ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. La qualificazione penale delle sanzioni amministrative nella CEDU - 2. La Full jurisdiction nella CEDU e nel diritto dell’Unione Europea - 3. Nuovi contributi delle Corti europee sulla full jurisdiction - 4. Conclusioni.
1. La qualificazione penale delle sanzioni amministrative nella CEDU.
Secondo linee ormai ben note – su cui qui non mi soffermo rimandando ad altri miei precedenti scritti[1] - le sanzioni amministrative quali conosciute nell’ordinamento italiano sono sostanzialmente penali, ai sensi della autonoma definizione della materia penale elaborata dalla CEDU.
E, sia chiaro, ciò vale – nonostante alcuni sorprendenti dubbi ancora presenti nella giurisprudenza italiana di legittimità[2] – almeno per tutte le sanzioni amministrative pecuniarie. Da quelle, più rilevanti, delle Autorità amministrative indipendenti, a quelle minori, per illeciti stradali.
Per essere ancora più diretti, non si richiede una specifica gravità della sanzione. Coerentemente con il carattere alternativo (e non cumulativo) dei criteri Engel[3], è sufficiente la finalità afflittiva, indipendentemente dall’intensità, dal quantum, di tale afflittività.
Lo ha detto, fin dal 1984 (con insegnamento costantemente ripetuto), la Corte EDU nell’occuparsi di modeste sanzioni per violazione del Codice della strada: « Non vi è […] nulla che suggerisca che il concetto di illecito penale di cui parla la Convenzione implichi necessariamente un qualche livello di gravità […]. Per di più sarebbe contrario all’oggetto e allo scopo dell’art. 6, che protegge “chiunque sia soggetto ad un’accusa penale” il diritto a un tribunale e ad un equo processo, se allo Stato fosse consentito di sottrarre dal campo di applicazione dell’art. 6 un’intera categoria di illeciti solo per il fatto che siano qualificati come minori»[4].
Basti ancora notare che, nel 1999, la Corte di Strasburgo non ha mostrato alcuna incertezza nel definire di natura penale una comune sanzione amministrativa pecuniaria italiana per eccesso di velocità, dall’ammontare di (sole) 62.000 lire [5]; nel 2006 ha qualificato penalisticamente una sanzione pecuniaria nazionale per attività edilizie in violazione della disciplina posta a tutela del paesaggio [6]; con la sentenza Menarini del 2011 [7], poi, una sanzione amministrativa antitrust della nostra AGCM è stata ricondotta al penale e, nel 2014, è stata vista come penale una sanzione Consob per manipolazione del mercato[8]. Da ultimo, nel 2020, nel caso Edizioni Del Roma [9], è stata qualificata come penale una sanzione amministrativa pecuniaria di AGCOM, di 103.300 euro.
D’altra parte, come più volte chiarito a partire dal 1995[10], una finalità di cura in concreto dell’interesse pubblico non contrasta affatto con la natura penale del provvedimento di reazione alla commissione di un illecito. Insomma, la sanzione – per essere penale – non deve avere una finalità di mera giustizia. Non è nota, in Europa, la (peraltro fragilissima) tesi nazionale della c.d. discrezionalità giudiziale, che si sostituirebbe alla discrezionalità amministrativa in sede sanzionatoria[11].
2. La Full jurisdiction nella CEDU e nel diritto dell’Unione Europea.
Vengo ora ad interrogarmi, secondo l’importante spunto di Fabio Francario[12], sulle conseguenze di tutto ciò in punto di sindacato giurisdizionale.
Sono necessari alcuni passaggi, non sempre, credo, del tutto compresi nel dibattito italiano.
A svolgere con rigore concettuale il presupposto sopra ricordato (la sanzione amministrativa è una pena), tutte le garanzie dell’equo processo penale (art. 6 CEDU) dovrebbero essere fin da subito godute nel procedimento amministrativo: esso, infatti, si conclude direttamente con la condanna, i.e. la sanzione amministrativa, per di più immediatamente esecutiva, o la “assoluzione”, i.e. la archiviazione.
Il principio nulla poena sine aequo judicio (sintesi estrema dell’art. 6 CEDU come diritto al giudice in materia penale) suggerirebbe dunque, in un’attuazione ottimale, di far precedere le garanzie penalistiche alla sanzione.
Tuttavia, la giurisprudenza CEDU, nella consapevolezza dei limiti della disciplina del procedimento amministrativo riscontrabili nella gran parte dei paesi europei (in realtà ampiamente ispirata a schemi inquisitori, irrimediabilmente lesivi delle condizioni minime e strutturali della parità delle armi), ha mostrato fin da subito un approccio flessibile.
In particolare, la CEDU non si oppone in modo assoluto al fenomeno, non solo italiano, del crescente ricorso alla sanzione amministrativa, al posto di quella formalmente penale (depenalizzazione).
Fin dal già citato caso Otzurk del 1984, la Corte di Strasburgo ha però richiesto che alla fase amministrativa (se ed in quanto inadeguata ad assicurare un effettivo equo processo) sia effettivamente seguita una fase giudiziale di c.d. piena giurisdizione (full jurisdiction).
Il canone della full jurisdiction è estremamente esigente. E ciò vale specie in materia penale, come più volte dichiarato dalla Corte EDU[13].
Si pretende infatti un processo (ovviamente equo e paritario, ossia conforme all’art. 6 CEDU) investente, in fatto come in diritto, punto per punto, l’intero merito della pretesa punitiva, con potere (concretamente esercitato ove richiesto dal ricorrente) di piena sostituzione rispetto al contenuto della decisione amministrativa. In altri termini, come chiarito ad es. nella citata sentenza Edizioni del Roma resa proprio in relazione al contenzioso amministrativo italiano: «Il rispetto dell’articolo 6 della Convenzione non esclude dunque che, in un procedimento di natura amministrativa, una «pena» sia imposta in primo luogo da un’autorità amministrativa (G.I.E.M. S.R.L. e altri c. Italia [GC], nn. 1828/06 e altri 2, § 254 28 giugno 2018). Si presuppone però che la decisione di un’autorità amministrativa che non soddisfi essa stessa le condizioni di cui all’articolo 6 sia sottoposta a un controllo a posteriori da parte di un organo giudiziario con piena giurisdizione (Ramos Nunes de Carvalho e Sá c. Portogallo [GC], nn. 55391/13 e altri 2, § 132, 6 novembre 2018). Tra le caratteristiche di un organo giudiziario con piena giurisdizione vi è il potere di riformare interamente, in fatto e in diritto, la decisione emessa da un organo di grado inferiore. Il primo organo deve essere competente per esaminare tutte le questioni di fatto e di diritto rilevanti per la controversia ad esso sottoposta (Chevrol c. Francia, n. 49636/99, § 77, CEDU 2003-III, Silvester’s Horeca Service c. Belgio, n. 47650/99, § 27, 4 marzo 2004, e A. Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 59).» [14].
Che questo sindacato debba attenere all’an della responsabilità e quindi della fondatezza della pretesa sanzionatoria (fino a riguardare, sostitutivamente, la stessa opportunità di “condonare” la sanzione), è stato inequivocabilmente chiarito: ad es. nella pronuncia Silverster’s Horeca Service[15] (uno dei leading cases, come appena visto spesso richiamato dalla stessa Corte EDU), si è negata la full jurisdiction, perché, in specie, la Corte aveva ritenuto « […]di essere stata chiamata solo ad esaminare la realtà delle infrazioni ai sensi della disciplina IVA e di riesaminare la legittimità delle sanzioni fiscali imposte, senza essere competente a valutare l’opportunità se concedere una deroga totale o parziale dalle stesse».
Dunque un profilo di indubbia discrezionalità/opportunità (se condonare o meno) deve essere – anch’esso - in capo all’Autorità giurisdizionale.
A fronte delle incertezze e dei dubbi che la nozione di full jurisdiction ancora suscita, almeno un punto dovrebbe essere invero chiaro: è la stessa logica interna (e funzione) della full jurisdiction a suggerire un massimo grado di sindacato, di tipo sostitutorio. Difatti, senza sindacato sul merito della pretesa sanzionatoria, la fase giudiziale non potrebbe in alcun modo ambire a “compensare” i limiti della fase amministrativa. Le garanzie dell’equo processo penale devono essere godute in una fase di effettiva scelta sulla pena, non di riesame esterno di legittimità: quest’ultimo non entra (se non marginalmente) nel nucleo della questione (colpevolezza e quindi inflizione della sanzione, cioè an e quantum della sanzione); ma è proprio questo nucleo della questione che – come chiaro – l’art. 6 CEDU pretende sia inderogabilmente deciso nelle forme dell’equo processo (non solo e non certo i profili di mera legittimità)[16]. Un giudice vincolato ‒ anche se solo parzialmente ‒ dalle determinazioni amministrative vede invece la sua funzione di accertamento della colpevolezza e della giusta sanzione (più o meno gravemente) compromessa. Ma con ciò viene meno un fondamentale presupposto (lo si ripete, anzitutto) logico della compensabilità ex post, ossia il riesame ex integro della pretesa sanzionatoria.
In altri termini, se campo di applicazione elettivo dell'art. 6 CEDU è anzitutto il rapporto amministrativo, va da sé che il rapporto processuale, per poter compensare i limiti del rapporto amministrativo in punto di adeguamento all'art. 6 CEDU, debba avere lo stesso oggetto di quest'ultimo, ossia la complessiva questione amministrativa.
Insomma, l’equo processo ex art. 6 CEDU, pur regola formale-procedurale, mira però a incidere con pienezza sui rapporti sostanziali, non certo su fasi di mera revisione di legittimità.
A dimostrazione della necessità anzitutto logica della pienezza di sindacato quale presupposto per l’efficacia “terapeutica” della fase giurisdizionale, basti qui menzionare la analoga regola ideata dalla Corte Suprema USA per curare ex post determinazioni amministrative formate in violazione della due process clause: "the administrative law judge is required to conduct a de novo review of all factual and legal issues"[17]. Come, tra gli altri, osservato dalla Corte Federale del Distretto di New York Sud, ciò significa che allorquando un'azione di enforcement pubblicistico non rispetti di per sé il giusto processo e, allo stesso tempo, sia capace di "barring a final determination on the merits", la deprivazione dei diritti di difesa sia irrimediabile e quindi inaccettabile[18]. Si riapre la strada di un godimento effettivo dell’equo processo solo ove un’altra autorità superiore possa occuparsi del merito delle medesime questioni, nel rispetto della due process clause. Merito amministrativo come preteso spazio di affrancamento dal sindacato giurisdizionale e full jurisdiction sono concetti antitetici ed inconciliabili.
Ma del resto, come a suo tempo notato, anche l’idea (alla base del sindacato pieno garantito al giudice ordinario dalla l. 689 del 1981) rifletteva una simile logica, di poter, almeno ex post, ««usufruire» del principio garantistico «nulla poena sine iudicio» senza i limiti che generalmente ostano alla sua piena tutela nei confronti della p.A.»[19]
Ne deriva, tra l'altro, la necessità di un pieno riesame dei presupposti che, in Italia, definiremmo come tecnico-discrezionali o comunque qualificabili in termini di concetti giuridici indeterminati[20]. Si chiede cioè, in relazione a tali presupposti, la capacità del giudice di «sostituire la propria opinione» rispetto a quella della Autorità amministrativa, perché, altrimenti, «la questione centrale della controversia non è determinata da un tribunale indipendente ed imparziale»[21].
In materia di sanzioni amministrative il modello della full jurisdiction è allora espressamente quello di un sindacato giurisdizionale appellatorio (invece che cassatorio): il provvedimento sanzionatorio deve essere visto come una «decisione […] resa dall’organo inferiore» [22]. L'idea, cioè, è quella di due soggetti pubblici che, in continuità tra loro, esercitano un potere (di decisione su una controversia) qualitativamente identico, con conseguente piena sostituibilità della scelta dell'organo inferiore (l'Amministrazione) da parte dell'organo superiore (il giudice di full jurisdiction).
Non a caso, nella sentenza Grande Stevens del 2004, il sindacato in concreto esercitato dalla Cassazione italiana sulla decisione della Corte d’appello e così sulla sanzione è stato ritenuto inadeguato, in quanto i giudici di legittimità erano privi del potere di «esaminare il merito del caso, accertare i fatti e valutare gli elementi di prova »[23].
È fondamentale notare (anche per gli evidenti riflessi di diritto nazionale) come il particolare rigore con cui deve intendersi il canone della full jurisdictio in relazione alle sanzioni amministrative sia stato ben compreso in sede di Unione Europea.
In particolare, la Corte di giustizia, a seguito della inequivoca affermazione della natura penale delle sanzioni antitrust da parte della Corte di Strasburgo [24], ha ricercato (tramite la full jurisdiction), una conciliazione tra enforcement amministrativo del diritto antitrust e diritto all’equo processo ex artt. 6 CEDU e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione (Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, da interpretarsi, ai sensi del suo art. 52, co. 3, in conformità alla CEDU e alla giurisprudenza di Strasburgo [25]). In tale ottica, sembra aver ormai consolidato l'affermazione per cui in sede di contenzioso su tali sanzioni, la full jurisdiction implichi in capo al giudice «il potere di riformare in ogni modo, in fatto come in diritto, la decisione adottata, resa [si noti] da un organo di grado inferiore». Sicché, «L’organo giudiziario deve in particolare essere competente a giudicare tutte le questioni di fatto e di diritto rilevanti per la controversia per cui viene adito». La competenza estesa al merito ex art. 31 del Regolamento n. 1 del 2003 deve quindi interpretarsi nel senso dell’attribuzione al giudice del potere di «sostituire la sua valutazione a quella della Commissione», così da «sopprimere, ridurre o aumentare l’ammenda o la penalità inflitta» [26].
Già nel 2013, i giudici dell'Unione europea sono giunti a precisare – ed è questa l’affermazione più impegnativa e allo stesso tempo rilevante - che, nel controllo giurisdizionale sulle sanzioni antitrust, nessun ostacolo alla pienezza del sindacato può discendere dal «potere discrezionale di cui dispone la Commissione, in forza del ruolo assegnatole, in materia di politica della concorrenza, dai Trattati UE e FUE […]»[27]. La Corte mostra così di intendere recessiva ogni barriera al sindacato discendente dalla discrezionalità ove anche, quest'ultima, intesa come potere fondato sull'assegnazione legale di un ruolo istituzionale di cura (e persino di definizione) di un dato interesse pubblico (parlare di politica dela concorrenza significa evidentemente alludere ad una discrezionalità particolarmente ampia).
Concetti, questi ultimi, ribaditi nel 2017: «il giudice non può basarsi sul potere discrezionale di cui dispone la Commissione, né per quanto riguarda la scelta degli elementi presi in considerazione in sede di applicazione dei criteri indicati negli orientamenti né per quanto riguarda la valutazione di tali elementi, al fine di rinunciare a un controllo approfondito tanto in fatto quanto in diritto». In sostanza, la competenza di merito sulle sanzioni antitrust della Commissione «autorizza il giudice, al di là del mero controllo di legittimità della sanzione, a sostituire la sua valutazione a quella della Commissione e, di conseguenza, a eliminare, ridurre o aumentare l’ammenda o la penalità inflitta»[28]..
Sembrano in tal modo trovare accoglimento le lucide osservazioni dell’Avvocato generale Yves Bot secondo cui il sindacato sulle sanzioni amministrative della Commissione dovrebbe essere modellato su quello di «un giudice d’appello che esamina il fascicolo e se ne riappropria ex novo, come richiesto dall’art. 6 della CEDU»[29].
D'altra parte, il modello della full jurisdiction sta ormai acquisendo, nell'intero ambito del diritto dell'Unione, il ruolo di canone minimo necessario dell’effettività della tutela giurisdizionale in materia sanzionatoria amministrativa. Come tale vincolante anche rispetto alle sanzioni nazionali.
Così, nel 2013, la Grande Sezione della Corte di giustizia, nel pronunciarsi in tema di reciproco riconoscimento tra gli stati membri delle sanzioni amministrative pecuniarie (nella specie, per violazione del codice della strada), ha ritenuto che tale riconoscimento vada subordinato alla messa a disposizione di un ricorso giurisdizionale effettivo e che tale effettività, alla luce degli artt. 6 CEDU e 47 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, esiga che il giudice nazionale sia «pienamente competente ad esaminare la causa con riferimento tanto alla valutazione in diritto quanto alle circostanze di fatto», con, in particolare, «possibilità di esaminare le prove e di accertare su tale base la responsabilità dell’interessato nonché l’adeguatezza della pena» [30].
3. Nuovi contributi delle Corti europee sulla full jurisdiction.
Tali impostazioni a livello UE e CEDU trovano oggi importanti conferme e, si direbbe, sviluppi, in alcune recenti sentenze, di cui dirò brevemente.
Partiamo dalla Corte di giustizia.
In una pronuncia del 2023 sempre in punto di reciproco riconoscimento tra gli stati membri delle sanzioni pecuniarie[31], si legge di nuovo (come nel 2013), la netta affermazione per cui «perché sia possibile il riconoscimento di una sanzione amministrativa pecuniaria ai fini dell’esecuzione forzata in un altro ordinamento UE ai sensi della decisione quadro 2005/214, occorre che, quanto alla «portata e la natura del controllo esercitato dall’autorità giudiziaria che può essere adita, quest’ultima deve essere pienamente competente ad esaminare la causa con riferimento tanto alla valutazione in diritto quanto alle circostanze di fatto e deve avere in particolare la possibilità di esaminare le prove e di accertare su tale base la responsabilità dell’interessato nonché l’adeguatezza della pena».
È così confermato che l’art. 47 della Carta di Nizza (ispirato com’è dall’art. 6 CEDU) pretende la full jurisdiction come parametro sì esigente, ma anche minimo, dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Tuttavia, un’altra sentenza del 2023 dei giudici dell’Unione[32] appare ancor più importante e, si direbbe, dirimente.
Nell’occuparsi di una sanzione amministrativa di carattere reale inflitta dalla Romania in materia di depositi fiscali (ossia di una sospensione dell’autorizzazione necessaria per l’esercizio di un deposito fiscale, ai sensi della direttiva 2008/118, a causa di indizi della commissione di reati in violazione del regime dei prodotti soggetti ad accisa), la Corte non ha dubbi che condizione di legittimità della stessa sia e non possa che essere, ai sensi dei principi della Carta di Nizza che riflettono le garanzie CEDU, il diritto alla full jurisdiction, come inteso dalla Corte EDU e dalla coerente giurisprudenza UE in tema di sindacato sulle sanzioni antitrust. Tale sospensione, infatti, per quanto con finalità anche preventive, reagisce ad un preteso illecito ed è quindi pena ai sensi CEDU e della Carta di Nizza: «Per quanto concerne, poi, il criterio relativo alla natura stessa dell’infrazione, esso implica di verificare se la misura contemplata persegua, in particolare, una finalità repressiva, senza che la mera circostanza che essa persegua anche una finalità preventiva sia idonea a privarla della sua qualificazione di sanzione penale».
Si richiede dunque, ex art. 47 della Carta di Nizza, un sindacato esteso al merito. E ciò sull’an, come su ogni altro profilo, del preteso illecito e della sanzione: «Inoltre, l’articolo 47 della Carta richiede che ogni destinatario di una sanzione amministrativa di natura penale disponga di un mezzo di ricorso che gli consenta di far controllare tale sanzione da un organo giurisdizionale dotato di una competenza estesa al merito (sentenza del 18 luglio 2013, Schindler Holding e a./Commissione, C 501/11 P, EU:C:2013:522, punti da 32 a 35)».
Insomma, l’insegnamento per cui «Quanto al controllo di legittimità, …il giudice dell’Unione …non può far leva sul potere discrezionale di cui dispone la Commissione – né per quanto riguarda la scelta degli elementi presi in considerazione in sede di applicazione dei criteri indicati negli orientamenti del 1998 né per quanto riguarda la valutazione di tali elementi – al fine di rinunciare a un controllo approfondito tanto in fatto quanto in diritto…», vale (come è logico che sia, visto che discende dall’art. 47 della Carta di Nizza) anche per le sanzioni nazionali, in materie di interesse UE.
Peraltro, la necessità di un sindacato di merito su ogni profilo della pretesa sanzionatoria emerge anche di nuovo nella giurisprudenza CEDU. E ciò proprio con riguardo all’Italia e al contenzioso amministrativo. In particolare, l’inadeguatezza di visioni deferenti del sindacato giurisdizionale amministrativo trova importanti conferme.
Nella già citata pronuncia Edizioni Del Roma del 2020, si è negata una violazione dell’art. 6 CEDU rispetto ad una sanzione AGCOM in quanto, pur essendo il procedimento amministrativo non in linea con l’art. 6 CEDU tra l’altro perché carente sul piano dell’attuazione del diritto al contraddittorio, tuttavia, in concreto, «I giudici amministrativi hanno potuto verificare se, con riguardo alle circostanze particolari della causa, l’AGCOM avesse fatto un uso appropriato dei suoi poteri, e hanno potuto esaminare la fondatezza e la proporzionalità delle scelte dell’AGCOM». Quindi, quel che si richiede è un controllo pieno, si noti, sulla fondatezza nell’an (e non solo nel quantum) della sanzione.
Del resto, con una sentenza poco discussa in Italia ma ormai fondamentale per capire gli attuali orientamenti CEDU in punto di full jurisdiction, nel 2018 la Grand Chamber si è espressa con nettezza, nel caso Ramos Nunes[33]. Ivi, ha escluso (peraltro in materia civile, cioè con riguardo ad una sanzione disciplinare inflitta ad un magistrato da parte dell’organo di autogoverno portoghese e quindi con argomenti applicabili a fortiori alla materia penale ove, come si è detto, la full jurisdiction è intesa con più rigore) che una Corte capace di annullare la sanzione solo per errori procedurali e errori di valutazione manifesti senza capacità (o comunque volontà) di sostituire la propria valutazione a quella dell’organo di autogoverno eserciti una full jurisdiction e quindi possa rimediare ex post i limiti del procedimento sanzionatorio: «>span class="s68f5eaef">Nevertheless, it was empowered to set aside a decision wholly or in part in the event of a “gross, manifest error”, and in particular if it was established that the substantive law or procedural requirements of fairness had not been complied with in the proceedings leading to the adoption of the decision. Thus, it could refer the case back to the CSM for the latter to give a fresh ruling in conformity with any instructions issued by the Judicial Division regarding possible irregularities (see, conversely, Oleksandr Volkov, cited above, §§ 125-26, and Kingsley, cited above, § 32) ».
Non basta, insomma, un sindacato di legittimità, diremmo in Italia sull’eccesso di potere. Occorre un sindacato sostitutivo, in cui al giudice sia dato di (si noti la chiara scelta terminologica) «substituting its assessment for that of the disciplinary body».
Che il sindacato di full jurisdiction richiesto dalla Corte EDU al giudice amministrativo italiano sia (peraltro non solo in materia penale, ma anche di determinazione di diritti civili) quello forte e sostitutivo di cui agli ultimi due casi citati è stato, come anticipato, da ultimo certificato dagli stessi giudici di Strasburgo, nel caso Germano del giugno 2023[34]: ivi, in relazione al sindacato su un provvedimento amministrativo di polizia, l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo per aver violato il canone di full jurisdiction quale definito nel caso Ramos Nunes: «The Consiglio di Stato did not carry out an independent review of whether the measure had a reasonable basis in fact, as it did not examine any evidence to confirm or refute the applicant’s allegations. It failed, in particular, to examine the critical aspect of the case, namely whether the questore was able to demonstrate the existence of specific facts serving as a basis for the assessment that the applicant constituted a danger to his wife. These elements lead the Court to conclude that the Consiglio di Stato confined itself to a purely formal examination of the decision to impose the caution»[35].
Si noti che qui la Corte ha accertato una violazione non tanto dell’art. 6 CEDU (peraltro non contestata dal ricorrente), quanto, piuttosto, dell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita personale e familiare). In altri termini, la questione non era (o non era principalmente) quella di “curare” ex post i limiti del procedimento amministrativo (peraltro svoltosi senza alcun contraddittorio con il destinatario per pretese ragioni di urgenza e quindi palesemente in contrasto con i principi dell’equo processo civile), ma di realizzare una effettiva tutela giurisdizionale di un diritto umano garantito dalla CEDU. Dice infatti la Corte che «that measures affecting human rights must be subjected to some form of adversarial proceedings before an independent body competent to review the reasons for the decision and the relevant evidence. The individual must be able to challenge the executive’s assertions. Failing such safeguards, the police or other State authority would be able to encroach arbitrarily on rights protected by the Convention (see, mutatis mutandis, Liu v. Russia (no. 2), no. 29157/09, § 87, 26 July 2011). In the present case, a thorough judicial review was all the more necessary, given the failure on the part of the questore to provide relevant and sufficient reasons for the adopted measure (see paragraphs 135-36 above).»[36]
Insomma, ci dice la Corte, il sindacato sugli atti del potere amministrativo (ossia dell’Esecutivo) deve essere non solo esercitato nelle forme dell’equo processo in contraddittorio, ma altresì in modo necessariamente autonomo ed indipendente, non essendo ammesso che il Giudice del ricorso presti deferenza all’accertamento amministrativo, ove pure di carattere tecnico o comunque opinabile (nel caso di specie, il pericolo derivante da pretesi comportamenti persecutori, quale accertato dalla Questura sulla base di documenti forniti solo dalla pretesa vittima).
Presto assisteremo, poi, ad una pronuncia CEDU sul livello minimo di sindacato giurisdizionale amministrativo richiesto per le informative antimafia. E, si noti, come fin d’ora reso esplicito dalle domande poste alle parti[37], anche qui l’attenzione della Corte sembra concentrarsi sul rispetto del canone di full jurisdiction quale definito in Ramos Nunes e, sulla sua scia, in Edizioni del Roma.
Un motivo in più, mi pare, per non rifugiarsi in letture riduttive del canone della full jurisdiction: essa è funzionale, certo, a rendere effettivo il diritto al giudice in relazione ai poteri dell’Esecutivo (art. 6 CEDU; art. 47 Carta di Nizza), ma anche a garantire gli altri diritti fondamentali codificati dalla CEDU; si pensi solo, in relazione alla regolazione economica (ma anche alle stesse sanzioni amministrative pecuniarie), al diritto di proprietà ex art. 1, primo prot. add. CEDU, inteso latamente nella CEDU come diritto alla tutela del patrimonio (diremmo in Italia diritto all’integrità patrimoniale) a fronte del potere amministrativo.
4. Conclusioni.
Solo qualche breve nota conclusiva.
Come si è tentato di mostrare, il senso ultimo dell’insegnamento CEDU in punto di full jurisdiction sulle sanzioni amministrative quale affermato almeno a partire dal 1984 è semplice ma profondo: come dichiarato fin dalla sentenza Engel, la sanzione amministrativa deve cessare di essere una comoda etichetta che consente, ai sistemi giuridici nazionali, una facile elusione delle garanzie del diritto penale imposte dalla CEDU. Piuttosto, si deve trattare solo di un diverso modo di organizzare una funzione punitiva sostanzialmente immutata (sotto il profilo dei fini, o, in alternativa, della gravità) rispetto a quella esercitata dalla giurisdizione penale. Quindi deve essere assicurata, all’accusato, la stessa pienezza di tutele di cui godrebbe in sede (formalmente) penale.
Ed allora, se il procedimento amministrativo non è stato in linea con il giusto processo penale (ed è purtroppo la regola nella gran parte dei sistemi europei), almeno il giudice deve direttamente partecipare, seppur ex post e su impulso di parte, all’esercizio della funzione amministrativa, così da curare i deficit della originaria fase procedimentale.
Il rimedio giurisdizionale amministrativo deve quindi configurarsi come appellatorio. Non sono ammessi (o comunque non avrebbero portata curativa) rimedi giurisdizionali (più o meno accentuatamente) a critica vincolata.
La Corte europea di giustizia (ad interpretazione dell’art. 47 della Carta di Nizza) e la Corte EDU (ad interpretazione dell’art. 6 CEDU, ma anche del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva implicito in ogni diritto convenzionale) – come si è visto - specie negli ultimi anni ci hanno ribadito la necessità di un sindacato (espressamente definito come) di merito sulle sanzioni amministrative e ci hanno spiegato che il potere discrezionale non può essere visto come un limite al sindacato giurisdizionale.
Tali pronunce andrebbero, credo, prese sul serio.
Il rischio, altrimenti, è non solo che il sistema sanzionatorio amministrativo italiano sia considerato incompatibile con il diritto UE (fino alla non riconoscibilità, in altri ordinamenti europei, della sanzione italiana), ma altresì che (anche al di là della materia sanzionatoria) il sistema di sindacato giurisdizionale sugli atti dell’Esecutivo offerto dall’Italia sia considerato inadeguato ad adempiere gli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese con l’adesione alla CEDU, con violazione, quindi, dell’art. 117, co. 1, Cost.
Non mi sottraggo, infine, al giusto e argomentato invito di Fabio Francario ad interrogarsi sulla compatibilità della full jurisdiction con il principio della separazione dei poteri e con gli attuali limiti legislativi al sindacato di merito[38].
Anche a non voler considerare il rango della CEDU e del diritto dell’Unione Europea ex art. 117 , co. 1, Cost., qui, mi pare, si tratterebbe soprattutto di intendersi se il principio di separazione dei poteri abbia davvero copertura costituzionale, oppure, come sembrerebbe suggerire la pacifica esistenza ab origine nel nostro sistema di una giurisdizione di merito, sia piuttosto frutto di una saggia regola di economicità della funzione giurisdizionale (che certo non può sostituire in toto la funzione amministrativa; non ne avrebbe né le risorse organizzative, né le competenze specialistiche).
Tuttavia, osservo, la materia penale è tradizionalmente, in pressoché tutti gli ordinamenti europei, di normale spettanza del potere giudiziale. Una piena competenza sostitutoria - detto altrimenti, una continuità nella funzione sanzionatoria tra Amministrazione e Giudice - dovrebbe quindi apparire (quantomeno) più naturale ed accettabile proprio con riguardo alle sanzioni amministrative: come ipotizzare infatti un’invasione della sfera dell’Esecutivo da parte del potere giudiziario, quando in realtà la potestà penale è connaturata a quest’ultimo, e la depenalizzazione è stata una comprensibile scelta di deflazione degli uffici giudiziali, ma certo non un portato de (ma semmai una deroga a) principi tradizionali dell’ordinamento?
In questo senso, la scelta dell’art. 134, comma 1, lett. c), c.p.a., di devolvere in giurisdizione di merito il contenzioso sulle sanzioni amministrative pecuniarie (nonché la pienezza di tutela almeno sulla carta offerta dall’AGO in sede di sindacato sulle sanzioni amministrative pecuniarie) appare felice e da attuare compiutamente. Occorre cioè rinunciare alla tesi – peraltro priva di ogni supporto legislativo - per cui il sindacato di merito potrebbe riguardare solo il quantum, e non anche l’an, della sanzione.
Sentenze come quella notissima del luglio 2019 del Consiglio di Stato in tema di sanzioni per intese restrittive della concorrenza appaiono le uniche davvero in linea con il canone della full jurisdiction[39]. Una tale prospettiva di sindacato pervasivo andrebbe generalizzato, se non altro per un’esigenza di coerenza con l’approccio ormai evidente in sede di contenzioso dei giudici UE sulle sanzioni della Commissione.
Per gli altri ambiti del contenzioso amministrativo ad oggi soggetti a giurisdizione di legittimità, il problema, come ben chiarito da Fabio Francario, invece rimane: qui il limite del merito amministrativo è, sul piano legislativo e dei principi tradizionali (siano o meno essi costituzionalizzati), innegabile.
Occorrerebbe quindi ragionare de jure condendo.
Magari valorizzando, in tale ottica, il rango della CEDU (oltre che dell’art. 47 della Carta di Nizza, che l’art. 6 CEDU trasla nell’ordinamento UE). E, con ciò, la necessità, da ultimo manifestata nella sentenza sul caso Germano, di un sindacato pieno: quest’ultimo certamente da assicurare sulle sanzioni amministrative, ma anche, probabilmente, sugli altri provvedimenti amministrativi direttamente incidenti sui diritti civili, e, in particolare, su quelli limitativi dei diritti fondamentali convenzionalmente tutelati.
*Intervento presentato alle giornate di studio sulla giustizia amministrativa "Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione", Modanella 16 e 17 giugno 2023.
[1] Cfr. F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative, tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2018, cui rimando per ulteriori indicazioni bibliografiche.
Segnalo poi l’ampia e ragionata dimostrazione della necessità costituzionale di uno status peculiare della sanzione punitiva delineato da D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive´ tra diritto costituzionale ed europeo, in Riv. Reg. Mercati, 2022.
Sempre fondamentale, poi, M. Allena, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012.
L’idea della sanzione come pena è peraltro nota, prima ancora degli orientamenti CEDU, anche alla dottrina italiana. Cfr. in particolare, G. Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924, 38, ove si parla appunto di «pena in senso tecnico».
Successivamente, per una simile impostazione, M.A. Sandulli, Le sanzioni amministrative pecuniarie, Napoli, 1983 e C. Paliero, A. Travi, voce Sanzioni amministrative, in Enc. dir., vol. XLI, Milano, 1989, 345 ss.
Da ultimo, sul tema, contributi monografici sono offerti, tra gli altri, da S. Cimini, Il potere sanzionatorio delle amministrazioni pubbliche, Torino, 2017; G. Martini, Potere sanzionatorio della p.a. e diritti dell'uomo : i vincoli CEDU all'amministrazione repressiva, Napoli 2018, S. L. Vitale, Le sanzioni amministrative tra diritto nazionale e diritto europeo, Torino, 2018; S. Lucattini, Le sanzioni a tutela del territorio, Torino, 2022; S. Terracciano, Le sanzioni amministrative a tutela degli interessi pubblici procedimentali, Napoli, 2023.
[2] Cfr. ad es., con affermazioni nette quanto in chiaro contrasto con la giurisprudenza CEDU, Cass., sez. II, 18 ottobre 2022, , n. 30500 « Risulta, invero, incensurabile la conclusione del giudice di merito il quale ha ritenuto che (cfr. Cass. n. 20689 del 2018) le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB diverse da quelle di cui all'art. 187 ter TUF non sono equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle appunto irrogate dalla CONSOB per manipolazione del mercato, sicché esse non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime, né pongono, quindi, un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall'art. 6 CEDU, agli effetti, in particolare, della violazione del "ne bis in idem" tra sanzione penale ed amministrativa comminata sui medesimi fatti. Trattasi di principio già affermato in precedenza (cfr. Cass. n. 8855 del 2017; Cass. n. 1621 del 2018) e che risulta confermato anche dalla successiva giurisprudenza di legittimità, che ha ribadito che (cfr. Cass. n. 4 del 2019; Cass. n. 5 del 2019; Cass. n. 31632 del 2019) con riferimento alle stesse, non si pone un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo né di applicabilità del successivo art. 7 della medesima Convenzione.».
[3] Corte eur. dir. uomo, Plenaria, 8 giugno 1976, caso n. 5100/71, Engel and Others v. the Netherlands, §§ 81 e 82: «La Convenzione indubbiamente consente agli Stati, nell’esercizio della loro funzione di custodi del pubblico interesse, di mantenere o stabilire una distinzione tra di-ritto penale e diritto disciplinare, e di determinare il relativo confine, ma solo a certe condizioni. La Convenzione lascia gli Stati liberi di designare come un illecito penale un’azione o un’omissione che non costituisca normale esercizio di uno dei diritti da essa protetto. Ciò è reso particolarmente chiaro dall’art. 7. Tale scelta, che ha l’effetto di rendere applicabili gli artt. 6 e 7, non è, in linea di principio, soggetta a scrutinio da parte della Corte. L’opposta scelta è tuttavia soggetta a più stringenti li-miti. Se agli Stati contraenti fosse concesso di classificare a loro discrezione un illecito come disciplinare invece che penale, o di perseguire l’autore di un illecito di carattere misto sul piano disciplinare invece che penale, l’applicabilità di disposizioni fondamentali quali gli artt. 6 e 7 risulterebbe subordinata alla loro volontà sovrana. Una tale ampia possibilità di scelta risulterebbe incompatibile con gli obiettivi e il conte-nuto della Convenzione. La Corte dunque, ai sensi degli artt. 6 nonché 17 e 18, ha competenza a stabilire da sé se la materia disciplinare non invada in realtà la sfera del penale. In breve, l’autonomia del concetto di penale opera a senso unico [...] In tale prospettiva, occorre anzitutto sapere se le previsioni che definiscono l’illecito in questione appartengono, secondo il sistema legale dello Stato resistente, alla sfera del diritto penale, disciplinare o entrambi assieme. Ciò tuttavia non rappresenta che un punto di partenza. Le indicazioni così fornite hanno solo un valore formale e relativo e vanno esaminate alla luce di un comune denominatore ricavabile dalle legislazioni dei vari stati contraenti. La natura intrinseca dell’illecito è un fattore di maggior importanza. Quando un militare si ritrova accusato di un atto o di un’omissione che in tesi violano le regole che governano l’attività delle forze armate, lo Stato può in linea di principio impiegare contro di lui il diritto disciplinare invece che quello penale. Sotto questo profilo, la Corte concorda con il Governo. Tuttavia, il sindacato della Corte non si ferma qui. Tale sindacato risulterebbe in linea generale illusorio se non prendesse anche in considerazione il livello di severità della sanzione che l’accusato rischia di subire. In una società conformata al principio di legalità, appartengono alla sfera del diritto penale tutte le privazioni della libertà che siano applicate quali san-zioni, con l’eccezione di quelle che per natura, durata o modalità di esecuzione non siano significativamente afflittive […]».
[4] Corte eur. dir. uomo, Plenaria, 21 febbraio 1984, caso n. 8544/79, Öztürk v. Germany, § 53.
[5] Trattasi della pronuncia Corte eur. dir. uomo, sez. II, 9 novembre 1999, caso n. 35260/97, Varuzza v. Italy, in cui la Corte si limita a ricordare che «the offence at issue is a “criminal” one within the meaning of Article 6, § 1 of the Convention (see the Öztürk v. Germany judgment of 21 February 1984, Series A no. 73, p. 21, § 53). The applicant was thus in principle entitled to have a court determine the charge against him».
[6] Corte eur. dir. uomo, sez. IV, 21 marzo 2006, caso n. 70074/01, Valico v. Italia.
[7] Corte eur. dir. uomo, sez. II, 7 settembre 2011, caso n. 43509/08, Menarini c. Italia.
[8] Corte eur. dir. uomo, sez. II, 4 marzo 2014, casi nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, Grande Stevens and Othersv. Italy.
[9] Corte eur. dir. uomo, sez. I, 10 dicembre 2020, casi nn. 68954/13 e 70495/13, Edizioni Del Roma Società Cooperativa a R.L. e Edizioni Del Roma S.r.l. c. Italia.
[10] Corte eur. dir. uomo, Camera, 9 febbraio 1995, caso n. 17440/90, Welch v. The United Kingdom, § 30: «Invero, gli scopi di prevenzione e ripristino sono compatibili con uno scopo punitivo e possono essere visti come elementi costitutivi della nozione stessa di pena».
[11] Sul punto, se si vuole, F. Goisis, Discrezionalità e autoritatività nelle sanzioni amministrative pecuniarie, tra tradizionali preoccupazioni di sistema e nuove prospettive di diritto europeo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2013, 79 ss.
[12] F. Francario, L’incerto confine tra giurisdizione di legittimità e di merito, Relazione al convegno di Modanella 16-17 giugno 2023 “Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione”, in questa Rivista.
[13] Ad es., Corte eur. dir. uomo, sez. I, 17 aprile 2012, caso n. 21539/07, Steininger v. Austria, § 52, in cui espressamente si nota, in contrapposizione a vicende in cui erano in gioco poteri amministrativi incidenti su diritti civili, che «In the present case, however, the criminal head of Article 6, § 1 applies to the proceedings at issue and in its case-law the Court followed a different approach as regards the scope of review of criminal sanctions imposed by administrative authorities».
[14] Corte eur. dir. uomo, sez. I, 10 dicembre 2020, cit., § 67.
[15] Corte eur. dir. uomo, sez. I, 4 marzo 2004, caso 47650/99, Silverster’s Horeca Ser-vice c. Belgique, § 28:
[16] Sul tema più generale fino a che punto il difetto di giusto procedimento amministrativo possa essere "curato" in sede giurisdizionale, già condivisibili riflessioni, anche a commento degli orientamenti giurisprudenziali del Regno Unito, in D. Galligan, Due Process and Fair Procedures, A Study of Administrative Procedures, Oxford, 1997., ove si osserva che «If it is clear that the appeal goes to the merits, and if the procedures necessary to provide fair treatment are followed on appeal, then the original defect is cured».
[17] Corte suprema degli Stati Uniti, 28 aprile 1980, Marshall v. Jerrico, Inc., in 446 U.S. 238, 245: ivi la Corte suprema si è più direttamente occupata della violazione della due process clause di cui al V e XIV emendamenti nella determinazione iniziale dei diritti del cittadino da parte di un’autorità con funzioni prosecutorial (ossia, potremmo dire, di accusa, come contrapposte a quelle semigiudiziali), ritenendo che perché tale violazione possa essere “curata” successivamente, occorre che vi sia una ulteriore fase giudiziale (o semi-giudiziale) non solo rispettosa dei principi del giusto processo, ma anche, e soprattutto, di "sindacato ex novo su tutte le questioni fattuali e giuridiche" ("the administrative law judge is required to conduct a de novo review of all factual and legal issues")
Sul tema della ex novo review, fra i tanti, J.A. Shechter, De Novo Judicial Review of Administrative Agency Factual Determinations Implicating Constitutional Rights, in Colum. L. Rev. Vol. 88, No. 7 (Nov., 1988), 1483 ss., il quale dà altresì conto dell'ampia giurisprudenza della Corte Suprema in tema di necessità di una piena revisione giurisdizionale delle scelte amministrative incidenti su diritti fondamentali di rango costituzionale, proponendone una razionalizzazione.
In Italia, se si vuole, F. Goisis, 'A de novo review of all factual and legal issues' v. un esame 'point by point [...] without having to decline jurisdiction [...] in scrutinising findings of fact or law made by the administrative authorities'. La pienezza di giurisdizione come strumento di compensazione ex post nell'esperienza europea e statunitense, in Dir. proc. amm., 2021, 3 ss.
[18] United States District Court, S.D. New York, 2 marzo 2015, U.S. v. East River Housing Corp., 90 F.Supp.3d 11850.
[19] Così, M.A. Sandulli, Le sanzioni, cit., 247-248, commentando la tesi di V. Andrioli, Il contenzioso civile delle sanzioni amministrative, in Diritto e giurisprudenza, 1981, 778, secondo cui il contenzioso sulle sanzioni si articolerebbe in un doppio stadio, amministrativo e giurisdizionale.
Sulla necessità di una giurisdizione piena sulle sanzioni nel sistema della l. 689 del 1981, anche R. Villata, Problemi di tutela giurisdizionale nei confronti delle sanzioni amministrative pecuniarie, originariamente in Dir. proc. amm., 1986, 388 ss., ora in R. Villata, Scritti di giustizia amministrativa, Milano, 2015, 267 ss.
[20] Sul tema, esatte osservazioni in Allena, Art. 6, cit., 294 ss.
Sulla connessione tra full jurisdiction e principio di presunzione di innocenza (in dubio pro reo), la originale riflessione di G. Greco, L’illecito anticoncorrenziale, il sindacato del giudice amministrativo e i profili tecnici opinabili, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2021, 469 ss., secondo cui il dubbio sui profili tecnici deve giocare a favore dell’incolpato, non (come oggi tende ad avvenire) della PA.
[21] Corte eur. dir. uomo, sez. IV, 27 ottobre 2009, caso n. 42509/05, Crompton v. The United Kingdom, § 73, ove si legge che « the Court concluded that judicial review proceedings did not offer, in the circumstances raised in Tsfayo, “sufficiency of review” in light of the fact that the High Court had no jurisdiction to rehear the evidence or substitute its own views as to the applicant’s credibility. As a result, the central issue in the dispute was not determined by an independent and impartial tribunal».
[22] Corte eur. dir. uomo, 4 marzo 2014, cit., § 139.
[23] Corte eur. dir. uomo, 4 marzo 2014, cit., § 155.
[24] Corte eur. dir. uomo, sez. II, 7 settembre 2011, cit..
[25] Come noto, ai sensi dell’art. 52, § 3, della Carta di Nizza: «Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa». Secondo le Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali (2007/C 303/02), cit., sub art. 52: «Il riferimento alla CEDU riguarda sia la convenzione che i relativi protocolli. Il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non solo dal testo di questi strumenti, ma anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. L’ultima frase del paragrafo è intesa a consentire all’Unione di garantire una protezione più ampia. La protezione accordata dalla Carta non può comunque in nessun caso situarsi ad un livello inferiore a quello garantito dalla CEDU».
[26] Così, da ultimo, Corte eur. giust., sez. I, 30 aprile 2014, in causa C-238/12 P, FLSmidth & Co. A/S c. Commissione europea, punto 56.
[27] Corte eur. giust., sez. III, 11 settembre 2014, in causa C-382/12, MasterCard e altri c. Commissione, punto 156.
[28] Corte eur. giust., sez. I, 27 aprile 2017 in causa C-469/15 P, FSL Holdings e a. c. Commissione europea, punti 73-74.
[29] Conclusioni dell’Avvocato generale presentate il 21 giugno 2012, causa C-89/11 P, E.ON Energie AG c. Commissione europea, punto 118.
[30] Così, nell’interpretare la decisione quadro 2005/214/GAI, Corte eur. giust., Grande Sezione, 14 novembre 2013, causa C-60/12, Marián Baláž, punto 47.
[31] Corte eur. giust., sez. VIII, 7 aprile 2022, causa C‑150/21, D.B.
[32] Corte eur. giust., sez. IV, 23 marzo 2023, causa C‑412/21, Dual Prod SRL.
[33] Corte eur. dir. uomo, Grand Chamber, 6 novembre 2018, casi nn. 55391/13, 57728/13 and 74041/13, Ramos Nunes de Carvalho e Sá v. Portugal.
[34] Corte eur. dir. uomo, sez. I, 22 giugno 2023, caso n. 10794/12, Giuliano Germano v. Italy.
[35] § 141.
[36] § 138.
[37] Corte eur. dir. uomo, 20 giugno 2022, caso n. 31696/17, Geocostruzioni s.r.l., in cui si pone, tra l’altro, la seguente domanda: «Les contestations sur les droits et obligations de caractère civil des requérantes ont-t-elles été entendues équitablement, comme l’exige l’article 6 § 1 de la Convention ? En particulier, compte tenu des « droits et obligations de caractère civil » en jeu et des effets des mesures d’informazione antimafia interdittiva sur ceux-ci, des particularités de la procédure devant l’autorité préfectorale (voir, en particulier, les articles 92 et 93 du décret législatif no 159 de 2011) et de la jurisprudence interne sur l’étendue du contrôle juridictionnel administratif en la matière (voir, parmi beaucoup d’autres, les arrêts du Conseil d’État nos 3707/2015 et 7151/2018), les requérantes ont‑t‑elles eu la possibilité de soumettre leurs contestations à un « tribunal » disposant de la « plénitude de juridiction » au sens de la jurisprudence dégagée par la Cour sur le terrain de l’article 6 § 1 de la Convention (Ramos Nunes de Carvalho e Sá c. Portugal [GC], nos 55391/13 et 2 autres, §§ 176‑186, 6 novembre 2018, voir aussi, en ce qui concerne les sanctions infligées par les autorités administratives indépendantes, Edizioni Del Roma Societa Cooperativa A.R.L. et Edizioni del Roma S.R.L. c. Italie, §§ 92-94, nos 68954/13 et 70495/13, 10 décembre 2020) ?»
[38] Sul tema della separazione dei poteri e della sua tensione con il canone della full jurisdiction, rinvio, per più estese argomentazione anche di carattere sistematico, a M. Allena, F. Goisis, ‘Full Jurisdiction’ Under Article 6 ECHR: Hans Kelsen v. the Principle of Separation of Powers’, in Eur. Publ. Law, 2020, vol. 26, no. 2, 288 ss. e F. Goisis, La full jurisdiction sulle sanzioni amministrative: continuità della funzione sanzionatoria v. separazione dei poteri, in Dir. amm., 2018, 1 ss.
[39] Cons. Stato, sez. VI, 19 luglio 2019, n. 4990. Ivi si legge che "Secondo la giurisprudenza della Corte Europea, il «fair trial» non ha ad oggetto unicamente il processo, ma anche il procedimento, amministrativo, e segnatamente: per «tribunale» deve intendersi qualunque autorità che, pur attraverso un procedimento non formalmente qualificato processo nell’ordinamento interno, adotti atti modificativi della realtà giuridica, incidenti significativamente nella sfera soggettiva di un soggetto privato, anche se tale funzione viene esercitata al di fuori di una organizzazione giurisdizionale". Da qui la "rilevanza centrale, nelle controversie sull’esercizio del potere sanzionatorio, del concetto di «full jurisdiction». Secondo i giudici di Strasburgo la decisione amministrativa incidente su civil rights and obligations, per quanto adottata senza il rispetto di tutti i requisiti prescritti dal principio del «fail trail», può nondimeno essere considerata adottata conformemente alla Convenzione, laddove le garanzie procedurali ivi previste siano comunque riscontrabili nella sede di controllo della decisione stessa". Di conseguenza, quanto ai pretesi limiti di sindacato giurisdizionale, "nulla si oppone a che sia il giudice a “definire” la fattispecie sostanziale". Occorre insomma superare il tradizionale limite del divieto di sostituzione delle valutazioni tecniche rispetto alle sanzioni AGCM: il giudice amministrativo è "pienamente abilitato a pervenire all'accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale invocata (nella specie, l'accertamento della realizzazione o meno dell'intesa illecita punita con una pesante sanzione pecuniaria)".
Per un primo commento critico, M. Delsignore, I controversi limiti del sindacato sulle sanzioni AGCM: molto rumore per nulla?, in Dir. proc. amm., 2020, 740 ss.
A favore di un sindacato di mera attendibilità in tesi più rispettoso della particolare legittimazione tecnica delle Autorità amministrative e quindi critico anche S. Torricelli, Per un modello generale di sindacato sulle valutazioni tecniche: il curioso caso degli atti delle autorità indipendenti, in Dir. proc. amm., 2020, 97 ss.
Con questi interventi completiamo la pubblicazione degli atti del Convegno presso l'Università Bocconi di Milano il 27 giugno scorso sul tema dell'autogoverno della giustizia tributaria.
Sommario: 1. La legge n. 130 del 2022 e le attribuzioni del Consiglio di presidenza. – 2. Il ruolo e l’attività del Consiglio nella prima applicazione della legge n. 130 del 2022. – 3. Il rapporto con il Ministero dell’economia e delle finanze. – 4. Il nuovo ufficio ispettivo – 5. L’Ufficio del Massimario nazionale. – 6. Note conclusive.
1. La legge n. 130 del 2022 e le attribuzioni del Consiglio di presidenza
Il testo della riforma della giustizia e del processo tributario, definitivamente approvato con legge 31 agosto 2022, n. 130, pur non introducendo tutte le auspicate modifiche al ruolo e all’attività del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, incide in modo rilevante sui suoi compiti e sulle sue attribuzioni.
Mentre, anche se con qualche perplessità, può immaginarsi che la riforma organica della giustizia tributaria sia legata al Piano nazionale di resistente e resilienza, difficilmente può pensarsi che analoga conclusione sia riferibile alla riforma dell’organo di autogoverno alla quale non si fa riferimento nella Milestone M1C1-35. Negli ultimi anni, il Consiglio di presidenza ha dovuto affrontare numerose e complesse problematiche – dall’emergenza Covid alla gestione delle procedure di mobilità orizzontale e verticale, al processo tributario telematico per citarne solo alcune – le sfide e gli impegni che lo interesseranno nel prossimo futuro appaiono, se possibile, più impegnativi e complessi in quanto, da un lato, diverse delle attività ordinariamente svolte seguiranno regole nuove o comunque diverse da quelle in precedenza applicate e, dall’altro, il Consiglio dovrà attuare le innovazioni introdotte dalla riforma.
Il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria è l’organo di autogoverno della giustizia tributaria, fondamentale presidio dell’autonomia e della indipendenza della magistratura tributaria. L’importanza del Consiglio è particolarmente avvertita nella giustizia tributaria in considerazione dello stretto legame tra la stessa magistratura e il Ministero dell’economia e delle finanze.
La Corte di giustizia UE ha, in più occasioni, affermato che il requisito dell’indipendenza, “è essenziale per il buon funzionamento del sistema di cooperazione giudiziaria costituito dal meccanismo di rinvio pregiudiziale”; tale requisito, in particolare, comporta che le funzioni siano esercitate “senza soggiacere a vincoli gerarchici o di subordinazione nei confronti di alcuno e senza ricevere ordini o istruzioni di qualsivoglia origine” e si traduce: lungo un versante “esterno”, nella “inamovibilità”, principio in base al quale i giudici possono continuare ad esercitare le proprie funzioni “finché non abbiano raggiunto l’età obbligatoria per il collocamento a riposo o fino alla scadenza del loro mandato, qualora quest’ultimo abbia una durata determinata”, salve le eccezioni giustificate “da motivi legittimi e imperativi, nel rispetto del principio di proporzionalità”, come ad esempio nel caso di rimozione discendente da illeciti disciplinari e nel rigoroso rispetto del principio di legalità; lungo un versante “interno”, nella “imparzialità”, intesa come equidistanza rispetto alle parti della controversia ed ai loro rispettivi interessi in rapporto all’oggetto di quest’ultima. Questo aspetto, precisa la Corte, “impone il rispetto dell’obiettività e l’assenza di qualsivoglia interesse nella soluzione della controversia all’infuori della stretta applicazione della norma giuridica” (cfr. Corte di giustizia UE, 13 giugno 2017, C‑258/14, Florescu; 27 febbraio 2018, C‑64/16, Associação Sindical dos Juízes Portugueses, in Foro amm., 2018, 163; 7 febbraio 2019, C‑49/18, Escribano Vindel; 19 novembre 2019, C‑585/18, C‑624/18 e C‑625/18, A.K.).
Nel caso della giustizia tributaria, come noto, la Direzione della giustizia tributaria, organo che sovrintende l’operato delle Corti, è inquadrata nel Dipartimento delle Finanze, rientrante nel Ministero dell’economia e delle finanze. Ciò al pari della Direzione Agenzie ed Enti della Fiscalità, la quale in sintesi coordina e monitora l’attività dell’Agenzia delle Entrate. Si tratta di una commistione di competenze che coinvolge la funzione giurisdizionale, le azioni del potere esecutivo, l’organo di autogoverno, nonché, nella sostanza, una delle parti del processo tributario, amministrazione da cui promanano gran parte degli atti impugnati. La riforma in questione non è andata nella auspicata direzione di superare il citato problema ordinamentale, anzi la riforma del 2022 e i successivi interventi legislativi (art. 20, commi da 2 bis a 2 sexies d.l. n. 44 del 2023, convertito con modificazioni in l. n. 74 del 2023) hanno determinato un consistente rafforzamento delle strutture del Ministero che si occupano della giustizia tributaria.
Sarebbe stato utile operare, quantomeno, un maggiore rafforzamento del Consiglio dotandolo di un ruolo autonomo del personale, indipendente da quello del Ministero, rafforzando al tempo stesso la presenza di giudici tributari all’interno delle strutture dedicate allo svolgimento di attività amministrative e istituzionali relative alla giustizia tributaria (ufficio studi, servizio per l’informatica, addetti al segretariato).
In ogni caso, il legislatore è intervenuto espressamente sulle funzioni del Consiglio di presidenza, come disciplinate da d.lgs. n. 545 del 1992, prevedendo al suo interno la costituzione di uno specifico ufficio ispettivo, il cui rafforzamento dell’autonomia contabile e disciplinare-ispettiva consente indirettamente di tutelare l’indipendenza dei giudici, che la riforma ha strutturalmente inquadrato come dipendenti del Ministero. Tale rafforzamento, come evidenziato in dottrina, non appare tuttavia in grado di superare una modalità governativa, condizionata dall’impronta amministrativa, che continuerà a reclutare i propri giudici per il tramite del Ministero.
2. Il ruolo e l’attività del Consiglio nell’applicazione della legge n. 130 del 2022
Il Consiglio di presidenza, come rilevato, è chiamato a un rilevante sforzo e a una consistente attività in relazione alla citata riforma.
Nei rapporti tra legge n. 130 del 2022 e Consiglio di presidenza si possono immaginare alcuni effetti diretti, in tutte le ipotesi in cui il legislatore attribuisce espressamente taluni compiti ovvero obbliga il consiglio a svolgere determinate attività, e altri indiretti, in tutte le ipotesi in cui il legislatore intervenendo sulla disciplina previgente obbliga il consiglio a modificare precedenti delibere o regolamenti.
Sarà inoltre fondamentale che il Consiglio continui e incrementi l’attività di interlocuzione con gli altri organi di autogoverno (in primis il CSM, in considerazione della circolare adottata da tale organo in data 13 aprile 2022, con cui ha apportato rilevanti modifiche alla disciplina in tema di “incarichi extragiudiziari ed esercizio delle funzioni di giudice tributario”, con specifico riferimento all’attività svolta dai giudici ordinari in relazione alla loro attività di giudici tributari) e con il Ministero dell’economia e delle finanze, tenuto a una serie articolate di attività idonee a incidere sull’attività dei giudici e dei magistrati tributari.
Nel dettaglio, a carico del Consiglio sono state previste le seguenti attività:
- svolgere alcuni adempimenti legati al nuovo concorso per l’assunzione di magistrati tributari con decorrenza già dal 2023;
- definire i criteri e le modalità per garantire con cadenza periodica, la formazione continua e l’aggiornamento professionale dei giudici e dei magistrati tributari (art. 1, comma 1, lett. g);
- attivare e disciplinare il nuovo ufficio ispettivo nominandone i componenti (art. 1, comma 1, lett. q);
- attivare e disciplinare il nuovo ufficio del massimario nazionale, nominandone i componenti (art. 1, comma 1, lett. r);
- adeguare la disciplina esistente alle nuove regole e alla tempistica per l’assegnazione dei giudici e dei magistrati tributari nello stesso o in diverso incarico, anche con riferimento alla attività di vigilanza del Consiglio e al giudizio di demerito che dovrà esprimere nei confronti dei giudici e dei magistrati tributari nel caso in cui ricorrano le condizioni descritte all’art. 1, comma 1, lett. p), n. 5);
- concludere l’iter connesso al transito dei magistrati ordinari e delle altre giurisdizioni nella giurisdizione tributaria.
- con una previsione molto criticata dai primi commentatori e dalle associazioni rappresentative dei giudici tributari, il legislatore ha previsto (art. 1, comma 12) che, entro il 31 gennaio 2023, il Consiglio è tenuto individuare le sedi delle Corti di giustizia tributaria nelle quali non è possibile assicurare l’esercizio della funzione giurisdizionale in applicazione dell’art. 11, comma 2, d.lgs. n. 545 del 1992, al fine di assegnare d’ufficio alle predette sedi, in applicazione non esclusiva, giudici tributari appartenenti al ruolo unico di cui all’art. 4, comma 39-bis, l. n. 183 del 2011;
- adottare, come fatto, un nuovo regolamento elettorale;
- prevedere una maggiorazione di indennità per il personale (art. 1, comma 15, l. n. 130 del 2022, ai sensi del quale, il Consiglio, nell’ambito della propria autonomia contabile e a carico del proprio bilancio, individua le misure e i criteri di attribuzione della maggiorazione dell’indennità di amministrazione e della retribuzione di posizione di parte variabile in godimento del personale dirigenziale e non dirigenziale del Ministero assegnato, avuto riguardo alla natura e alla tipologia delle attività svolte).
3. Il rapporto con il Ministero dell’economia e delle finanze
Come anticipato, la riforma attribuisce al Consiglio di presidenza numerosi compiti, ma nella fase attuativa della riforma un ruolo centrale è comunque svolto dal Ministero dell’economia e delle finanze.
Il Consiglio dovrà svolgere costanti interlocuzioni con il Ministero, al fine di verificare che gli atti di sua competenza siano coerenti con le esigenze dei magistrati e dei giudici tributari nonché rispettosi delle prerogative istituzionali dello stesso Consiglio.
A titolo esemplificativo: la ridefinizione della geografia giudiziaria delle Corti giudiziarie di primo e secondo grado; gli adempimenti sottesi all’indizione del concorso per la nomina a magistrato tributario; il rapporto tra l’attività di massimazione da parte dell’Ufficio del massimario nazionale e la gestione della banca dati da parte del Ministero (nuovo art. 24, commi 3 e 4, d.lgs. n. 545 del 1992); il rapporto tra i due nuove uffici dirigenziali di livello non generale aventi funzione in materia di status giuridico ed economico dei magistrati tributari e di organizzazione e gestione delle procedure concorsuali prima e il nuovo Dipartimento e le strutture del Consiglio.
Occorre ancora che il Consiglio vigili e segnali eventuali disfunzioni derivanti dall’applicazione della riforma a cominciare dall’art. 1, comma 1, lett. n), numero 2.2), in tema di riduzione dell’età di cessazione dell’incarico dei componenti delle corti di giustizia tributaria, nonché verifichi che sia correttamente determinata da parte del Ministero la misura del compenso variabile spettante al presidente, al presidente di sezione e al giudice per le controversie di competenza del giudice monocratico. Sul punto, in realtà, in conformità con le osservazioni delle Associazioni rappresentative dei giudici e dei magistrati tributari, il Consiglio ha adottato un parere critico verso la bozza di DPCM proposta dal Ministero, evidenziando che i compensi, oltre ad essere inadeguati in senso assoluto, non tengono in alcuna considerazione le modifiche del costo della vita e l’incremento dell’attività lavorativa derivata anche per effetto della l. n. 130 del 2022 (in particolare: abolizione del trattamento premiale di cui all’art. 37 d.l. n. 98 del 2011 e del comma 3-ter dell’art. 12 d.l. n. 16 del 2012; invarianza dei compensi variabili rimasti i medesimi già determinati dal d.m. del 24.3.2006 e tenuti fuori da meccanismi perequativi di rivalutazione; mancata previsione di compensi aggiuntivi per i provvedimenti assunti sulle istanze cautelari di sospensione dell’atto impugnato; esiguità del rimborso spese forfetario di euro 1,50 e comunque mancata previsione di analogo rimborso per i giudici tributari residenti in Regioni diverse da quelle della Corte di giustizia di appartenenza).
La riforma introduce una serie articolata di novità ordinamentali e processuali e solo con il costante dialogo tra le istituzioni e ascoltando le istanze e le esigenze dei giudici e delle relative associazioni di categoria sarà possibile attuare, nel modo migliore possibile, una riforma che ha inciso in maniera profonda su un sistema efficiente e con elevate professionalità acquisite in anni di esperienza sul campo.
4. Il nuovo ufficio ispettivo
L’art. 24 del d.lgs. n. 545 del 1992 elenca le attribuzioni del Consiglio di presidenza. Il secondo comma della disposizione, nella sua versione vigente anteriormente alle modifiche apportate dalla l. n. 130 del 2022, prevede una specifica attività di vigilanza del Consiglio sul funzionamento dell’attività giurisdizionale delle Corti di giustizia tributaria e la possibilità per lo stesso Consiglio di disporre ispezioni nei confronti del personale giudicante, affidandone l’incarico ad uno dei suoi componenti.
L’attività ispettiva è quindi svolta, nella prospettiva del legislatore del 1992, tramite una delega operata dal Consiglio a uno dei suoi componenti. Lo svolgimento secondo le citate modalità la rende difficilmente efficace e comunque subordinata a una valutazione casistica operata nella singola seduta e con riferimento alla specifica attività. Con la riforma è stato eliminato l’inciso “affidandone l’incarico ad uno dei suoi componenti” ed è stato istituito un nuovo ufficio ispettivo all’interno del Consiglio.
In particolare, vengono introdotti dal n. 2 della lettera q) del comma 1 dell’art. 1, due nuovi commi all’art. 24, i commi 2-bis e 2-ter.
Con il comma 2-bis, al fine di garantire l’esercizio efficiente delle attribuzioni di vigilanza sul funzionamento dell’attività giurisdizionale delle corti di giustizia tributaria, presso il Consiglio di presidenza è istituito, con carattere di autonomia e indipendenza, l’Ufficio ispettivo, il quale può svolgere, con il supporto della Direzione della giustizia tributaria del Dipartimento delle finanze, attività presso le corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, finalizzate alle verifiche di competenza.
In luogo, quindi, di una delega a un singolo componente del Consiglio, il legislatore ha istituito un nuovo ufficio, evidenziandone i profili dell’autonomia e indipendenza, con carattere di stabilità, cui sono assegnati sei magistrati o giudici tributari, tra i quali è nominato un direttore.
Al successivo comma 2-ter si prevede che i componenti dell’Ufficio ispettivo sono esonerati dall’esercizio delle funzioni giurisdizionali presso le Corti di giustizia tributaria.
L’art. 8, comma 2, della legge in esame prevede che le disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, lettere q) e r), si applicano a decorrere dal 1o gennaio 2023. L’attività di vigilanza sui giudici tributari è prevista nel “Regolamento per il procedimento disciplinare nei confronti dei componenti delle Commissioni tributarie regionali e provinciali” (delibera n. 2980/2015), integrato con la modifica dell’art. 15 apportata dalla Delibera n. 739/2021. L’unica disposizione ivi contenuta diretta disciplinare la vigilanza sui giudici tributari è prevista alla sezione I, art. 1, dove si prevede che il Consiglio di presidenza vigila sul funzionamento delle corti di giustizia tributarie e può disporre le ispezioni affidandone l’incarico ad uno o più dei suoi componenti. Il secondo comma attribuisce poi compiti di vigilanza al presidente delle Corti di giustizia tributarie di secondo grado sulla attività giurisdizionale delle corti di giustizia di primo grado aventi sede nella circoscrizione della stessa e sui loro componenti. Il presidente di ciascuna corte di giustizia tributaria esercita la vigilanza sugli altri componenti. La disposizione riprende nella sostanza il contenuto dell’art. 15 d.lgs. n. 545 del 1992.
Ne discende una struttura piramidale a controllo diffuso.
Il Consiglio, con la delibera n. 440/2023 ha approvato il regolamento per l’istituzione dell’ufficio ispettivo, con il primario compito di svolgere attività presso le Corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, finalizzate alle verifiche di rispettiva competenza. L’ufficio, composto da 6 componenti, in carica per sei anni non rinnovabili, esonerati dalle funzioni giurisdizionali tributarie, svolge funzioni di controllo dell’operato dei soggetti appartenenti alla giustizia tributaria, nei limiti posti dalla legge a salvaguardia dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, mediante attività di accertamento imparziale ed obiettivo di situazioni e comportamenti oggetto di segnalazione o rilevati in via autonoma, nonché della regolarità delle condotte tenute nell’adempimento dei doveri d’ufficio.
L’importanza dell’attività di vigilanza compiuta dal Consiglio di presidenza e delle funzioni svolte dall’ufficio ispettivo appaiono notevoli, non solo nella prospettiva di un eventuale giudizio disciplinare, ma anche in relazione al giudizio di demerito che il Consiglio di presidenza esprime in caso di sanzione disciplinare ovvero nel caso in cui il rapporto annuo tra il numero dei provvedimenti depositati oltre il termine di trenta giorni a decorrere dalla data di deliberazione e il totale dei provvedimenti depositati dal singolo candidato sia pari o superiore al 60 per cento (nuovo art. 11 d.lgs. n. 545 del 1992). Giudizio di demerito che incide sulle progressioni di carriera e sulle varie vicende relative alla vita professionale del giudice o del magistrato tributario (procedura di interpello di cui all’art. 1, comma 6; assegnazione al medesimo o a diverso incarico per trasferimento dei componenti delle corti di giustizia tributaria).
Poste tali premesse, la nuova legge introduce anche il criterio mediante il quale determinare il compenso spettante ai giudici tributari componenti l’ufficio ispettivo, precisando trattarsi di un compenso sostitutivo di quello previsto dall’art. 13 d.lgs. n. 545 del 1992 e corrispondente alla metà dell’ammontare più elevato corrisposto nello stesso periodo ai giudici tributari per l’incarico di presidente di corte di giustizia tributaria.
5. L’Ufficio del Massimario nazionale
L’art. 1, comma 1, lett. r) della l. n. 130 del 2022 ha inserito, dopo l’art. 24 d.lgs. n. 545 del 1992, l’art. 24 bis, rubricato “Ufficio del Massimario nazionale”, con il compito di rilevare, classificare e ordinare in massime le decisioni delle corti di giustizia tributaria di secondo grado e le più significative tra quelle emesse dalle corti di giustizia tributaria di primo grado.
Il Consiglio di presidenza ha quindi adottato, con delibera n. 158/2023 (pubblicata sul sito istituzionale del Consiglio in data 28.2.2023), il regolamento attuativo dell’Ufficio del massimario nazionale, attribuendogli, tra gli altri, i seguenti compiti: rilevazione, classificazione e riordino in massime delle decisioni emesse dalle corti di giustizia tributaria di secondo grado e di quelle più significative emesse dalle corti di primo grado tenuto conto di specifici criteri selettivi (nuova questione o nuova normativa priva di giurisprudenza; questione interpretativa controversa; mutamento di indirizzo giurisprudenziale; fattispecie di rilevante interesse); gestione e implementazione della banca dati di giurisprudenza di merito nazionale di cui all’art. 24 bis, comma 4, d.lgs. n. 545 del 1992, relazionandosi con continuità e avvalendosi del supporto dell’ente gestore dei servizi informatici del sistema informativo della fiscalità del Ministero; coordinamento e supervisione delle attività di massimazione effettuate, a seguito di stipula di appositi protocolli, dagli enti che hanno contribuito alla realizzazione della banca dati di giurisprudenza di merito e conseguente caricamento in banca dati delle massime redatte; collaborazione e supporto all’attività della istituenda Scuola Superiore della Giustizia Tributaria. L’Ufficio è composto da 15 componenti e un direttore, con esonero facoltativo dalle funzioni giurisdizionali tributarie e con durata quinquennale decorrente dalla loro nomina (l’incarico non è rinnovabile).
L’ufficio del Massimario svolge un ruolo centrale per gli operatori e per i giudici, in quanto consente di garantire la conoscenza o la conoscibilità dei precedenti della giurisprudenza di merito e la loro diffusione. Costituisce, pertanto, un fondamentale strumento per evitare i c.d. contrasti sincronici casuali e per contribuire alla calcolabilità del diritto, agevolando le attività dei giudici e dei magistrati tributari nonché di tutti gli operatori del diritto. In prospettiva, l’istituzione dell’Ufficio appare in linea con gli obiettivi del PNRR e, quindi, con la riduzione dell’arretrato o, più precisamente, funzionale ad evitare la formazione di nuovo arretrato.
In considerazione del ruolo dell’Ufficio appare senz’altro fondamentale ragionare sul rapporto tra le attività di sua competenza e il progetto Prodigit, il quale si occupa progetto sperimentale a supporto della giustizia tributaria: dalla digitalizzazione dei servizi alla creazione dell’hub del GT; dalla prevedibilità delle decisioni alla competitività del comparto; tecnologie ICT ed AI al servizio di contribuenti, difensori, giudici. Il progetto si propone di attuare un importante processo di innovazione della giustizia tributaria, con il supporto della tecnologia digitale e della intelligenza artificiale, ed è volto a realizzare un miglioramento della trasparenza e della efficienza della stessa mediante cinque linee di intervento specifiche, che si aggiungono a tre linee di intervento trasversali:
1) digitalizzazione dei processi interni del CPGT;
2) reingegnerizzazione del sito istituzionale del CPGT;
3) implementazione della banca dati nazionale di giurisprudenza di merito;
4) realizzazione di un modello di giustizia predittiva;
5) creazione sperimentale del laboratorio del giudice tributario denominato Tribhub.
Il coordinamento tra il prodotto delle attività realizzate con il Prodigit e l’attività del Massimario appare di rilievo centrale, anche al fine di garantire lo svolgimento delle complesse attività del Massimario, tenendo conto dell’elevato numero delle sentenze annualmente depositate dalle Corti di giustizia tributaria e la connaturale esigenza di avere un prodotto di qualità elevata. Al tempo stesso, occorrerà garantire un adeguato supporto locale all’attività del Massimario nazionale in relazione all’eccellente lavoro fino a poco tempo fa svolto dai Massimari regionali, illogicamente eliminati dalla riforma.
6. Note conclusive.
Il legislatore ha introdotto una consistente riforma della giustizia tributaria, modificando tra l’altro la struttura della giustizia tributaria, le modalità di reclutamento dei giudici e, in prospettiva, le relative piante organiche e circoscrizioni giudiziarie.
Il Pnrr non prevedeva una necessaria riforma organica della giustizia tributaria, con la creazione di un giudice professionale e la fine dell'attuale assetto, ma che si migliorasse l'efficienza del sistema della giustizia tributaria e si eliminasse l'arretrato presente in Corte di cassazione. La creazione dell’Ufficio ispettivo e del Massimario nazionale, effettivamente, sembrano andare verso quella direzione, ma maggiore spazio e tutela andrebbero garantiti alle professionalità oggi esistenti nella giustizia tributaria maturate in numerosi anni di esperienza, sia in termini economici che di status, anche se, a differenza degli altri d.d.l. presentati in Parlamento, la riforma ha almeno il merito di mantenere tutti i giudici in servizio fino alla naturale cessazione del rapporto.
In ogni caso, essendo rimasto immutato il rapporto tra Ministero e giustizia tributaria, non appare ulteriormente procrastinabile un rafforzamento dell’organo di autogoverno della giustizia tributaria fondamentale presidio dell’autonomia e della indipendenza della magistratura tributaria, mediante la formazione di un ruolo autonomo del personale e di un generale rafforzamento della relativa struttura, nella consapevolezza che l’organo dovrà svolgere un ruolo non solo esecutivo ma anche proattivo con il Ministero e le autorità politiche competenti al fine di contribuire al miglioramento della giustizia tributaria e dello status giuridico ed economico dei giudici e dei magistrati tributari.
Il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria nel contesto istituzionale di Alessio Lanzi
1. A seguito della Legge 130/2022 molto è cambiato nella Giustizia Tributaria; e, conseguentemente, il suo Consiglio di Presidenza è chiamato a svolgere il ruolo e la funzione di un organo di autogoverno “adeguato” alla giurisdizione che amministra.
La prospettiva è quella di operare nel contesto dei principi costituzionali che presiedono le attività delle giurisdizioni, e, fra queste, di quella tributaria.
La principale norma di riferimento è, indubbiamente, quella di cui all’articolo 111 della Costituzione che, nel disciplinare compiutamente il “giusto processo”, espressamente prevede, al comma 2, come il giudice debba essere “terzo” e “imparziale”.
Non richiama, la norma costituzionale, anche l’“indipendenza”; e questa è una circostanza di grande rilievo perché i criteri oggettivi che la legge deve assicurare sono la “terzietà” e “l’imparzialità”; mentre “l’indipendenza” è uno status del soggetto, conseguenza del fatto di dover essere terzo e imparziale.
In pratica, un giudice cui si assicurano tali peculiarità oggettive, riesce – se vuole - ad essere anche indipendente nel contesto in cui opera; la legge gli consente e gli assicura l’indipendenza (art. 108 Cost.) proprio in quanto è terzo ed imparziale.
Ma è una indipendenza in qualche modo “condizionata”; infatti l’art. 101 della Costituzione prevede che egli è soggetto, e quindi subordinato, alla Legge.
Questa è la formidabile costruzione dello Stato di diritto di matrice illuministica: il giudice è indipendente da ogni potere ma è soggetto, solo, alla Legge.
In questa il giudice trova la matrice della propria indipendenza ma anche il suo preciso limite.
Solo grazie all’osservanza della Legge un giudice terzo ed imparziale riesce ad essere anche indipendente.
Per l’indipendenza, dunque, è richiesta – necessariamente – la piena conoscenza e l’osservanza della legge; ed è così, per quanto riguarda la giustizia tributaria, che acquista grande rilievo la nuova e specifica “Scuola superiore” di prossima apertura, che si occuperà proprio della formazione e dell’aggiornamento dei giudici tributari; aspetti essenziali per consentirne la piena indipendenza.
2. Un simile contesto normativo emerge anche dalla normativa europea.
L’articolo 6 della CEDU, a proposito del “Diritto ad un processo equo”, richiama la necessità che vi sia un tribunale “indipendente e imparziale”; e anche l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a sua volta, ribadisce una tale necessità.
Tali regole sovranazionali fortificano la disciplina costituzionale interna.
In un tale quadro gli articoli 111 e 101 della nostra Costituzione, e le norme ordinarie che li attuano, possono così trovare serena applicazione senza alcun problema di possibili contrasti con le normative dirette o convenzionali europee, e senza la prospettiva di dover ricorrere ai meccanismi previsti dagli articoli 10 e 11 della Costituzione per la loro attuazione.
3. In questo scenario, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria può dunque operare al fine di assicurare l’affermazione delle caratteristiche di terzietà e imparzialità dei giudici tributari, consentendone così l’indipendenza da ogni potere.
E questo è un rilevante e qualificante compito per tale organo di autogoverno nel contesto istituzionale.
4. Vanno poi considerate talune peculiarità di carattere generale che possono anche agevolare un buon autogoverno da parte del CPGT: fra queste l’assegnazione degli incarichi, che avviene sulla base di indici oggettivi di punteggio predeterminati qualora non ricorra un giudizio di demerito, ben tipizzato, sul candidato; con la regola che a parità di punteggio prevale l’anzianità anagrafica (art. 11 D.Lgs. 31.12.1992 n. 545, nell’attuale versione).
Una tale semplificazione e rilevanza oggettiva consente di prevenire possibili fenomeni di “correntismo” che potrebbero intervenire qualora le scelte fossero affidate a criteri eccessivamente discrezionali; come anche i casi di incompatibilità - ex articolo 8 D.Lgs. 545/1992 – sembrano ben definiti e puntuali nella loro previsione.
In un tale contesto, e precipuamente in coerenza con lo spirito innovatore alla base della riforma operata con la Legge 130/2022, il Consiglio di Presidenza può dunque ben operare e assolvere a quel ruolo istituzionale che gli compete.
Ruolo che consiste anche in numerosi rapporti – disciplinati ex lege – con altre Istituzioni.
A tal proposito va ricordato come l’articolo 16 D.Lgs. 545/1992 preveda che il procedimento disciplinare sia promosso anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri; come, secondo l’articolo 24, fra le attribuzioni del Consiglio vi sia quella di costante interlocuzione col MEF; come, ex art. 29, il Consiglio sia coinvolto nelle attività di “Alta sorveglianza” del Presidente del Consiglio dei Ministri; come, solo con provvedimento del Presidente della Repubblica, il Consiglio di Presidenza possa essere sciolto (art. 28).
Dunque, senza alcun dubbio, l’organo di autogoverno della giustizia tributaria esercita il suo ruolo nel contesto istituzionale.
L’auspicio è quello che adempia ai suoi compiti e alle sue prerogative in modo tale che la Giustizia Tributaria si possa compiutamente inserire, e correttamente operare, nel corretto quadro dei principi costituzionali e del contesto normativo previsti per tale importante tipo di giustizia; privilegiandosi così, e soprattutto, la cultura della giurisdizione.
Sommario: 1. Il Fondo di solidarietà comunale nel modello del federalismo fiscale municipale - 2. Le criticità del finanziamento del Fondo di solidarietà comunale a seguito della legge 30 dicembre 2021, n. 234 - 3. Il bilanciamento tra la tutela dell’autonomia finanziaria comunale e la necessità di «non regredire rispetto all’ “imprescindibile” processo di definizione e finanziamento dei LEP». Quali soluzioni legislative all’attuale perequazione ibrida?
1. Il Fondo di solidarietà comunale nel modello del federalismo fiscale municipale.
Nel definire i principi e criteri direttivi concernenti il coordinamento e l’autonomia di entrata e di spesa degli enti locali la legge delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione, ha classificato le spese relative alle funzioni di comuni, province e città metropolitane, distinguendo «le spese riconducibili alle funzioni fondamentali ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione» (l. 5 maggio 2009, n. 42, art. 11, co. 1, lett. a, 1), da quelle «relative alle altre funzioni» (l. 5 maggio 2009, n. 42, art. 11, co. 1, lett. a, 2).
Per le funzioni fondamentali e per i «livelli essenziali delle prestazioni da esse implicate» si prevede che il finanziamento integrale, in base al fabbisogno standard, sia «assicurato dai tributi propri, da compartecipazioni al gettito di tributi erariali e regionali, da addizionali a tali tributi, la cui manovrabilità è stabilita tenendo conto della dimensione demografica dei comuni per fasce, e dal fondo perequativo» (l. n. 42 del 2009, art. 11, co. 1, lett. b). Le spese relative alle altre funzioni, invece, sono finanziate «con il gettito dei tributi propri, con compartecipazione al gettito di tributi e con il fondo perequativo basato sulla capacità fiscale per abitante» (l. n. 42 del 2009, art. 11, co. 1, lett. c).
Secondo i principi e criteri direttivi concernenti l'entità e il riparto dei fondi perequativi per gli enti locali, il fondo a favore dei comuni dovrebbe essere rappresentato «da un fondo perequativo dello Stato alimentato dalla fiscalità generale con indicazione separata degli stanziamenti per le diverse tipologie di enti, a titolo di concorso per il finanziamento delle funzioni da loro svolte» (l. n. 42 del 2009, art. 13, co. 1, lett. a).
In attuazione della suddetta legge delega, le disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale hanno introdotto nell’ordinamento due nuove «forme di imposizione fiscale» – un’«imposta municipale propria» e un’«imposta municipale secondaria» (d. lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 7). In seguito, con le disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, è stato istituito il Fondo di solidarietà comunale (FSC) – considerato di carattere perequativo[1] –finanziato da «una quota dell’imposta municipale propria, di spettanza dei comuni» (l. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, co. 380, lett. b). Come evidenziato dalla Corte dei conti, tale fondo avrebbe dovuto essere alimentato tramite «fiscalità generale, cioè con risorse del governo centrale. Successivamente (d. lgs. n. 23 del 2011), il concorso dello Stato è venuto meno, disponendo invece che il fondo fosse alimentato da quote di gettito di tributi locali»[2]. Il modello inizialmente delineato dal legislatore si configurava come un «sistema perequativo misto, di direzione verticale per la perequazione delle funzioni fondamentali, e di natura orizzontale per la perequazione delle spese relative alle altre funzioni. Tuttavia, l’evoluzione legislativa ha in parte neutralizzato e modificato l’iniziale assetto, con il risultato di rendere meno trasparente il meccanismo di assegnazione del fondo perequativo»[3]. La Corte costituzionale ha già avuto modo di soffermarsi sul FSC evidenziando la «“distorsione” del criterio perequativo»; affermando che l’attuale struttura del FSC «è divenuta interamente orizzontale, tanto da determinare, dal 2015 al 2020, un “trasferimento negativo”, nel senso che è il comparto dei comuni a trasferire risorse allo Stato»; chiarendo che sull’evoluzione della disciplina del FSC avrebbero «inciso le difficoltà e i ritardi nell’attuazione del federalismo fiscale»[4]. Secondo questa ricostruzione «il FSC presentava – almeno in origine – una natura mista (orizzontale e verticale), in quanto veniva alimentato prevalentemente dai comuni mediante la trattenuta di una parte del gettito standard derivante dall’IMU e da una quota minoritaria di risorse trasferite dalla Stato»[5].
2. Le criticità del finanziamento del Fondo di solidarietà comunale a seguito della legge 30 dicembre 2021, n. 234.
Con alcune norme del bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024 (l. 30 dicembre 2021, n. 234, art. 1, commi 172, 174, 563 e 564) il legislatore ha incrementato la dotazione del FSC. Trattasi delle disposizioni normative sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale con ricorso promosso dalla Regione Liguria per asserito contrasto con gli artt. 5 e 119, commi 3, 4, 5, Cost. La ricorrente riteneva, in specie, che assieme all’incremento della dotazione del FSC il legislatore avesse al contempo assoggettato tali risorse aggiuntive a vincoli di destinazione, in contrasto con la disciplina costituzionale in tema di perequazione (art. 119, co. 3 e 5), violando l’autonomia finanziaria dei comuni.
La Regione riteneva che la normativa impugnata, andando a definire ulteriori finanziamenti per gli asili nido (art. 1, co. 172), dissimulasse un intervento di perequazione speciale, indicando stringenti obiettivi di servizio in violazione del divieto di «vincoli di destinazione» (art. 119, c. 3 Cost.): trattandosi di funzione attribuita ai comuni, l’ulteriore finanziamento di tal tipo non avrebbe dovuto trovare collocazione nel FSC (art. 119, c. 4 Cost.). Analogo ragionamento veniva prospettato con riferimento alla norma che aumenta il finanziamento per il trasporto di studenti disabili (art. 1, co. 174) e a quella che prevede risorse finalizzate al finanziamento e allo sviluppo dei servizi sociali comunali (art. 1, co. 563), anch’essa impugnata perché asseritamente in contrasto con il divieto di vincoli di destinazione a valere sulle quote del FSC. Infine, anche la norma che si riferisce alla rideterminazione complessiva del FSC (art. 1, co. 564) veniva impugnata, sebbene nel solo inciso inziale dove richiama le altre norme impugnate.
Fatte salve le parti delle norme che incrementano gli importi annui del FSC, la ricorrente chiedeva una «pronuncia di carattere sostitutivo» in grado di rimuovere il vincolo di destinazione e ricondurre il finanziamento al criterio generale di riparto del fondo.
L’Avvocatura generale dello Stato riteneva che «non sarebbe “‘il contenitore’ finanziario ad essere dirimente ai sensi della Costituzione” per affermare la sussumibilità delle suddette risorse nell’ambito del terzo comma o in quello del quinto comma dell’art. 119 Cost., “ma la natura e la finalità dello specifico stanziamento”»; inoltre, «l’intervento in questione darebbe attuazione al monito contenuto nella sentenza n. 220 del 2021 di questa Corte in ordine al ritardo nella definizione dei LEP, destinando coerentemente le risorse per il finanziamento degli stessi, attraverso un approccio di perequazione speciale in favore delle aree meno sviluppate»[6]. L’Avvocatura concludeva che «dalla natura perequativa del FSC non discenderebbe la sottrazione delle relative risorse alle esigenze di solidarietà o di riequilibrio ove destinate dal legislatore statale alla fruizione di diritti essenziali».
3.Il bilanciamento tra la tutela dell’autonomia finanziaria comunale e la necessità di «non regredire rispetto all’ “imprescindibile” processo di definizione e finanziamento dei LEP». Quali soluzioni legislative all’attuale perequazione ibrida?
Nella pronuncia qui commentata la Corte chiarisce che le prime tre disposizioni impugnate (art. 1, commi 172, 174, 563, l. n. 234 del 2021) «intervengono sulla disciplina del fondo di solidarietà comunale (FSC) – istituito dall’art. 1, comma 380, lettera b), della l. n. 228 del 2012 – incrementandone la dotazione, attraverso risorse statali, in modo consistente e progressivo e, nel contempo, stabiliscono specifici vincoli di destinazione sulla relativa spesa, in funzione del raggiungimento di livelli essenziali delle prestazioni o, nell’attesa della definizione di questi ultimi, di obiettivi di servizio». Con riferimento, invece, alla quarta disposizione impugnata (art. 1, co. 564), afferma che questa «ridetermina, in considerazione delle nuove risorse, l’ammontare complessivo del FSC».
Definendo «farraginoso e sempre meno trasparente il funzionamento del FSC», la Corte ha evidenziato come al suo interno abbiano nel tempo «iniziato a comparire una nuova componente perequativa, che, da un lato, ha assunto carattere vincolato anche al finanziamento di LEP contemporaneamente indicati, ma, dall’altro, ha previsto, come sanzione del mancato impiego delle risorse per tale finalità, la mera restituzione delle stesse», sicché «all’interno del FSC e in aggiunta alla tradizionale perequazione ordinaria – strutturata, fin dalla sua istituzione, secondo i canoni del terzo comma dell’art. 119 Cost. e quindi senza alcun vincolo di destinazione – è stata, dunque, progressivamente introdotta, a partire dal 2021, una componente perequativa speciale, non più diretta a colmare le differenze di capacità fiscale, ma puntualmente vincolata a raggiungere livelli essenziali e obiettivi di servizio», senza che tuttavia fosse previsto alcun meccanismo di controllo simile a quello stabilito per i livelli essenziali in sanità (c.d. LEA). A differenza del meccanismo previsto nel caso del mancato rispetto della garanzia dei livelli essenziali di assistenza in sanità (commissariamento regionale)[7], in effetti, la violazione del vincolo imposto dalle norme impugnate non troverebbe alcun meccanismo di garanzia dell’effettivo raggiungimento. Il nuovo assetto normativo – ad avviso della Corte – avrebbe generato «all’interno dell’unico FSC storicamente esistente, un’ibridazione estranea al disegno costituzionale dell’autonomia finanziaria, il quale, a tutela dell’autonomia degli enti territoriali, mantiene necessariamente le due forme di perequazione».
Da tempo la giurisprudenza costituzionale ha evidenziato che «nel nuovo sistema, per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed enti locali, lo Stato può erogare solo fondi senza vincoli specifici di destinazione, in particolare tramite il fondo perequativo di cui all’art. 119, terzo comma, della Costituzione»[8].
La Corte afferma che «nell’unico fondo perequativo relativo ai comuni e storicamente esistente ai sensi dell’art. 119, terzo comma, Cost., non possono innestarsi componenti perequative riconducibili al quinto comma della medesima disposizione, che devono, invece, trovare distinta, apposita e trasparente collocazione in altri fondi a ciò dedicati, con tutte le conseguenti implicazioni, anche in termini di rispetto, quando necessario, degli ambiti di competenza regionali».
E, tuttavia, la Corte dichiara inammissibili tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate, adottando una sentenza monitoria in cui afferma che «il compito di adeguare il diritto vigente alla tutela costituzionale riconosciuta all’autonomia finanziaria comunale […] al contempo bilanciandola con la necessità di non regredire rispetto all’ “imprescindibile” (sentenza n. 220 del 2021) processo di definizione e finanziamento dei LEP (la cui esigenza è stata più volte, come detto, rimarcata dalla Corte), non può che spettare al legislatore, dato il ventaglio delle soluzioni possibili»[9]. La Corte, nel richiamare il legislatore a «intervenire tempestivamente per superare, in particolare, una soluzione perequativa ibrida che non è coerente con il disegno costituzionale dell’autonomia finanziaria di cui all’art. 119 Cost.», afferma che sono molteplici le modalità con cui il legislatore può rimediare al contrasto di tali norme col divieto del vincolo di destinazione dei fondi (art. 119, co. 3 Cost.): «queste possono essere individuate dal legislatore senza compromettere quel percorso di definizione e di garanzia dei LEP sulla cui necessità, in più occasioni, la Corte ha insistito».
In effetti, per superare l’attuale modello di perequazione ibrida, il legislatore potrebbe distinguere tra un fondo perequativo per il finanziamento delle funzioni fondamentali e un fondo perequativo per il finanziamento delle altre funzioni: tale soluzione troverebbe fondamento proprio nei principi e criteri direttivi concernenti il coordinamento e l’autonomia di entrata e di spesa degli enti locali, dove si distingue tra un fondo perequativo per il finanziamento delle spese riconducibili alle funzioni fondamentali e di quelle relative ai «livelli essenziali delle prestazioni eventualmente da esse implicate» (l. n. 42 del 2009, art. 11, co. 1, lett. b) e un fondo perequativo per il finanziamento delle spese relative alle altre funzioni (l. n. 42 del 2009, art. 11, co. 1, lett. c).
La questione si intreccia con quella della definizione dei LEP. Già nella citata sentenza n. 220 del 2021 la Corte ha valutato negativamente «il perdurante ritardo dello Stato nel definire i LEP, i quali indicano la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, nonché “il nucleo invalicabile di garanzie minime” per rendere effettivi tali diritti», evidenziando che i LEP «rappresentano un elemento imprescindibile per lo svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali», trattandosi di un «valido strumento per ridurre il contenzioso sulle regolazioni finanziarie fra enti». Il dovere di definire i LEP è stato peraltro considerato «particolarmente urgente anche in vista di un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) (legge 1° luglio 2021, n. 101)»[10]. E la questione della loro definizione è altresì urgente nella prospettiva della realizzazione di una maggiore autonomia delle Regioni a Statuto ordinario nella forma dell’autonomia differenziata regionale[11], tanto che di recente è stato istituito un Comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, da garantire su tutto il territorio nazionale[12].
L’urgenza di un intervento del legislatore per superare una «soluzione perequativa ibrida che non è coerente con il disegno costituzionale dell’autonomia finanziaria di cui all’art. 119, Cost.», i cui principi debbono trovare rispetto in ogni forma di maggiore autonomia regionale (art. 116, c. 3, Cost.), sembra andare ben al di là delle esigenze del rispetto del PNRR e della questione dell’autonomia differenziata, poiché indispensabile ai fini della garanzia effettiva dei diritti sociali attraverso la necessaria definizione dei LEP.
In tal senso il monito della Corte per una soluzione legislativa dell’attuale perequazione ibrida invita a fare chiarezza su quali risorse debba contenere il FSC, quale sia il fondo per i LEP e quello per le altre funzioni; una chiarezza che si riflette sulla garanzia del nucleo essenziale di quei diritti sociali che la Repubblica deve garantire (artt. 2, 3, 117, c. 2, lett. m, Cost.), a prescindere dalle questioni d’autonomia e di competenze, di finanziamento e di bilancio[13].
[1] Cfr. il Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2020, Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, p. 21, «la perequazione comunale avviene attraverso il fondo di solidarietà comunale, la cui alimentazione è affidata a una quota del gettito standard dell’IMU (il 22,43 per cento). […] In questa metodologia si annidano alcuni elementi di criticità del fondo di solidarietà comunale».
[2] Cit. Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2020, Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, p. 22.
[3] Cit. Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2020, Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, p. 20.
[4] C. cost., sent., n. 220/2021.
[5] C. cost., sent., n. 220/2021.
[6] Per la letteratura in materia di LEP si rinvia qui, per tutti, a M. Luciani, I diritti costituzionali tra Stato e Regioni (a proposito dell’art. 117, comma 2, lett. m della Costituzione), in Politica del diritto, n.3/2002, pp. 345-360; R. Balduzzi, Note sul concetto di «essenziale» nella definizione dei LEP, in Rivista delle politiche sociali, n. 4/2004, pp. 165-182; C. Pinelli, Sui «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», in Diritto pubblico, n. 3/2002, pp. 881-908; C. Tubertini, Pubblica amministrazione e garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni. Il caso della tutela nella salute, Bologna, 2008, p. 46; V. Molaschi, I rapporti di prestazione nei servizi sociali. Livelli essenziali delle prestazioni e situazioni giuridiche soggettive, Torino, 2008, p. 162 ss. Per la copiosa giurisprudenza costituzionale sui livelli essenziali cfr., ex plurimis, C. cost., sent., n. 282/2002; sul livello essenziale come nucleo irriducibile cfr. C. cost., sent., n. 309/1999; C. cost., sent., n. 509/2000.
[7] F. Gallo, Dal federalismo al regionalismo differenziato, in Riv. Corte dei conti, n. 5/2019, p. 8, dove fa riferimento all’art. 120, c. 2 Cost.
[8] C. cost., sent., n. 370/2003.
[9] Sull’ «imprescindibile esigenza di salvaguardare i valori unitari e gli strumenti per la loro tutela» nell’affrontare il tema del regionalismo differenziato M.A. Sandulli, Le tante facce (non tutte auspicabili) del regionalismo differenziato: i presidi non rinunciabili della solidarietà e i gravi rischi della competizione, in Corti supreme e salute, fasc.1/2020, p. 254; F. Gallo, Dal federalismo al regionalismo differenziato, in Riv. Corte dei conti, 2019, n. 5, p. 5-9; L. Vandelli, Il regionalismo differenziato, in Rivista AIC, 4 settembre 2019, p. 580, «Sui livelli essenziali. Dobbiamo distinguere nettamente le diverse situazioni che caratterizzano i livelli essenziali. In qualche materia, i livelli essenziali sono vigenti; in altre, mancano completamente. Sui livelli essenziali esistenti, come è noto, il caso più evidente è proprio quello della sanità; mentre sui livelli essenziali mancanti - per fare un problematico esempio, in qualche modo adiacente alla sanità - ci riferiamo anzitutto ai servizi sociali».
[10] C. cost., sent., n. 220/2021.
[11] Cfr. F. Gallo, Dal federalismo al regionalismo differenziato, in Riv. Corte dei conti, n. 5/2019, p. 8, «Prima di dar corso ad intese sul regionalismo differenziato sarebbe, quantomeno, necessario, individuare con legge i livelli essenziali delle prestazioni (Lep e Lea) […] come si possono attribuire forme particolari e differenziate di autonomia se non si sa neppure cosa sono i livelli essenziali e se, in ogni caso, non sono stati determinati i relativi finanziamenti che lo Stato deve garantire?»; M.A. Sandulli, Le tante facce (non tutte auspicabili) del regionalismo differenziato: i presidi non rinunciabili della solidarietà e i gravi rischi della competizione, in Corti supreme e salute, n. 1/2020, p. 255, è nell’ottica «solidaristica e collaborativa, ad oggi scarsamente attuata, che deve muoversi il nuovo “regionalismo differenziato”, per evitare il rischio che esso, in un sistema finanziariamente impreparato, aumenti le diseguaglianze nella garanzia di diritti primari, come quelli all’istruzione e, prima ancora, alla salute, con inevitabili conflitti istituzionali e conseguente complessivo indebolimento del Paese»; A. Giannola; L. Bianchi, Valorizzare le autonomie e ridurre le diseguaglianze: un federalismo fiscale solidale per l’unità del Paese, in Rivista economica del Mezzogiorno, n. 3-4/2019, pp. 647-669. Sul tema del regionalismo differenziato si rinvia a B. Caravita di Toritto, Un doppio binario per l’approvazione del regionalismo differenziato?, in federalismi.it, n. 13/2019; E. Grosso, A. Poggi A., Il regionalismo differenziato: potenzialità e aspetti problematici, in Il Piemonte delle Autonomie, n. 2/2018, pp. 1-5; F. Pallante, Nel merito del regionalismo differenziato: quali “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” per Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna?, in federalismi.it, 20 marzo 2020, n. 6/2020; D. Mone, Autonomia differenziata come mezzo di unità statale. La lettura dell’art. 116, comma 3 Cost., conforme a Costituzione, in Rivista AIC, n. 1/2019, pp. 329-350; A. Cauduro, Di Maio, A. DI Majo, Dalle aporie del decentramento regionale alla ricerca dello Stato perduto, in Rivista economica del Mezzogiorno, fasc. 1, marzo 2021, p. 103 ss.
[12] Sulla composizione del Comitato e le relative modalità di lavoro si rinvia al sito del Dipartimento per gli Affari Regionali e le Autonomie della Presidenza del Consiglio dei Ministri:
https://www.affariregionali.it/il-ministro/comunicati/2023/marzo/ministro-roberto-calderoli-annuncia-61-esperti-comitato-lep-al-lavoro-con-cabina-regia-per-individuare-e-garantire-diritti-di-tutti/
e
https://www.affariregionali.it/il-ministro/comunicati/2023/maggio/autonomia-insediato-comitato-lep-calderoli-cede-timone-a-capitano-cassese-sfida-storica-da-affrontare-buon-lavoro-a-tutti/
[13] La garanzia del nucleo essenziale dei diritti fondamentali non può essere compressa dai vincoli di bilancio, ma semmai «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione», così C. cost., sent., n. 275/2016; poi anche C. cost., sent., n. 62/2020.
Sommario: 1. Un nuovo istituto da abolire: l’imputazione coatta. - 2. Le paventate ragioni dell’abolizione. Spunti critici. - 3. Imputazione coatta e sistema accusatorio.
1. Un nuovo istituto da abolire: l’imputazione coatta.
Nelle ultime ore il programma di riforme del processo penale annunciato a più riprese dal Governo si è arricchito di un nuovo tassello: l’abolizione della norma che attribuisce al Giudice delle indagini preliminari la facoltà di ordinare al Pubblico Ministero, in caso di non accoglimento della richiesta di archiviazione, di formulare l’imputazione (articolo 409, 5° comma c.p.p.).
L’idea di un intervento così specifico - ed apparentemente interessante solo per i tecnici del processo penale - scaturisce, come già altre volte accaduto negli ultimi sei lustri, da una specifica ordinanza emessa da un magistrato in un procedimento che vede coinvolto un esponente politico del Governo in carica.
In particolare, al termine di un’indagine aperta a carico di un sottosegretario del Ministro della Giustizia, il Pubblico Ministero ha avanzato una richiesta di archiviazione, ritenendo insussistenti gli elementi del reato ipotizzato; il G.I.P., di contrario avviso, ha risposto emettendo un’ordinanza di “imputazione coatta”, ordinando cioè al Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale nei confronti dell’indagato.
Alla notizia del provvedimento sono seguite immediate reazioni di “fonti” governative e del Ministero della Giustizia, seguite da interviste ad esponenti politici e consiglieri giuridici della maggioranza, che hanno preannunciato l’inserimento nella ormai prossima “riforma Nordio” dell’abolizione dell’istituto azionato dal G.I.P., ritenuto anomalo ed irrazionale.
In questa sede non è possibile (né, forse, interessante) fare riferimento al merito della vicenda processuale. Suscita tuttavia qualche riflessione l’impianto teorico a cui hanno fatto riferimento i fautori della paventata abolizione normativa, poiché dai loro ragionamenti sembra emergere una concezione del nostro processo penale ed in generale del sistema accusatorio inedita e a tratti sorprendente.
2. Le paventate ragioni dell’abolizione. Spunti critici
Per comprendere la ratio della nuova determinazione di espungere dal sistema processuale un istituto mai fino ad ora menzionato nelle decine di ipotesi di riforma che hanno costellato la travagliata vita del Codice di procedura penale, occorre in primo luogo vincere la naturale ritrosia degli operatori del diritto ad argomentare criticamente su documenti anonimi.
È infatti esercizio insolito, per chi è abituato a non poter fare alcun uso nel processo penale di qualsiasi scritto o dichiarazione anonima (art. 240 c.p.p.), quello di prendere a base di un ragionamento giuridico frasi non riferibili ad alcuno.
Nel caso di specie, tuttavia, i primi accenni critici all’imputazione coatta da cui evincere le ragioni della possibile sua abolizione nella prossima “riforma Nordio” sono contenuti in una nota che i quotidiani hanno riportato genericamente come “diffusa dal Ministero della Giustizia”.
Pur se non attribuibile con certezza direttamente al Ministro, questa nota contiene però un articolato ragionamento giuridico che non può essere ignorato in questa sede.
In quella che è stata la prima reazione “ufficiale” del Ministero della Giustizia sui fatti di cronaca prima ricordati si è affermato infatti, per spiegare le ragioni per cui l’istituto è “irrazionale” e dovrà essere abolito, che il Pubblico Ministero “è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede”.
Ad ulteriore dimostrazione dell’asserita irrazionalità dell’istituto è stato inoltre osservato che, nel processo conseguente all’esercizio dell’azione penale indotto dal GIP, “l’accusa non farà altro che insistere nella richiesta di proscioglimento in coerenza con la richiesta di archiviazione. Laddove, al contrario, chiederà una condanna, non farà altro che contraddire se stesso”.
L’assunto di base da cui il ragionamento parte è condivisibile: è fuor di dubbio che nel nostro sistema il Pubblico Ministero è l’unico organo deputato ad esercitare l’azione penale.
È proprio per non intaccare questa potestà esclusiva, del resto, che è previsto l’istituto dell’imputazione coatta: anche quando il GIP non ritiene di accogliere la richiesta di archiviazione ed è convinto che si debba procedere ad una verifica dibattimentale, non potrà mai sostituirsi al magistrato inquirente nell’esercizio dell’azione penale ma solo imporre a quest’ultimo di procedere in tal senso.
Potestà esclusiva non vuol dire però insindacabilità, sicché non si comprende quale sia il nesso tra l’affermare che il P.M. è l’unico ad avere il potere di esercizio dell’azione penale e il fatto che l’esercizio di questo potere non possa essere soggetto a controlli.
Peraltro, una conclusione del genere sarebbe del tutto eccentrica rispetto al nostro sistema processuale, in cui tutti gli atti delle indagini preliminari più importanti sono sottoposti al vaglio costante di un giudice terzo.
Non è forse superfluo ricordare che il cardine del nostro sistema processuale è il principio di separazione delle fasi (per il quale gli atti compiuti nelle indagini preliminari non costituiscono prova, salvo eccezioni, perché non assunti in contraddittorio davanti ad un giudice terzo).
Ebbene, uno dei corollari del predetto principio di separazione della fasi processuali è costituito dalla previsione del ruolo del giudice delle indagini preliminari, che, a norma dell’art. 328 c.p.p., “provvede sulle richieste del Pubblico Ministero, delle parti private e della persona offesa dal reato”, in alcuni casi previsti dalla legge.
In particolare, si tratta di tutti i casi in cui, durante le indagini preliminari e pur in assenza di prove (perché queste devono ancora essere formate) è consentita la compressione di diritti costituzionalmente garantiti quali la libertà personale (art. 13 Cost.), la proprietà privata (art. 42 Cost.), la libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.): in queste evenienze è previsto che intervenga un giudice terzo ed imparziale per verificare che la predetta compressione dei diritti sia necessaria e bilanciata da effettive esigenze di indagine.
È dunque previsto che non sia il Pubblico Ministero procedente ad emettere le ordinanze di custodia cautelare, i sequestri preventivi, i decreti di intercettazione ma un Giudice la cui potestà viene attivata in seguito a specifiche richieste del magistrato inquirente: anche questa previsione discende dunque dalla separazione della fasi e delle funzioni di cui si è detto.
In tutte le menzionate ipotesi è consentito all’indagato una sorta di diritto al contraddittorio (al limite, nelle forme dell’impugnazione), sebbene differito ad un momento successivo all’atto in relazione alla segretezza che di norma caratterizza la fase delle indagini preliminari.
Proprio come in tutte le fasi più delicate delle indagini preliminari è previsto l’intervento di un giudice ed una forma di contraddittorio compatibile con la segretezza delle indagini, a maggior ragione tale esigenza è avvertita per il passaggio dalla fase delle indagini preliminari alla fase dibattimentale.
È dunque connaturata al sistema processuale accusatorio ed alla divisione in fasi l’immanenza di un controllo giurisdizionale su tutti i momenti di particolare rilevanza nella fase precedente al dibattimento, in cui pur non essendosi ancora formalmente aperta la “contesa” tra accusa e difesa la persona sottoposta ad indagini può subire rilevanti conseguenze negative anche dalla semplice esistenza di un procedimento penale a suo carico.
Tra questi momenti, va sicuramente annoverata proprio la scelta del Pubblico Ministero di intraprendere - o non intraprendere - un processo pubblico e con accuse formalizzate a suo carico, che comporta l’assunzione della qualità di imputato e la sottoposizione ad un giudizio.
In merito, va ricordato che le determinazioni che il Pubblico Ministero può prendere all’esito delle indagini sono immancabilmente o l’esercizio dell’azione penale o la richiesta di archiviazione.
Nel primo caso dunque, in ossequio ai principi esposti, il Pubblico Ministero non può direttamente determinare l’apertura di un processo a carico dell’imputato ma solo sollecitare il controllo del giudice terzo in contraddittorio tra le parti.
Come è evidente dunque, potestà esclusiva di esercitare l’azione penale non vuol dire assenza di controlli.
Per incidens, se per scelta legislativa – dettata da criteri di mera economica processuale - fino a poco tempo fa tale verifica era riservata ai procedimenti per reati più gravi (dove è prevista un’apposita fase, quella dell’udienza preliminare), con la riforma Cartabia il vaglio del giudice terzo sull’esercizio dell’azione penale è stato esteso a tutti i reati, poiché per quelli a citazione diretta è oggi stata introdotta l’udienza predibattimentale, che tra i suoi compiti più importanti ha proprio quello di affidare a un giudice terzo il vaglio sulla scelta del Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale.
Anche laddove il Pubblico Ministero ritenga che non vi siano i presupposti per processare l’imputato, tuttavia, non si può tenere aperto indefinitamente un procedimento penale che porta, per la sua stessa esistenza, conseguenze potenzialmente dannose per l'indagato: il procedimento penale deve dunque essere "archiviato", cioè inviato materialmente nell'archivio della Procura.
Il diritto dell'indagato di vedere la sua posizione definita e di non essere più considerato, a termini di legge, sottoposto ad indagini, costituisce dunque il fine principale a cui tende l'istituto dell'archiviazione.
Accanto a questo diritto vi è l'interesse dello Stato a sottoporre comunque a verifica l'operato del magistrato inquirente, che potrebbe -per colpa o addirittura dolosamente - evitare di esercitare l'azione penale pur in presenza dei presupposti per affrontare un processo.
Non va dimenticato infatti che l'azione penale è nel nostro ordinamento, per disposto costituzionale, obbligatoria (articolo 112 della Costituzione), il che implica tra l'altro che non sono consentite stasi o inerzie in tema di azione penale nè che si possa rinunciare alla stessa[1].
Pertanto, proprio come le determinazioni del Pubblico Ministero quando veste i panni della parte accusatrice sono sottoposte alla verifica da parte di un giudice terzo ed imparziale allo stesso modo anche la sua eventuale decisione di non esercitare l'azione penale deve essere sottoposta ad un vaglio da parte di un giudice.
Per questo motivo, l'archiviazione del procedimento è prevista come provvedimento finale di un procedimento articolato, eventualmente all'esito di un vero e proprio giudizio da svolgersi in camera di consiglio nelle forme disciplinate dall'articolo 127 del codice di procedura penale con la partecipazione delle parti.
Appare evidente che il controllo, per essere esercitato effettivamente e non ridursi ad una mera presa d’atto, deve implicare piena libertà da parte del giudice di determinarsi sia in senso conforme alle richieste del Pubblico Ministero (emettendo così un decreto di archiviazione) sia in senso difforme.
Quest’ultimo caso è disciplinato dai commi 4 e 5 dell’articolo 409 del codice di procedura penale, ove si prevede la possibilità per il GIP di non accogliere la richiesta di archiviazione e restituire il fascicolo al PM perché continui a svolgere indagini da lui individuate ed imposte o – se ritenga che non vi siano ulteriori indagini – perché eserciti l’azione penale.
Da quanto sopra descritto appare evidente che l’affermazione sopra riportata secondo cui il Pubblico Ministero “è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede” appare difficilmente applicabile al nostro sistema processuale.
Di più: essa sembra tradire l’idea di un Pubblico Ministero votato inevitabilmente all’accusa, incapace di mantenere l’equilibrio necessario a valutare con serenità la sussistenza di elementi di reato.
Solo così si spiega la sorpresa che trapela dietro l’ipotesi che un giudice possa spingersi, in questa valutazione, addirittura al di là della convinzione accusatoria di un pubblico ministero.
Anche questa ricostruzione del ruolo del Pubblico Ministero contrasta di fatto con il ruolo assegnatogli dalla Costituzione e del nostro codice, che vuole invece nel magistrato inquirente un organo deputato a verificare la fondatezza delle notizie di reato ma nella piena libertà di autodeterminarsi e libero nei fini; sicché può ben verificarsi, ed appartiene anzi alla fisiologia del sistema, che egli arrivi al termine delle indagini preliminari e si determini per la richiesta di archiviazione anche in presenza di elementi che ad un altro magistrato (magari proprio il GIP che quella richiesta di archiviazione riceve) possono sembrare idonei al processo.
La stessa libertà dei fini che caratterizza l’azione del Pubblico Ministero nel corso delle indagini lo svincola dall’obbligo, pure paventato, di insistere nella sua idea, ben potendo invece egli – una volta esercitata l’azione penale su impulso del GIP – portare avanti con convinzione l’accusa e chiedere la condanna.
Tale ipotesi non vuol dire “contraddire se stesso” ma mantenere intatta fino al termine del processo la libertà dei fini, allo stesso modo in cui può accadere ed accade l’ipotesi contraria, di un PM che dopo avere chiesto il rinvio a giudizio di un imputato ne chieda poi al termine del processo l’assoluzione, dopo avere rivalutato in senso favorevole all’accusato gli elementi che in un primo momento gli erano sembrati idonei ad una prognosi di condanna.
3. Imputazione coatta e sistema accusatorio.
Ad arricchire ulteriormente il dibattito sull’abolizione dell’istituto in esame si sono successivamente aggiunte le dichiarazioni del consigliere Giuridico del Ministro della Giustizia, prof. Bartolomeo Romano, che in un’intervista pubblicata sul quotidiano La Repubblica l’8 luglio ha dichiarato: “Una cosa è vigilare su cosa chiede il pubblico ministero in materia di libertà personale, altro è sostanzialmente sostituirsi a lui. E’ vero che la legge prevede l’imputazione coatta, ma dal mio punto di vista si tratta di una possibilità che contrasta con la natura stessa del processo accusatorio, come del resto la previsione che il PM faccia indagini a favore dell’indagato”.
Si tratta di dichiarazioni particolarmente interessanti perché provengono da fonte altamente qualificata e disvelano non solo un pensiero, del tutto simile a quelli esaminati in precedenza, sull’istituto dell’imputazione coatta ma anche sul sistema accusatorio.
La prima affermazione sembra voler limitare il controllo del giudice sull’operato del pubblico ministero ad un potere di vigilanza che non sfoci in un potere di sostituzione: applicato alla richiesta di archiviazione – come chiarito dallo stesso Romano in un punto successivo della sua intervista – questo renderebbe ammissibile un’ordinanza con cui il G.I.P. suggerisca indagini al P.M. (istituto già previsto dall’articolo 409, 4° comma c.p.p.) ma non l’imputazione coatta.
Sul punto appare sufficiente richiamare quanto già detto in precedenza: con l’ordinanza che impone al PM di formulare l’imputazione il Giudice non si sostituisce al magistrato inquirente nell’esercizio dell’azione penale ma gli impone di rivedere le sue determinazioni, per contrastarne l’eventuale inazione o un uso (non legittimo) discrezionale della sua potestà esclusiva di esercitare l’azione penale.
Il controllo del giudice, ineliminabile per quanto detto, non potrebbe estrinsecarsi solo nella possibilità di suggerire indagini per il semplice motivo che non sempre ci sono indagini da suggerire.
A fronte di un’indagine completa e in cui sono presenti agli atti tutti gli elementi per instaurare un processo, cosa dovrebbe fare un GIP a fronte di una richiesta di archiviazione che ritiene errata? Suggerire nuove indagini anche se non servono? E se il PM, svolte le indagini prescritte, reiterasse la richiesta di archiviazione, come si eviterebbe lo stallo, e in definitiva quale sarebbe il rimedio all’inazione del Pubblico Ministero?
Ma l’affermazione che desta maggiori perplessità della ricostruzione del consigliere giuridico del Ministro riguarda l’asserita incompatibilità dell’imputazione coatta con il sistema accusatorio.
Probabilmente il mezzo utilizzato (intervista ad un quotidiano) non consentiva approfondimenti tecnici e la necessità di sintesi ha conferito alla frase un’assertività maggiore del voluto: tuttavia, non può non sorprendere l’idea che un istituto che prevede il controllo da parte di un giudice terzo, in contraddittorio paritetico tra le parti, di una richiesta di una di esse sia incompatibile con il sistema accusatorio, che sostanzialmente in questo consiste.
La sorpresa aumenta laddove il ragionamento prosegue con l’accostamento ad altro istituto ritenuto pure incompatibile con il sistema accusatorio: la norma che impone al Pubblico Ministero di svolgere (anche) “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (articolo 358 c.p.p.).
Giova ricordare che il nostro ordinamento assegna al Pubblico Ministero una funzione particolare, facendone un ibrido: egli è al contempo una parte processuale pura – portatore di una visione parziale, quella dell’accusa - ed un organo dello Stato, che rappresenta gli interessi collettivi della giustizia; per questo motivo è tenuto non solo alla ricerca degli elementi di accusa ma anche di quelli a favore dell’indagato.
Come detto in precedenza, il Pubblico Ministero è indifferente alle sorti del processo, contrariamente alle altre parti: in nessun caso egli è obbligato a chiedere il rinvio a giudizio o la condanna dell’imputato, né è titolare di un “mandato ad accusare” analogo e simmetrico al mandato difensivo, che gli imponga di sostenere le ragioni dell’accusa anche se non ne è convinto.
Al contrario, la sua funzione è di rappresentare in ogni fase l’interesse dello Stato ad un esito del procedimento penale conforme a giustizia, ciò che vuol dire sia individuare e chiedere la punizione i responsabili dei reati che sollecitare pronunce favorevoli alla persona indagata o imputata in mancanza delle condizioni per andare avanti.
Tali caratteristiche - libertà dei mezzi e indifferenza dei fini – non sono affatto in contrapposizione con il sistema accusatorio, che impone come pure si è rilevato la separazione delle fasi e la formazione della prova in contraddittorio tra le parti davanti a un giudice terzo.
Il fatto che una delle parti sia libera nei fini e non vincolata ad accusare un imputato della cui innocenza è convinto aumenta il tasso di garantismo del processo.
Non si vede come lo svolgimento di indagini a favore dell’indagato possa dunque essere ritenuto elemento incompatibile con il sistema accusatorio, a meno di non considerare accusatorio un sistema in cui la pubblica accusa sia “costretta” a chiedere prima il rinvio a giudizio e poi la condanna dell’accusato, lasciando al solo giudice il compito di agire senza pregiudizi.
È paradossale poi che contemporaneamente ad un pubblico ministero ridotto ad accusatore non imparziale si auspichino minori controlli da parte del giudice, come avverrebbe nel caso dell’abolizione dell’imputazione coatta.
Un processo in cui l’accusatore agisce sempre e solo avendo di mira la condanna anche di un accusato che sa innocente e il giudice non ha sufficienti strumenti per limitarne gli eventuali abusi (che possono consistere, come si è visto, anche nell’esercitare l’azione penale a discrezione o scegliere di non esercitarla affatto, o per abbandonare l’accusa o per tenere un soggetto nella condizione di indagato eternamente e senza una verifica in contraddittorio) porterebbe ad un cospicuo arretramento delle garanzie ed al sostanziale tradimento del sistema accusatorio che si propugna di voler difendere.
[1] “Tale verifica opera su due versanti: da un lato, quello dell’adeguatezza al suddetto fine della regola di giudizio dettata per individuare il discrimine tra archiviazione ed azione; dall’altro, quello del controllo del giudice sull’attività omissiva del pubblico ministero, sì da fornirgli la possibilità di contrastare le inerzie e le lacune investigative di quest’ultimo ed evitare che le sue scelte si traducano in esercizio discriminatorio dell’azione (o inazione) penale” (così Corte Cost 88/1991).
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.