ciò non è, non soltanto quando si tratta di pilotare un jet o di operare a cuore aperto, ma anche di informare professionalmente, ovvero di celebrare un processo. L’opinione pubblica di derivazione illuministica non deve essere confusa con lo «indistinto aggregato, prodotto dall’insieme di acritici e passivi utenti di televisione e di rete, pronti ad accettare per vera un’opinione per il solo fatto che viene ripetuta e diffusa»[34]. Occorre dirlo con forza, nella speranza che la concezione corretta diventi patrimonio della coscienza collettiva. E’ ovviamente indiscusso il diritto di ciascun cittadino di esprimere le proprie idee ed opinioni, beninteso nell’assoluto rispetto dei diritti degli altri. Ma l’informazione, in senso tecnico, spetta ai professionisti. Ed è necessario che questi, ma non solo loro, rivendichino il compito che, in virtù dei principi di competenza e professionalità, spetta soltanto ad essi, da perseguire tenendo conto che la stessa deve parlare del processo, ma non può sostituirlo. Celebrare il processo spetta invece esclusivamente ai magistrati ed agli avvocati, ai quali si impone di osservare tutte le regole che lo governano, dovendo altresì i primi avere quale stella polare l’alto ammonimento del Presidente della Repubblica che il magistrato «non deve mai farsi suggestionare dalla pressione che può derivare dal clamore mediatico […] poiché le sue decisioni non devono rispondere alla opinione corrente – né alle correnti di opinione – ma soltanto alla legge»[35] e deve altresì informare la condotta nella comunicazione alle regole che la disciplinano, tutte a ben vedere già scritte anche prima del d.lgs. n. 188. Ma è anche necessario che questi fondamentali principi divengano davvero patrimonio comune della coscienza collettiva e che, quindi, si radichi in ognuno il convincimento che la sola sottoposizione ad un procedimento penale non mina la presunzione di innocenza, che deve essere rispettata da tutti i cittadini, indistintamente.
5. Il ragionevole bilanciamento dei valori in gioco va ricercato operando anzitutto sul piano della professionalità, mediante la maturazione e l’elaborazione di modelli di comportamento condivisi. Con riguardo ai magistrati, in particolare del pubblico ministero, merita dunque condivisione il d.lgs. n. 188 nella parte in cui ha esteso l’attività di vigilanza dell’art. 6 del d.lgs. n. 106 del 2006 all’osservanza dei doveri di cui all’art. 5. L’art. 6 stabilisce infatti «un potere (non gerarchico) di informazione e di controllo sulle attività dei Procuratori della Repubblica svolto tramite i Procuratori generali dei singoli distretti di Corte d’appello […] funzionale a garantire il rispetto dei principi convenzionali e costituzionali del giusto processo» ed ora anche delle modalità della comunicazione[36]. Rileva dunque che attraverso la Procura generale della Cassazione possono essere individuate e diffuse buone prassi organizzative, all’interno di un sistema "a rete" e di un modello dialettico che realizza la c.d. nomofilachia delle prassi mediante un processo collegiale e condiviso, garanzia della crescita e del consolidamento di una professionalità comune e condivisa sempre più elevata, che assicura il ragionevole bilanciamento al quale ho accennato. Al riguardo, va ricordata la tempestività dell’azione di molte Procure della Repubblica, tradottasi in numerosi documenti di indirizzo dei criteri da osservare nella comunicazione[37] e l’avviato confronto degli stessi all’interno del circuito dell’art. 6, al fine di elaborare orientamenti condivisi.
L’obiettivo da perseguire, a ben vedere, con riguardo alla comunicazione del P.M., è stato peraltro già compiutamente e puntualmente fissato nella Relazione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022 dal Procuratore generale della Corte di cassazione ed è quello di garantire il rispetto «[del]l’autonomia delle scelte del Procuratore della Repubblica sulle modalità della comunicazione istituzionale», senza appesantire l’aspetto burocratico, tenendo conto che «la comunicazione delle attività dell’ufficio costituisce un dovere», da adempiere «nel rispetto dei principi indicati dal Legislatore e prima ancora, temporalmente, dal Consiglio superiore della magistratura e dal Consultative Council of European Prosecutors (CCPE), ma deve al contempo essere completa, tempestiva ed efficace». La sfida è, dunque, di cogliere al meglio le opportunità offerte dal d.lgs. n. 188, nella consapevolezza che l’obiettivo da conseguire è quello di realizzare il corretto bilanciamento della presunzione d’innocenza e del diritto all’informazione, che è nelle mani non soltanto dei magistrati e degli avvocati, ma anche dei professionisti dell’informazione, oltre che di tutti i cittadini.
* Il testo riproduce, con l’aggiunta delle note, l’intervento al convegno organizzato dalla Rivista Giustizia Insieme sul tema Processo mediatico e presunzione di innocenza, Roma, 1° aprile 2022.
[1] Oggetto di numerosi commenti, tra gli altri, negli interventi in questa rivista di F. Resta (Il “compiuto” adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza), A. Spataro (Commento al Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188) e V.A. Stella (Recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza: è davvero la fine dei processi mediatici?); G. De Marzo, Il d.leg. 8 novembre 2021, n. 188 e la presunzione di innocenza nel nostro ordinamento, in Foro it., 2022, V, 12; A. Malacarne, La presunzione di non colpevolezza nell’ambito del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188: breve sguardo d’insieme, in Sistema penale, 17 gennaio 2022; F. Rotondo, Presunzione di innocenza, informazione giudiziaria e diritti fondamentali, in Freedom Security Justice, 2022, 1, 308.
[2] Contenuta nella Relazione al progetto preliminare del c.p.p. del 1930.
[3] Tra l’altro, nell’art. 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948; nell’art. 6 della Convenzione EDU; nell’art. 14 par. 2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, approvato dall’Assemblea delle Nazioni unite il 16 dicembre 1966; nell’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; nello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale; nelle conclusioni del X Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione e il trattamento dei trasgressori
[4] Almeno a partire dalle fondamentali sentenze 27 febbraio 1980, Deweer c. Belgio; 25 marzo 1983, Minelli c. Svizzera; per ulteriori riferimenti sulla giurisprudenza della Corte EDU, v. R. Chenal, Il rapporto tra processo penale e media nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Dir. pen. Cotemporaneo, 3, 2017; F. Rotondo, Presunzione di innocenza, cit., 308.
[5] Sentenza 28 ottobre 2004, Y.B. e altri c. Turchia.
[6] Sentenza 10 febbraio 1995, Allenet de Ribemont c. Francia, da osservare altresì nella motivazione della sentenza, sentenza 25 agosto 1987, Lutz c. Germania.
[7] Sentenza 8 luglio 1999, C-235/92, Montecatini S.p.A.
[8] In via meramente esemplificativa, per le prime, tra le altre, il d.lgs. n. 109 del 2006, da leggere in correlazione con l’art. 5 del d.lgs. 106/2006; l’art. 6 del codice etico dell’ANM; la circolare del CSM recante le Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale; l’ art. 8 del TU dei doveri del giornalista; la delibera 13/2008 dell’Autorità Garante delle telecomunicazioni; per le seconde, ex plurimis, le Raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri: Rec(2000)19, Rec(2012)11, Rec(2003)13, Rec(2010)12, Rec(2011)7; i pareri del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) n. 7(2005) e “Magna Carta of Judges (Fundamental Principles” (2010), n. 14(2011); i pareri del Consiglio consultivo dei procuratori europei (CCPE): n. 8 (2013), n. 9(2014); al parere congiunto CCJE-CCPE, “Dichiarazione di Bordeaux” (2009); i molteplici rapporti dell’ENCJ (European Network of Councils for the Judiciary).
[9] Puntualmente richiamata nella relazione allo schema di decreto delegato poi emanato quale d.lgs. n. 188 del 2021.
[10] D. Soulez Larivier, Il circo mediatico giudiziario, Macerata, 1994.
[11] Direttiva 2016/343/UE del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.
[12] In quanto il d.lgs. n. 188 del 2021 non ha introdotto nuove fattispecie disciplinari, sicchè appare restare tale esclusivamente la violazione dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. 106 del 2006 prevista dall’art. 2, lettera v), del d.lgs. n. 109 del 2006.
[13] Il riferimento è, in particolare, al maxiemendamento al disegno di legge A.C. 2681, oggetto delle considerazioni svolte nel parere reso dal CSM il 23 marzo 2022 su richiesta del Ministro della Giustizia, ai sensi dell'art. 10 della legge 24 marzo 1958, n. 195.
[14] Quale previsto dal d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, cui si fa riferimento nel testo.
[15] Nei casi in cui i commi 1 e 3-bis del novellato art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006 prescrivono l’obbligo della motivazione, non rilevando, per escluderlo, natura e la finalità del provvedimento, ma soltanto che si tratta di atto posto in essere nell’esercizio delle funzioni.
[16] Per la violazione delle specifiche direttive stabilite in apposito ‘ordine di servizio’ o nei criteri organizzativi, nella parte relativa alla modalità dell’informazione in esame.
[17] Sul punto, avendo riguardo esclusivamente alla materia degli illeciti disciplinari dei magistrati, è sufficiente richiamare la sentenza n. 100 del 1981 avente ad oggetto la clausola generale già contenuta nell’art. 18 della legge delle guarentigie.
[18] Al riguardo, è sufficiente rinviare al principio enunciato dalle Sezioni unite civili nella sentenza n. 31058 del 2019.
[19] Secondo la declinazione di recente offertane dalle Sezioni unite civili proprio con specifico riguardo al dovere di riserbo ed alle modalità della comunicazione, con accenti in parte nuovi, dalla sentenza n. 22373 del 2020.
[20] Corte cost., sentenza n. 206 del 2019.
[21] Corte EDU, sentenza 27 marzo 1996, Goodwin contro Regno Unito.
[22] Corte cost., sentenza n. 1 del 1981; v. anche le sentenze n. 84 del 1969, n. 126 del 1985, n. 112 del 1993, n. 105 del 2002.
[23] G. Giostra, Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007, 68.
[24] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i magistrati ordinari in tirocinio nominati con D.M. 2 marzo 2021, Roma 30 marzo 2022.
[25] Con specifico riguardo alla relazione tra diritto di informare e reputazione della persona, sentenze n. 206 del 2019 e n. 150 del 2021.
[26] Il riferimento è al testo della Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022.
[27] P. Häberle, Diritto e verità, Torino, 2000.
[28] P. Häberle, op. cit., XIX.
[29] G. Ferrara, Introduzione, in Il circo mediatico giudiziario, cit., IX ed XI.
[30] P. Sammarco, Giustizia e social media, Bologna, 2019, edizione digitale, pos. 648.
[31] P. Sammarco, op. cit., pos. 711.
[32] J. Lanier, Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Milano 2018, 26, la cui considerazione è particolarmente significativa, poiché è uno dei padri dell’A.I. che governa il mondo di Internet.
[33] H. Arendt, La banalità del male, edizione digitale, Milano, 2019.
[34] F. Ippolito, Recuperare la fiducia e non rincorrere il consenso, in Questione Giustizia, 2018, 4, 235.
[35] Intervento – il 5 aprile 2019 – del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di inaugurazione dei corsi di formazione della Scuola Superiore della Magistratura per l’anno 2019.
[36] Al riguardo, per apprezzare il contenuto dei compiti fissati dall’art. 6 ed il modello non gerarchico dallo stesso fissato è sufficiente rinviare alle indicazioni offerte dalla P.G.C. leggibili nel sito web dell’ufficio.
[37] Senza pretese di completezza, cfr. gli atti delle Procure di Bologna, Cuneo, Cremona, Perugia, Pesaro, Terni, Vicenza, leggibili nei siti web degli uffici.
Dirigenza giudiziaria: la parola al CSM
Intervista di Riccardo Ionta e Federica Salvatore a Alberto Benedetti, Giuseppe Cascini e Loredana Miccichè
Il carico di lavoro consiliare, le carenze delle fonti informative, i pericoli di valutazioni basate su curricula pletorici e di carriere dirigenziali parallele, le motivazioni imperfette delle decisioni: le opinioni di tre componenti del Consiglio Superiore non sempre collimano, talvolta divergono. E l’intervento del giudice amministrativo sempre più spesso incombe.
Anche in questa consiliatura il CSM ha provveduto a un numero elevatissimo di nomine e conferme. Quanto incide questo numero sulla valutazione della qualità effettiva dei candidati, sui progetti organizzativi presentati dagli aspiranti direttivi? È compatibile, anche in prospettiva, con l’idea di un’estensione delle audizioni?
Alberto Benedetti I numeri sono stati alti, anche se certamente inferiori a quelli della consiliatura precedente. Mi ha certamente impressionato l’alto numero di domande per le varie posizioni, anche in relazione a uffici non direttivi. L’audizione può essere importante se, poi, se ne valorizzano i contenuti e i risultati nei provvedimenti di nomina; se, invece, sono un mero passaggio formale o rituale, non servono a nulla e, anzi, finirebbero con l’allungare ulteriormente i tempi delle decisioni. Credo nell’importanza del colloquio con gli aspiranti, soprattutto per le posizioni apicali più delicate, purché, ripeto, si tratti di un passaggio utile per valutare le capacità del candidato, non per ascoltare da lui un riassunto del proprio curriculum.
Giuseppe Cascini Da una rilevazione effettuata dall’Ufficio statistico del CSM nei primi 1156 giorni dall’inizio della consiliatura sono stati conferiti 383 incarichi, di cui 160 direttivi e 223 semidirettivi. Nello stesso periodo, cioè nei primi 1156 giorni, nella precedente consiliatura sono stati conferiti 771 incarichi (334 direttivi e 437 semidirettivi), nella consiliatura 2010/2014, sono stati conferiti 475 incarichi (199 direttivi e 276 semidirettivi), nella consiliatura 2006/2010 sono stati conferiti 761 incarichi (361 direttivi e 400 semidirettivi). E’ chiaro che le consiliature 2006/2010 e 2014/2018 hanno dovuto far fronte ad un numero molto più elevato di pratiche, come conseguenza, nel primo caso, della introduzione della temporaneità degli incarichi con la riforma del 2006 e, nel secondo caso, della riduzione dell’età pensionabile.
C’è da chiedersi come abbiano fatto, perché anche con la metà delle delibere, la situazione è molto difficile da gestire e i tempi di definizione sono molto lunghi.
In questa consiliatura la valutazione sulla qualità dei candidati, in base ai dati disponibili, e sui progetti organizzativi presentati è sempre stata molto approfondita, ma certamente un numero così elevato di pratiche è assolutamente incompatibile con la previsione di audizioni obbligatorie per tutte le pratiche.
Occorre, inoltre, considerare che con la riforma del TU della dirigenza del 2014, soprattutto alla luce della giurisprudenza amministrativa che si è formata a seguito di quella riforma, la procedura di nomina si è andata sempre più trasformando in una sorta di concorso per titoli, nel quale, soprattutto secondo l’impostazione del giudice amministrativo, non vi è molto spazio per valorizzare l’esito della audizione o la qualità del progetto organizzativo presentato.
Il sovraccarico di lavoro della Commissione ha determinato, però, un rilevante ritardo nella valutazione delle conferme. Ed è questo, oggi, l’aspetto più negativo dell’azione della quinta Commissione.
La proposta avanzata da AreaDG di una riduzione del numero di posti semi-direttivi, elaborata sulla base di motivazioni di politica giudiziaria ben più ampie e articolate, avrebbe comunque anche l’indubbio vantaggio di rendere più gestibile il carico di lavoro della Commissione.
Loredana Micciché L’elevato numero di nomine non incide sulla qualità delle valutazioni ma sui tempi necessari per la copertura dei posti direttivi, che richiede, in media, circa un anno. La durata delle procedure dimostra che il lavoro è svolto con il necessario approfondimento: nella esperienza biennale in Quinta Commissione ho potuto constatare che tutti i componenti conoscevano i profili professionali dei candidati e che la decisione ha richiesto, spesso, molte sedute. Preciso che i profili degli aspiranti vengono redatti dalla Segreteria della Commissione in base alla documentazione allegata alla domanda e in relazione a tutti gli indicatori dell’attitudine direttiva previsti dal Testo Unico della Dirigenza. Certamente l’elevato numero dei posti da conferire rende impossibile audire tutti i candidati, ma, in ogni caso, il ricorso ad audizioni generalizzate, a prescindere dal numero dei posti, può costituire un inutile appesantimento istruttorio, posto che le audizioni hanno un mero valore conoscitivo – comunque valutabile – ma non possono rivestire efficacia dirimente nella decisione. Una insoddisfacente valutazione della qualità “effettiva” è invece legata ad un problema di lacunosità delle fonti di conoscenza, poiché molto difficilmente i pareri attitudinali specifici degli Organi di autogoverno locale segnalano criticità.
Si lamenta da sempre la carenza delle fonti di conoscenza sui profili dei candidati. Ma, anche quando siano individuate, ciò che ne emerge viene verificato o è almeno verificabile da parte del Consiglio?
Alberto Benedetti Nella mia esperienza, generalmente si ritiene affidabile ciò che i candidati indicano nell’autorelazione; poi, naturalmente, le Commissioni possono fare ulteriori verifiche, specie all’interno del consiglio, per completare il quadro del profilo del candidato. Osservo che se si dovesse verificare ciò che si legge nelle autorelazioni, i tempi ulteriormente si allungherebbero; ogni consigliere – io l’ho fatto spesso – può poi verificare nelle fonti aperte i dati che legge sulle autorelazioni, per esempio per quel che riguarda le pubblicazioni allegate dai candidati o le esperienze didattiche.
Giuseppe Cascini Io credo che sia un errore, e anche un po’ una illusione, pensare di affidare ai sistemi di valutazione la “misurazione” delle qualità professionali dei candidati. I sistemi di valutazione (quelli quadriennali sulla professionalità, quelli in sede di conferma o di parere per il conferimento di incarichi) dovrebbero servire esclusivamente (o almeno prevalentemente) ad individuare eventuali elementi di criticità. Non è cosa da poco, in quanto un sistema in grado di escludere i candidati inadeguati può affidarsi con maggiore serenità a regole più stringenti e “oggettive” nella attribuzione degli incarichi. Su questo terreno io penso che il complessivo sistema di valutazione dei magistrati sia largamente carente. Ciò che prevale è l’uso, sovente generoso, di aggettivi superlativi sganciati dai fatti, mentre gli elementi di criticità, che spesso sono ampiamente conosciuti da tutti, raramente emergono.
La riforma, già approvata dal Consiglio, sulle procedure di conferma dei direttivi e semidirettivi e quella, in discussione in questi giorni in Quarta Commissione sulle valutazioni di professionalità, si pongono proprio l’ambizioso obiettivo di eliminare gli aggettivi e sostituirli con i fatti. Dalla approvazione, e dalla effettiva attuazione, di queste riforme passa, a mio avviso, la vera possibilità di un recupero di credibilità dell’azione consiliare.
Loredana Micciché Il CSM dispone d’ufficio, per ogni aspirante, la verifica sulla posizione disciplinare o sulla esistenza di pendenze riguardanti procedimenti di incompatibilità ambientale o parentale. Può acquisire elementi valutativi da atti, documenti o informazioni nella sua disponibilità, garantendo il contraddittorio del candidato ove si tratti di elementi negativi. Può anche disporre accertamenti presso le proprie articolazioni interne, come prevede l’art. 36 TU sulla Dirigenza Giudiziaria. Certamente, dunque, il Consiglio ha la possibilità e i mezzi per disporre verifiche e in tal senso si è sempre proceduto.
Nella “meritevolezza” su cui il CSM cerca basare le nomine quali capacità sono riconosciute? E c’è spazio per le capacità relazionali? Non si rischia piuttosto di premiare ambizioni basate su curricula costruiti ad hoc in un percorso professionale?
Alberto Benedetti Il rischio c’è, è molto concreto; nella mia esperienza, ho visto scelte basate solo sulle autorelazioni (talvolta accompagnate da audizioni, ma non sempre) e sui dati in queste contenuti. Le capacità relazionali potrebbero essere verificate solo ascoltando i colleghi del candidato o chi ha coordinato e diretto gli uffici in cui ha lavorato; ma allo stato non si fa e mi auguro che la riforma possa affrontare questo importantissimo aspetto con regole specifiche.
Giuseppe Cascini Come accennavo prima, già con la riforma del 2006, ma soprattutto con il nuovo TU della dirigenza del 2014 e la giurisprudenza amministrativa che su di esso si è formata, la procedura di nomina dei dirigenti si è andata sempre più trasformando in un concorso per titoli, nel quale conta prevalentemente il dato del formale svolgimento di un incarico, senza che vi sia una seria ed effettiva possibilità di verificare come quell’incarico è stato svolto e quali risultati sono stati conseguiti. L’eccessivo numero di indicatori, speciali e generali, in posizione pariordinata tra loro offre eccessivi “margini di manovra” al Consiglio, ma anche al giudice amministrativo, che sempre più spesso tende ad “invadere” la sfera della discrezionalità delle scelte.
La proposta di riforma del TU della dirigenza avanzata dal gruppo di AreaDG si pone l’obiettivo di attribuire peso prevalente alla esperienza professionale maturata nell’esercizio dell’attività giudiziaria, riducendo la rilevanza dei tanti, e diversi, incarichi di “collaborazione”.
Resta, però, un nodo ineludibile. In qualunque sistema di valutazione comparativa le precedenti esperienze direttive o semidirettive hanno un peso obiettivamente rilevante. Ciò determina il rischio della creazione di un circuito separato di dirigenti che passano da un incarico all’altro, accrescendo sempre più il proprio carnet di titoli. L’importante, allora, è entrare in quel circuito, casomai partendo da un semidirettivo scomodo e poco ambito, per poi risultare vincenti in tutti i successivi concorsi.
Loredana Micciché Il Testo Unico sulla Dirigenza giudiziaria è basato sulla fonte primaria, ossia sull’art. 12 del d.lgs. n.160/2006, che richiede “capacità di programmare e gestire le risorse”, “propensione all’impiego di tecnologie avanzate”, “capacità di valorizzare le attitudini dei magistrati e funzionari”, di “operare il controllo di gestione sull’andamento generale dell’ufficio”, di “dare piena attuazione a quanto indicato nel progetto tabellare”. È la legge, dunque, che richiede la presenza di una attitudine direttiva che deve necessariamente ricollegarsi ad elementi concreti. Detti elementi, nell’impianto del Testo Unico, si chiamano “indicatori” e vengono distinti tra indicatori “specifici” – che riguardano esperienze collegate alla tipologia di ufficio a concorso, quali esperienze di collaborazione, pregressi incarichi semidirettivi o direttivi, esperienza giurisdizionale nel settore civile o penale a seconda dell’incarico da conferire – e indicatori “generali”, rivelatori invece della attitudine direttiva a prescindere dal tipo di ufficio, quali le esperienze ordinamentali, le esperienze di referente informatico, le esperienze di formazione. Quanto alle capacità relazionali, le stesse sono espressamente valutabili, secondo il Testo Unico, solo con riferimento alle capacità dimostrate nello svolgimento di pregressi incarichi dirigenziali ai fini dell’acquisizione della dirigenza di un ufficio di grandi dimensioni, a norma dell’art. 18 T.U. Il “rischio di curricula ad hoc” che si paventa è legato alla esigenza tratteggiata dalla legge primaria, cui la normativa consiliare ha cercato di dare attuazione, non dimenticando però la contemporanea valorizzazione del lavoro giudiziario.
Quanto ritiene grande il rischio che, nella mole degli indicatori previsti dal t.u. sulla dirigenza, si crei una categoria di magistrati direttivi per carriera, estromettendo quanti, vale a dire la maggioranza, che per una parte della propria vita professionale non ha modo di acquisire titoli che vadano al di là dell’attività giurisdizionale?
Alberto Benedetti Il rischio mi pare elevatissimo; non occorre scomodare l’analisi economica del diritto per capire che se si appesantisce una scelta con mille parametri di ogni genere l’aspirante cerca di orientare la propria carriera all’obiettivo del conseguimento di questi parametri. E questo non va bene. Crea infatti persone che, ansiose di progredire, pensano più al loro cv che al lavoro che, in quel momento, stanno facendo, con risultati pessimi in termini di efficienza del sistema giustizia.
Giuseppe Cascini Il rischio, almeno a mio avviso è un rischio, è che si determini una separazione delle carriere tra un ristretto numero di dirigenti e tutti gli altri. Per evitare questo rischio sono necessari, a mio avviso, interventi su più fronti. Sul piano della legislazione primaria occorre, come accennavo prima, ridurre il numero di posti semidirettivi, secondo la proposta avanzata da Area DG e oggi fatta propria dalla Ministra Cartabia nel suo emendamento alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Occorre, inoltre, introdurre una effettiva temporaneità delle funzioni direttive e semidirettive, con la previsione di un periodo di decantazione tra un incarico e l’altro. In ogni caso dovrebbe, quantomeno, essere esclusa la possibilità di presentare domande per ulteriori incarichi direttivi o semidirettivi prima della conclusione dell’incarico precedente. Sul piano dell’azione del governo autonomo il tema è quello delle procedure di conferma.
Loredana Micciché Come detto, è la fonte primaria che richiede una specifica attitudine direttiva, la quale va ancorata ad elementi concreti. Va segnalato, al riguardo, che il Testo Unico valorizza le esperienze nel lavoro giudiziario, anche sotto il profilo dei risultati conseguiti in relazione alla gestione degli affari, e viene in rilievo altresì la durata delle esperienze nel settore ove si colloca il posto da conferire. L’esperienza professionale nella giurisdizione, dunque, è considerata ampiamente dalla normativa consiliare. Certamente l’impianto del Testo Unico – in armonia con la legge primaria – incoraggia il ricorso ad attività che comportino la sperimentazione delle attitudini organizzative non limitate al proprio lavoro individuale, quali il coordinamento di fatto di settori o sezioni se prolungato nel tempo, la collaborazione con la dirigenza, l’attività di magistrato di riferimento per l’informatica, l’esperienza ordinamentale ovvero l’attività formativa. Non si tratta, però, di esperienze “inarrivabili”: spesso non si registrano aspiranti per le attività di MAGRIF o di formatore decentrato; le presidenze di fatto, cui possono accompagnarsi attività organizzative, si acquisiscono per mera anzianità, le collaborazioni con la dirigenza sono regolarmente richieste con interpelli. In conclusione, l’approdo ad un incarico semidirettivo non è affatto irraggiungibile o riservato a pochi, ma è ampiamente alla portata di ogni magistrato che svolga bene il proprio lavoro e manifesti disponibilità per esperienze che sono ampiamente accessibili a tutti.
La percentuale di conferme positive di direttivi e semidirettivi è elevata, tendente alla totalità. Manca una reale “misurazione” della performance, che valuti gli obiettivi realizzati e la qualità dei provvedimenti o le ragioni sono altre?
Alberto Benedetti Vero, mancano indicatori sicuri e affidabili; bisognerebbe ascoltare chi ha lavorato con il confermando, gli avvocati del foro, gli amministrativi. Le conferme non devono essere più atti scontati o rituali, ma dovrebbero diventare momenti di verifica effettiva e come tali dovrebbero essere percepiti soprattutto dai titolari degli uffici.
Giuseppe Cascini Su questo versante è essenziale dare piena ed effettiva attuazione alla riforma del procedimento di conferma approvata in questa consiliatura, in modo da riuscire ad estromettere da quel circuito quelli che si rivelino inadeguati, così da evitare il rischio, che io credo si stia verificando oggi, che per la carriera dei magistrati si sia passati dalla anzianità senza demerito, in base alla quale si nominava il più anziano del concorso, indipendentemente dalle sue qualità e purchè non avesse particolari criticità, alla dirigenza senza demerito, in base alla quale si nomina chi ha già svolto un precedente incarico, indipendentemente da come lo abbia in concreto svolto e purchè non risultino particolari criticità. È assolutamente necessario, inoltre, ridurre drasticamente i tempi delle decisioni consiliari sulle conferme, che oggi registrano ritardi intollerabili.
Loredana Micciché In ordine alla elevata percentuale di conferme si possono reiterare le considerazioni già espresse sul fatto che anche in ordine alla valutazione del quadriennio nell’incarico direttivo o semidirettivo i pareri dei Consigli giudiziari sono sempre positivi e non segnalano alcuna criticità. In questa Consiliatura abbiamo riformato il Testo Unico proprio nella parte riguardante le conferme, predisponendo una modulistica per auto relazioni e pareri con la necessaria allegazione anche dei dati statistici riguardanti l’andamento dell’ufficio o della sezione diretta. È stata valorizzata la valutazione, da parte della settima Commissione del CSM, dei provvedimenti organizzativi adottati. Va comunque segnalato che, una volta acquisiti gli elementi indicati, il procedimento di conferma richiede uno sforzo valutativo pari o anche superiore a quello della designazione per l’incarico, compito difficile da svolgere per l’attuale struttura del Consiglio, del tutto insufficiente.
Gli annullamenti delle nomine da parte del giudice amministrativo sembrano rappresentare un indice delle disfunzioni nell’esercizio della discrezionalità da parte del CSM. Emerge una difficoltà di tenuta delle motivazioni rispetto alle scelte consiliari. Da cosa dipende: il numero delle nomine, la quantità e l’estensione dei parametri attitudinali, altri fattori?
Alberto Benedetti Prima di tutto occorre domandarsi: perché così tanti magistrati non accettano le decisioni del CSM e trovano naturale ricorrere al giudice amministrativo come fosse un atto necessitato? Certo, alla base c’è anche una questione di elevata autostima, tale da far ritenere a molti del tutto impensabile che qualcuno venga loro preferito; c’è un aspetto umano non trascurabile. A questo si aggiunge una perdita di autorevolezza dell’organo che decide, accentuata in questi anni dalle note vicende e che induce chi non è stato nominato a ritenere che ciò derivi da chissà quali cause occulte. Poi, certo, le motivazioni dei provvedimenti risentono della pesantezza degli atti e dei procedimenti e del troppo elevato tasso di burocraticità; ma, onestamente, i vizi di motivazione, a leggere moltissime decisioni dei giudici amministrativi, alla fine sono diverse valutazioni di merito che il giudice ammnistrativo esprime rispetto alla scelta del CSM, perché sappiamo tutti che il sindacato di “ragionevolezza” – a differenza di quello di legittimità – spesso finisce con l’entrare nel merito delle scelte contestate, attività che ritengo lesiva delle prerogative costituzionali del CSM.
Al di là di questo, occorre affrontare il problema a livello ordinamentale e forse costituzionale; mi pare evidente che la giustizia amministrativa debba esercitare la sua imprescindibile funzione di controllo di legalità, ma non può trasformarsi in un “altro” CSM. Rendendo più trasparenti e meno burocratiche le scelte del CSM, mi auguro comunque che cali il tasso dei ricorsi contro i suoi provvedimenti e che i magistrati imparino ad accettare serenamente le decisioni del loro organo di autogoverno; anche qui prima o poi è necessario affrontare meglio la questione del trattamento dei provvedimenti del CSM, organo di rilevanza costituzionale e strumento di realizzazione del principio costituzionale di autonomia della magistratura ; ci sono molte idee condivisibili in campo (tra cui quella di un’Alta Corte), ma necessitano di scelte meditate e non affrettate e questo mi fa pensare che se ne parlerà molto più in là nel tempo.
Giuseppe Cascini Negli ultimi 10 anni, e con una media più o meno costante per ogni anno, solo il 6% delle delibere di nomina è stato annullato dal giudice amministrativo. Sul piano dei numeri, dunque, non si può dire che vi sia una effettiva criticità.
Di regola l’intervento del giudice amministrativo è giustificato da carenze motivazionali, che possono essere sintomo di errori di valutazione – che quindi impongono una revisione della decisione da parte del Consiglio – ovvero possono derivare dalla difficoltà di esporre compiutamente in sede di motivazione tutti gli aspetti rilevanti, o ritenuti tali dal giudice, sul piano comparativo, difficoltà che può essere fronteggiata con una nuova e più approfondita motivazione.
In alcuni casi, però, si deve registrare una certa espansione del giudice amministrativo nell’ambito delle valutazioni discrezionali di merito operate dall’organo consiliare, in ciò favorito, per quello che dicevo prima, dalla tecnica di formulazione del TU sulla dirigenza e anche, forse, da un certo clima generale sul Consiglio e sulle sue decisioni in materia.
In verità, tutte le sentenze ribadiscono sempre, in premessa, l’intangibilità della sfera di discrezionalità dell’organo consiliare, ma poi nei fatti traspare sempre più spesso una tendenza del giudice amministrativo a sovrapporre le proprie valutazioni discrezionali a quelle dell’organo consiliare.
Ad esempio nella valutazione comparativa tra esperienze direttive e semidirettive il giudice amministrativo tende ad affermare la quasi obbligatoria prevalenza delle prime sulle seconde, sulla base di un dato esclusivamente formale, che sembra rispondere ad una cultura della carriera improntata ad una visione gerarchica e verticistica, che secondo me non dovrebbe appartenere al modello ordinamentale della magistratura ordinaria.
Loredana Micciché Come detto, il numero delle nomine non incide sull’approfondimento della valutazione, ma certamente incide sulla qualità delle motivazioni delle delibere, che richiedono sempre più completezza e precisione. Va evidenziato infatti che, con la modifica del Testo Unico della Dirigenza nel 2015, al fine di rendere più certi i criteri per l’accesso agli incarichi direttivi, si sono introdotti plurimi “indicatori” dell’attitudine direttiva che hanno inevitabilmente ridotto la discrezionalità del CSM ed hanno quindi reso più vulnerabili le decisioni adottate. Il basso numero di annullamenti negli anni pregressi dipende non tanto da un “buon” esercizio della discrezionalità, ma dal fatto che le precedenti circolari consentivano uno spazio valutativo amplissimo. Va anche aggiunto che il giudice amministrativo è intervenuto nel tempo su questioni controverse – quali, ad esempio, la automatica prevalenza dell’incarico direttivo sull’incarico semidirettivo e il valore delle dimensioni degli uffici e i contenuti dell’incarico – determinando fisiologicamente la caducazione di alcune decisioni ma formando nel contempo principi giurisprudenziali che dovrebbero rendere più certi i criteri valutativi per il futuro. Sotto il profilo delle possibili soluzioni al problema, si potrebbero rendere ancora più stringenti gli indicatori specifici, prevedendo, ad esempio, che l’accesso ai direttivi di secondo grado implichi il necessario pregresso svolgimento delle funzioni di secondo grado o di legittimità, elemento al momento non previsto. Occorre però contemporaneamente aggiungere l’unico criterio di indiscutibile certezza, ossia l’introduzione della c.d. fascia di anzianità riferita almeno all’arco di due valutazioni di professionalità.
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