ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Forse per colpa di Aracne e della sua sfida a Minerva, l’immagine della tela di ragno evoca insidia, trappola, rischio di rimanere prigionieri, appesi a un filo. Eppure quel filo è germe di costruzione: la precisa tessitura che un ragno da esso dipana è indicativa di capacità nel costruire legami che abbiano una solidità tale da mantenersi integri fino ad accogliere all’interno della propria rete insetti o altri corpuscoli di dimensione e peso non indifferente. Una costruzione paziente e solida nella sua apparente fragilità.
La tela di ragno dovrebbe essere letta proprio attraverso questa prospettiva di rigore e sapienza nel connettere elementi anche distanti tra loro. La si può così prendere come metafora di una tessitura in grado di far dialogare aspetti e punti di vista differenti, convergenti però nel contribuire alla comune costruzione. Per questo credo che l’immagine vada rivisitata, guardandola attraverso la positività del tessere, del saper resistere, del saper conservare qualcosa al proprio interno. Spingendo la metafora, il qualcosa che viene conservato non è tanto l’insetto che vi rimane racchiuso, bensì la finalità dell’operazione stessa della tessitura, della ri-costituzione unitaria di aspetti slegati, filiformi che in tale connessione acquistano una fisionomia nuova e un valore specifico.
In un sistema democratico, una Istituzione che voglia agire all’interno della complessità e della apparente indecifrabilità del contesto sociale deve avere questa caratteristica di tessuto: duttile e agile come una tela di ragno, solida altrettanto e in grado di mantenere al suo interno, come valore compreso, afferrato e conservato scrupolosamente, la propria ragione istitutiva. In particolare, se la sua ragione risiede nel contribuire alla pienezza dei diritti di persone che, per un variegato insieme di cause, sono più vulnerabili, l’Istituzione deve riconoscersi come soggetto pubblico, dialogante anche con soggetti privati, frutto spesso della ricchezza della partecipazione sociale, ma mantenendo le centralità della propria indipendenza, della propria finalità di contributo all’attuazione piena del disegno costituzionale, della propria capacità di dialogo con le altre Istituzioni. Solo da questo auto-riconoscimento e dalle sue conseguenze operative discende la possibilità di essere artefice di una tessitura.
Con questa immagine si è costruito nei recenti otto anni il lavoro del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Istituzione nuova, anche se preparata da un dibattito che si era sviluppato almeno nei venti anni precedenti il suo avvio, ha fondato il proprio lavoro sulla capacità di connettere punti di vista diversi, ambiti di responsabilità anch’essi diversi, professioni articolate e situazioni di restrizione della libertà apparentemente distanti le une dalle altre, sia per la ragione della restrizione stessa, sia per la sua finalità, accumunate però da quella vulnerabilità accentuata della tutela dei diritti che rende simili le vite di chi non ha possibilità di decidere del proprio tempo, del proprio movimento, del colore della propria quotidianità.
Al termine dell’esperienza del primo Collegio che ha costruito nel concreto il Garante nazionale come riconosciuta Autorità di garanzia, mi è stato da più parti richiesto un bilancio, soprattutto alla luce piuttosto fosca del dibattito attuale circa la capacità e la volontà di riconoscere come proprie anche le parti dolenti del corpo sociale. Il bilancio non è semplice nel frastuono di provvedimenti normativi che continuamente forzano verso il ricorso alla rigidità piuttosto che alla comprensione, al loro valore simbolico piuttosto che alla loro capacità di risolvere conflitti. Soprattutto non è agevole districarsi nella narrazione di un allarme, mai sostenuto dai numeri, che costruisce il crescente consenso sia al ricorso al diritto penale per problemi e conflitti che richiederebbero un’attenzione sociale diversa e non già l’elmetto del rigore punitivo, sia la parallela regressione a quelle logiche di esclusione che vorrebbero tornare a separare le diversità, fino a far percepire come utopica o addirittura erronea la parola inclusione e tutti i valori che essa rappresenta.
Non è, quindi, attraverso la lettura dei dati del presente che è possibile dare significato al bilancio. Occorre invece cogliere l’aspetto positivo dell’avvenuto pieno riconoscimento – a livello istituzionale e di comunicazione – di una Autorità di garanzia, nuova, ancora giovane, chiaramente centrata sull’assicurare sempre maggior effettività ai diritti delle persone che vivono in luoghi spesso opachi o distanti dall’attenzione sociale. Una Istituzione che assicura un costante sguardo pubblico in tali luoghi e che trova la propria forza nelle sue connotazioni d’indipendenza e di intrusività in tutte le situazioni di privazione della libertà de iure, cioè in base a un provvedimento esplicito e come tale ricorribile, o de facto, cioè come risultante di una serie di concause che rendono impossibile alle persone di agire in libertà e autonomia. Ma proprio questa Istituzione deve, al contempo, saper dialogare con tutte le Amministrazioni coinvolte perché il suo fine non è esprimere sanzioni bensì individuare problemi e agire perché vengano risolti, così esplicitando il proprio ruolo preventivo. Così come deve dialogare con la Magistratura a cui è affidato il compito essenzialmente reattivo, di indagine e accertamento delle violazioni denunciate e di trarne le conseguenze sanzionatorie.
Il duplice livello di protezione, preventivo e reattivo, e i fili che legano indissolubilmente queste due dimensioni sono alla base dell’impostazione del lavoro portato avanti in questi anni, in analogia con il dialogo a livello europeo tra la Corte europea per i diritti umani e il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti, organo di natura giurisdizionale il primo, preventivo invece il secondo che non emette sanzioni, ma raccomandazioni. Questi fili sono un lascito che rimarrà come punto di forza per la costruzione di una maggiore fiducia della collettività verso la capacità istituzionale di garantire per le persone private della libertà una tutela che abbia più dimensioni: quella della dignità e dell’integrità fisica e psichica di ogni persona, qualunque sia la ragione della restrizione a cui è sottoposta; quella dei diritti e del riconoscimento valoriale di chi lavora in questi contesti; quella della effettiva rispondenza della vita all’interno di questi luoghi a quella finalità che ha permesso, come misura estrema, la sottrazione del bene altrimenti inviolabile della libertà; quella, infine, della effettiva aderenza dell’azione dell’Amministrazione pubblica ai principi costituzionalmente affermati e agli impegni internazionalmente assunti.
Credo che questo sia l’elemento di positivo bilancio che sintetizza i primi otto anni di vita del Garante nazionale. E credo che questa connotazione debba essere preservata come valore dal nuovo Collegio che da quasi due mesi si è insediato, indipendentemente dalle scelte specifiche che opererà relativamente ai singoli temi da affrontare. Perché in questo aspetto risiede la solidità della tela di ragno che si è andata costruendo. La tela è una struttura solida, ma è fragile se non viene alimentata ogni giorno dall’animaletto con la stessa logica costruttiva. Un ragno che si abbandonasse a contemplare il proprio lavoro, a guardarlo o farsi guardare o che non rinvigorisse con nuove e sempre più solide connessioni i suoi legami con i diversi rami che tengono assieme la rete finirebbe col trasformare la plasticità della rete nella sua debolezza.
Non sarà così e comunque non dovrà esserlo perché la situazione attuale non lo permette. Infatti, il quadro attuale presenta difficoltà crescenti in tutte le aree di privazione della libertà personale. Il numero delle persone detenute in carcere è in aumento, ormai da quasi un anno, di circa quattrocento unità al mese e, superata ormai la soglia delle 61mila presenze – in meno di 48mila posti regolamentari, vale sempre la pena ricordarlo – tende a raggiunge quel valore che, poco più di dieci anni fa, caratterizzò la condanna del nostro paese per violazione dell’inderogabile articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Non solo, ma ì crescenti numeri registrati nei vari istituti, sono sempre più accompagnati dalla prevalenza della chiusura in cella come modalità ordinaria dello svolgersi della giornata per quella maggioranza di persone detenute che non sono classificate di “alta sicurezza”: persone che risentono fortemente della vacuità di un tempo trascorso senza una progettualità definita, per inazione o per impossibilità di spazi, e che proprio per tali assenze restano chiusi negli angusti ambienti impropriamente e pomposamente destinati anche nel nome al “pernottamento” e che invece rappresentano invece il micromondo possibile dello svolgersi delle giornate.
In questo affollato e anonimo contesto, sono impietosi i numeri del disagio sociale, evidenziati dalle migliaia di persone detenute che sono in carcere per pene bassissime e restano là proprio perché prive di una rete di supporto legale, sociale, spesso di semplice tetto ove stare. Così come lo è il numero di coloro che rivolgono contro il proprio possibile residuale ben-essere anche corporeo la frustrazione di un tempo che trascorre inutilmente denso di una previsione ancor peggiore nel ritorno alla società: l’inizio di questo anno ha finora registrato circa un suicidio ogni due giorni. Numeri, chiusura, disattenzione rendono ridicole le foto che vengono fatte dopo rituali visite in carcere da parte di organizzazioni volontarie e volenterose e ancor più inaccettabili quelle di rappresentanti istituzionali che sembrano aver ristretto la propria osservazione di quel mondo, spesso difficile da decodificare, a qualche colloquio con chi dirige, coordina, spiega.
Se questa è la fotografia grave del carcere, certamente non è migliore quella della detenzione amministrativa delle persone migranti, trattenute in Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), per periodi recentemente fortemente allungati, in quel nulla che non è episodico, bensì la dimensione strutturale del trattenimento: il nulla degli ambienti, il nulla del contatto con il mondo esterno, il nulla dello scorrere della giornata, lasciano spazio solo alla disperazione del fallimento del proprio progetto migratorio che la stessa permanenza in tali luoghi nitidamente evidenzia.
Carceri e Cpr sono le punte evidenti di un pensiero reclusorio che affronta le contraddizioni con la segregazione e che rischia di estendersi a tutte le forme di difficoltà, inclusa quella giovanile, spesso di non semplice decodifica e certamente aumentata nel recente periodo dopo l’esperienza di chiusura per la pandemia, ma che è comunque anche espressione di un bisogno che dovrebbe trovare altre risposte. Nel mondo della comunicazione e dei media le difficoltà giovanili non sono lette attraverso la lente dell’incertezza del futuro sul piano lavorativo, dell’impossibile autonomia, dell’opacità delle strutture sociali e il conseguente rischio della prevalenza di logiche neo-censitarie, della frequente inattuabilità della costruzione di un proprio nucleo di affetti, del ritorno della vicinanza delle guerre, bensì relegate in una indecifrabilità, espressa con soltanto con termini di negatività e di ricorso alla categoria indecifrata dell’agire delinquenziale. Anche i numeri di presenza negli Istituti penali per minori sono così in aumento considerevole negli ultimi mesi, dopo anni in cui il sistema penale minorile italiano aveva rappresentato un modello positivo nel contesto internazionale.
Non è un panorama che possa permettere però di attenuare le costruzioni faticosamente realizzate in anni recenti: in particolare, quella della tela di ragno, come richiamo a una costruzione duttile e solida. Occorre continuare a trovare altri rami per la sua continua costruzione e consolidare quelle parti già tessute proprio perché esposte a un vento impetuoso. Ciò vale per il Garante nazionale e anche per le altre strutture intermedie di coesione, riflessione e garanzia costruite in questi anni: non è possibile renderle inerti e non alimentarle. È un compito che coinvolge tutti, a livelli diversi, sulla base di quel dettato di solidarietà che la nostra Carta richiama nel suo secondo articolo e che si esplicita nell’articolo successivo anche nel richiamo al compito della Repubblica – e, quindi, di ogni singolo ‘attore’ del suo impianto ordinamentale – di rimuovere gli ostacoli affinché sia assicurato il pieno sviluppo di ogni persona e la sua attiva partecipazione. Anche di chi ha sbagliato, anche di chi è irregolare, anche di chi esprime disagio e difficoltà nel misurarsi con il mondo circostante.
Proprio la connotazione istituzionale porta con sé, del resto, la necessità e il valore della continuità, intesa come costante capacità di riaffermare il proprio mandato e di agire perché esso sia percepito come contributo alla soluzione delle difficoltà. Questo è il bilancio dell’Istituzione costruita, da me e dalle altre due componenti del Collegio del Garante nazionale, in questi otto anni. Ma questa continuità necessaria rappresenta altresì una indicazione che dovrà essere resa esplicita quanto prima a chi ha assunto ora il compito di proseguire: con attenzione e interesse ho visto il verificarsi di diversi incontri tra il nuovo Collegio e vari attori istituzionali, nonché responsabili di carceri o altre strutture; quasi tutti regolarmente registrati anche attraverso la foto dell’evento. A cinquanta giorni dal suo insediamento, forse è ora tempo che, dopo tutti gli altri, il nuovo Collegio voglia incontrare anche quello uscente, per avere opinioni, momenti di confronto, aspetti di una lunga esperienza. Un incontro che ancora non è mai avvenuto. Per questo una foto di simbolica continuità è tuttora mancante.
(Contributo già apparso qui https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/editoriale/tessere-i-diritti-il-garante-nazionale-dei-diritti-delle-persone-private. Immagine: Tintoretto, Aracne sfida Minerva in una gara di tessitura, olio su tela, circa 1575 - 1585)
La giudice ungherese Anna Madarasi, preziosa autrice di Giustizia Insieme, propone interessanti riflessioni, e il suo punto di vista, sul processo in corso in Ungheria a carico di Ilaria Salis.
I temi sono: giustizia e comunicazione, indipendenza della magistratura ungherese, responsabilità in ordine all’uso di strumenti coercitivi e consenso alla video ripresa.
Con la riflessione in ordine al rapporto tra giustizia e comunicazione pone l’attenzione sull’esigenza della completezza, oltre che di veridicità, della notizia.
La rappresentazione distorta dei fatti oggetto dell’accertamento processuale vulnera sia l’informazione che il processo.
Nel caso di Salis il rapporto processo-informazione si intreccia con la circostanza che i magistrati Ungheresi - a fronte di crescenti critiche provenienti dai parlamentari e dal governo - sono sempre più limitatati nella loro libertà di fornire informazioni utili a rendere edotta l’opinione pubblica su ciò che accade nelle aule di Tribunale.
Nel caso di Ilaria Salis i magistrati ungheresi lamentano di non essere stati messi nelle condizioni di fornire le esatte informazioni in ordine allo stato del processo, alla fase cautelare, nonché al quadro di gravità indiziaria a carico dell’imputata e alle esigenze che hanno indotto il giudice della cautela a emettere la misura in carcere. Registrano poi un’eccessiva enfasi della stampa internazionale sul procedimento cautelare rispetto al processo. L’autrice, per far intendere la gravità dei fatti, prescindendo da osservazioni di natura valutativa, richiama i massimi edittali previsti per i reati contestati.
Un’importante riflessione riguarda l’indipendenza dei giudici ungheresi che se, da un lato, si auspica non siamo condizionati nella decisione dal governo ungherese - come in effetti tranquillizza la giudice - dall’altro nemmeno possono essere influenzati dall’opinione pubblica o dai governi di altri paesi europei. Su questo non possiamo che condividere le sue riflessioni.
Con riguardo alle misure coercitive adottate per la traduzione dell’imputata dal carcere all’Aula di Tribunale l’autrice rappresenta che ogni decisione a riguardo spetta al Servizio carcerario, che dipende dall’esecutivo. Nel sistema di giustizia ungherese vi è dunque una criticità evidente che l’autrice segnala “il giudice non ha il potere di rimuovere tutti i mezzi di coercizione”.
Ma il giusto processo passa anche attraverso la partecipazione dell’imputato libero nella persona da vincoli coercitivi, lesivi della presunzione di innocenza e della sua dignità .
Il garante dello svolgimento del giusto processo - lo ricorda l’autrice - è il giudice, il quale - aggiungiamo noi - non deve subire interferenze per effetto di determinazioni di organi estranei alla giurisdizione come, nel caso di specie, il Servizio carcerario che, peraltro, dipende dall’esecutivo.
Il consenso dell’imputata ad essere ripresa, in aula con guinzaglio, ferri ai polsi e alle caviglie, non esime il giudice dal controllo in ordine allo svolgimento di un processo rispettoso della dignità della persona.
Il consenso alla ripresa non evita la lesione, apparsa sotto gli occhi di tutti, al giusto processo.
Attraverso il consenso Ilaria Salis ha, in realtà, esercitato il suo diritto a informare il pubblico che, in Ungheria, stava partecipando al processo a suo carico con guinzaglio in vita e piedi in catene, violata nella sua dignità e come se fosse già stata dichiarata colpevole.
Ha richiamato l’attenzione dei paesi dell’Unione affinché sia tutelato il suo diritto a un processo conforme ai canoni di cui all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la sua è stata una richiesta di aiuto.
Questa è l’altra faccia del rapporto tra giustizia e comunicazione.
Paola Filippi
Quis Custodiet Ipsos Custodes? Note al margine di un processo penale ungherese
di Anna Maderasi
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il processo e l’accusa - 3. La traduzione dell’imputato e l’udienza preliminare.
1. Introduzione
Per molti giorni non si sono arrestate le polemiche sul processo penale iniziato davanti alla Corte Capitale di Budapest il 29 gennaio, per tentativo di lesioni personali gravi con pericolo di vita con l’aggravante di organizzazione criminale[1] a carico di una cittadina italiana e altri.
La stampa italiana ha dato al caso ‘Salis’ un alto profilo politico e mediatico, che dopo l’udienza preliminare ormai è diventato anche un caso umanitario, la vicenda ora sfocia nella tutela dei diritti umani, in Europa come nel mondo. Questo caso dimostra ancora una volta, come abbiamo già visto in casi numerosi, che ’la convivenza tra stampa e processo penale è una convivenza assolutamente necessaria, posto che magistratura e libertà di informazione sono due pilastri dello Stato costituzionale di diritto, ma è al contempo una convivenza molto difficile.’[2] L’opinione pubblica[3] italiana in correlazione con il caso specifico ha messo in dubbio l'indipendenza e l'europeismo dei giudici ungheresi criticando il modo in cui l'imputata è stata trasferita all’udienza preliminare e il modo in cui è stata visualizzata nelle immagini riprese in aula d’udienza. Tuttavia, sembra che tale opinione sia stata formata soltanto sulla base delle informazioni ricevute dalla stampa o dalla difesa dell'interessato, e l’opinione pubblica ha accettato il fatto che i magistrati di uno Stato membro dell'Unione europea sono responsabili per la grave violazione dei valori dell'UE e i diritti umani fondamentali, e ha invocato il rispetto del giusto processo e della presunzione d’innocenza, senza lo stesso rispetto per il principio della mutua fiducia nella affidabilità delle decisioni giudiziarie, che sono principi fondamentali per il funzionamento dell’Unione Europea[4].
Da un lato, in uno stato democratico i mezzi di comunicazione riferiscono ciò che la giustizia fa ed è normale, anzi è necessario, che la critichino pure, ma all’altro lato la comunicazione, particolarmente la comunicazione politica, può diventare un mezzo molto efficace per erodere la fiducia del cittadino nel sistema giudiziario. E spesso ’la pubblicazione della notizia deve avvenire tempestivamente, anche a costo di sacrificare la verifica dei dettagli, e quindi la correttezza e completezza dell’informazione’[5]. E forse anche per questo motivo, nel caso specifico sia l’esecutivo italiano, che l’esecutivo ungherese, dopo la pubblicazione delle immagini dell’udienza preliminare si sono riferiti all’indipendenza della magistratura e di tale riferimento non ha dubitato nessuno, anche se, per quanto riguarda le condizioni carcerarie e la traduzione del detenuto, il giudice ungherese non è ‘in gioco’, perché non ha un potere decisionale. Soltanto il sistema penitenziario è il titolare del potere di decidere sull’uso delle misure coercitive, il quale è sotto il controllo dell’esecutivo.
Negli ultimi anni è anche vero che l’amministrazione del sistema giudiziario ungherese non sente la necessità di fornire al pubblico informazioni chiare e puntuali sul funzionamento della giustizia, in particolare quando questa viene messa in discussione. Nel caso di qualsiasi critica politica, il sistema giudiziario ungherese è in silenzio. I singoli giudici non hanno nessun mezzo per difendersi né contro gli attacchi politici, né davanti al ‘tribunale della pubblica opinione’[6], particolarmente per quanto riguarda un processo in corso. La libertà di espressione dei giudici è molto limitata e in Ungheria negli ultimi anni ci sono i tentativi di limitarla ancora di più, e nel frattempo le decisioni giudiziarie di tutti i livelli (dalle corti distrettuali alla Corte Suprema) spesso sono fortemente criticate dai parlamentari o direttamente dai componenti del governo, quindi dal potere esecutivo. Nel caso specifico in mancanza di comunicazioni da parte della Corte Capitale o dell’organo amministrativo centrale del sistema giudiziario ungherese, che avrebbe potuto fornire informazioni puntuali, le notizie e le reazioni del pubblico mostrano che il racconto della vicenda giudiziaria attraverso i media può essere uno specchio che riflette un’immagine molto parziale della realtà. E in questo modo la politica, trasmettendo i suoi messaggi al pubblico, riesce a minare la fiducia pubblica ─ sia italiana che europea ─ nei giudici ungheresi diventando una manovra molto pericolosa contro lo Stato di diritto che può comparire ovunque, anche nelle vecchie democrazie.
Poi viene notato che anche in questo caso le notizie italiane e le trasmissioni sul processo rinforzano la teoria[7]secondo quale nei media esiste una svalutazione di quello che è il processo vero e proprio, il dibattimento, ed una ipervalutazione delle misure cautelari, presentata agli spettatori come il vero processo. Questo articolo rispettando il fatto che il processo è in corso, non formula alcuna valutazione, ma cerca solo di presentare vari aspetti del caso specifico e di fornire il massimo di informazioni puntuali, con il massimo della chiarezza.
2. Il processo e l’accusa
Il processo di primo grado è iniziato con l’udienza preliminare il 29 gennaio. Dei tre imputati due sono in detenzione e uno è agli arresti domiciliari. All’inizio dell’indagine il g.i.p. ha disposto con un’ordinanza motivata la custodia cautelare in carcere di due degli imputati e, durante l’indagine, ha prorogato tre volte i termini di custodia cautelare dopo aver valutato le esigenze cautelari, gli indizi, la documentazione dell’indagine, e aver sentito il pubblico ministero, il difensore e l’imputato. Per quanto riguarda la terza persona, il g.i.p. ha disposto gli arresti domiciliari.
Nella sua prima ordinanza[8] il g.i.p. ha preso in considerazione le circostanze personali degli indagati, la natura, le caratteristiche e la gravità dei fatti, e ha affermato che vi fossero ragionevoli motivi per ritenere che senza la applicazione delle misure coercitive gli imputati durante le indagini si sarebbero allontanati in un luogo sconosciuto, e sarebbero stati irraggiungibili per l'autorità. La maggior parte dei partecipanti agli attacchi non è stata identificata, ma, sulla base delle informazioni acquisite con l’indagine, il gruppo era composto da persone in qualche modo collegate tra loro. Dopo aver preso in considerazione anche l'interesse dell'indagine, la natura organizzata del reato, la modalità dell’azione e le caratteristiche personali degli indagati, ha ritenuto che non ci si possa aspettare che collaborino con le autorità su una base volontaria. Il g.i.p. ha ritenuto importante sottolineare che gli imputati avevano una vita sostanzialmente ordinata, ma erano sospettati di aveve commesso reati palesemente brutali contro vittime sconosciute, senza alcun precedente contatto, in un modo senza scrupoli; tre imputati sono fuori dal loro paese d'origine. Le condizioni esaminate indirizzavano verso arresto e la Corte ha ritenuto che i rischi presi in considerazione fossero così grandi da rendere assolutamente necessario applicare la misura di coercizione più severa. La Corte ha concluso il ragionamento alla base della decisione osservando «che nessun motivo ideologico merita considerazione in presenza di un reato violento contro una persona. La violenza non ha colore. Il fatto che il caso specifico è diventato mediatico non ha alcun impatto sulla decisione. Le norme penali e procedurali devono essere applicate a prescindere dall'ideologia, come ha fatto la corte nel caso presente».
Il giudice di primo grado, precedentemente alla prima udienza, ha prorogato con un’ordinanza motivata i termini delle misure cautelari per tutti gli imputati. Per l’Ungheria questo è considerato un processo veloce, perché entro un anno dall’inizio della detenzione, la Corte Capitale ha già tenuto l’udienza preliminare.
Il dettaglio meno conosciuto del processo dal pubblico italiano sembra essere l’accusa, che la stampa ungherese[9]nella sua cronaca giudiziaria ha spiegato in modo dettagliato. Le aggressioni riscontrate dalle autorità riguardano persone, che presumibilmente avevano partecipato ai festeggiamenti del Giorno dell’Onore[10] a Budapest. Secondo l’accusa, gli imputati fanno parte di un'organizzazione di estrema sinistra e sono stati addestrati a compiere attacchi rapidi che possono causare danni fisici con pericolo di vita; durante le indagini non è stato stabilito se le vittime fossero realmente partecipanti alla manifestazione neonazista.
All’udienza preliminare il procuratore ha descritto la coreografia degli attacchi come segue: dopo il comando ‘go go’ del controllore, il gruppo ha aggredito persone, che dal loro vestito sembravano estremisti di destra, e le ha picchiate per 30 secondi pesantemente, senza fare rumore, coprendosi il viso e le mani per non farsi riconoscere. Quando è trascorso il tempo, il controllore, che non partecipava all'attacco, ha dato il segnale ‘stop’ e il gruppo è fuggito. Prima di fuggire, il controllore ha sempre spruzzato lo spray al peperoncino sulla vittima. I componenti del gruppo erano vestiti a strati per potersi cambiare durante la fuga.
Secondo questo scenario il gruppo è riuscito a compiere 5 attacchi contro 8 persone tra il 9 e l’11 di febbraio a Budapest, in diversi luoghi e con varie composizioni del gruppo. Secondo l’accusa, il gruppo ha usato manganelli telescopici, mazze di gomma, un'arma a gas da autodifesa e spray al peperoncino e al gas.
All’udienza preliminare uno dei tre imputati, un cittadino tedesco, si è dichiarato colpevole del reato descritto dall’accusa ed è stato condannato alla pena di tre anni di reclusione per partecipazione a un’organizzazione criminale[11], il giudice ha ordinato anche l’espulsione dal territorio dell’Ungheria per cinque anni.
L’imputata italiana è accusata di tre condotte di tentativo di lesioni personali gravi con pericolo di vita e con l’aggravante di organizzazione criminale[12]. Dalle disposizioni del Codice penale ungherese segue che tale reato è punibile con la pena della reclusione da due a otto anni, ma il limite superiore della pena viene aumentata della metà per l’aggravante di organizzazione criminale (2-16 anni), e per i più reati commessi (3 condotte) la pena si cumula, e il limite superiore viene aumentata della metà, cosicché la pena di reclusione si estende da due a 24 anni. Sulla base della Codice penale, nel caso in cui il giudice infligge la pena della reclusione, determina la durata partendo dalla metà della somma delle pene superiori e inferiori[13] e deve tenere conto di circostanze aggravanti e attenuanti.
3. La traduzione dell’imputato e l’udienza preliminare
Il punto più criticato del processo finora è stata la traduzione del detenuto all’udienza, l’opinione pubblica si è riferita subito alla violazione della Direttiva (UE) 2016/343.
Secondo il testo della premessa (20), ’le autorità̀ competenti dovrebbero astenersi dal presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica, quali manette, gabbie di vetro o di altro tipo e ferri alle gambe, a meno che il ricorso a tali misure sia necessario per ragioni legate al caso di specie in relazione alla sicurezza, ad esempio al fine di impedire che indagati o imputati rechino danno a se stessi o agli altri o a beni, o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi, tra cui testimoni o vittime’[14].
Il testo dell’art 5 stabilisce che gli Stati membri adottano le misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica.
Ma il punto 2. dice che il paragrafo 1 non osta a che gli Stati membri applichino misure di coercizione fisica che si rivelino necessarie per ragioni legate al caso di specie, in relazione alla sicurezza o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi.
Mentre il primo paragrafo dell'articolo introduce un divieto generale di utilizzare misure di coercizione fisica, il secondo paragrafo, per ragioni di sicurezza, prevede possibili deroghe alla regola principale. Il regolamento non pone un divieto assoluto, invece stabilisce una previsione elastica per quanto riguarda all’uso di misure coercitive. Sebbene questa disposizione sia semplice nella forma, la sua applicazione pratica non è facile. L'uso delle misure coercitive in aula di udienza in presenza di determinate condizioni può essere necessario, e la valutazione della necessità va fatta caso per caso[15]. Secondo una ricerca di Helsinki Committe è importante osservare che una differenza importante tra gli Stati membri si nota nel modo in cui gli imputati arrivano in aula d’udienza: mentre in Francia e a Malta gli indagati e gli imputati arrivano nella maggior parte dei casi senza alcuna misura di coercizione, in Ungheria, Spagna e Croazia molto spesso arrivano in tribunale e aspettano davanti all'aula di udienza ammanettati. Non vi è dubbio che il modo di presentare la persona accusata davanti al giudice non è un aspetto di scarso rilievo per la tutela della presunzione d’innocenza.
Tornando al caso specifico, bisogna sottolineare che, al contrario alle dichiarazioni politiche pubblicate sulla stampa italiana e ungherese, la decisione sull'uso delle misure coercitive durante il trasferimento dell'imputato non è una decisione giudiziaria. Dopo aver ordinato la traduzione del detenuto, il giudice non ha il potere di decidere il modo in cui la traduzione viene effettivamente eseguita. Tale potere è in parte regolato dal Decreto n. 16/2014 del Ministro della Giustizia e in parte dalle decisioni interne del sistema penitenziario, che è sotto la direzione dell'esecutivo. Il comandante del carcere è il titolare della decisione circa le specifiche disposizioni di sicurezza per la detenzione, il trasporto e la traduzione del detenuto[16].
Ai sensi dell’art. 29 del decreto ministeriale, la struttura penitenziaria classifica i detenuti secondo un suo Sistema di Analisi e Gestione dei Rischi. Nel processo di classificazione vengono valutati vari elementi, come per esempio il pericolo di fuga e tentativi di fuga, comportamenti suicidi, pericolo di autolesione, violenza o tentativi di violenza contro altre persone, attività nel mondo criminale o carceraria, abuso di sostanze stupefacenti. La vita del detenuto in carcere è soprattutto determinata dalla sua classificazione. Il decreto disciplina anche i mezzi di coercizione che alla struttura penitenziaria è consentito utilizzare. Ai sensi dell'art. 54, l'uso dei mezzi di coercizione è deciso sulla base dei dati e delle informazioni relative al detenuto e sulla classificazione del rischio di sicurezza, ma nell'applicazione di un mezzo di coercizione si deve rispettare la legge e la dignità umana. In caso di traduzione del detenuto solo al comandante della struttura penitenziaria è consentito autorizzare la rimozione del mezzo di coercizione. Il decreto ministeriale nell’art. 54 (4) prescrive che il giudice è consentito ad ordinare la rimozione delle manette ai polsi, ma il decreto stabilisce che la disposizione non si applica alla rimozione di altri mezzi di coercizione.
Da tutto questo deriva in pratica che, il giudice non ha il pieno potere del controllo sulle esigenze di sicurezza in aula per quanto riguarda la traduzione del detenuto, anche se il Codice di procedura penale, stabilisce che, durante lo svolgimento dell'udienza, il giudice è il titolare del potere di garantire (i) il rispetto delle leggi e (ii) il corretto esercizio dei diritti delle parti. Evidentemente qui si trova il conflitto tra il decreto ministeriale e il Codice di procedura penale ungherese e, sulla base della Direttiva, la legislazione interna dovrebbe affidare al giudice il controllo sulle esigenze di sicurezza nell’aula di udienza con facoltà di rimuovere tutti i mezzi di coercizione.
Non conosciamo casi contro l'Ungheria davanti alla Corte di Strasburgo, in cui la Corte ha affermato la violazione dei diritti fondamentali, come in casi contro altri paesi[17], ma nella sua ricerca Helsinki Committe ha affermato che in Ungheria le manette spesso vengono utilizzate non nel modo giusto dalla polizia e nella maggior parte dei palazzi in cui si trovano i tribunali non esiste un percorso separato, dove la persona scortata non sia vista in pubblico durante la traduzione in aula di udienza [18].
In relazione ad un caso altro caso di rilevanza mediatico, il Garante ungherese ha affermato che l'uso di tre tipi di misure coercitive «contro una donna esile era sproporzionato, anche se l'istituto penitenziario aveva solo pochi giorni per effettuare una valutazione dei rischi prima di dover effettuare il trasporto[19].
Non è una fonte di diritto, ma è un aspetto notevole dell’opinione pubblica ungherese per quanto riguarda al caso specifico quello che è stato scritto in un articolo di un portale dell’opposizione ungherese che si riferisce ad un caso, esaminato anche da Helsinki Committe nella sua ricerca: «Il trasporto sicuro dei detenuti è responsabilità del servizio carcerario. L'uso di manette e catene è diventato comune dopo la fuga di un detenuto dalla Corte Capitale nel 2019. Durante il processo del suo caso penale, l'uomo ha preso l'arma della guardia, che lo accompagnava, ha preso ostaggi ed è fuggito. È stato catturato solo dopo che la polizia gli ha sparato. Dopo l'incidente, le guardie del sistema penitenziarie tendono a proteggersi eccessivamente. Quindi l'idea che l’imputata sia stata "incatenata" perché è un antifascista o perché è stato reso un avvertimento per qualche motivo, non è vera. Altra questione è se tale severità abbia un senso…»[20]
Da tutto ciò deriva una domanda evidente: perché non sono i detenuti ascoltati tramite una videochiamata? In Ungheria, come nella maggior parte dei paesi europei, si usano spesso i sistemi di telecomunicazione a circuito chiuso nei processi penali, soprattutto nei casi in cui sono coinvolte persone detenute. Sulla base del Codice di procedura penale durante il processo penale, in linea con i diritti umani fondamentali, la presenza fisica degli imputati è la regola principale, rispettando particolarmente il principio d’immediatezza, e le udienze da remoto sono l'eccezione. Ai sensi dell'art. 121 del Codice di Procedura Penale, al giudice è consentito, ex officio o su richiesta dell’imputato, di ordinare l'uso di mezzi di telecomunicazione e di tenere l’udienza da remoto, anche nel caso dell'udienza preliminare, ma solo con il consenso dell'imputato. In genere i giudici ungheresi tengono l'udienza preliminare con la presenza fisica degli imputati, se non è richiesta l’udienza da remoto dall’imputato, anche se successivamente passano all'uso di mezzi di telecomunicazione.
L’altro punto criticato del processo era la ripresa dell’immagine dell’imputata. Il Codice di procedura penale ungherese, in linea generale, garantisce la pubblicità dei processi, e riconosce il diritto del pubblico di essere informati attraverso la stampa[21], per tal fine i rappresentanti della stampa sono presenti in aula. Ma per tutelare i diritti personali degli imputati, le sue immagini possono essere riprese solo con il loro consenso e permesso[22]. Se l'immagine dell'imputata era visibile nella stampa, presumibilmente lei ha dato il suo consenso, quando è stato chiesto dal giudice all’inizio dell’udienza preliminare.
Infine, per dare un esempio di un punto di vista diverso da quello della stampa italiana, si cita un articolo della stampa ungherese, in cui il portale dell’opposizione scrive che «la differenza nel modo in cui gli italiani giudicano le azioni degli antifascisti rispetto agli ungheresi è principalmente culturale. In Italia, l'opinione pubblica è apparentemente molto più tollerante nei confronti dell'estrema sinistra, e in particolare degli antifascisti. E in effetti, alcuni articoli della stampa italiana considerano l’imputata, arrivata in tribunale sorridente, quasi un eroe. Ai loro occhi, è un cittadino italiano trattato in modo disumano dalle autorità ungheresi. Ma la verità è che i gruppi di estrema sinistra e di estrema destra sono trattati come organizzazioni pericolose dalle autorità, anche nelle democrazie.»[23]
Negli ultimi anni l’indipendenza del sistema giudiziario ungherese è un oggetto molto importante del dialogo in corso relativo allo Stato di diritto tra la Commissione Europea e il governo ungherese. Da un lato i problemi derivano dal sistema organizzativo ‘ibrido’, caratterizzato dalla coesistenza tra un organo di nomina parlamentare e un rappresentante della magistratura[24]. Anche dopo una riforma molto importante dell’anno scorso, che ha rafforzato lo status e il funzionamento del Consiglio, e ha anche rafforzato la posizione dei suoi componenti, sui vertici dell’amministrazione del sistema giudiziario esistono ancora problemi sistematici. Ma, anche se recentemente i giudici ungheresi hanno affrontato diversi tipi di difficoltà, l’esame degli aspetti sinora emersi probabilmente porta alla conclusione che nelle loro decisioni non sono assoggettati al potere esecutivo.
[1] Secondo il Codice penale ungherese é un aggravante senza finalitá specifiche
[2] N.Triggiani: Informazione e Gustizia Penale-Dalla cronaca giudiziaria al "processo mediatico” p.1.
[3] Per esempio: https://ilmanifesto.it/da-orban-un-avvertimento-ai-governi-europei, https://www.areadg.it/comunicato/in-solidarieta-di-ilaria-salis, https://www.magistraturademocratica.it/articolo/magistratura-democratica-sulla-vicenda-di-ilaria-salis
[4] https://resiudicata.hu/en/english-answers-to-critics-from-italy/
[5] N.Triggiani: Informazione e Gustizia Penale-Dalla cronaca giudiziaria al "processo mediatico”, p.27.
[6] Glauco Giostra: Processo penale e mass media, Criminalia 2007.
[7] N. Triggiani: Informazione e Gustizia Penale-Dalla cronaca giudiziaria al "processo mediatico”
[8] https://fovarositorvenyszek.birosag.hu/sajtokozlemeny/20230221/az-eroszaknak-nincs-szine-kenyszerintezkedesekrol-dontott-birosag-az
[9] https://hvg.hu/itthon/20240129_antifaper_elokeszito_ules_budapest, https://telex.hu/belfold/2024/01/29/harom-ev-fegyhazra-iteltek-a-budapesti-antifa-tamadas-egyik-vadlottjat
[10] Il ’Giorno dell’onore’ non è una ricorrenza ufficiale, un anniversario simbolico relativo ad alcuni fatti della Seconda guerra mondiale. Si tiene intorno all’11 febbraio per ricordare i soldati ungheresi e tedeschi uccisi durante l’assedio di Budapest (tra l’ottobre del 1944 e il febbraio del 1945). Il ’Giorno dell’onore’ è legato a movimenti di neonazisti e neofascisti europei.
[11] Art. 321 comma (1) del Codice penale
[12] Art. 164 comma (1) e (8), art. 459 comma (1)
[13] Art. 80. del Codice penale
[14] DIRETTIVA (UE) 2016/343 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali
[15] https://helsinki.hu/wp-content/uploads/Legal-Comparative-Report-FINAL-Designed_2019_06_27-2.pdf
[16] Legge nr. CCXL del 2013 sull'esecuzione delle pene, dei provvedimenti, delle misure coercitive, e delle carcerazioni per contravvenzioni, Decreto del Ministro della Giustizia nr. 16 del 2014 (XII. 19.) sulle modalità di esecuzione della pena, Legge nr CVII del 1995 sull'organizzazione del sistema penitenziario
[17] Erdogan Yagiz contro la Turchia, no.27473/02, il 6 marzo 2007., Gorodnitchev contro la Russia, no.52058/99, il 3 marzo 2005
[18] https://helsinki.hu/wp-content/uploads/Legal-Comparative-Report-FINAL-Designed_2019_06_27-2.pdf
[19] Relazione no. AJB-6796/2010.
[20]https://m.hvg.hu/360/20240201_olasz_anarchista_no_Ilaria_Salis_antifa_bunugy_szelsobaloldal_szelsojobboldal_Giorgia_Meloni_Orban_Viktor
[21] Art. 108 comma (1) del Codice di Procedura Penale
[22] Ibid comma (2)
[23]https://m.hvg.hu/360/20240201_olasz_anarchista_no_Ilaria_Salis_antifa_bunugy_szelsobaloldal_szelsojobboldal_Giorgia_Meloni_Orban_Viktor
[24] https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/138-diritti-stranieri/2756-percorsi-di-accesso-alla-magistratura-in-ungheria-di-anna-madarasi?hitcount=0
«Il dovere è votare, tutti devono andare a votare, tutti gli uomini liberi devono votare per la libertà, contro la dittatura. Andate a votare e persuadete tutti a votare. I risultati daranno solo la misura della violenza e non quella della volontà popolare, ma il risultato deve anche dimostrare che in Italia esistono ancora degli uomini liberi rivendicanti il loro diritto di cittadinanza. Ad ogni costo».
(Giacomo Matteotti, L’Appello della direzione del partito, La Giustizia, 5 aprile 1924, 83)
Questo contributo è parte del percorso intrapreso da questa Rivista per ricordare Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924. Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio.
Sommario: 1. Il doveroso omaggio a Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio. La situazione della magistratura italiana negli anni ’20 e il ricordo di alcuni magistrati del tempo - 2. Mauro del Giudice e l’istruttoria del primo processo per l’omicidio di Giacomo Matteotti - 3. Lodovico Mortara e l’imperversare dei decreti legge - 4. Vincenzo Chieppa, l’associazionismo giudiziario e il giornale “La Giustizia Italiana” - 5. Altre vicende giudiziarie di quel periodo: il processo a Benito Mussolini per costituzione di banda armata, i magistrati artefici del processo di Chieti, il coinvolgimento della magistratura ordinaria nel Tribunale Speciale per la difesa dello Stato - 6. Il volume: A S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia - 7. Qualche riflessione di sintesi.
1. Il doveroso omaggio a Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio. La situazione della magistratura italiana negli anni ’20 e il ricordo di alcuni magistrati del tempo
Desidero anch’io rendere omaggio a Giacomo Matteotti a cento anni dal suo infame assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924.
1.1. Mi piace ricordare, in questo contesto, e prima di ogni altra cosa, che Giacomo Matteotti si laureava in giurisprudenza nel 1907 nell’Università di Bologna, con una tesi in diritto penale dal titolo Principi generali della recidiva, e dopo aver ottenuto il primo incarico politico nello stesso anno della laurea quale consigliere comunale di Fratta (RV), e dopo aver scritto il primo libro in materia giuridica nel 1910, fu per un certo periodo combattuto tra l’intraprendere la carriera giuridica oppure quella politica[1].
Optò, alla fine, per quella politica, partecipando nell’aprile del 1914 al XIV Congresso del partito socialista, nel quale divenne poi deputato nel 1919, nel 1921, e infine nel 1924, con il nuovo partito socialista unitario (PSU).
1.2. I fatti storici sono noti.
Benito Mussolini diventava capo del Governo tre giorni dopo la marcia su Roma, ovvero il 31 ottobre 1922.
Il 6 aprile 1924 si svolgevano le elezioni politiche, in forza della recente legge elettorale detta Acerbo, 18 novembre 1923 n. 2444, che consentiva al partito di maggioranza di godere di un premio fino ai 2/3 del Parlamento.
Il partito fascista otteneva una vittoria travolgente ma le votazioni si svolgevano tra violenze e brogli, e Giacomo Matteotti denunciava, senza mezzi termini, con fermezza e completezza di dati, quanto i fascisti avevano fatto per ottenere quel risultato.
Il suo discorso si tenne alla Camera dei Deputati il 30 maggio 2024, e fu un discorso difficilissimo da portare avanti: Giacomo Matteotti veniva continuamente interrotto dai fascisti, aggredito, offeso, trattato come fosse un pazzo o un deficiente[2].
Questo discorso costò la vita a Giacomo Matteotti, che infatti veniva ucciso da una squadra di malfattori guidata da Amerigo Dumini il 10 giugno 1924.
Giacomo Matteotti aveva solo 39 anni e lasciava moglie e tre figli.
Su ciò Emilio Lussu ha scritto: “Contro le violenze elettorali prese la parola nell’Assemblea il deputato Giacomo Matteotti, rappresentante del partito socialista, e sostenne l’invalidità delle elezioni. I deputati fascisti reagirono violentemente. Per un momento sembrò che nell’aula il dibattito finisse tragicamente. L’onorevole Matteotti terminò il suo discorso tra gli urli minacciosi della maggioranza. Riprendendo il suo posto, egli disse scherzosamente ai suoi amici: “Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”. I giornali fascisti, commentando la seduta della Camera, chiamarono imperdonabile la tolleranza dimostrata dai deputati fascisti verso l’on. Matteotti. La stessa sera Mussolini disse a un crocchio di partigiani, specialisti in rappresaglie: - Se voi non foste dei vigliacchi, nessuno avrebbe mai osato pronunziare un discorso simile-”[3].
1.3. L’assassinio di Giacomo Matteotti ebbe forte e viva indignazione nel paese.
Quattro ministri (Alberto De Stefani, Luigi Federzoni, Aldo Oviglio, Giovanni Gentile) si dimisero solo tre giorni dopo, tra il 13 e il 14 giugno 2024.
Ampi settori della borghesia e dei ceti medi, che pure avevano sostenuto il fascismo, rimasero pietrificati dall’apprendere la notizia, e il 18 giugno Giovanni Giolitti scriveva una lettera a Antonio Cefaly, asserendo che: “Non avrei mai creduto che il nostro paese potesse cadere così in basso nella stima di tutto il mondo”[4].
Il 27 giugno 2024, 130 deputati dell’opposizione decisero di non partecipare più ai lavori della Camera, ritirandosi “Sull’Aventino delle loro coscienze”.
Le opposizioni, però, non riuscirono ad andare oltre la condanna morale: parimenti non intervenne il Re, né niente fece il Papa; gli stessi liberali temevano che una rivolta contro il governo fascista potesse aprire le porte alle sinistre.
Mussolini, quindi, non fece altro che prendere tempo, fino ad arrivare al giorno del 3 gennaio 1925, quando tenne alla Camera il discorso di chiusura della vicenda Matteotti.
Con assoluta arroganza e strafottenza Mussolini disse: “Dichiaro qui al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di quanto accaduto…….Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere….Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza”.
Da quella data, e con quel discorso, iniziava la dittatura.
Possiamo qui ricordare altresì le parole di Gaetano Salvemini: “Quanto lui fu ucciso, io mi sentii in parte colpevole della sua morte. Lui aveva fatto tutto il Suo dovere e per questo era stato ucciso. Io non avevo fatto il mio dovere e per questo mi avevano lasciato stare. Se tutti avessimo fatto il nostro dovere, l’Italia non sarebbe stata calpestata, disonorata da una banda di assassini.”[5]
1.4. L’antifascismo di Giacomo Matteotti, e poi il suo assassinio di 100 anni fa, e poi ancora i due processi che ne seguirono, uno negli anni 1924/26, l’altro dopo la guerra nel 1944/47, sono stati oggetto di ampi studi fra gli storici[6], e certo non sarei io in grado di aggiungere niente a quanto non sia già stato studiato e scritto.
Qualche anno fa (2020) è stato altresì ritrovato un libro bianco, scritto da Giacomo Matteotti nel periodo compreso tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923, con il quale egli, con precisione di date, di luoghi e di nomi, denunciava senza mezzi termini, e con parole chiare e semplici, tutti i misfatti fascisti, le violenze perpetuate, i feriti e i morti causati[7].
Il volume veniva dato da Giacomo Matteotti alle stampe alla fine del 1923 e circolava quasi clandestinamente a partire dal 1924 e “costituì parte di un impegno verso la difesa delle libertà democratiche che contraddistingue la vita di Matteotti e trova compimento nelle coraggiose denunce dei risultati elettorali del 1924”[8].
Quando fu assassinato, Giacomo Matteotti stava lavorando ad una ristampa corretta e aggiornata di quel volume, il quale però, evidentemente, non trovò mai la luce.
Recentemente sono stati poi ripubblicati scritti vari di Giacomo Matteotti, sempre compresi tra il 1922 e il 1924[9].
È assai interessante leggere quei documenti, che testimoniano quanto Giacomo Matteotti sia stata persona lucida, coraggiosa, assolutamente determinata a contrastare il regime che stava imponendosi con la forza: “Amante della libertà come valore e come principio di umanità. Matteotti incarna lo spirito e la testimonianza estrema della lotta per quella libertà che è tua se è anche degli altri, di quella libertà intesa come condizione umana di dignità e di rispetto”[10].
Ebbene, chi voglia approfondire la storia e la personalità di Giacomo Matteotti non può che leggere i suoi scritti ritrovati, nonché i lavori che gli storici gli hanno dedicato, anche solo in questo 2024 a 100 anni da quel tragico fatto[11].
Mia intenzione, qui, non è quella di entrare in questi aspetti, bensì quella di raccontare, direi da giurista e non da storico, la situazione della magistratura italiana in quei difficili anni, caratterizzati dal trapasso tra la democrazia liberale di inizio secolo alla nuova dittatura fascista.
E poiché anche sui rapporti tra magistratura e fascismo sono state fatte pregevoli ricerche storiche[12], la mia più modesta idea è semplicemente quella di raccontare la vita di qualche valoroso magistrato di quel periodo, e poi egualmente richiamare alcune vicende riguardanti la magistratura comprese tra il 1919 e il 1926.
A ciò sono dedicate le pagine che seguono, ed è questo il mio modesto contributo per rendere memoria e onore a Giacomo Matteotti.
2. Mauro del Giudice e l’istruttoria del primo processo per l’omicidio di Giacomo Matteotti
Il primo magistrato da non dimenticare è, a mio sommesso parere, Mauro Del Giudice.
Nato a Rodi Garganico (FG) 20 maggio 1857, fece gli studi liceali a Molfetta e poi si laureò in giurisprudenza all’Università di Napoli.
Nell’aprile del 1888 sostenne il concorso a Pretore ed arrivò primo classificato; pretore, dunque, a Cerchiara di Calabria nel 1889, giudice del Tribunale di Trani nel 1901, Presidente del Tribunale di Caltanissetta nel 1910, infine Consigliere della Corte di Appello di Roma.
Il 10 giugno 1924 Mauro Del Giudice ricopriva l’incarico di presidente della Sezione istruttoria di accusa; aveva, all’epoca, 67 anni.
Il Primo Presidente era il magistrato Donato Faggella.
Arrivato il caso Matteotti sul loro tavolo, si dice che Donato Faggella chiese a Mauro Del Giudice: “Che intendi fare?”
Mauro Del Giudice, considerata la sua età, poteva benissimo assegnare la pratica ad altro magistrato del suo ufficio, ma ritenne moralmente doveroso assumersi personalmente la responsabilità e il compito di quell’inchiesta.
Si narra che questo fu il colloquio tra i due.
Donato Fagella gli disse: “Ascolta bene quello che sto per annunciarti. Del processo che tu istruisci non rimarranno che le sole carte, però da esso deve uscire intatto l’onore della Magistratura di Roma”.
Rispose Mauro Del Giudice: “Al riguardo il mio pessimismo supera il tuo e perciò ti dico che molto probabilmente non rimarranno neppure le carte, le quali saranno fatte sparire dal regime fascista appena operato il salvataggio completo degli assassini, dei loro complici e dei mandanti. Quello che posso assicurarti, e tu ben conosci la mia dirittura morale, è che, esaurito il mio compito di istruttore, usciranno intatti l’onore della magistratura della Corte di Appello di Roma e soprattutto uscirà illibato il mio nome, l’unica ricchezza che posseggo in questa terra. Mi auguro poi che gli altri colleghi facciano altrettanto”[13].
2.1. Il 19 giugno 1924 iniziava l’istruttoria e l’idea era chiara: l’autorità giudiziaria sarebbe andata fino in fondo.
A Mauro Del Giudice veniva affiancato il sostituto Umberto Guglielmo Tancredi.
Insieme, già in quella stessa data, si recavano al carcere di Regina Coeli, ove si trovava Amerigo Dumini, nel frattempo arrestato assieme ad altri suoi sodali, in quanto indagato come esecutore materiale dell’omicidio di Giacomo Matteotti.
Amerigo Dumini trattò i due magistrati con spavalderia: “Ma loro cosa sono venuti a fare? Il Presidente Mussolini è informato di quanto loro stanno facendo?”[14].
All’interrogatorio Amerigo Dumini negò ogni responsabilità per l’accaduto.
Successivamente, ritrovata la giacca di Giacomo Matteotti su un ponte della Flaminia, Mauro Del Giudice tornava ad interrogare Amerigo Dumini.
Lo stesso Mauro Del Giudice, nella sua Cronistoria del processo Matteotti, ricorda di essersi rivolto a Americo Dumini con queste parole: “Guardi questa giacca, è quella della vostra vittima del 10 giugno, di un onesto uomo che non vi aveva fatto alcun male e che, forse, nessuno di voi conosceva di persona. Avete gettato nel più profondo dolore e nella più nera costernazione una sposa infelice e una vecchia madre che adorava il figliolo suo, e resi orfani tre innocenti bambini” [15].
Continuava Mauro Del Giudice: “Mentre gli rivolgevo queste parole lo guardavo fisso negli occhi. Sostenne impavido il mio sguardo scrutatore, senza muovere ciglio e senza mai abbassare la testa in atto di rimorso. Si limitava a rispondere: chi mai ha conosciuto questo Matteotti? Io non so se sia stato ucciso e chi lo abbia ucciso”[16].
L’attività istruttoria proseguiva con l’interrogatorio di altri indagati, quali Albino Volpi, Giuseppe Viola e Filippo Filippelli, quest’ultimo ritenuta la persona che aveva messo a disposizione del gruppo l’automobile per il sequestro di Giacomo Matteotti; e a seguito di questi primi interrogatori venivano poi messi a confronto Americo Dumini e Filippo Filippelli.
Filippo Filippelli forniva i primi elementi utili ai giudici.
Si dice che, proprio per ciò, nel corso del confronto, Americo Dumini gridò: “Bada a te, Filippelli, e alla tua famiglia. Mussolini ha a sua disposizione trecento baionette di militi fascisti, decisi a far tutto ciò che il Duce ad essi comanda e vi può distruggere”. E Filippelli: “Non ho paura di nulla di quanto tu minacci per intimidirmi. Mussolini non sarà giudicato in Italia ma all’estero, e sarà trattato come si merita”[17].
A seguito di questo confronto, e considerata la gravità delle rivelazioni fatte da Filippo Filippelli, Mauro Del Giudice, insieme a Umberto Guglielmo Tancredi, emise due mandati di cattura contro Cesare Rossi, direttore dell’ufficio stampa del Duce, e Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del partito fascista.
L’inchiesta, a questa punto, passava dagli esecutori materiali ai mandanti. E aggiungeva Mauro Del Giudice, sempre nella sua Cronistoria: “avremmo dovuto spiccare altro mandato di cattura contro Benito Mussolini, se non ci fosse stato l’ostacolo costituzionale di essere costui deputato e capo del Governo, e quindi soggetto alla giurisdizione del Senato, costituito in Alta Corte di Giustizia, perché i delitti imputategli erano stati commessi in quella sua qualità”[18].
2.2. Cesare Rossi, perduta la speranza di essere aiutato da Mussolini a varcare la frontiera con un passaporto falso, dopo una settimana di latitanza, si costituiva.
Interrogato, e convinto a quel punto di esser stato turlupinato dal suo principale, ammise che il Duce, per imporre la dittatura, aveva chiesto il suo aiuto e quello di Giovanni Marinelli al fine di creare un organismo segretissimo, la Ceka, cui aveva aderito il generale Emilio De Bono, comandante supremo della Milizia fascista e direttore generale della Polizia: “con lo scopo di atterrire i deputati d’opposizione, mediante atti di energica violenza, ossia con ferimenti, bastonate, purgate forzate di olio di ricino e, occorrendo, con l’uccisione dei suoi più pericolosi avversari, inducendo così tutti al silenzio più completo”[19].
Si pensi che Cesare Rossi, prima di arrivare a ciò, si dilungò nel tratteggiare i reati minori compiuti dai fascisti anteriormente al delitto Matteotti, e Mauro Del Giudice lo riprese invitandolo ad esporre esattamente le vicende di quel delitto senza divagare; al che Cesare Rossi rispose: “Se ella, signor Presidente, non mi lascia prima esporre minutamente i fatti avvenuti e i delitti commessi anteriormente alla sparizione del deputato Matteotti, io mi chiuderò nel silenzio e non parlerò più, giacché non so se questa notte sarò assassinato in questo stesso carcere”.
A fronte di ciò, Mauro Del Giudice consentì a Cesare Rossi di deporre integralmente, e questi riportò le parole del Duce: “Cesarino, tu devi indicarmi fra i nostri fascisti un individuo pieno di coraggio, senza scrupoli, e capace di commettere qualunque cosa gli sarà ordinato di fare. A costui bisognerà dare incarico di scegliere fra i fascisti facinorosi altre persone della stessa risma, e di costituire una banda pronta sempre ad agire in qualunque tempo e luogo d’Italia”[20].
Cesare Rossi fece il nome di Americo Dumini, e Mussolini rispose: “Lo conosco anch’io, è la persona adattissima alla bisogna”.
Vi erano, a questo punto, tutti gli elementi per procedere altresì con l’accusa di associazione a delinquere per l’intero partito fascista; dall’interrogatorio era infatti emerso che la banda guidata da Amerigo Dumini, aveva, oltre al delitto Matteotti, già eseguito alcuni attentati a parlamentari quali Amendola, Misuri e Forni, nonché aveva devastato il villino di Francesco Saverio Nitti.
Sopravvenivano, tuttavia, due ulteriori circostanze.
2.3. Esattamente:
a) due giorni dopo il mandato di cattura contro Cesare Rossi e Giovanni Marinelli, ovvero il 22 giugno 1924, Mauro Del Giudice veniva messo sotto sorveglianza, tanto che egli stesso scriveva nella sua Cronistoria: “Una cinquantina di fascisti facinorosi vennero a fare una dimostrazione sotto casa mia”.
Tra i vari episodi, si racconta che in un’occasione, informato che all’uscita principale del Palazzo di Giustizia lo attendevano gruppetti di camicie nere, Mauro Del Giudice fu costretto ad uscire da un portoncino secondario.
L’indomani si sparse addirittura la notizia che fosse morto[21].
Il clima di quel periodo veniva descritto anche da Gaetano Salvemini: “Non solo furono messe le camicie nere invece dei soldati a far la guardia a Regina Coeli, affinché chi andava e veniva capisse chi era il padrone del vapore, ma due agenti furono messi alle costole di Del Giudice e altri due in borghese alla portineria di casa. I fascisti cominciarono a far dimostrazioni sotto le sue finestre: Viva Dumini, Viva Volpi, Morte ai nemici di Mussolini. Poi vennero le scritte sui muri del Palazzo di Giustizia”[22]. E il 27 luglio 1924 il giornale L’Impero scriveva: “È inutile alludere, più o meno velatamente, a Mussolini per il delitto Matteotti. Il Duce, salvatore della Patria, non si tocca.....…chi tocca il Duce sarà polverizzato”[23].
b) In secondo luogo, considerata la piega che le indagini avevano prese, il Procuratore Capo dell’Ufficio, Vincenzo Crisafulli, trasmetteva gli atti al Senato e sostituiva Umberto Guglielmo Tancredi con il sostituto procuratore Nicodemo Del Vasto, persona che condivideva la sua posizione di prudenza omissiva nei confronti del fascismo.
Mauro Del Giudice continuava ad insiste affinché l’indagine fosse portata avanti in modo rigoroso e completo, senza omissioni e/o favori, e al fine di non trovarsi solo cercò di nuovo il sostegno di Donato Faggella, con il quale aveva preso impegno che dall’inchiesta doveva “uscire intatto l’onore della Magistratura di Roma”.
Ma dovette con dolore constatare che purtroppo nemmeno Donato Faggella stava più al suo fianco.
Si è scritto sul rapporto tra i due: “Donato Faggella, diretto superiore del magistrato incaricato di condurre le prime indagini sul delitto Matteotti, quando si cominciò a capire dove avrebbe potuto portare un’inchiesta condotta con onestà, indipendenza e nel pieno rispetto della legge nonostante il clima politico dell’epoca, si adoperò per insabbiarla”[24].
Solo pochi giorni dopo fu infatti lo stesso Donato Faggella a comunicare a Mauro Del Giudice la sua promozione a Procuratore Generale alla Corte di Appello di Catania; egli quindi doveva lasciare Roma per la Sicilia, promoveatur ut amoveatur.
2.4. Il processo Matteotti, per Mauro Del Giudice, terminava in quel momento.
Alberto Scabelloni, avvocato e giornalista dell’epoca, scrisse: “Il fascismo, togliendogli la garanzia dell’inamovibilità, lo sbalzò in Sicilia…….da quel momento la carriera di Mauro Del Giudice fu troncata e contro di lui cominciò il periodo delle persecuzioni, durato fino al crollo del fascismo”[25].
Lasciato il servizio il 20 maggio 1927, Mauro Del Giudice, dopo periodi di soggiorno a Rodi Garganico, Trani e Roma, si stabiliva a Vieste, dove abitava ininterrottamente fino al 15 luglio 1949.
“I viestani che hanno raggiunto o varcato la soglia dei sessant’anni, lo ricordano come l’Eccellenza del Giudice, o più semplicemente: Il Giudice. Alto, vestito sempre di scuro, la barba bianca, bastoncino a cui appena si appoggiava, aveva una figura che era la dignità della persona”[26].
Moriva a Roma nel 1951.
3. Lodovico Mortara e l’imperversare dei decreti legge
Il secondo ricordo che propongo è quello di Lodovico Mortara, ultimo presidente della Corte di Cassazione di Roma.
Lodovico Mortara (Mantova, 16 aprile 1855 – Roma, 1° gennaio 1937) non ha bisogno di essere presentato, in quanto è stato uno dei più grandi giuristi del secolo scorso[27].
Ricordo solo una vicenda, del 1922.
Ebbene, anche agli inizi del Novecento, secondo il noto e chiaro principio della divisione dei poteri, il compito di fare leggi spettava al Parlamento, e al Governo quello di metterle in esecuzione.
Con gli anni Venti, tuttavia, questa ripartizione entrava in crisi, e sempre più il Governo emanava atti aventi valore di legge sorpassando in questo modo l’Assemblea.
Poiché nello Statuto Albertino non vi era una norma analoga al nostro attuale art. 77 Cost., spesso i decreti leggi non venivano convertiti dal Parlamento, e alle volte nemmeno presentati allo stesso per la loro conversione.
Con l’avvento del fascismo questo metodo si rafforzava, e dati statistici indicano che negli anni compresi tra il 1915 e il 1921 i decreti legge furono 419, giustificati però dal periodo eccezionale dato dalla Grande Guerra, diminuivano fortemente nel periodo successivo durante il ministero Luigi Facta del 1922 in 103, e salivano al vertiginoso numero di 517 durante il solo primo anno del governo fascista[28].
In quel primo anno, appunto, presidente della Corte di Cassazione di Roma era Lodovico Mortara, un giurista di grande cultura e indipendenza, già ordinario di procedura civile, e già Ministro della Giustizia con il Governo Nitti.
Lodovico Mortara non sopportava l’idea che il Governo si arrogasse poteri che spettavano al Parlamento, e, avuta occasione di pronunciarsi su questo tema quale giudice, egli emanava alcune sentenze chiare e nette sui rapporti che dovevano darsi tra funzione legislativa e funzione governativa.
Faccio riferimento a tre pronunce della Corte di Cassazione di Roma, tutte del 1922, e tutte che vedevano Lodovico Mortara non solo quale Presidente della Corte bensì anche quale Presidente del collegio giudicante.
Queste pronunce sono quelle di Cass. 24 gennaio, Cass. 16 novembre e Cass. 30 dicembre 1922[29].
È importante tener conto delle date, poiché mentre la prima era con il fascismo alle porte ma non ancora al potere, le ultime due venivano pronunciate dopo la marcia su Roma, e quindi già con a capo del Governo Benito Mussolini.
Ebbene, Lodovico Mortara non aveva alcun problema a sottolineare come questo malcostume, già presente da un po’ di anni, si fosse aggravato con il fascismo.
Scriveva: “Non esiste nessuna norma costituzionale che autorizzi il Governo a investirsi in circostanze straordinarie della potestà legislativa”. Una volta accertata la “impossibilità non solo di un controllo sollecito, ma perfino di un controllo qualsiasi da parte delle due Camere sopra un grande numero di quegli arbitrari provvedimenti” è compito degli “organi supremi del potere giurisdizionale a un nuovo esame della grave questione”.
Asseriva ancora che, in effetti, in passato, i decreti legge “erano davvero emanati in circostanze eccezionali e con rigida parsimonia cosicché il sindacato parlamentare poteva essere sufficiente” ma oggi: “Il sindacato parlamentare si rileva impossibile in fatto, forse illusorio in diritto” e dunque si impongano “nuovi doveri alla magistratura, la quale, senza sostituirsi al Parlamento, non può dimenticare di essere quella fra i poteri sovrani dello Stato cui spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa”.
Il discorso era chiarissimo: il Parlamento non è più in grado di controllare il Governo, quindi questo compito spetta alla magistratura, in quanto la situazione politica ha attribuito inevitabilmente nuovi doveri alla magistratura, alla quale spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa.
Questo scriveva Lodovico Mortara, e su queste basi la Cassazione fissava questi principi: a) i decreti leggi sono atti arbitrari del Governo, eccedenti la sfera del potere esecutivo e quindi per loro stessi incostituzionali; b) l’autorità giudiziaria può esaminare se il governo abbia adempiuto alla sua promessa di presentare il decreto al Parlamento e verificare che il Parlamento abbia provveduto alla sua conversione.
Orbene, Lodovico Mortara sapeva perfettamente, non poteva non saperlo, che quelle decisioni sarebbero state invise al sopraggiunto regime, e che certo il regime non lo avrebbe premiato per quelle idee.
Ma Lodovico Mortara non esitava egualmente a pronunciare quelle sentenze, perché per lui, evidentemente, il valore delle idee, il rispetto dei principi costituzionali, e soprattutto l’indipendenza della funzione che stava esercitando, erano più alti e profondi del timore di essere punito.
Nei fatti, poi, come è noto, il r.d. 24 marzo 1923 n. 601 sopprimeva le c.d. Cassazioni regionali, tra le quali anche la Corte di Cassazione di Roma, e due mesi dopo Mussolini azzerava altresì, con decorrenza 1° novembre 1923, tutti i vertici di quelle cassazioni, e quindi Lodovico Mortara veniva rimosso dal suo incarico e collocato in pensione.
A Lodovico Mortara sarebbe succeduto nella Prima Presidenza della nuova Cassazione unica del Regno d’Italia, Mariano D’Amelio, e l’anno ancora successivo, 1924, le nuove Sezioni unite di Mariano D’Amelio avrebbero stabilito che “Il giudizio sulla valutazione della necessità urgente e improrogabile di emanare un decreto legge è demandata esclusivamente al potere esecutivo, e non può essere oggetto di sindacato da parte dell’autorità giudiziaria”[30].
4. Vincenzo Chieppa, l’associazionismo giudiziario e il giornale “La Giustizia Italiana”
Il terzo ricordo va a Vincenzo Chieppa.
Nato ad Andria il 22 luglio 1890, entrava in magistratura nel 1914 e svolgeva la sua carriera quasi interamente a Roma; veniva dispensato dal servizio il 31 dicembre 1926 in base all’art. 1 della legge 24 dicembre 1925 n. 2300 in quanto antifascista; a seguito della caduta del regime, ovvero nell’estate del 1944, chiedeva e otteneva la reintegrazione in magistratura in forza del sopravvenuto d. l. luog. 24 agosto 1944 n. 183, Riassunzione in servizio di magistrati dell’ordine giudiziario dispensati per motivi politici o razziali; veniva così assegnato in soprannumero presso la Corte di Cassazione e collocato definitivamente a riposo il 12 luglio del 1960.[31]
Nell’estate del 1960 Ministro della Giustizia era Guido Gonella; egli scriveva nella lettera di congedo dalla magistratura di Vincenzo Chieppa: “fin dal 1924, allorché fu chiamato a far parte del Consiglio Centrale dell’Associazione Generale fra i Magistrati Italiani, Ella partecipò attivamente alla vita dell’Associazione, svolgendo quell’attività altamente meritoria che solo nel 1944, allorché fu riammesso in servizio, da cui era stato dispensato per motivi politici nel 1926, poté riprendere con immutabile fervore; ella ha manifestato a chiunque ed in ogni circostanza la sua tenace avversione al Regime”[32].
4.1. La storia di Vincenzo Chieppa è fortemente intrecciata con quella dell’associazionismo giudiziario[33].
Ricordo che la prima Associazione generale fra i Magistrati d’Italia (AGMI) fu fondata a Milano il 13 giugno 1909[34].
Nel 1911 si tenne a Roma il primo “Congresso Nazionale della Magistratura” mentre già dal settembre del 1909 l’associazione iniziava a pubblicare e a diffondere le proprie idee attraverso un proprio organo di stampa: “La magistratura”.
Con l’affermarsi del fascismo l’AGMI si vide costretta ad un nuovo corso, che fu interpretato da Vincenzo Chieppa, eletto segretario generale della stessa nel 1923, carica che mantenne fino al momento dello scioglimento della associazione avvenuta il 21 dicembre 1925.
Ha scritto in proposito di lui lo studioso F. Venturini: “La gestione di Chieppa, condotta con coraggio e coerenza, si caratterizzò per un ritorno alla difesa dei valori classici dell’indipendenza e dell’autonomia del potere giudiziario dalle contese politiche. Riemerse, in quel momento, una visione tecnica del giudice, senza cedimenti né a prospettive di mediazione degli interessi sociali né a ipotesi di utilizzazione dell’organizzazione di categoria per trasformare il patrimonio culturale e il sistema di valori della magistratura”[35].
A seguito del rifiuto dei dirigenti dell'AGMI di trasformare l'associazione in sindacato fascista, l'assemblea generale tenuta il 21 dicembre 1925 deliberava lo scioglimento dell'AGMI. L'ultimo numero de "La magistratura", datato 15 gennaio 1926, pubblicava un editoriale non firmato dal titolo "L'idea che non muore", da tutti attribuito a Vincenzo Chieppa: "Forse con un po' più di comprensione - come eufemisticamente suol dirsi - non ci sarebbe stato impossibile organizzarsi una piccola vita senza gravi dilemmi e senza rischi, una piccola vita soffusa di tepide aurette, al sicuro dalle intemperie e protetta dalla nobiltà di qualche satrapia... La mezzafede non è il nostro forte: la 'vita a comodo' è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire"[36].
4.2. Fin qui si tratta di storia nota, riportata in ogni scritto dedicato all’associazionismo giudiziario di quegli anni.
Mi sia però consentito ricordare una vicenda ulteriore, in quanto, in verità, la storia del giornale "La magistratura" non terminava con quel numero del 15 gennaio 1926, visto che, seppur già sciolta l’AGMI, Vincenzo Chieppa, insieme ad un certo numero di altri magistrati, apriva, in tempo immediatamente successivo, un nuovo giornale, che prendeva il nome di “La giustizia italiana”[37].
L’esistenza di questo giornale è menzionata anche nel regio decreto ministeriale del 16 dicembre 1926, con il quale Vincenzo Chieppa e gli altri venivano destituiti dall’ordine giudiziario, e ove si legge infatti, in motivazione, quale capo di incolpazione: “continuando tra l’altro: la pubblicazione del giornale sotto il nuovo titolo “La Giustizia Italiana” da essi ugualmente redatto”.
Preliminarmente, non v’è bisogno sottolinei cosa potesse rappresentare il 1926 per chi ancora anelasse alla libertà e alla democrazia, anno che diede formalmente inizio alla dittatura fascista, con l’emanazione dei provvedimenti per la difesa dello Stato e l’istituzione del nuovo Tribunale speciale per i reati c.d. politici[38].
Vincenzo Chieppa, insieme ad altri magistrati, aveva egualmente il coraggio e la forza di aprire questo nuovo giornale “La giustizia italiana”, e il primo numero usciva già il 12 febbraio 1926, ovvero a meno di un mese dall’ultimo numero de La Magistratura.
Si trattava di un giornale di 4 pagine complessive, che conteneva articoli quasi sempre non sottoscritti da alcuno personalmente, non v’era in prima pagina l’indicazione di un direttore responsabile, ma solo si leggeva in alto a sinistra: “Direzione e amministrazione in Roma, Via Bocca di Leone, 26”; il direttore era indicato solo in 4° pagina, ed era Piero Giubilosi.
La cadenza del giornale era indicata come settimanale, tuttavia le uscite avvenivano in modo molto elastico, probabilmente per le stesse difficoltà della pubblicazione: al numero del 12 febbraio 1926 ne seguiva un successivo alla data del 20 febbraio, un terzo al 26 febbraio, poi al 13 marzo, 20 marzo, 27 marzo, ecc……..
Nel giornale del 12 febbraio 1926 si legge uno dei pochissimi articoli con firma, sottoscritto dal direttore Pietro Gubitosi, dal titolo assai significativo Dall’alba al tramonto.
Si legge in esso: “Il 3 gennaio 1907 segna una data memoranda nella storia della Magistratura italiana. Si tenne il primo convegno per stabilire la data del congresso dei magistrati, dal quale sarebbe dovuta sorgere l’Associazione……Pochissimi degli iniziatori del movimento si trovavano ancora a far parte dell’Associazione addì 21 dicembre 1925, quando l’Assemblea ne deliberò lo scioglimento in obbedienza alla legge sui sindacati, di prossima promulgazione. Fra i pochissimi ero io e fui anche presente all’ultima plenaria adunanza. Volli che il ricordo del nascere e del morire dell’Associazione fosse accompagnato dal senso di triste soddisfazione che prova chi, con lo schianto nel cuore, chiude le palpebre del figlio che il fato inesorabilmente gli rapisce. Molti certamente hanno provato eguale dolore; tutti i soci hanno con tristezza visto scomparire la loro Associazione. Ed io sono convinto che gli stessi avversari, coloro stessi che combatterono l’associazione, a conti fatti non abbiano da essere molto contenti dell’opera loro. La fine virile del sodalizio sarà per gli avversari ragione forse di rammarico, ma fa l’orgoglio ed il conforto di quanti gli dedicarono l’opera e l’adesione devota”.
E poi, sempre nel giornale del 12 febbraio 1926, nel titolo di fondo “Capisaldi”, si legge altresì: “Bisogna persuadersi che un paese ha sempre la giustizia che si merita. Non esistono, non sono mai esistiti in questo mondo, uomini di governo i quali abbiano messo in cima alle loro aspirazioni l’indipendenza della giustizia. I più saggi fra essi han sempre pensato e pensano che, siccome la giustizia perfetta è un ideale irrealizzabile, la meno imperfetta fra tutte è quella che si amministra sotto le loro direttive. E gli argomenti dei meno saggi sono anche più spicci”.
4.3. Non è certo inutile ricordare qui qualcosa di quanto fu scritto in quel giornale nel difficilissimo anno del 1926.
Ricorderei, prima di tutto, il tema della pari dignità dei giudici di ogni ordine e grado, nonché il tema connesso dei rischi che possono darsi nell’immaginare una magistratura strutturata in modo gerarchico.
Si tratta di un tema di particolare attualità, considerato che oggi v’è un disegno di legge di riforma costituzionale che vuole sopprime l’art. 107, 3° comma Cost. nella parte in cui sancisce che: “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”.
Nel numero del 20 febbraio 1926 si legge al riguardo: “Quando è in gioco la vita della giustizia, ogni interesse per noi è sacro; non c’è allora parvità di materia e le miserie del Pretore di Roccacannuccia ci toccano quanto le vicende della Corte di Cassazione”.
Il 10 aprile veniva poi pubblicato Scrutini con anticipazione, dedicato proprio alla pari dignità dei giudici, divisi solo per diversità di funzioni.
Si scriveva in quel pezzo: “Vien fatto di domandare se non sia ancor miglior partito, in una prossima riforma, accogliere il principio della equiparazione dei gradi di giudice e consigliere di appello, ma il guardasigilli On. Rocco non pare che sia di questo avviso. Si confida tuttavia che egli persista nell’idea di bandire per sempre qualsiasi forma di arrivismo ed ogni ricordo di giochi ben riusciti o voli saputi spiccare a tempo da favoriti e privilegiati…Quando un sistema di promozione è soppresso perché ha dato cattiva prova, giustizia vuole che ne siano fatte cessare al più presto possibile le conseguenze”.
E sul tema della dignità e della qualità della giustizia i magistrati de La giustizia italiana, cercavano, trattando altro aspetto di assoluta attualità, il sostegno dell’avvocatura.
Ricordo gli articoli apparsi sui giornali del 20 e del 26 febbraio: Nel giornale del 20 febbraio: “Perché qual è il maggior interesse dell’ordine forense, se non quello di poter contare su giudici pienamente degni del loro posto, su Tribunali veramente liberi nell’assoluzione del loro compito? Sono gli avvocati che hanno il dovere e l’interesse sacrosanto di farsene paladini”. Ed in quello del 26 febbraio: “Quando il costume giudiziario divenisse abietto, e gli uomini chiamati ad amministrare la giustizia fossero avanzi di umanità in liquidazione, non ci sarebbero più leggi ed ordinamenti che potrebbero garantire l’amministrazione della giustizia; e l’ordine forense sarebbe condannato a convertirsi in una Corporazione di mediatori e di trafficanti cui la dottrina giuridica sarebbe di troppo ed il buon costume professionale ragione d’invincibile inferiorità”.
4.4. Altro delicatissimo tema, in un anno quale il 1926, quello dell’indipendenza della magistratura.
Nel numero del 10 maggio si trova un articolo dal titolo “La sola garanzia infallibile”.
Di nuovo si legge: “La magistratura, da quindici anni, va invocando in Italia un efficace sistema di garanzie che faccia dell’indipendenza della magistratura non un principio astratto ma una realtà effettiva…La giustizia perfetta non esiste in alcun paese. Dappertutto può avvenire, in qualche caso, che i governi facciano sentire la propria influenza sulla magistratura. L’essenziale è che fra magistratura e potere esecutivo non si costituisca un vincolo di ordinaria dipendenza. Or non c’è che una garanzia veramente infallibile contro la regola dell’asservimento giudiziario, ed è il controllo della pubblica opinione. Ove questa sonnecchia o è distratta da meno nobili preoccupazioni, l’indipendenza della giustizia può essere sì l’opera eroica di una categoria di cittadini, ma non sarà mai la regola sicura per tutti”.
Sempre sul tema centrale dell’indipendenza della magistratura, nel giornale del 2 settembre si trova un articolo dal chiaro titolo: “L’assurda indipendenza della magistratura”, ovvero si discute dell’opinione dei governanti, i quali ritengono assurda la stessa idea che la magistratura possa essere indipendente dal loro potere.
Si legge: “Dobbiamo dire la verità? A noi non dispiace questo brusco denudamento della vita giudiziaria. No, non saranno proprio gli assertori di una giustizia indipendente a dolersi che questa indipendenza venga proclamata un assurdo e non solo in teoria. Al punto in cui siamo giunti ad ogni menzogna pietosa è preferibile la verità più cruda, comunque possa essere dolorosa. Bisogna talvolta aver toccato il fondo dell’umana bassezza per sentire lo stimolo divino della redenzione”.
4.5. Che dire di un giornale che nel 1926 discute ancora di indipendenza della magistratura e si batte per evitare la gerarchizzazione del corpo giudiziario?
Beh, il giornale non va male, evidentemente nel 1926 v’erano ancora persone interessate alla giustizia; così, sempre nel numero del 10 maggio si legge: “In poco tempo la Giustizia italiana ha avuto la fortuna di raccogliere intorno a sé un piccolo numero di assidui collaboratori d’ogni parte d’Italia, ai quali vanno la nostra gratitudine ed il nostro saluto più cordiale”. E il giornale avvertiva tutti circa il proprio spirito: “avversione per tutte quelle banalità ond’è purtroppo infarcito il giornalismo settimanale: soffietti, adulazioni, pettegolezzi e miserie simili. Per elogiare un uomo od una iniziativa, e tanto meno poi per criticarli, non ci sembrano indispensabili goffe riverenze e dolciastre propiziazioni”.
Nel Giornale del 7 ottobre, l’articolo di fondo è intitolato “Memento!”, cioè: “I lettori possono essere sicuri che i redattori continueranno a non lesinare i loro sacrifici affinché il mondo giudiziario abbia in queste colonne una sua voce sempre più degna. Potranno essere sicuri di una cosa soprattutto: che la nostra voce non sarà mai partigiana né servile e che qui un solo interesse è sacro: quello della giustizia”.
Tra il serio e il faceto, poi, si scriveva anche sul revisionismo storico dell’era fascista appena iniziata.
La giustizia italiana se la prendeva, ad esempio, nel numero del 22 maggio, con il prof. Vincenzo Manzini, che aveva riaperto il processo a Girolamo Savonarola.
L’articolo, con tono scherzoso, diceva che a niente erano valsi a favore del frate i giudizi lusinghieri di Santa Caterina dei Ricci, Nicolò Machiavelli, Sandro Botticelli, San Filippo Neri, Francesco Guicciardini.
Il prof. Manzini aveva così sentenziato: “Girolamo Savonarola fu un frataccio sedizioso, le sue prediche sproloqui diretti a fini utilitari, tanto vero che, all’atto dell’arresto, gli fu trovata addosso una somma di denaro di cui non seppe giustificare la provenienza”.
A commento si aggiungeva: “Si salvi chi può signori della storia! Dante Alighieri, Alessandro Manzoni, Napoleone Buonaparte, Benvenuti Cellini, Raffaello Sanzio……..pensate ai casi vostri. Il prof. Manzini è all’opera, il prof. Manzini non scherza”.
4.6. Ed ancora, nel numero del 21 ottobre, si trovano osservazioni critiche circa l’incidenza della politica sulla giustizia in Germania; forse la Germania già faceva paura, o forse, esponendo i difetti della Germania, si intendeva indirettamente sollevare pari critiche al sistema italiano.
Si legge in quelle pagine: “E si potrebbero citare esempi su esempi di questa deplorevole jugulazione della giustizia alle esigenze dei partiti, i quali, fra tutti i partiti dei grandi paesi europei, sono forse i più settari, faziosi e violenti. Gli assassini di uomini politici repubblicani sono spesso irreperibili, e comunque i loro giudici sono pieni di clemenza. Non è stata ancora dimenticata la conclusione pietosissima del processo contro gli aggressori di Harden. E sono all’ordine del giorno i rigori della giustizia contro giornalisti e scrittori repubblicani in nome di una legge elasticissima come quella dell’ordine morale da custodire. Un giornalista è stato recentemente condannato a 200 marchi (oro) di multa per offesa a Dio, e la sua colpa si riduceva ad una antica satira sulla concezione che i razzisti si son formata della storia della creazione. Sotto la stessa imputazione sono stati condannati il poeta Zeckmayer, il caricaturista Gross, lo scrittore Pecker, ecc…. La conclusione è chiara. Quando la magistratura si fa milizia di un partito politico, la parola giustizia perde ogni significato nella vita di un paese, qualunque ne sia il grado di ricchezza e di civiltà”.
L’ultimo numero, che chiude l’esperienza de La giustizia italiana, è del 29 ottobre, e in esso non si trova niente di particolare: l’articolo di fondo è dedicato alle riforme giudiziarie della Francia, in Note e notizie si lamenta la vacanza dei posti nell’organico, poi v’è qualcosa sulla legge e il regolamento delle professioni forensi, e poi ancora, direi, nient’altro.
4.7. A fine 1926 il Governo fascista, con il ministro guardasigilli Alfredo Rocco, interveniva di nuovo, e definitivamente, contro questi magistrati, tra i quali, direi in primo piano, sempre figurava il giudice Vincenzo Chieppa.
Faccio riferimento al Regio decreto 16 dicembre 1926, che ritengo interessante riportare qui per intero, con il quale Vincenzo Chieppa ed altri suoi colleghi venivano destituiti dall’ordine giudiziario.
Si legge in tale decreto: “Ritenuto che il Consigliere della Corte di Cassazione Saverio Brigante, il Sostituto Procuratore Generale di Corte di Appello Roberto Cirillo, i giudici Occhiuto Filippo Alfredo e Chieppa Vincenzo ed il Sostituto Procuratore del Re Macaluso Giovanni sono stati i principali e più attivi dirigenti dell’Associazione Generale tra I Magistrati Italiani; Ritenuto che ad opera di essi l’Associazione assunse un indirizzo antistatale, sovvertitore della disciplina e della dignità dell’Ordine giudiziario, che fu propagandato a mezzo del periodico di classe “La Magistratura” dai medesimi redatto e pubblicato; Ritenuto che tale indirizzo sostanzialmente venne mantenuto anche dopo l’avvento del Governo Nazionale, che essi avversarono criticandone astiosamente gli atti, nonché facendo insinuazioni ed affermazioni di pretese ingiustizie e persecuzioni personali tanto da incorrere in reiterate diffide ufficiali; Ritenuto che solo per normale ossequio alla Legge sui sindacati essi deliberarono lo scioglimento dell’Associazione, la soppressione del periodico e la liquidazione della Cooperativa (a suo tempo creata per fornire stabile sede all’Associazione), ma in sostanza mantennero saldi i vincoli associativi mediante atti simulati continuando, tra l’altro: la pubblicazione del giornale sotto il nuovo titolo “La Giustizia Italiana” da essi ugualmente redatto, che si ostinò nell’avversione al Governo sino ad incorrere nel novembre scorso, dopo reiterate diffide, nella soppressione ordinata dall’autorità politica; Ritenuto che per le manifestazioni compiute i magistrati suddetti non offrono garanzie di un fedele adempimento nei loro doveri di ufficio e si sono posti in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo; Viste le giustificazioni presentate dagli interessati; Visto l’art. I° della legge 24 dicembre 1925 n. 2300; Sentito il Consiglio dei Ministri; Sulla proposta del Nostro Guardasigilli Ministro Segretario di Stato per la Giustizia e gli Affari di Culto; Abbiamo decretato e decretiamo Chieppa Vincenzo – giudice – ed altri sono dispensati dal servizio, a decorrere dal 31 dicembre 1926, ai sensi dell’art. 1° della Legge 24 dicembre 1925 n. 2300”.
5. Altre vicende giudiziarie di quel periodo: il processo a Benito Mussolini per costituzione di banda armata, i magistrati artefici del processo di Chieti, il coinvolgimento della magistratura ordinaria nel Tribunale Speciale per la difesa dello Stato
Ma i giudici non furono solo questi durante il fascismo, e altre vicende di quegli anni meritano di essere ricordate.
5.1. Una prima è quella riassunta da Giancarlo Scarpati in uno dei suoi saggi sulla storia della magistratura.[39]
Questo il fatto.
È noto che il movimento fascista si dotò, già prima della marcia su Roma, di una milizia, ovvero di volontari armati che commettevano ogni genere di violenza e intimidivano, minacciavano, e in alcuni casi uccidevano, gli avversari politici.
Alla fine dell’anno 1919, nella sede della Casa degli Arditi, venivano trovate armi e munizioni, e nella cassaforte di Mussolini, nella sede del Popolo d’Italia, venivano rinvenute 13 rivoltelle.
Si apriva così un processo per banda armata, che portò all’arresto immediato dello stesso Mussolini e di altri suoi sodali, tra i quali Ferruccio Vecchi e Tommaso Marinetti, che già avevano preso parte, a Milano, all’incendio dell’”Avanti”, nonché di Albino Volpi, poi imputato e condannato per l’omicidio di Giacomo Matteotti.
Si dice che Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, telefonò al Presidente del Consiglio dei Ministri Saverio Nitti, segnalandogli che l’arresto di Benito Mussolini poteva essere considerato dall’opinione pubblica un regalo ai socialisti.
Saverio Nitti interveniva allora presso l’autorità giudiziaria e faceva sapere che, secondo lui, se su Mussolini non pendevano gravissime accuse, lo stesso doveva essere liberato.
La magistratura provvedeva così all’immediata scarcerazione di Mussolini.
Successivamente, il Questore di Milano Giovanni Gasti inoltrava alla Procura del Re un’articolata e documentata denuncia nella quale si ipotizzava a carico degli imputati non più un reato pretorile bensì un delitto di costituzione di un corpo armato contro i poteri dello Stato.
Si asseriva che all’interno del Fasci di combattimento milanesi si era formata in effetti una milizia gerarchicamente organizzata, con ufficiali affluiti dal comando militare di Fiume, pronta a ricorrere all’uso delle armi.
La procura del Re, a questo punto, inviava il fascicolo alla Procura Generale, ma il magistrato incaricato, invece di procedere, restava incerto e rimaneva in attesa degli eventi.
Gli eventi successivi però si palesarono subito chiari: uno degli imputati, Benedetto Vecchi, aggrediva il direttore dell’”Avanti”; a Roma i fascisti bruciavano la sede; e Mussolini rivendicava il tutto in un pubblico discorso tenuto a Pola: “abbiamo incendiato l’Avanti di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali; abbiamo incendiato la casa croata a Trieste, l’abbiamo incendiata a Roma”[40].
Gli elementi per accelerare il processo vi erano quindi tutti in abbondanza; tuttavia quella denuncia non veniva incrementata con i fatti successivi, né sul tavolo del magistrato arrivavano ulteriori rapporti da parte della Polizia di Stato.
Si giungeva, così, al novembre del 1920, con una situazione politica cambiata, molto più favorevole al movimento fascista; e in quel contesto Vincenzo Manzini, il penalista più autorevole del periodo, scovava un articolo del codice penale mai prima applicato, ovvero l’art. 254 c.p., in base al quale, e secondo la sua opinione: “se si costituisce senza autorizzazione un corpo di volontari per la tutela di qualche bene giuridico minacciato da pubblici disordini, esso non può considerarsi come corpo armato diretto a commettere reati solo perché, nell’attuazione del suo programma, sia prevista la possibilità ch’esso incorra in qualche reato”[41].
A questo punto, la Procura di Milano, il 14 novembre 1920, chiedeva alla sezione istruttoria di rinviare a giudizio Mussolini e gli altri imputati non già per aver costituito un corpo armato contro i poteri dello Stato, bensì per aver costituito una specie di guardia civica senza licenza.
Il processo, tuttavia, subiva, anche in questa sua forma ridotta, un nuovo stallo.
Nella primavera del 1921, infatti, 35 fascisti entravano in Parlamento, e tra questi Benito Mussolini.
A questo punto il processo si bloccava nei suoi confronti in quanto deputato.
I magistrati avrebbero però potuto stralciare la sua posizione e processare gli altri imputati, ma questa scelta non fu fatta, e tutto il processo rimase invece sospeso in attesa di una autorizzazione a procedere che non arrivò mai.
Dopo la marcia su Roma, uno dei primi atti del Governo fu quello di promuovere un’amnistia per i reati commessi “a fini nazionali”, e tali andavano considerati, ovviamente, tutti quelli compiuti dagli squadristi nei confronti dei loro avversari politici.
Così, ancora, scrive Giancarlo Scarpari: “Questo provvedimento reca la data del 22 gennaio 1922, due giorni dopo la Procura di Milano chiede l’applicazione del beneficio, cancella, sbarrando manualmente, la precedente richiesta di rinvio a giudizio e ne formula una seconda con la quale chiede l’improcedibilità dell’azione penale, e la Sezione Istruttoria prontamente si adegua, ordinando anche la restituzione delle 13 rivoltelle a Benito Mussolini”[42].
5.2. Sul processo svoltosi a Chieti esiste ampia letteratura, dal che non avrebbe proprio senso che io mi ci soffermi in questa sede[43].
Mi limito solo a ricordare i due magistrati che ne furono protagonisti, Giuseppe Francesco Danza, presidente del collegio giudicante, e Alberto Salucci, procuratore d’accusa.
Ricordo, ancora e preliminarmente, che il processo agli assassini di Giacomo Matteotti fu trasferito da Roma nella tranquilla provincia di Chieti a seguito di un provvedimento della nuova Corte di Cassazione sotto la Presidenza di Mariano D’Amelio. Esattamente, il 1° dicembre 1925 la sezione d’accusa del Tribunale di Roma si limitava a rinviare a giudizio per omicidio preterintenzionale i sequestratori di Giacomo Matteotti, e il 21 dicembre 1925, su richiesta della Procura Generale della Corte di Appello di Roma, la prima sezione penale della Cassazione trasferiva, accogliendo l’istanza, il processo da Roma a Chieti per “gravi motivi di sicurezza pubblica”.
a) Presidente dell’Assise fu Giuseppe Francesco Danza, consigliere della Corte di Appello dell’Aquila, tra i primi magistrati ad iscriversi al partito nazionale fascista; in una sua scheda biografica si leggeva che egli aveva “la pronta comprensione del nuovo ordinamento che il pensiero fascista avrebbe impresso alle tendenze e alle costruzioni del diritto”[44].
Lo stesso imputato principale del processo, Amerigo Dumini, ebbe a dire del Presidente che: “Se io sono stato condannato a quattro anni di prigione per il delitto Matteotti, il Presidente avrebbe dovuto essere condannato a trenta!”[45].
Sull’andamento del processo tenuto dal Presidente il giornale Il Popolo d’Italia del 21 marzo 1926 scriveva: “Bene dunque ha operato il Presidente dell’Assisi nell’imprimere alle sedute uno stile sollecito che si può senz’altro qualificare fascista”[46].
La vedova di Giacomo Matteotti, in questo clima, rinunciava alla costituzione di parte civile scrivendo al Presidente: “Ciò che oggi ne rimane (del processo) non è più che l’ombra vana. Non avevo rancori da esprimere, né vendette da invocare: volevo solo giustizia. Gli uomini me l’hanno negata, l’avrò dalla storia e da Dio”[47].
b) Procuratore Generale di quel processo fu Alberto Salucci.
Di particolare imbarazzo richiamare alcuni passi della sua requisitoria, chiaramente ispirata alle direttive impartite dal fascismo.
Egli esortò dicendo di: “risparmiare le lacrime e i fiori sulla tomba dello scomparso, dal momento che troppe false lacrime e troppo dimostrativi fiori sono stati sparsi sulla sua tomba”; gli imputati furono presentati dal Procuratore generale: “combattenti che entusiasti offrirono la loro vita per il bene della Nazione (avverso) il dilagare del sovversivismo allora imperante”; mentre Giacomo Matteotti “fu uno di coloro che osteggiarono o che non diedero il loro consenso e il conforto della loro azione e della loro parola all’Italia che si apprestava nel suo duro cimento e fu uno di coloro che sabotarono la nostra vittoria".
Il Procuratore escluse nel delitto ogni premeditazione degli imputati asserendo inoltre: “Gli imputati non avevanointenzione di uccidere ma i fatti andarono oltre quella che era la loro intenzione poiché il deputato oppose un’ostinata resistenza, che costituì la ragione della sua fine”.
Riferendosi al principale difensore degli imputati, l’avv. on. Roberto Farinacci, al tempo stesso segretario del partito nazionale fascista, disse: “Difensore egregio, on. Farinacci, voi avete avuto l’ambito onore di essere qui, in una toga lucente donatavi dal fiore del femminismo fascinatore di Chieti: che questa toga immunizzi anche voi”. E poi ancora, sempre riferendosi a Giacomo Matteotti: “Il Duce ebbe a dire, in un suo discorso, che nessun peggiore suo nemico avrebbe potuto escogitare cosa tanta diabolica nefanda. Sappiatelo voi, ricordatelo o giurati, nel momento supremo del vostro raccoglimento”[48].
c) Ricordo altresì che parimenti fascista fu la giuria popolare, pilotata dal Prefetto di Chieti Damiano Cottalasso; questi il 16 marzo 1926 truccava il sorteggio, svoltosi a porte chiuse, e comunicava soddisfatto l’esito del suo lavoro al Ministro Luigi Federzoni: “La giuria è ottima. Ho fatto riservatissime indagini”[49].
d) Infine da ricordare che, ovviamente, il comportamento tenuto dai due magistrati gioverà alla loro carriera.
Giuseppe Francesco Danza verrà chiamato al Ministero quale direttore dell’Ufficio studi legislativi e nominato il 29 marzo 1928 consigliere di Cassazione “per merito distinto”; il 23 gennaio 1934 sarà senatore, e alla sua morte, sopraggiunta il 25 febbraio 1938, il presidente del senato Luigi Federzoni onorerà: “la nobile figura del camerata, il magistrato integerrimo, il fascista di antica fede, il giurista dotto e acuto”[50].
Alberto Salucci sarà assegnato nel luglio del 1927 alla Procura generale della Corte di Appello dell’Aquila; presiederà il Tribunale delle acque pubbliche dal febbraio del 1929 al dicembre del 1931, quando diventerà procuratore generale della Corte di Appello di Roma e procuratore generale onorario della Corte di Cassazione; verrà nominato senatore nell’aprile del 1934[51].
5.3. Una terza vicenda che merita di non essere dimentica è quella della trasmigrazione di un certo numero di magistrati ordinari al nuovo Tribunale per la difesa dello Stato istituito con legge 25 novembre 1926 n. 2008 per la repressione dei c.d. reati politici.
Un importante contributo a questo tema è stato dato da Leonardo Pompeo D’Alessandro, Una presenza scomoda: i magistrati del Tribunale speciale nella transizione democratica[52].
È in primo luogo interessante avere contezza della composizione di detto Tribunale: 77 componenti provenivano dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale; 37 appartenevano all’Arma del Carabinieri, ma 17 furono anche i magistrati che andarono a far parte di quella giurisdizione speciale negli anni compresi tra il 1928 e il 1943; ciò fu possibile grazie alle successive leggi 1 marzo 1928 n. 380 e 27 settembre 1928 n. 2209, che consentirono, appunto, l’ingresso dei magistrati ordinari nel Tribunale per la sicurezza dello Stato, e ciò sia nelle vesti di procuratori inquirenti, sia in quella di giudici istruttori e relatori.
Leonardo Pompeo D’Alessandro fa i nomi di questi magistrati, sfruttando studi storici in materia[53]; vale la pena ricordarli anche in questo contesto: Leonida Albanese, Giuseppe Calzetti, Enrico Capotorti, Ugo Cominelli, Massimo Dessì, Demetrio Forlenza, Giuseppe Giliberti, Francesco Iannitti Piromallo, Michele Isgrò, Giuseppe Montalto, Mauro Montesano, Roberto Orrù, Francesco Polito De Rosa, Luberto Ramacci, Giovanni Santoro, Antonio Scerni, Fernando Verna[54].
La cosa grave è che mentre i componenti della Milizia e dei Carabinieri erano normalmente destinati al Tribunale Speciale quali “comandati”, ovvero inviati a tale incarico d’ufficio e senza una precisa loro volontà, i magistrati ordinari venivano reclutati in piena libertà, e quindi accedevano al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato su domanda, evidentemente per fare carriera e ingraziarsi il regime fascista: “La loro fu una scelta consapevole e meditata”[55].
Peraltro, il numero indicato di 17 va considerato per difetto, poiché, in verità, molti magistrati ordinari chiesero di passare al Tribunale Speciale e le loro domande non furono accolte semplicemente perché l’organico non lo consentiva.
Ed è parimenti certo che la magistratura ordinaria considerò del tutto legittimo tale Tribunale, ed anzi addirittura prestigioso, e conferma di ciò la ricaviamo dalla testimonianza di un magistrato ordinario presso quel Tribunale, Giuseppe Montalto.
Questi, infatti, messo sotto processo dall’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo nel 1945, si difese ricordando come nella magistratura, nessuno avesse mai “dubitato della formale e sostanziale legalità di quell’organo giudiziario……oggi la critica sì, è assai facile, ma quanti magistrati e non magistrati hanno viste deluse, per esaurimento dei posti di organico, le loro speranze di essere destinati al Tribunale speciale, e quante lodi, orali e scritte, anche da parte di alti magistrati e avvocati, per il funzionamento di esso e di approvazione della sua giurisdizione”[56].
Non sarebbe corretto, pertanto, ritenere che la magistratura ordinaria rimase indenne dagli abusi giudiziari del fascismo, poiché affidati ad un Tribunale Speciale; al contrario numerosi magistrati ordinari presero parte in quella giurisdizione, e molti fecero domanda per prenderne parte senza tuttavia riuscirci.
Scrive sempre D’Alessandro: “Non solo i magistrati ordinari che avevano operato nel Tribunale speciale erano stati numerosi, ma avevano anche ricoperto un ruolo di primo piano nella gestione dei procedimenti”[57].
Dopo la guerra, il d. lgs. lgt. 27 luglio 1944 n. 159 istituiva un’Alta Corte per le sanzioni contro il fascismo, e furono così processati taluni ex membri del Tribunale speciale.
Il 20 agosto 1944 il giornale Il Popolo, intitolava un articolo Quelli del Tribunale speciale, e dette la notizia che diciotto alti magistrati erano stati sospesi dal loro ufficio per aver sostenuto attivamente la politica del fascismo, e, tra essi, sette per aver fatto parte del Tribunale speciale; tra i magistrati coinvolti nel Tribunale speciale i consiglieri di Cassazione Michele Isgrò e Giuseppe Montalto, il consigliere d’appello Enrico Capotorti, i sostituti procuratori generali Francesco Polito De Rosa e Giovanni Santoro, i sostituti procuratori Giuseppe Calzetti e Iannitti Piromallo.
6. Il volume: A S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia
Menzione a parte merita infine la pubblicazione di un volume titolato: A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia[58].
Si tratta di un volume avente ad oggetto pensieri di devozione al regime fascista, donato a Benito Mussolini da oltre 700 Pretori d’Italia, in una cerimonia solenne tenutosi a Palazzo Chigi il 15 marzo 1926, volume contenente altresì una lettera del Procuratore del Re di Bari Tommaso Bianco anteposta all’epistolario del Pretori.
È un momento di storia della magistratura italiana che non può essere tralasciato.
6.1. Il libro, in primo luogo, contiene una dedica, preparata tempo prima rispetto al volume, con al lato la data della dedica stessa: e la data è quella del 5 gennaio 1925; sia consentito ricordare, pertanto, che la dedica è posteriore di soli due giorni al discorso che Benito Mussolini tenne alla Camera il 3 gennaio 1925, rivendicando a sé e al fascismo l’omicidio di Giacomo Matteotti.
La dedica è così congegnata: “A Te, o Benito, queste pagine che racchiudono il canto pastorale dei Pretori d’Italia. Essi ebbero ed hanno tutt’ora palpiti per te come per la patria, perché di questa tu sei incarnazione, simbolo vivente. Avrà l’Italia nell’avvenire il vate che celebrerà le tue gesta e l’arte, con fremiti raffigurerà il tuo sembiante. A noi presenti la umiltà del silenzio, ma anche la fortuna di averti visto vivente”[59].
6.2. L’idea di raccogliere la solidarietà dei Pretori d’Italia per il duce veniva ad un certo Nicola Pende, Pretore di Acquaviva delle Fonti.
Egli, in data 11 novembre 1925, stendeva un “Appello ai colleghi d’Italia”, asserendo quanto segue: “Colleghi d’Italia, vi farei ingiuria se dovessi a voi enunciare argomenti. Abbiamo compreso la figura del grande condottiero e legislatore, che ci governa, perché in noi è la conoscenza retta della necessità, della bontà delle nuove leggi…..quando i nemici di Mussolini vorranno rappresentarlo come un dittatore, tale figura, affermiamo, potrà apparire un orrore agli ignoranti, ma per noi è altezza raggiunta, palingenesi di un popolo…..Se finora il riserbo di una manifestazione di consenso al regime era doveroso per noi, oggi invece che una caterva di spodestati, di gente di malafede, d’ignoranti e di vili assassini attentano con ogni mezzo alla Patria, s’impone a noi il dovere opposto: manifestare espressamente quel consenso…..Giunga il nostro saluto a Lui e sia monito per tutti che i magistrati d’Italia riconoscano in Benito Mussolini il Perseo di quella Gorgone nefasta che tentò impietrirci tutti, il redentore della Patria, l’apostolo della nuova gente italica”[60].
La Gazzetta di Puglia pubblicava questo appello il giorno dopo, 11 novembre 1925, e nella successiva data del 20 novembre 1925 detto appello veniva accluso in copia in una “Lettera circolare ai Pretori d’Italia”, a firma sempre di Nicola Pende, e con la quale questi, rivolgendosi a tutti i suoi colleghi in tutto il territorio nazionale, li invitava a sottoscrivere una scheda di adesione apponendovi la firma.
Aggiungeva Nicola Pende: “A raccolta compiuta invieremo al Duce una pergamena o messaggio contenente tutti i nostri nomi preceduti da un motto”.
E poi ancora: “Il significato della nostra manifestazione non può essere equivocato. Essa rappresenta l’omaggio della nostra virtù al genio del Duce…….Prego pertanto di rinviarmi con tutta sollecitudine l’acclusa scheda e, se lo crederai, aggiungi con separato biglietto un tuo pensiero, giacché quello fra i motti che sarà giudicato il migliore servirà d’intestata al messaggio o pergamena. Il motto dovrà essere sintetico ed in ogni caso di una sola proposizione”[61].
6.3. Si inizia, così, a raccogliere le lettere d’adesione.
I Pretori sottoscrivono la lettera di adesione, manifestano per iscritto con separato biglietto la loro fede al duce, e molti aggiungono un motto come richiesto da Nicola Pende.
I Motti saranno poi raccolti separatamente a chiusura del volume.
Tra questi:
- “Dio ce l’ha dato, guai a chi lo tocca”.
- “Al pilota superbo ed audace che regge con sicura mano il timone dell’Italia nave”.
- “A Benito Mussolini, che fuor ci trasse a riveder le stelle”.
- “A Benito Mussolini, fulgida gloria del genio italico, ricostruttore instancabile dei destini della Patria, I Giudici d’Italia, coscienti e devoti, solo avvinti dal proprio dovere, sinceramente offrono”.
- “Imperio atque iustitia o fient magna Italia”.
- “Reverente saluto al nostro Duce, che avvincendo e convincendo con inesauribile preziosa fatica, guida la Patria ai più alti destini”.
- “Voglia Iddio conservare Mussolini, insigne statista e Patriota per lunga serie di lustri per la grandezza d’Italia”.
- Valga l’augurio che, nel silenzioso nostro lavoro, abbi tu Duce la più valida cooperazione per le migliori fortune della nostra Italia”.
- “Benito Mussolini, Gloria d’Italia, splendore dell’Orbe”.
- “Stato forte e magistratura degna valsero a portare le aquile di Roma per il Mondo. Voi siete lo Stato forte, la Magistratura sarà degna di Voi, che nuova grandezza avete dato e darete alla Patria”.
- “Adversus hostem aeterna auctoritas”.
- “A Benito Mussolini, espressione purissima della stirpe, sicuro presidio della Patria”.
- “A Mussolini, espressione elevata delle virtù di nostra gente. Novo assertore delle naturali leggi di convivenza civile, bandite al mondo da Roma, riaffermanti la imperitura supremazia dell’Italia, la Magistratura, fiera e fiduciosa nel sacro impero del diritto”[62].
6.4. Alla gestione dell’iniziativa di Nicola Pende si aggiungeranno poi altri due Pretori, ovvero Antonio Visco, Pretore di Tivoli, e Antonio Colonnello, Pretore di Rieti.
Questi tre presenteranno insieme il volume una volta stampato, in una pagina titolata: “Agl’Italiani”.
In quella pagina si afferma che: “I Patrioti vi troveranno alimento per il lor cuore generoso, i dubbiosi la mediteranno e forse trarranno partito per decidersi”.
Poi i tre si rivolgono a tutti i giudici che credono ancora nel principio della indipendenza della magistratura, e ad essi sono indirizzate le seguenti parole: “Ai falsi zelatori della costituzionalità; a quei pochi che, immaginandosi nell’Olimpo, si preoccupano di parere indipendenti, rispondiamo brevemente: la vostra scolastica vale tra i mediocri, ma non può prevalere agli animati di sacro entusiasmo, a coloro che, dinanzi all’Eroe della nuova storia, han sentito in sé tramutarsi in missione la loro ordinaria funzione. Il fascismo rappresenta un’epoca storica alla quale la magistratura non può restare estranea. Noi Pretori diciamo umilmente ma sinceramente, in questo epistolario, la nostra parola di fede e di devozione al Duce, investito dell’Italia rinnovata”[63].
Antonio Visco, poi, pubblicherà altresì uno scritto sulla rivista La Pretura, 1925, n. 13, titolato Magistratura e fascismo, riportato anche nel volume.
Egli scrive: “Come si può negare a noi che rappresentiamo la classe che eccelle per cultura e primeggia per responsabilità di avere e di manifestare una fede politica? ……Chi scrive queste righe ricorda sempre con orgoglio di aver partecipato alle prime adunate fasciste…….La magistratura ben può dare il suo consenso ad un regime che riunisce e rinsalda le forze più fedeli, più pure e più devote della causa nazionale e le guida verso supreme mete di grandezza e di gloria. E questo consenso può darlo apertamente e spontaneamente, senza falsi timori e senza vani indugi”[64].
6.5. Da pag. 15 a pag. 40 sono elencati, in ordine alfabetico, tutti i Pretori aderenti alla iniziativa, da Albertacci Alberto, a Zinni Giuseppe.
Si tratta di un numero di oltre 700 Pretori, nome e cognome e luogo ove l’ufficio è reso; Benito Mussolini, così, può avere l’elenco completo dei Pretori che gli sono devoti.
Il volume ha altresì, in fondo, un elenco alfabetico delle lettere[65].
Chi scorra quell’elenco nota che la stragrande maggioranza dei Pretori proviene da piccole, o piccolissime province; ma non mancano anche Pretori di grandi città italiane, del sud come del nord; sono coinvolte città come Messina, Trento, Genova, Roma, Ancona, Pavia, Ferrara, Catanzaro, Siracusa, Brindisi, Vicenza, La Spezia, Novara, Ascoli Piceno, Benevento, Sassari, Forlì, Rovigo, Siena.
L’epistolario che segue, come premesso, è introdotto da una comunicazione del Procuratore di Bari Tommaso Bianco, che così scrive: “Nulla la mia povera parola può aggiungere alla bellezza del vostro gesto…Voi, con felice intuito, raccoglieste le vibrazioni della giovane magistratura per farne offerta al Genio che salvò l’Italia e rese il mondo attonito”.
E poi ancora, riferendosi al volume che raccoglie i messaggi per il duce: “Esso attesta che anche i magistrati adorano l’Uomo, attesta che una sana e benintesa giustizia non è, non può essere in conflitto, ma in divina armonia col santo amor di Patria”[66].
6.6. La cerimonia di presentazione del volume al duce si tenne, come detto, a Palazzo Chigi, il 15 marzo 1926.
A porre il libro direttamente nelle mani di Benito Mussolini una commissione di venti diversi Pretori “in rappresentanza di circa settecento aderenti”[67].
L’originale dell’album-epistolario fu realizzato in opera artistica, sullo stile dei codici medioevali, dal prof. Lucandri di Roma, racchiuso in cofano di cuoio.
L’iniziatore Nicola Pende fece la presentazione del volume con queste parole: “DUCE, a nome di 700 Pretori noi qui presenti e convenuti da ogni regione d’Italia vi preghiamo di accogliere questo omaggio della nostra profonda devozione, del nostro sincero ardente amore. Infinitamente umili noi ci sentiamo dinanzi alla Sublime Purità Vostra che vorremmo adorare in silenzio; ma pur vogliamo dirvi soltanto: tre grandi ombre vegliano sul vostro capo: Dante, Foscolo, Mazzini. DUCE: per l’ideale che vi agita internamente e che ci unisce a Voi, per la vita e per la morte, noi vi giuriamo fedeltà”[68].
E Benito Mussolini rispose: “Il vostro omaggio è per me il più eloquente e significativo di quanti me ne sono giunti in questi tempi. Voi che siete al primo gradino della più alta gerarchia, la giudiziaria, ed amministrate giustizia, negli strati più profondi del popolo, rappresentate coloro che devono applicare quella legislazione che si va formando, in questo momento di liquidazione del regime demo-liberale, e di instaurazione dello Stato Fascista. Considero la vostra opera, più che una funzione, una vera missione. Tornando alle vostre sedi, recate il mio saluto e il mio ringraziamento a tutti coloro che hanno sottoscritto”[69].
Poi Benito Mussolini si unì ai presenti per una foto di gruppo, riprodotta nel volume.
Quello stesso giorno la Commissione fu ricevuta altresì dal Ministro Guardasigilli Alfredo Rocco, dal primo presidente della Corte di Cassazione Mariano D’Amelio, e dal Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Appiani.
6.7. Il volume, infine, da pag. 46 a pag. 181, contiene i messaggi inviati al duce dai Pretori aderenti: si va dal primo messaggio di Filippo Galassi, Pretore di Camerino, all’ultimo messaggio, di un tale che si firma Tuo Colozza, Pretore di Carovilli.
I messaggi sono tutti, in gran parte, eguali, tutti colmi di elogi a Benito Mussolini, tutti espressione di fede e devozione al duce, salvatore della patria.
Sono così simili tra loro che non conviene riportarli; il tenore del volume credo si sia già ben compreso.
Mi limito qui solo a segnalare che tra i Pretori aderenti ve ne furono alcuni che occupavano posti di primo piano in sedi importanti.
Il Pretore titolare del 5° mandamento di Roma scriveva: “Salutai il fascismo, al suo sorgere, come l’alba della rinascita della Nazione e spiritualmente vi aderii: mi associo quindi alla tua nobile iniziativa. Il mio motto per il Primo Ministro: “Ut semper ferventius ardeat”.
Egualmente il Pretore titolare del 2° mandamento di Roma: “Aderisco toto corde e con sentito entusiasmo alla simpatica manifestazione di omaggio verso il nostro primo Ministro, con la più doverosa ammirazione e la più vibrante riconoscenza al Duce”.
Ed ancora il Pretore del 3° mandamento di Roma: “A Benito Mussolini che saprà ricondurre l’Italia alla gloria di Roma”[70].
Il richiamo all’antica Roma è ricorrente; così il Pretore di Palmanova: “Al grande restauratore della Roma dei Cesari”[71]; o il Pretore di Cropalati: “A Benito Mussolini, la cui opera squisitamente romana nel campo giuridico, vestigia indelebili, come quelle giustinianee e napoleoniche, v’imprime”[72]; alcuni addirittura in versi: come il Pretore di S. Teresa di Riva: “Inclito figlio di Romulea Gente – Tu sei d’Italia salvator possente – Or Lei risorge dalle sue ruine – E cinge l’immortal infula al crine”[73].
E infine il Pretore di Campi Salentina: “Per Benito Mussolini Eja, eja, alalà”[74].
7. Qualche riflessione di sintesi
Questo è quanto mi è parso di dover ricordare sulla magistratura al tempo di Giacomo Matteotti.
E credo che tutti questi fatti passati in rassegna, assai diversi tra loro, suscitano in noi più di un pensiero; e credo altresì che questi possibili pensieri non abbiano ad oggetto aspetti meramente storici e/o teorici, poiché i temi coinvolti in questa esperienza configurano problemi (se si vuole) perenni, immutabili nel tempo; essi sono, appunto, quelli della ricerca di un equilibrio tra funzione governativa e giudiziaria, tra magistratura e potere politico, tra autorità e libertà.
Ritengo, così, che l’esperienza della magistratura degli anni ’20, costituisca per noi, ancor oggi, un buon spunto per riflettere sulle nostre attuali questioni, e ciò anche perché, nella storia, come molti filosofi ci hanno insegnato, tutto ciò che è accaduto può ripetersi, e i meccanismi del genere umano non mutano con il passare del tempo.
A ciò, dunque, queste ultime pagine in omaggio a Giacomo Matteotti.
7.1. In primo luogo, in questo ricordo della magistratura, si riesce a rinvenire tutti i tratti dell’essere umano: si va dal senso del dovere di Mauro Del Giudice al lassismo opportunista di Giuseppe Francesco Danza, dall’orgogliosa consapevolezza della funzione giudicante di Lodovico Mortara allo scandaloso esercizio della funzione requirente di Alberto Salucci, dalla sete di indipendenza e giustizia di Vincenzo Chieppa agli atteggiamenti privi di rigore quali quelli tenuti dai magistrati del processo a Benito Mussolini tra il 1919 e il 1922, fino alla smoderata ambizione e al trasformismo di giudici quali Michele Isgrò e Giuseppe Montalto, disposti a dirigere un Tribunale Speciale a servizio di un dittatore per motivi personali di tipo carrieristico.
Forse la prima sensazione che si ha è allora proprio questa: che nella magistratura si riesce, come probabilmente in qualsiasi altro corpo sociale, a trovare un po’ di tutto: ci sono magistrati disposti a mettere a repentaglio la loro vita e a morire per l’esercizio della funzione e altri pronti a vendersi.
Proprio per ciò, non è facile dare un giudizio complessivo sulla magistratura, sia questa del secolo scorso oppure di oggi, poiché ogni generalizzazione è al tempo stesso impossibile e foriera di errate semplificazioni.
Possiamo solo raccontare dei fatti, come ho cercato di fare in questo mio scritto.
7.2. Una seconda riflessione è imposta dalla vicenda dei Pretori d’Italia.
Oggi, voglio sperare, nessun magistrato dedicherebbe ad un capo di governo un canto pastorale per riconoscergli la funzione di apostolo della nuova gente italica; nessun magistrato direbbe mai ad un capo di governo di sentirsi infinitamente umile dinanzi alla Sublime Purità Vostra.
Però, parimenti, una certa soggezione al governo da parte della magistratura è ancor oggi possibile; e una certa idea che il potere esecutivo sia il primo e principale potere dello Stato, al quale la magistratura deve guardare con riverenza e accondiscendenza, è ancor oggi immaginabile.
E poi v’è un altro aspetto, che è quello della predisposizione dell’essere umano, e quindi anche della magistratura, a cercare, in taluni momenti, un Capo al quale essere fedeli, un capo che decide, e al quale va prestata obbedienza.
È un sentimento che in certi momenti della storia sparisce, ma in altri riaffiora.
I Pretori d’Italia, se noi rileggiamo i messaggi che inviano al duce, non erano dei malfattori, e non intendevano svolgere le loro funzioni in modo deviato o corrotto; erano solo sedotti dall’idea di avere un capo al quale prestare fedeltà.
Al contrario, i giudici riuniti nel 1926 intorno al giornale La Giustizia Italiana, avevano ben chiaro che la magistratura deve stare invece distante dal governo, e non deve avere né capi né gerarchie.
Ancora una volta possiamo ricordare il numero del 10 maggio, nel quale si invocava una distanza, una netta separazione, tra governo e magistratura: “Dappertutto può avvenire, in qualche caso, che i governi facciano sentire la propria influenza sulla magistratura. L’essenziale è che fra magistratura e potere esecutivo non si costituisca un vincolo di ordinaria dipendenza”.
E nel giornale del 21 ottobre: “Quando la magistratura si fa milizia di un partito politico, la parola giustizia perde ogni significato nella vita di un paese, qualunque ne sia il grado di ricchezza e di civiltà”.
E tutti i cittadini devono vegliare su questa distanza: “Or non c’è che una garanzia veramente infallibile contro la regola dell’asservimento giudiziario, ed è il controllo della pubblica opinione”[75].
7.3. Dunque: una magistratura distante dal governo, senza capi né gerarchie.
Se la magistratura si mantiene con queste caratteristiche, allora nessuna dittatura è possibile.
Abbiamo visto che Mauro Del Giudice, assumendo l’istruzione del caso Matteotti, disse: “usciranno intatti l’onore della magistratura e illibato il mio nome, mi auguro poi che gli altri colleghi facciano altrettanto”[76].
Le cose, però, come sappiamo, andarono diversamente, e i suoi colleghi, nella stragrande maggioranza, non si comportarono come lui.
Benito Mussolini riuscì infatti ad imporsi: espulse dall’ordine giudiziario i magistrati antifascisti, creò delle giurisdizioni speciali coinvolgendo in esse la stessa magistratura ordinaria, affascinò un numero non secondario di magistrati con l’idea della patria e le glorie dell’antica Roma, altri li intimorì e li minacciò; alla fine arrivò a dire alla magistratura che: “Nella mia concezione non esiste una divisione dei poteri nell’ambito dello Stato. Nella mia concezione il potere è unitario: non v’è divisione dei poteri, v’è divisione di funzioni”[77].
L’opinione degli storici sulla magistratura durante il fascismo è nel senso che i giudici, se da una parte cercarono, nei limiti del possibile, di non rendersi complici delle illegalità più evidenti, dall’altra non furono però quasi mai baluardo di una resistenza legalitaria; accolsero il fascismo con una adesione “non profonda e non interiorizzata”[78], ma l’adesione (in gran parte) vi fu: “A ben vedere vi fu un rapido e felice fidanzamento tra le gerarchie della magistratura e quelle del regime…….con l’accettazione quasi totalitaria, si direbbe, del nocciolo duro delle leggi fascistissime varate nel 1926 sotto la guida del guardasigilli Alfredo Rocco”[79].
Fu questa, se si vuole, la stessa posizione di Mauro Del Giudice sul fascismo e Benito Mussolini: “Egli, per suprema sventura dell’Italia, mettendo a profitto la balordaggine e la vigliaccheria della grande maggioranza del nostro popolo, usando prima le arti della frode e dell’astuzia e poi l’aperta violenza, riuscì a mettere in atto quello che Lucio Sergio Catilina aveva soltanto premeditato”[80].
In quella frode e in quella violenza cadde, purtroppo, anche l’ordine giudiziario,
Tutto questo, però, sia chiaro, non vuol costituire critica alla magistratura di quel periodo; nessuno ha la licenza morale per fare ciò.
Si tratta solo di sottolineare l’importanza del ruolo del giudice nel sistema costituzionale di uno Stato.
Antonella Meniconi e Guido Neppi Modona, nel loro volume su L’epurazione mancata, si sono chiesti “cosa sarebbe accaduto se queste persone (ovvero i magistrati fascisti) fossero state allontanate dall’esercizio delicato della giurisdizione (ovvero epurati velocemente)………Ci sentiamo di affermare che la nuova Repubblica avrebbe camminato più velocemente sul piano delle conquiste democratiche…..Il ritardo dell’attuazione costituzionale risentì certamente della permanenza al vertice dello Stato di una generazione che si era formata ed era maturata negli anni dell’esperienza autoritaria fascista”[81].
Se si vuole, una ulteriore conferma di quanto anche gli storici ritengano centrale il ruolo della magistratura in ordine alle libertà democratiche in uno Stato di diritto.
7.4. Dunque: se la magistratura resta indipendente dal governo e capace di amministrare giustizia in modo libero e diffuso nessuno stato autoritario è possibile.
Possiamo dire, così, che la funzione c.d. giudiziaria non è soltanto quella di rendere giustizia nel caso concreto, bensì, forse principalmente, quella di assicurare la democrazia e la libertà dei cittadini.
Una legge può essere ingiusta, il governo può eccede i limiti dei poteri che si riconducono alla sua funzione, ma la magistratura non ha la possibilità di queste devianze; può allinearsi al potere esecutivo, sottomettendosi al volere di un capo; ma se non lo fa, l’idea stessa del capo svanisce, e le libertà dei cittadini restano in tal modo garantite.
Sia consentito ricordare ancora su questi temi Montesquieu.
Montesquieu scriveva: “Nella maggior parte dei regni d’Europa il governo è moderato perché il principe, che ha i due primi poteri, lascia ai sudditi l’esercizio del terzo”.
E poi ancora: “I principi che hanno voluto farsi dispotici, hanno cominciato sempre col riunire nella propria persona tutte le magistrature”[82].
Troviamo una corrispondenza tra il fascismo e le intuizioni del filosofo francese: Mussolini non lasciò infatti ai sudditi l’esercizio del terzo potere, ma anzi, come è noto, riunì nella propria persona tutte le magistrature.
Soprattutto Benito Mussolini, come ogni dittatore, rafforzò la struttura gerarchica dell’ordine giudiziario, poiché è evidente che un potere diffuso non è controllabile, mentre un ordine strutturato con vincoli di gerarchia può essere facilmente assoggettato al governo ove il potere politico abbia il controllo dei vertici della struttura.
Fondamentale, dunque, per le libertà dei cittadini, è non solo che la magistratura non abbia un capo e trovi naturale porsi in distanza con il potere governativo, ma anche che resti perfettamente un potere (e/o una funzione) diffusa, priva di gerarchie, soggetta soltanto alla legge, e distinta solo per funzioni.
È un tema ben presente ai magistrati del giornale La giustizia italiana del 1926.
Scrivevano: “Il carrierismo, con il sistema degli scrutini anticipati, degli incarichi speciali e delle classifiche distillate attraverso una così larga varietà di alambicchi, aveva oltremodo rafforzata fino a minare per ciò l’indipendenza di giudizio dei magistrati” E poi ancora: “Quando è in gioco la vita della giustizia, le miserie del Pretore di Roccacannuccia ci toccano quanto le vicende della Corte di Cassazione”. E poi ancora: “accogliere il principio della equiparazione dei gradi”[83].
7.5. Ed in questo ambito non possiamo infine dimenticare i passi delle sentenze del 1922 di Lodovico Mortara.
Egli scriveva che, se il Parlamento non è più in grado di controllare e sindacare i provvedimenti del Governo, allora è compito degli “organi supremi del potere giurisdizionale porre un nuovo esame della grave questione”; poiché, scriveva Lodovico Mortara, se: “Il sindacato parlamentare si rileva impossibile in fatto, forse illusorio in diritto” si impongano “nuovi doveri alla magistratura, la quale, senza sostituirsi al Parlamento, non può dimenticare di essere quella fra i poteri sovrani dello Stato cui spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa” [84].
I giudici hanno, per Lodovico Mortara, la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa, e devono quindi poter svolgere questa loro funzione interpretando la legge, insieme alle sue lacune e alle sue mancanze, sempre, in qualunque situazione, soprattutto quando gli altri poteri dello Stato non adempiono ai doveri che hanno nei confronti dei cittadini.
Oggi v’è un ampio dibattito circa i limiti di interpretazione della legge: taluni ritengono che il rispetto della legalità formale non consenta ai giudici di oltrepassare lo stretto tenore letterale delle norme nell’applicazione di esse ai casi di specie; altri ritengono invece che il concetto di fattispecie sia al momento in parte superato, che l’interpretazione del giudice abbia ad oggetto non solo il testo, bensì anche il contesto, e che si sia giunti, si dice, al passaggio dalla certezza del diritto alla giurisdizionalizzazione del diritto.
Non sono temi che fossero sconosciuti, oltre 100 anni fa, ad un giurista quale Lodovico Mortara.
L’esperienza del fascismo ci dice che la magistratura, quale custode dei diritti individuali, bene fa ad interpretare la legge nel suo contesto; ma nel farlo deve tenersi costantemente distante dal governo, non deve avere capi ai quali prestare obbedienza, deve mantenere quella concezione liberale dello Stato che gli consente di affermarsi sempre indipendente da ogni altro potere, e sempre libera al proprio interno.
Questo è l’insegnamento che ci giunge dall’esperienza della magistratura degli anni ‘20: la democrazia di uno Stato e la libertà di un popolo dipendono dal grado di indipendenza della sua magistratura.
[1] Su Giacomo Matteotti giurista si veda PASSANITI, Giacomo Matteotti e la recidiva, Franco Angeli, 2022; e G. CANZIO, Giacomo Matteotti, il giurista, Sistema penale, on line, 11 gennaio 2024.
[2] Il discorso è stato recentemente ripubblicato da Giustiziainsieme, il 25 febbraio 2024
[3] E. LUSSO, Marcia su Roma e dintorni, Torino, 1965, 154; il pezzo è richiamato anche da M.L. SALVADORI, L’antifascista, Roma, 2023, 43.
[4] Così ancora M.L. SALVADORI, L’antifascista, cit., 46.
[5] La frase è riportata da S. CARETTI, Matteotti. Il mito, Pisa, 1994, 118; nonché da M.L. SALVADORI, L’antifascista, cit., 70.
[6] Fra questo studi ricordo per tutti M. CANALI, Il delitto Matteotti, Bologna, 2004.
[7] G. MATTEOTTI, Un anno di dominazione fascista, Milano, 2023, contenente un saggio di U. GENTILONI SILVERI, Sulle ragioni della conoscenza storica, 253 e ss.
[8] Così U. GENTILONI SILVERI, op. cit., 256.
[9] G. MATTEOTTI, Il fascismo tra demagogia e consenso, a cura di M. Grasso, Donzelli – Roma, 2023.
[10] Così la Prefazione di A. AGHEMO, in G. MATTEOTTI, Il fascismo tra demagogia e consenso, XXI.
[11] Tra questi ricordo soprattutto M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, Milano, 2024.
[12] In questo contesto è doveroso ricordare soprattutto lo studio di NEPPI MODONA, Sciopero, potere politico e magistratura (1870 – 1922), Bari, 1979; e poi G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura, dalla Grande Guerra al fascismo, Bologna, 2019; A. MENICONI, Storia della magistratura italiana, Bologna, 2012.
[13] Così espressamente in M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, ed. Opere nuove, Roma, 1985, 25.
[14] Per tutte queste informazioni si veda T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, Mauro Del Giudice, Rodi Garganico, 2022, 175 e ss.
[15] Vedila ancora in T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, Mauro Del Giudice, cit., 208.
[16] T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, Mauro Del Giudice, cit., 208.
[17] Sempre da M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, richiamato per esteso da T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, Mauro Del Giudice, cit., 211.
[18] T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, cit., 210.
[19] V. infatti T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, cit., 179.
[20] Ancora M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, in op. cit., 213.
[21] M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, cit,, 127.
[22] G. SALVEMINI, Scritti sul fascismo, 291, richiamato sempre da T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, cit., 182.
[23] V. anche P. SERRAO D’AQUINO, La legalità del male, Questione giustizia, 22 novembre 2018.
[24] Così RICIGLIANO DONATO, L’inchiesta Matteotti e i magistrati Mauro Del Giudice e Donato Faggella, Calice, 2022, 13; richiamato da T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, cit., 180.
[25] Sempre in T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, cit., 183.
[26] RAGNO LUDOVICO (già sindaco di Vieste), Ricordo viestano del magistrato che istruì il processo Matteotti, 14 dicembre 2007, su www.ondaradio.info.
[27] Per ogni più ampia informazione su Lodovico Mortara v. BONI, Il figlio del rabbino, Roma, 2018; CIPRIANI, Scritti in onore dei patres, Milano, 2006, 93 e ss.; SATTA, Soliloqui e colloqui di un giurista, Attualità di Lodovico Mortara, Padova, 1968, 459; SCARSELLI, In devoto omaggio, Pisa, 2021, 13 e ss.
[28][28] Trovo questi dati nella nuova pubblicazione dell’opera di G. MATTEOTTI, Un anno di dominazione fascista, cit, 185.
[29] Tutte in Giur. it., 1922, I, 66, 929; II, 1.
[30] Così infatti Cass. sez. un., 6 maggio 1924, Giur. it., 1924, I, 536.
[31] Per questa informazione v. MENICONI – NEPPI MODONA, (a cura di) L’epurazione mancata. La magistratura tra fascismo e Repubblica, Bologna, 2022, 45 e 285.
[32] MENICONI – NEPPI MODONA, (a cura di) L’epurazione mancata, cit., 286. Su Vincenzo Chieppa v. anche V.M. CAFERRA, Riccardo e Vincenzo Chieppa nella tradizione della magistratura italiana, Riv. dir. priv., 2012, 275 e ss.
[33] Sull’associazionismo giudiziario v. ora i saggi di F.A. GENOVESE, Da funzionario nomade a magistrato associato, pag. 11 e ss.; G. MELIS, Storia della magistratura e storia dell’associazionismo giudiziario, pag. 33 e ss.; F. VENTURINI, Nascita, sviluppo e scioglimento dell’associazione generale tra i magistrati italiani, pag. 67 e ss.; tutti in AA.VV., Storia della magistratura e dell’associazionismo, Quaderni della SSM, Roma, 2024.
[34] Si veda in argomento E. BRUTI LIBERATI, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Bari, 2018; E. PACIOTTI, Breve storia della magistratura italiana, in QG, Questione giustizia, online, 2018; MENICONI, Storia della magistratura italiana, cit. 99 e ss.; MELIS, Storia della magistratura e storia dell’associazionismo giudiziario, in QG, Questione giustizia, online, 2022.
[35] F. VENTURINI, Nascita, sviluppo e scioglimento dell’associazione generale tra i magistrati italiani, cit., 82.
[36] G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura, dalla Grande Guerra al fascismo, cit., 217 e ss.
[37] I fascicoli de “La giustizia italiana” del 1926 possono consultarsi presso la Biblioteca Nazionale di Firenze in: G. Roma, 1926, Giustizia italiana.
[38] Sul quale v. L. POMPEO D’ALESSANDRO, Giustizia fascista, storia del Tribunale speciale (1926 – 1943), Bologna, 2020.
[39] SCARPARI, Quando il magistrato era un funzionario (1915 – 1925): dalla Grande guerra allo scioglimento dell’AGMI, in AA.VV., Storia della magistratura, quaderno del SSM, Roma 2022, 53 e ss. Sulla vicenda v. anche M. FRANZINELLI, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista, 1919 – 1922, Milano, 2004, 30 e ss.; nonché ancora G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura, dalla Grande Guerra al fascismo, cit., 57 e ss.
[40] Così Mussolini nel suo discorso a Pola il 20 settembre 2020, richiamato da CHIURCO, Storia della rivoluzione fascista, Firenze, 1929, II, 267, e da SCARPARI, op. cit., 57.
[41] Così V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1920, V, 677; sempre richiamato da SCARPARI, op. cit., 58.
[42] SCARPARI, op. cit., 59.
[43] Per tutto ancora G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura, dalla Grande Guerra al fascismo, cit., 189;
[44] M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 365.
[45] M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 361.
[46] M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 375.
[47] M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 367.
[48] E. ROCCA, La requisitoria del Procuratore generale, Il popolo d’Italia, 23 marzo 1926, in M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 375/6.
[49] Ancora M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 365.
[50] M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 389.
[51] M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 394.
[52] In MENICONI – NEPPI MODONA, (a cura di) L’epurazione mancata, cit., 65 e ss.
[53] NEPPI MODONA – M. PELLISSERO, La politica criminale durante il fascismo, Storia d’Italia, Torino, 1997, 757 e ss.; J. TORRISI, Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Il giudice politico nell’ordinamento dell’Italia fascista, Bologna, 2016; M. FRANZINELLI, Il Tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime, Milano, 2017; v. anche lo stesso L.P. D’ALESSANDRO, Giustizia fascista, Storia del Tribunale speciale, Bologna, 2020.
[54] L.P. D’ALESSANDRO, Una presenza scomoda: i magistrati del Tribunale speciale nella transizione democratica, in op. cit., 66.
[55] L.P. D’ALESSANDRO, Una presenza scomoda: cit., 67.
[56] Memoria difensiva del 30 settembre 1945, Archivio di Stato di Roma, fasc. 174.3, b., 1568, richiamato sempre da L.P. D’ALESSANDRO, Una presenza scomoda: cit., 69.
[57] L.P. D’ALESSANDRO, Una presenza scomoda: cit., 71.
[58] Si tratta di un volume raro; per mia parte trovato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, collocazione 5.i.1025. A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, Tivoli, 1926. L’esistenza di questo volume è riscontrata anche in G. SCARPARI, Quando il magistrato era un funzionario (1915 – 1925), cit., 63.
[59] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 3.
[60] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 7.
[61] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 9/10.
[62] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 183 e ss.
[63] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 5/6.
[64] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 12.
[65] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 193 e ss.
[66] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 45.
[67] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 41.
[68] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 41.
[69] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 42.
[70] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 52/3.
[71] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 66.
[72] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 99.
[73] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 105.
[74] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 140.
[75] “La giustizia italiana” del 1926 può ancora consultarsi presso la Biblioteca Nazionale di Firenze in: G. Roma, 1926, Giustizia italiana.
[76] M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, cit., 25.
[77] Discorso tenuto ai magistrati da Benito Mussolini il 30 ottobre 1939, in Scritti e discorsi, Milano, 2022, 557.
[78] Così AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965, 240.
[79] G. FOCARDI, Magistratura e fascismo – L’amministrazione della giustizia in Veneto (1920 – 1945), Venezia, 2012, 29.
[80] M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, cit., 216.
[81] In MENICONI – NEPPI MODONA, (a cura di) L’epurazione mancata, cit., 26.
[82] V. infatti C.L. MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, Rizzoli, Milano, 2019, Libro XI, capitolo VI, 310/311.
[83] “La giustizia italiana” del 1926, Biblioteca Nazionale di Firenze in: G. Roma, 1926, Giustizia italiana.
[84] V. ancora le sentenze in Giur. it., 1922, I, 66, 929; II, 1.
(La fonte dell'immagine è l'archivio digitale della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia)
Sommario: 1. Treni e binari – 2. Prescrizione del reato, termini, risorse – 3. Le competenze e responsabilità costituzionali – 4.1. La successione delle discipline di prescrizione e l’organizzazione degli Uffici giudiziari di appello – 4.2. La riorganizzazione (inutile) della gestione dei ruoli di appello dopo l’art. 344-bis cod. proc. pen. – 4.3. Il problema “nuovo”: l’abbandono del 344-bis e la legge più favorevole – 5.1. Prescrizione originaria ed ex-Cirielli – 5.2. La frenesia 2017/2024 – 5.3. La nuova prescrizione – 6. Tre premesse – 7. Parentele confuse – 8. Accelerazione e risorse – 9.1. La nuova prescrizione e la legge più favorevole – 9.2. La disciplina transitoria non s’ha da fare: la lettera dei presidenti delle Corti di Appello e le accuse di intromissione – 10. La prematura morte del comma 1-ter e la grave sofferenza del comma 1-quater dell’art. 581 cod. proc. pen. – 11. A cui chiedere…
1. Treni e binari
Immaginiamoci tre politici di tre partiti diversi che discutono animatamente su come devono essere le carrozze dell’alta velocità per collegare le città della Sicilia, quali fermate devono fare, il tempo massimo che il viaggio deve comunque durare. E succedendosi nel ruolo di componenti della maggioranza contingente modificano, volta per volta, le indicazioni e le decisioni su tipo di carrozze da utilizzare, durata massima del viaggio, numero e luogo delle fermate previste.
Tutto ciò mentre i binari o non esistono proprio o, quelli esistenti, non sarebbero idonei a reggere quelle carrozze e rimangono tali nel succedersi delle maggioranze contingenti. E nessuno di loro, cui compete in via esclusiva anche la decisione di fornire i binari indispensabili a reggere quelle carrozze, ovviamente contestualmente prevedendo e provvedendo in concreto le risorse per realizzare quei binari indispensabili, opera, appunto, perché binari idonei siano predisposti. Né tantomeno i tre operano insieme, mettendosi d’accordo sul realizzare comunque binari idonei, presupposto indispensabile perché possa parlarsi poi delle carrozze.
2. Prescrizione del reato, termini, risorse
Succede da anni con la problematica della prescrizione del reato.
Problematica, sia subito chiaro, che non è quella determinante per raggiungere la prospettiva costituzionale, ed europea, di una efficace giustizia giusta in tempi ragionevoli. La ricettazione di bicicletta da parte del recidivo reiterato qualificato si prescrive(va-rà) in ventidue anni due mesi venti giorni: evidente che ragionevole durata del processo e prescrizione sono temi diversi.
È d’altra parte certamente inaccettabile qualunque sistema dove l’unico evento certo che determini la fine del singolo procedimento sia la morte della persona nei cui confronti lo Stato procede (era il limite ignorato, ancorché assolutamente evidente, della legge n. 3 del 2019: giunti alla sentenza di primo grado, quale che fosse, la prescrizione si “sospendeva”, per non operare più fino alla definizione del processo, senza tempo se non la morte della persona nei cui confronti si procedeva).
Qualunque soluzione che voglia rispettare i principi costituzionali della obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (unico che, a ben vedere, dovrebbe garantire il rispetto dell’altro fondamentale principio dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge), della giustizia giusta in tempi ragionevoli (che presuppone una decisione della singola causa nel merito delle questioni, che sia non solo tempestiva ma pure ‘giusta’, intesa come adeguata al singolo caso della singola persona, cui si sia pervenuti nel rispetto delle regole processuali e specialmente del contraddittorio efficace), della finalità risocializzante della sanzione penale (che presuppone comunque una contiguità tra fatto per cui si è proceduto e momento in cui la sanzione viene eseguita), presuppone, e pretende, che tutti i procedimenti penali possano, a fronte di una media buona organizzazione e una media diligenza degli operatori, essere definiti nei tempi massimi ritenuti di ragionevole durata.
In altri termini, qualunque indicazione di termine ultimo oltre il quale il procedimento si interrompe definitivamente (quale ne sia la storia passata e in corso) sicché l’aspirazione alla decisione nel merito (che non è pio desiderio di qualcuno ma presupposto della corretta ed efficace convivenza sociale) viene abbandonata, presuppone che chi decide quel termine ultimo fornisca le risorse ragionevoli perché, appunto con buona organizzazione e media diligenza degli operatori, effettivamente qualunque procedimento possa essere definito nel merito prima della sua consumazione.
3. Le competenze e responsabilità costituzionali
Nel nostro sistema costituzionale, l’indicazione del termine è competenza costituzionale del Parlamento, mentre la efficace utilizzazione delle risorse sufficienti allo scopo è competenza costituzionale del Ministro della Giustizia (art. 110: “spettano al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”) che, però, ha obiettivamente a disposizione le risorse che ancora il Parlamento gli attribuisce.
Quindi, deve essere chiaro che il Parlamento che decide i termini ragionevoli per la trattazione dei procedimenti penali (dall’acquisizione della notizia di reato alla irrevocabilità della sentenza che ha deciso nel merito delle questioni) è anche l’Istituzione che deve mettere a disposizione le risorse indispensabili per ottenere il risultato. Quando poi, in ipotesi e come da tempo in Italia, la differenza della sede decisionale (Legislativo ed Esecutivo) si assottiglia (perché, ad esempio, il maggior numero delle norme sorge da conversioni di decreti legge o da voti di fiducia che inevitabilmente riducono il ruolo proprio del Parlamento, pur ovviamente in un contesto di assoluta legittimità formale), la relazione tra decisione su quali termini imporre, su quante e quali risorse mettere a disposizione per trattare tutti i procedimenti (art.3: “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”) e sulla loro modalità di utilizzazione diventa assolutamente pregnante.
Corollario banale è che l’indicare per la definizione di tutti i procedimenti pendenti, in ipotesi, termini che le risorse assegnate, pur efficacemente impiegate, oggettivamente non permettono di rispettare, porrebbe il tema, delicato ed estraneo a questo intervento, dell’ipocrisia politica. Specialmente se, in questa ipotesi, chi ha la competenza costituzionale per indicare i termini e fornire e poi efficacemente impiegare le risorse indicasse alla Collettività quali responsabili dell’inevitabile impossibilità di efficace e paritario funzionamento della Giustizia i suoi operatori (magistrati e personale amministrativo innanzitutto): operatori che, nel nostro sistema, sono appunto solo i destinatari di norme e risorse che altri stabiliscono, assegnano e organizzano.
Ovviamente, bene sarebbe invece prendersela con gli operatori della giustizia quando, messe a loro disposizione le risorse idonee ed indispensabili, questi, per loro incapacità o indolenza, non raggiungessero l’obiettivo prefissato.
4.1. La successione delle discipline di prescrizione e l’organizzazione degli Uffici giudiziari di appello
Alcune norme processuali hanno un particolare impatto sull’organizzazione degli Uffici giudiziari di appello.
Prescrizione, o improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, hanno come immediata conseguenza quella di determinare eventuali priorità nella trattazione dei procedimenti. Occorre quindi che ogni procedimento che perviene sia classificato e abbia una chiara e certa data entro la quale il processo si deve interrompere, o perché il reato si è prescritto o perché è maturato il termine di durata massima per un’utile trattazione, secondo il sistema del giorno.
In altri termini, l’organizzazione del ruolo complessivo di una corte di appello penale si orienta sulle date di prescrizione dei reati di ogni procedimento (e dal 2020 sulle date di maturazione del termine di durata massima), ovviamente valutando anche altri criteri (procedimenti con imputati in stato cautelare o con misura; gravità del reato; rilevanza sociale del fatto; altri, quantomeno quelli indicati dall’art. 132-bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale).
Ogni volta che muta il regime della prescrizione/termine di durata massima occorre perciò,inevitabilmente, rivedere l’intera pendenza, fascicolo per fascicolo.
Quando il Legislatore accompagna alla modifica normativa una disciplina transitoria il lavoro, pur gravoso specialmente per le corti cha hanno una pendenza rilevante, è certamente più agevole: in tal caso e infatti il Legislatore che opera le scelte valoriali e di legalità che ritiene opportune, ovviamente tenendo conto della disciplina dell’art. 2 cod. pen. e della giurisprudenza costituzionale (è quanto accaduto, significativamente, nel 2005 con la radicale modifica introdotta dalla cd ex-Cirielli, la legge 251 del 2005). Quando manca una disciplina transitoria, il confronto fascicolo per fascicolo va operato alla luce del principio generale affermato dall’art. 2, comma 4: “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”. Ovviamente, secondo i casi, stabilire quale sia la disposizione più favorevole può essere esito di interpretazioni complesse e con conclusioni difformi: se decide il Legislatore (come appunto nel caso della legge 251/2005) vi è invece immediata certezza (e l’unica evenienza può essere la verifica di conformità ai principi costituzionale delle soluzioni adottate).
Nel settore penale il confronto tra la disciplina del tempo in cui fu commesso il reato e quella posteriore va operato, appunto fascicolo per fascicolo, materialmente operando sul singolo fascicolo cartaceo.
Questo per scelte pluriennali del Legislatore (la digitalizzazione solo del processo civile) e dell’Amministrazione/Esecutivo (le note carenze dell’originaria impostazione strutturale della piattaforma SICP, che attualmente accompagna la registrazione dei procedimenti penali nella fase delle indagini preliminari e nei due gradi del merito, non permettono di individuare per via informatica, con immediatezza, i dati organizzati necessari per il confronto).
4.2. La riorganizzazione (inutile) della gestione dei ruoli di appello dopo l’art. 344-bis cod. proc. pen.
Quando è stata introdotta la disciplina dell’art. 344-bis cod. proc. pen., con i termini di durata massima dei giudizi di impugnazione (operante per i reati consumati dal 01/01/2020), le corti di appello hanno dovuto organizzarsi sostanzialmente gestendo due ruoli distinti: quelli che seguivano il regime della prescrizione (meglio sarebbe dire delle varie tipologie di prescrizione: 2005 e 2017) e quelli cui si applicava il nuovo istituto della improcedibilità ex art. 344-bis (per i reati consumati dal 01/01/2020). Ruoli distinti perché i tempi entro i quali i processi dovevano essere trattati erano radicalmente diversi: per modo di calcolo e discipline di sospensione/interruzione/proroghe.
La coesistenza tra processi per cui operano le prescrizioni succedutesi e processi per i quali opera l’improcedibilità ex art. 344-bis non ha invece creato problemi di confronto ai sensi dell’art. 2, comma 4, cod. pen., perché, per efficace scelta del Legislatore, la distinzione ha operato sui tempi di consumazione del reato, operando quindi il regime della prescrizione per tutti i reati consumati fino al 31/12/2019 e il regime della improcedibilità per decorso dei termini massimi di durata per tutti i reati consumati a partire dal 01/01/2020.
Una volta che le corti di appello hanno riorganizzato tutto il ruolo della pendenza secondo una linea di spartizione comunque certa e chiara (la data di consumazione del reato), il Legislatore sta intervenendo nuovamente per tornare al solo istituto della prescrizione, ma con una disciplina diversa dalle precedenti e in grado di incidere anche su tutti i reati consumati dal 3 agosto 2017 (rientranti quindi nella cd. prescrizione Orlando: la legge 103 del 2017). Occorrerà perciò riverificare quantomeno tutti i procedimenti pendenti per reati consumati dal 3 agosto 2017 al giorno precedente l’entrata in vigore della nuova legge (approvata per ora da un solo ramo del Parlamento). Si tratta, per la maggior parte degli Uffici giudiziari di appello, di una parte consistente, se non maggioritaria, dell’intera pendenza.
Il tempo della verifica cartacea, fascicolo per fascicolo, non è a costo zero. È in verità, questo del costo zero, un tema che meriterebbe una trattazione a sé. Comunque, sarebbe auspicabile che il Legislatore avesse sempre chiaro, quando legifera, che il tempo/lavoro degli operatori della Giustizia è una risorsa economica che (quantomeno finché non saranno messi a disposizione dall’Amministrazione forse non auspicabili strumenti che permettano di essere, nello stesso spazio temporale, in due luoghi diversi per compiere due attività diverse) è limitata. O giudici e assistenti sono in udienza per trattare i processi, in cancelleria per predisporre gli atti per giungere correttamente alla trattazione, e così via, o sono a tirar giù dagli armadi, verificare e annotare, e poi a rimetter su, i fascicoli cartacei. Quando fanno l’uno e l’altro, necessariamente le previsioni organizzative degli obiettivi (anche quelli sollecitati da Legislatore ed Esecutivo per il P.N.R.R.) andrebbero probabilmente riviste al ribasso.
Ma, si dovrebbe in fondo convenire, questa è la fisiologia dell’attuale organizzazione delle risorse per la Giustizia.
4.3. Il problema “nuovo”: l’abbandono del 344-bis e la legge più favorevole
In realtà, questa volta vi è un importante problema nuovo.
Il confronto ai sensi dell’art. 2, comma 4, cod. pen., non deve avvenire solo tra due diverse prescrizioni (quella in ingresso e quella della legge 103 del 2017).
Deve riguardare (per i reati consumati dal 01/01/2020, ed è la prima volta nella storia interpretativa e giurisprudenziale sul punto) anche una disciplina ormai considerata sicuramente sostanziale (la prescrizione) e una disciplina tendenzialmente processuale (l’improcedibilità ex art. 344-bis cod. proc. pen.), per la quale dovrebbe operare il diverso principio del tempus regit actum.
Anticipando un approfondimento successivo: per gli imputati di reati consumati dal 01/01/2020 (con: una prescrizione massima di 7 anni 6 mesi per i delitti, quindi prime prescrizioni al 01/01/2026 e al 30/06/2027, salvo sospensioni, un’improcedibilità triennale, per l’appello, e di un anno sei mesi per la legittimità, poi biennale e annuale, salvo proroghe e sospensioni, diverse da quelle previste per la prescrizione) prevale la prescrizione sostanziale o l’improcedibilità processuale, e a che momento, per quest’ultima, si deve collocare il momento del confronto? Qual è la legge più favorevole ai sensi dell’art. 2, comma 4, cod. pen.?
5.1. Prescrizione originaria ed ex-Cirielli
L’originaria disciplina codicistica della prescrizione, che prevedeva un tempo necessario a prescrivere per quattro classi di delitti (secondo l’entità della pena massima) e due per le contravvenzioni (secondo la natura della pena), aumentabili della metà, è stata modificata con la legge n. 251 del 2005, che ha introdotto il diverso parametro del massimo edittale per ciascun reato, con un minimo di sei anni efficace anche per i delitti con pena massima inferiore (quattro per le contravvenzioni), aumentabili in via generale di un quarto (con eccezioni).
Significativa anche l’aspetto pertinente il reato continuato: la prescrizione decorre dalla consumazione dell’ultimo reato (per la disciplina originaria); dal giorno di consumazione del singolo reato (per la legge 251/2005). E ovviamente anche questo aspetto è essenziale per lo spoglio preliminare dei fascicoli pervenuti in corte di appello e per la gestione del ruolo.
La legge n. 251 del 2005, consapevole dell’impatto della radicale innovazione ha introdotto una specifica disciplina transitoria, per la quale la fase processuale incide sull’eventuale applicazione delle nuove disposizioni quando più favorevoli: la soluzione supera il vaglio della Corte costituzionale (sentenza n. 236 del 2011, ordinanza 43/2012).
5.2. La frenesia 2017/2024
Nel 2017 inizia una nuova attivazione parlamentare.
La legge n. 103/2017 interviene prevedendo una nuova ipotesi di sospensione della prescrizione, collegata al fatto procedimentale della pronuncia di una sentenza di condanna. Anche in questo caso il consapevole Legislatore prevede una specifica disciplina transitoria, che applica questa nuova fattispecie di sospensione ai reati consumati dopo l’entrata in vigore.
Quando ancora non si sono verificati gli effetti di questa innovazione, anche se in realtà gli spogli dei primi fascicoli cui si applica il nuovo regime evidenziano che la doppia sospensione pare avere un effettivo impatto conservativo, interviene la legge n. 3 del 2019.
Prevede che dopo la sentenza di primo grado (quale ne sia il contenuto, quindi anche di proscioglimento) la sospensione della prescrizione operi fino alla data di esecutività della sentenza: di fatto è un’interruzione definitiva. Anche in questo caso vi è la disciplina transitoria: la sospensione opererà per i reati consumati dal 01/01/2020.
Contestualmente si torna alla regola originaria del codice per il caso della continuazione tra reati: la prescrizione (fino alla definizione del giudizio di primo grado) opera dal giorno in cui è cessata la continuazione.
La legge n. 134 del 2021 introduce l’istituto dell’improcedibilità ex art. 344-bis cod. proc. pen. per risolvere il problema del fine processo potenzialmente anche mai, determinato dalla legge n. 3 del 2019.
Ora, dopo circa due anni e mezzo (nei quali gli Uffici giudiziari di appello si sono riorganizzati i ruoli e le cancellerie secondo la contingente disciplina), si torna all’istituto della prescrizione.
5.3. La nuova prescrizione
È una prescrizione nuova, significativamente diversa da quella della legge n. 103/2017.
La Camera dei Deputati nella seduta n. 29 del 28/12/2022 aveva approvato in proposito l’ordine del giorno 9/00705/149 che “impegnava il Governo a predisporre, con una rivisitazione organica, il ripristino della prescrizione sostanziale in tutti i gradi di giudizio, rimuovendo le criticità attuali derivanti dalla legge 3 del 2019”.
Il giorno dopo, 29/12/2022, viene presentata la proposta di legge n. 745 che nella presentazione dice necessario ripristinare la precedente disciplina della prescrizione sostanziale come disciplinata dalla legge Orlando.
È fatto probabilmente significativo che in concreto il testo proposto richiama tale disciplina ma nulla dice sulla sorte dell’istituto della improcedibilità: stando a quel testo, i due istituti andrebbero a convivere, evidentemente a regime dovendo operare volta per volta il più favorevole all’imputato (prescrizione sostanziale o prescrizione processuale).
È invece un testo diverso quello approvato il 16 gennaio 2024 dalla Camera dei deputati, riunendo le proposte di legge C-893 che assorbe C-745, C-1036, C-1380, ora al Senato della Repubblica con il n. 985, assegnato il 31 gennaio.
Con il testo approvato dalla Camera occorre confrontarsi.
6. Tre premesse
6.1. Il raccordo tra la legge 3 del 2019 e la legge 134 del 2021 aveva probabilmente una significativa anomalia strutturale.
Consentiva infatti al giudizio di primo grado di consumare per intero oltre alla prescrizione ordinaria quella complessiva, comprensiva degli aumenti del quarto e degli altri speciali previsti dall’art. 161, comma 2, cod. pen., sicché il tempo di durata massima previsto autonomamente per la definizione del giudizio di impugnazione concorreva integralmente alla possibilità di utilizzare l’intero tempo di prescrizione utile entro il giudizio di primo grado.
È vero che, in realtà, i tre anni complessivi dei due giudizi di impugnazione (appello e cassazione), pur nella loro diversa declinazione (due anni, un anno; un anno sei mesi e un anno sei mesi), finivano con il corrispondere ai periodi di sospensione della prescrizione quali previsti dalla legge n. 103/2017 (cd. Orlando), sicché, in definitiva e per i contesti procedimentali non caratterizzati da peculiarità determinanti le proroghe previste dall’art. 344-bis, poco mutava.
Ma deve ritenersi che il senso complessivo del doppio regime, prescrizione e improcedibilità per superamento del termine massimo, avrebbe avuto più forza sistematica limitando alla sola prescrizione ordinaria il tempo pertinente il giudizio di primo grado. E questa modifica avrebbe potuto essere eventualmente fatta in un batter d’ali.
6.2. La dottrina e la politica hanno molto insistito sulla natura sostanziale della prescrizione e sulla natura brutalmente solo interruttiva della improcedibilità ex art. 344-bis. Si è appunto per esempio insistito sulla nozione di prescrizione processuale sganciata da qualsiasi apprezzamento di merito.
Non è questa la sede per approfondire il tema, enorme, della convivenza dei due sistemi (non dimentichiamo, imposta dalle vicende politiche delle maggioranze parlamentari dei due momenti: 2019, 2021, d’altra parte non potendosi come detto lasciare pendente una soluzione “fine processo certa solo con la morte”).
Ciò che però va osservato è che, in entrambi i casi, in concreto il processo penale si conclude per il mero decorso del tempo, con la prosecuzione del giudizio, in sede penale o in quella civile per il caso di presenza della parte civile.
Quanto all’improcedibilità ex art. 344-bis sarebbe per esempio bastato che il testo finale del decreto legislativo attuativo della legge n. 134 del 2021 accogliesse la puntuale proposta dei lavori preparatori di prevedere l’applicazione dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. anche per la pronuncia di improcedibilità, per giungere ad una soluzione che sostanzialmente rispondeva efficacemente alle critiche di sistema, in particolare per le sentenze di primo caso assolutorie e per il precluso pur limitato (si ricordi l’insegnamento delle Sezioni Unite Tettamanti sul concetto di “evidenza”) apprezzamento di merito.
D’altra parte, ogni approccio che esprima timore di sacrificio per i diritti dell’imputato, nei casi di cognizione contratta per la prescrizione o la deliberazione di improcedibilità, serenamente dimentica che l’una e l’altra sono sempre state rinunciabili. E incidentalmente deve osservarsi che, per sé, la prospettiva dell’agire cercando di ottenere il massimo evitando rischi pare coerente più a pur comprensibile umano atteggiarsi che a un principio costituzionale specifico, lo stesso diritto di difesa afferendo alla possibilità di efficace e vero contraddittorio e non all’interesse di ottenere il massimo senza ‘rischiare’ alcunché.
6.3. Per questo, le considerazioni che seguono esulano del tutto da una presupposta scelta pro o contro la prescrizione o l’improcedibilità per decorso del termine massimo di durata del giudizio di impugnazione.
Certa è solo la constatazione che così come la legge Bonafede del 2019 era intervenuta prima che si potessero constatare gli effetti della legge Orlando, ora si abbandona la scelta dell’improcedibilità (con le fatiche organizzative connesse, non a costo zero) prima di averne sperimentato gli effetti concreti.
7. Parentele confuse
7.1. È stato detto più volte, nel dibattito parlamentare, che questa nuova prescrizione mutuerebbe la propria soluzione dalla Commissione presieduta dal presidente Lattanzi e dalla stessa legge Orlando, quasi a cercare con i due riferimenti una sorta di legittimazione aggiuntiva a quella, assolutamente sufficiente, di scelte fatte nell’ambito della competenza responsabile di Legislatore.
La vicenda potrebbe essere un interessante caso di scuola per ragionare sull’attenzione sistematica che dovrebbe caratterizzare l’agire del Legislatore.
Perché quei richiami paiono, al confronto delle fonti, quantomeno problematici.
La soluzione approvata dalla Camera, e all’esame del Senato, abroga l’improcedibilità, reintroduce la prescrizione anche per i giudizi di impugnazione e torna alla legge Orlando quanto a calcolo della prescrizione ordinaria e complessiva (l’aumento del quarto facendo salve le deroghe in aumento intervenute nel tempo, che vengono anche incrementate) e a prescrizione del reato continuato.
Viene però radicalmente mutata la struttura della causa di sospensione costituita dalla deliberazione di una sentenza di condanna, mutuando da aspetti della legge Orlando e delle proposte della Commissione Lattanzi due novità che sono documentalmente incoerenti con le ragioni delle corrispondenti previsioni nelle due fonti richiamate.
In particolare.
Mentre la legge n. 3/2017 prevedeva che la sospensione fosse di un anno sei mesi per l’appello e di altrettanto tempo per la cassazione, salvo a venir meno nel solo caso di successiva assoluzione o annullamento con rinvio sul punto della decisione afferente l’affermazione di responsabilità, la legge in approvazione, modificando i termini di fase in due anni per l’appello e uno per il giudizio di cassazione (quindi sempre tre complessivi), prevede tuttavia che la sospensione salti anche nel caso in cui le sentenze del grado successivo siano “pubblicate” dopo la scadenza del rispettivo termine di sospensione.
Si è detto nel dibattito parlamentare che questa ipotesi di venir meno dell’effetto sospensivo era tra le proposte della Commissione Lattanzi.
Il che risponde al vero, ma in un contesto sistematico diverso.
La Commissione Lattanzi (Relazione, pp. 52 ss., paragrafo 3.2) aveva fatto due proposte alternative per superare l’impasse nel giudizio di impugnazione dopo la legge n. 3 del 2019. La prima (ipotesi B, p. 54 ss.) era la cessazione del corso della prescrizione con l’esercizio dell’azione penale e la previsione dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del processo, differenziati per i tre gradi di giudizio (da questa proposta era stata sostanzialmente presa la disciplina dell’attuale e morituro art. 344-bis).
La seconda (ipotesi A, p. 53 s.) prevedeva la sospensione del corso della prescrizione per due anni, dopo la sentenza di primo grado, e di un anno, dopo la sentenza di appello, appunto indicando che la sospensione cessava i propri effetti se la pubblicazione della sentenza non sopravveniva prima della scadenza del termine di sospensione. Però, contestualmente (p. 57, paragrafo 3.3, art. 14-bis), innanzitutto proponeva che per tutti i reati (con esclusione dei soli reati di cui agli artt. 51, commi 3-bis e 3-quater cod. proc. pen.) le interruzioni rilevassero fino ad un aumento della metà del tempo necessario a prescrivere (così tornando all’impostazione sul punto originaria del codice, modificata dalla legge 251/2005, ex-Cirielli) e, in secondo luogo, indicava la decorrenza della sospensione dalla scadenza del termine per proporre impugnazione.
È quindi evidente che questo effetto ‘condizionato’ della sospensione era proposto in un contesto di rideterminazione razionalizzante del termine massimo di efficacia delle interruzioni e, ancor più, in modo che la durata della sospensione fosse ‘effettiva’ e pertinente le attività dell’amministrazione giudiziaria e l’efficacia di questa.
7.2. Nella legge in approvazione, invece, i 24 mesi decorrono dalla scadenza dei termini di deposito della sentenza ex art. 544 cod. proc. pen. (anziché, appunto, dalla scadenza dei termini per impugnare).
Ciò innanzitutto significa, palesemente, che la durata utile della sospensione è, quantomeno, di ventidue mesi e quindici giorni, e non di ventiquattro come si assume. Va ricordato sul punto che la disciplina dell’improcedibilità ex art. 344-bis (molto attenta agli aspetti sistematici) prevede(va) che i termini (il biennio di appello e l’anno di legittimità) decorrano trascorsi novanta giorni dal termine che il giudice ha indicato per il deposito della sentenza: così il termine per provvedere è potenzialmente netto, perché i primi quarantacinque giorni sono quelli per l’impugnazione della parte interessata e i secondi quarantacinque dovrebbero assicurare le necessarie attività della cancelleria del giudice a quo e l’arrivo del fascicolo al giudice ad quem.
Al possibile rilievo che, in realtà, anche la legge Orlando prevedeva il decorso del termine di sospensione dalla scadenza del termine che il giudice si assegna per il deposito della sentenza, è agevole ribattere che la stessa però prevedeva come unica causa di vanificazione della sospensione la deliberazione assolutoria o che annullava sul punto della responsabilità. Quindi, a differenza della prossima prescrizione, se anche la sentenza del grado successivo non fosse stata pubblicata nel tempo della sospensione, quest’ultima avrebbe mantenuto la propria efficacia nel caso di deliberazione di conferma della responsabilità.
Detto in altri termini: quanto alla sospensione nella prossima prescrizione, il testo approvato alla Camera dei Deputati prende dalla proposta Lattanzi l’istituto del venir meno l’efficacia della sospensione nel caso di mancata pubblicazione della sentenza nel tempo in cui opera la sospensione, ma riduce di fatto i 24 mesi (che pur apparentemente afferma) perché il termine della sospensione decorre prima dell’inizio del termine per impugnare (normalmente di 45 giorni) e non prevede l’aumento della metà, anziché del quarto, del termine ordinario di prescrizione (che, nella proposta Lattanzi, andava in qualche modo a bilanciare la funzione acceleratoria del venir meno dell’effetto della sospensione). Prende poi dalla disciplina Orlando la decorrenza dal decorso del termine che il giudice ha indicato per la pubblicazione della sentenza, ma la sospensione della legge 103/2017 perdeva effetto solo nel caso di successivo proscioglimento o annullamento con rinvio sul punto della decisione afferente l’accertamento di responsabilità.
8. Accelerazione e risorse
In definitiva, c’è la novità della sospensione della prescrizione, ma la sua previsione è radicalmente e strutturalmente diversa dalla corrispondente disciplina prevista dalla legge Orlando e sostanzialmente abbandona il senso sistematico della proposta della Commissione Lattanzi.
E poiché l’evento che evita la sopravvenuta inefficacia della sospensione della prescrizione è la pubblicazione della sentenza, non già la sua deliberazione, nei 22 mesi e 15 giorni residui dopo il decorso del termine per impugnare dovranno verificarsi: la lavorazione del processo nella cancelleria del giudice che ha deliberato la sentenza, l’inoltro del fascicolo cartaceo al giudice dell’impugnazione, la trattazione del processo con la deliberazione del dispositivo, il deposito della sentenza.
Il che non è affatto impossibile.
Basta che chi delibererà la nuova disciplina ricordi che è suo obbligo costituzionale fornire la giustizia delle risorse di uomini e mezzi strumentali per lavorare decentemente. Che oggi difettano clamorosamente.
Rimane una probabilmente non confortante certezza: avremo ancora una prescrizione di ventidue anni due mesi e venti giorni per l’extracomunitario recidivo qualificato, processato per furto di una bicicletta.
9.1. La nuova prescrizione e la legge più favorevole
Si è già accennato che la nuova prescrizione pone evidenti problemi interpretativi per individuare, tra le leggi che vanno a succedersi, quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo.
Basti pensare, e solo esemplificativamente, a due casi e un problema generale:
In assenza di disciplina transitoria, si tratta di risposte che debbono inevitabilmente essere date dalla giurisprudenza, ma il punto è che sono domande che ammettono risposte diverse, tutte seriamente argomentabili. E poiché l’attività di ri-spoglio della pendenza è particolarmente invasiva per la riorganizzazione dei ruoli e per il tempo/lavoro degli operatori, in particolare in periodo di obiettivi P.N.R.R. in corso e con implicazioni finanziarie europee e nazionali ben note, l’incertezza sulla risposta diviene costo non sostenibile. Se la soluzione giuridica seguita dal singolo Ufficio giudiziario risultasse poi nel tempo non condivisa dalla giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite, occorrerebbe nuovamente ri-organizzare la pendenza.
9.2. La disciplina transitoria non s’ha da fare: la lettera dei presidenti delle Corti di Appello e le accuse di intromissione
È questa la pregnante ragione che, una volta constatato che né i testi che erano noti dai lavori parlamentari né il relativo dibattito parlamentare in corso parevano affrontare il tema di una contestuale disciplina transitoria chiarificatrice in grado di orientare tutte le Corti nella necessaria opera di riorganizzazione dei ruoli della pendenza (e ciò in discontinuità con la prassi parlamentare per tutti i precedenti interventi sulla prescrizione del reato), ha indotto i presidenti di tutte le Corti di Appello italiane a scrivere il 22 novembre 2023 al Ministro della Giustizia ed ai Presidenti delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato per rappresentare la problematica.
Nella lettera si segnalava che i problemi di diritto transitorio (che venivano specificamente indicati) questa volta erano assolutamente nuovi e peculiari, sicché l’assenza di una disciplina transitoria avrebbe condotto a un gravosissimo, poco governabile, e in definitiva inutile lavoro di rivisitazione delle pendenze, oltretutto purtroppo in un periodo di rilevantissime scoperture degli organici di magistrati e personale amministrativo e carenze di sistemi informatici efficaci.
Ovviamente la richiesta dei presidenti di Corte nulla diceva del merito della scelta prescrizione/improcedibilità e tantomeno del possibile contenuto della disciplina transitoria che si affermava indispensabile, nella consapevolmente riaffermata esclusiva competenza del Legislatore per il merito delle scelte.
Il Ministro ha dato atto dello spirito di leale collaborazione dimostrato anche in questa occasione e rimesso ogni apprezzamento alle valutazioni del Parlamento, trattandosi di iniziativa parlamentare il cui iter era in stato avanzato.
La stampa ha dato notizia delle reazioni negative di alcuni Parlamentari, dove si è parlato di boicottaggio bello e buono, di non necessità di alcun calcolo aggiuntivo per far partire la riforma, di assenza di alcun senso della norma transitoria, di ingerenza e tentativi di condizionamento del legislatore, di sufficienza dell’art. 2 cod. pen..
Una lettera dell’Unione delle Camere penali italiane dell’11 dicembre ha affermato che l’iniziativa rappresentava una “chiara e indebita intromissione da parte della magistratura nelle funzioni proprie del Parlamento, trattandosi di scelte che hanno un eminente contenuto politico”, “ulteriore passo in avanti … o indietro, verso il pericoloso superamento del principio della separazione dei poteri tipico delle democrazie liberali …”, “nuova (l’ennesima) forma di invasione degli spazi riservati al potere legislativo … veicolata … direttamente dai vertici delle Corti d’Appello d’Italia, come messaggio istituzionale”. Apparentemente la lettera non spiegava perché in realtà i problemi indicati non ci fossero o quali fossero le evidenti soluzioni sfuggite ai presidenti di Corte, né a chi avrebbero dovuto rivolgersi gli stessi per rappresentare il problema, oggettivo ed evidente, verso il quale si va, in un contesto di sofferenza pesantissima degli organici e di obiettivi P.N.R.R. da raggiungere pena gravi conseguenze finanziarie per l’intero Stato.
10.1 Dando seguito alla legge delega, il d. lgs. 150/2022 ha inserito nell’art. 581 i commi 1-ter e 1-quater, due norme funzionali alla contestuale previsione di tempi contingentati per la utile trattazione dei processi di impugnazione.
Come noto, il comma 1-ter prescrive che, a pena di inammissibilità, con l’atto di impugnazione debba essere depositata la dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. Chiara la ratio. La parte chiede il giudizio di impugnazione e contestualmente indica, nella forma della dichiarazione o elezione di domicilio, dove le si debba notificare l’avviso dell’udienza che tratterà l’appello che lui ha chiesto. Poiché contestualmente la nuova disciplina del giudizio di appello (incomprensibilmente differita di sei mesi in sei mesi, unica effettivamente a costo zero, disciplinante in modo analitico quel che il rito emergenziale disciplinava all’ingrosso) prevede il raddoppio dei termini per la citazione (da venti a quaranta giorni), mentre il 344-bis prevede i due anni come termine ordinario massimo, le modalità del precedente contatto imputato/ufficio di primo grado cessano di avere efficacia e l’appellante dice dove vuole essere citato, con ciò responsabilizzandosi anche in ordine alle problematiche della conoscenza effettiva del corso del giudizio.
Naturalmente, la previsione anche con la nuova prescrizione di una sospensione ‘subordinata’ alla pubblicazione della sentenza nei presunti 24 mesi (sono meno, come visto), mantiene l’attualità e significatività delle ragioni della norma.
La dichiarazione/elezione non deve essere successiva alla deliberazione della sentenza di primo grado, può quindi esserne utilizzata una rilasciata in precedenza. Non rileva la ricostruzione della successione temporali di eventuali plurime dichiarazioni/elezioni (con le pertinenti eventuali nullità): lo chiarisce inequivocamente il testo della norma: ai fini della notificazione del decreto di citazione al giudizio di appello. Ed è proprio il senso della previsione: la fase del primo giudizio è chiusa, con quella dichiarazione/elezione di domicilio (quando che sia stata rilasciata), allegata all’atto di impugnazione, si apre la fase di appello e solo quella rileva per la notifica del decreto di citazione al giudizio di secondo grado. Conoscenza certa, tempi di cancelleria celeri: arriva il fascicolo con l’atto di appello e la dichiarazione/elezione, con immediatezza si sa dove notificare il decreto. Più tempo per l’organizzazione della difesa e delle scelte di competenza (i 40 giorni), tempi celeri per la notificazione efficace.
Invece il comma 1-quater prevede che, se si è proceduto senza la presenza fisica dell’imputato in udienza, con l’atto di impugnazione il difensore sempre a pena di inammissibilità deve depositare anche lo specifico mandato ad impugnare rilasciato dopo la pronuncia della sentenza.
Ricordiamo che l’art. 571, comma 1, facoltizza l’imputato a proporre impugnazione pure a mezzo di un procuratore speciale, nominato anche prima della emissione del provvedimento. Procuratore speciale che può essere il medesimo difensore, che in tal caso esercita il potere spettante all’imputato.
Ricordiamo altresì che il codice Vassalli prevedeva, già dal testo originario, proprio lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale [571, comma 3, seconda parte: “Tuttavia, contro una sentenza contumaciale, il difensore può proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato, rilasciato con la nomina o anche successivamente nelle forme per questa previste]. La necessità del mandato speciale venne esclusa dopo dieci anni, dall’art. 49 della legge 479/1999. La ragione addotta nei lavori parlamentari dalla Relazione non fu un ripensamento della correttezza sistematica dell’istituto ma, solo, il consentire la possibilità dell’impugnazione della sentenza contumaciale anche al difensore d’ufficio, oltre che al difensore di fiducia, operando la soppressione dell’ultima parte del comma 3 dell’articolo 571 del codice di procedura penale, in base alla quale il difensore può proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale solo se munito di apposito mandato [sulla complessiva problematica sia consentito rinviare a https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-bis-e-1-ter-cod-proc-pen-di-carlo-citterio ].
Norma, l’1-quater, contestata dall’Avvocatura, rivendicante sia il proprio diritto di impugnare nell’interesse dell’assistito anche quando questi inconsapevole della prosecuzione del giudizio, che le eventuali difficoltà al rintraccio dello stesso assistito.
Ora, con il nuovo giudizio in assenza è praticamente impossibile celebrare il giudizio di primo grado se non vi sia stato almeno un contatto tra imputato e difensore, occasione per rappresentare all’assistito, di ufficio o di fiducia, il tema anche dell’impugnazione (si è anche ascoltato che poiché il difensore non è collaboratore di giustizia, non compete a lui dare informazioni che, in qualche modo, finiscano con il ‘salvare’ la pretesa del mandato: se lo cerchi lo Stato, l’imputato anche se appellante; ovvero che il mandato trasformerebbe il rapporto officioso in rapporto fiduciario). Probabilmente, riflettendo sul contenuto di un originario mandato fiduciario e dell’assistenza anche con nomina di ufficio, sulle indicazioni della disciplina deontologica, sul fatto che il mandato per impugnare è atto procedimentale neutro (ai fini della qualità fiduciaria o officiosa dell’assistenza perché è atto che consente al difensore di presentare l’atto di impugnazione, anche nella permanente qualità di difensore di ufficio), le critiche sembrano fiacche.
Se poi l’imputato, ritualmente citato (si ricordi, con specifica informazione sul tema: artt. 157.8-ter, ultima parte, e 161.01, ultimo periodo) e consapevole, rifugge il contatto con il difensore, la condotta, e le sue conseguenze (mancata impugnazione) difficilmente troverebbero giustificazione e protezione nella normativa costituzionale ed europea [v. L’imputato del giusto processo, cit., par. 4/4.2].
10. La prematura morte del comma 1-ter e la grave sofferenza del comma 1-quater dell’art. 581 cod. proc. pen.
10.2 Altra norma imminente (Disegno di legge di iniziativa governativa ora n. 808-A Senato) alla lettera o) dell’art. 2, nel testo proposto dalla Commissione giustizia) abroga del tutto il comma 1-ter(dichiarazione/elezione di domicilio) e limita la previsione del mandato al solo difensore di ufficio.
Per quanto detto, sono norme funzionali ai tempi accelerati di celebrazione dei giudizi di impugnazione che anche con le soluzioni adottate per la prossima prescrizione il Legislatore ha confermato e pretende.
11. A cui chiedere…
Chissà, forse un giorno potremo incontrare un Legislatore, gestore dell’attribuzione delle risorse e del potere di creare le norme, cui chiedere cosa davvero pensa di un sistema giustizia che possa effettivamente raggiungere l’obiettivo di una giustizia giusta in tempi ragionevoli. Per tutti.
Sommario: 1. Principi generali - 2. Le modifiche apportate dal d.l. n. 48/2023, convertito con modificazioni dalla l. n. 85/2023 – 3. Provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale – 4. Provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale - 5. L’aumento delle ammende in materia di sicurezza sul lavoro.
Questo contributo è parte dell'approfondimento in tema di infortuni inaugurato su questa Rivista il 1° marzo 2024 (v. L'emergenza nazionale degli infortuni sul lavoro e la risposta delle istituzioni: uno sguardo di insieme di Maria Laura Paesano, Le indagini in materia antinfortunistica e la sensibilità del pubblico ministero di Giuseppe de Falco).
1. Principi generali.
La sicurezza sul lavoro costituisce un aspetto essenziale per ogni organizzazione aziendale e non è un caso se il legislatore è intervenuto diverse volte per trattare questa materia, effettuando di volta in volta delle integrazioni.
Un riferimento normativo fondamentale è rappresentato dal Testo Unico sulla Sicurezza (d.lgs. n. 81/2008), un documento redatto dal governo, in particolare dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. In un unico testo sono presenti le norme relative alla sorveglianza sanitaria, alla prevenzione nei luoghi di lavoro, alla segnaletica di sicurezza e ai rischi generici, ad esempio la prevenzione degli incendi e le misure di primo soccorso.
Prima e dopo questa legge, tuttavia, vari interventi legislativi, a livello nazionale e comunitario (è il caso di un regolamento e una direttiva dell’UE, dunque da parte della Commissione Europea), hanno inserito dei tasselli importanti per disciplinare la sicurezza dei lavoratori operanti nelle imprese e garantirne i diritti.
L’art. 2087 c.c. costituisce il primo riferimento normativo in merito alla sicurezza sul lavoro. Tale articolo obbliga il datore di lavoro ad “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Da questo riferimento codicistico risalta un aspetto interessante: le misure che dovrà adottare il datore di lavoro per garantire sicurezza dei suoi dipendenti dipendono dalla particolarità del lavoro (la specifica attività svolta), l’esperienza (il numero di anni che vede i dipendenti impegnati in una certa mansione) e la tecnica (il livello di progresso tecnologico raggiunto in ambito di sicurezza del lavoro).
L’impulso ad introdurre innovazioni ancor più rilevanti sul piano della prevenzione è venuto dalla normativa euro unitaria. Dopo l’emanazione di Programmi d’azione e la creazione di un Comitato consultivo, e dopo le prime direttive degli anni ’70 e ’80, la Comunità europea è intervenuta in modo massiccio e rilevante sul tema della salute e sicurezza del lavoro in seguito all’introduzione nel Trattato originario dell’art. 118 A, che consentiva al Consiglio di deliberare in materia a maggioranza qualificata, e non più solo all’unanimità. Su questa nuova base, pur tra tante discussioni e difficoltà, sono state emanate una direttiva “madre”, la 89/391, di carattere generale, e varie direttiva “figlie”, di carattere specifico, recepite nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, successivamente integrato e modificato. La direttiva madre detta il quadro fondamentale in cui sono destinati ad inserirsi i futuri ulteriori interventi. Dalla espressione, rinvenibile nel Preambolo, per la quale il perseguimento delle finalità perseguite dalla direttiva non può essere condizionato da considerazioni di carattere esclusivamente economico viene tratta la conseguenza del valore relativamente autonomo dell’obiettivo del miglioramento delle condizioni di sicurezza e salute dei lavoratori rispetto al generale principio di libertà di iniziativa economica, estrinsecato nelle specifiche regole sulla libertà di circolazione (delle merci, dei lavoratori, dei servizi e dei capitali), di stabilimento e di concorrenza. La direttiva stessa delineava gli obblighi dei datori di lavoro in materia in maniera molto ambia e generale, senza esenzioni in relazione alla dimensione dell’impresa, ed intendeva accollarli agli stessi personalmente, con restrizione della possibilità di delega60. La recezione nel nostro Paese delle direttive comunitarie in materia di sicurezza è stata incerta, problematica, affidata ad interventi successivi nel tempo, complicata dall’esigenza di dare attuazione a nuove direttive ed a sentenze di condanna da parte della Corte di Giustizia61. È indubbio, tuttavia, che il quadro normativo che ne è derivato innovava notevolmente quello precedente ed era dotato di vari strumenti volti a dare effettività alle tutele di prevenzione. Il problema, se mai, era quello di un pronto e completo loro utilizzo. Le novità più significative di questa normativa costituite dall’obbligo imposto alle imprese di adottare un documento, da aggiornarsi periodicamente, che valutasse i rischi esistenti, individuasse le conseguenti misure prevenzionistiche e programmasse la loro attuazione (art. 4 del d.lgs. n. 626/1994); le imprese, poi, dovevano dotarsi di un servizio di prevenzione e protezione (artt. 8 e 9) e di un medico competente per la sorveglianza sanitaria (artt. 16 e 17); era prevista la nomina da parte dei lavoratori di un rappresentante per la sicurezza, cui si attribuivano ampli poteri di accesso, ispezione e controllo, nonché varie garanzie (artt. 18 e 19); si incrementavano le ipotesi di informazione e formazione dei lavoratori in materia di sicurezza (artt. 21 e 22); si individuavano le responsabilità del datore di lavoro, dei dirigenti, dei preposti e dei lavoratori (artt. 4 ss.) e si dettavano varie regole sui luoghi di lavoro (artt. 30 ss.), sull’uso delle attrezzature di lavoro (artt. 34 ss.), sull’uso dei dispositivi di protezione individuali (artt. 40 ss.), sulla movimentazione manuale dei carichi (artt. 47 ss.), sull’uso di attrezzature munite di videoterminali (artt. 50 ss.), sulla protezione da agenti cancerogeni (artt. 60 ss.) e biologici (artt. 73 ss.), si riformava il sistema delle sanzioni (artt. 89 ss.).
La prevenzione quale stella polare dell’aspetto dell’organizzazione del lavoro è presa in considerazione anche dal d.lgs. n. 81/2008.
Individuare le misure contemplate da tale provvedimento normativo per la sicurezza nelle aziende e dei relativi vantaggi non è semplice, in quanto abbastanza numerose.
Possiamo però citare le principali misure applicate non solo ai dipendenti, sia privati che pubblici (inclusi quelli della scuola, delle università e di altri enti di diritto pubblico o soggetti amministrativi pubblici equivalenti), ma anche a quei lavoratori autonomi che, in determinate situazioni, si ritrovano a lavorare all’interno di una certa azienda: valutazione del rischio (o dei rischi) relativamente a ciascuna attività dei lavoratori; gestione, amministrazione e riduzione dei rischi, anche mediante apposito servizio di prevenzione (ivi incluse tutte le prescrizioni di legge relative, per esempio, alla stesura del DVR, alla nomina e alla formazione di RSPP e ASPP, ai controlli e alle ispezioni da attuarsi in specifici casi e circostanze, e così via); attenzione particolare nell’utilizzo di agenti fisici, chimici e biologici negli ambienti di lavoro (compreso ogni tipo di ufficio) al fine di implementare ogni protocollo necessario a prevenire incidenti e a mantenere la piena agibilità degli ambienti, a garanzia della salute e della sicurezza dei lavoratori e di chiunque dovesse trovarsi nei medesimi ambienti di lavoro; controllo sanitario degli operatori; formazione specifica per lavoratori, preposti, dirigenti e rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; aggiornamento dei soggetti elencati nel punto precedente attraverso approfondimenti in conformità alle modifiche della legislazione sulla sicurezza del lavoro.
Tutto ciò è finalizzato alla diminuzione del bilancio degli infortuni sul lavoro. Il Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro contiene concetti quali l’obbligo della valutazione dei rischi: è il datore di lavoro il soggetto responsabile delle norme di sicurezza.
In tema di prevenzione e protezione per la corretta applicazione delle norme in vigore si rammentano: macchine e attrezzature di lavoro: l’utilizzo da parte dei lavoratori deve essere oggetto di specifica valutazione dei rischi, in relazione alle effettive condizioni d’uso (Titolo III del d.lgs. n. 81/2008), inoltre deve essere garantita la corretta manutenzione conformemente alle indicazioni dei fabbricanti ed alle norme tecniche di riferimento. Il rispetto dei requisiti essenziali di sicurezza (recepimento delle Direttive Ue, es. Direttiva Macchine) è condizione necessaria per la messa sul mercato, ma il datore di lavoro dell’impresa utilizzatrice è responsabile della valutazione del rischio; formazione e aggiornamento: lavoratori, preposti e dirigenti devono ricevere la formazione e l’aggiornamento periodici conformemente all’art. 37 del d.lgs. n. 81/2008 ed agli Accordi Stato-Regioni in vigore.
Il rispetto delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro passa anche attraverso il corretto indirizzo dei comportamenti dei lavoratori, che devono applicare correttamente le procedure di lavoro, segnalare i fattori di rischio, collaborare alla adozione delle misure di prevenzione e protezione in maniera attiva; controllo sul rispetto degli obblighi in materia di salute e sicurezza sul lavoro: nell’ambito del modello di organizzazione e gestione (art. 30 del d.lgs. n. 81/2008, che riporta anche i riferimenti alle sanzioni disciplinari), il datore di lavoro e i dirigenti devono impostare il controllo sul rispetto degli obblighi in capo a lavoratori (art. 20 del d.lgs. n. 81/2008) e preposti (art. 19 del d.lgs. s. n. 81/2008). I datori di lavoro e dirigenti, in difetto di questa vigilanza, rispondono anche degli eventi “addebitabili unicamente” a lavoratori e preposti (art. 18, comma 3 bis, del d.lgs. n. 81/2008).
Lavori in appalto: il datore di lavoro committente deve valutare i rischi da interferenze dovuti dalla presenza di imprese appaltatrici in azienda (art. 26 del d.lgs. n. 81/2008). Nei cantieri edili vale il Titolo IV.
La chiave per la gestione di questi aspetti è la valutazione dei rischi (art. 28 e 29 del d.lgs. n. 81/2008) che viene presidiata dagli RSPP e che deve riguardare tutti i rischi legati alle mansioni svolte dai lavoratori, compresi: rischi di natura psicosociale (stress lavoro-correlato); rischi legati al lavoro agile (l. n. 81/2017), con una attenzione specifica alla formazione ed alla informativa; aspetti connessi alla travel safety & security, per la salute e sicurezza dei lavoratori che viaggiano; rischio incendio; rischi legati ai luoghi di lavoro (compresi gli spazi confinati); rischi per le lavoratrici gestanti e puerpere (decreto n. 151/2001); rischio da Incidente rilevante (per le imprese che rientrano nel campo di applicazione del decreto n. 105/2015); rischi legati alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro (art. 28 del d.lgs. n. 81/2008);
Una delle misure generali più importanti introdotte dal Testo Unico è rappresentata dalla valutazione dei rischi. La legge fa riferimento anche ai rischi particolari cui sono esposti gli addetti ai lavori, come il rischio da stress correlato.
A tal riguardo, uno degli obblighi previsti dall’intervento legislativo più volte citato è la redazione di una particolare documentazione: il DVR (Documento di Valutazione dei Rischi).
Il modello tipico di questa sorta di manuale contiene i seguenti elementi: la relazione sulla valutazione dei rischi, in cui sono indicati i criteri adottati per stabilire le misure di protezione e prevenzione implementate (per esempio nella prevenzione incendi) e i dispositivi di protezione utilizzati; il programma delle procedure da adottare per migliorare i livelli di sicurezza delle strutture e infrastrutture aziendali; l’individuazione delle mansioni cui sono correlati rischi specifici, legate ad esempio all’utilizzo di impianti o particolari attrezzature, come particolari tipologie di sostegno per i lavoratori che operano sui cantieri costruiti per gli edifici: si tratta, nello specifico, di situazioni notoriamente a rischio che necessitano di maggiori investimenti da parte dell’azienda affinché le attività di costruzione, manutenzione e riparazione avvengano senza alcun inconveniente.
La responsabilità della redazione del DVR è del datore di lavoro, il quale spesso non ha i requisiti e la competenza professionale per metterlo a punto. Per questo egli può chiedere la consulenza di esperti, e il più delle volte il Documento è redatto in collaborazione con il RSPP e il medico competente (quando necessario), oltre che con l’assistenza del RLS.
Il DVR, per i fini specifici del servizio di prevenzione e protezione, va sottoposto a periodici aggiornamenti, secondo le disposizioni di legge. Il mancato aggiornamento del DVR, oltre a renderlo potenzialmente datato e inutile rispetto alle esigenze dell’azienda, comporta responsabilità anche molto gravi in capo al datore di lavoro.
RSPP, RLS e medico competente sono tre figure previste dal Testo Unico e che supportano il datore di lavoro svolgendo funzioni differenti, a garanzia della corretta implementazione delle norme in materia di sicurezza e a sostegno appunto della figura del datore di lavoro. Spesso, RSPP, RLS e medico competente lavorano a stretto contatto sia tra loro che con il relativo datore di lavoro, per esempio nel contesto della riunione periodica sulla prevenzione e sulla sicurezza aziendale.
Il primo è nominato dal datore di lavoro e svolge essenzialmente compiti di prevenzione e protezione dai rischi, individuandone i fattori ed elaborando procedure di sicurezza.
Il Rappresentante dei Lavoratori per la sicurezza, eletto direttamente dai lavoratori o individuato in un ambito del territorio, svolge diverse mansioni: si rivolge alle autorità competenti quando le misure adottate in azienda non sono conformi a garantire la sicurezza, riceve le informazioni dagli organi di vigilanza, può esprimere un consiglio in merito alla valutazione dei rischi.
Il medico competente svolge la funzione di sorveglianza sanitaria quando questa è prevista dalla legge.
2. Le modifiche apportate dal d.l. n. 48/2023, convertito con modificazioni dalla l. n. 85/2023
L’INAIL ha pubblicato nel gennaio 2023 i dati provvisori degli infortuni sul lavoro occorsi nell’anno precedente.
Realisticamente va detto che, ai numeri ufficiali dell’Istituto, vanno purtroppo aggiunti anche quelli relativi agli infortuni subiti dai lavoratori “in nero” che, molto spesso, non vengono neppure denunciati.
Il raffronto tra i dati del 2021 e del 2022 va fatto, dunque, con molta prudenza anche perché l’emergenza sanitaria da Covid-19 ne ha fortemente condizionato l’andamento infortunistico.
Fatta questa necessaria premessa, si evidenzia come nel 2022, rispetto all’anno precedente, si registri un aumento pari al 25,7% delle denunce di infortunio; tale incremento è conseguente tanto al più elevato numero di denunce infortunio da Covid-19 registrate, quanto dalla crescita degli infortuni “tradizionali” (sia in occasione di lavoro che in itinere). Per quanto riguarda le differenze di genere, i dati mostrano una maggiore incidenza degli eventi occorsi alle lavoratrici (+50,4% di quelli in occasioni di lavoro) rispetto a quelli denunciati per i maschi (+16,4% di quelli in occasioni di lavoro).
In compenso, nel 2022 si è assistito ad un lieve calo generale degli infortuni con esito mortale (-10,7%) dovuto soprattutto alla ridotta incidenza delle morti da contagio Covid-19 parzialmente vanificato, tuttavia, da un deciso incremento dei decessi in itinere (+21% rispetto al 2021).
Con la finalità di migliorare questo deprecabile fenomeno degli infortuni sul lavoro, il Governo è recentemente intervenuto approntando una serie di modifiche al d.lgs. n. 81/2008 (Testo unico della sicurezza sul lavoro). Difatti, con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto Lavoro (d.l. n. 48/2023, convertito con modificazioni dalla l. n. 85/2023) sono state introdotte alcune rilevanti novità sotto il profilo prevenzionistico. Qui di seguito si riportano le principali misure previste nel provvedimento: --a) l’obbligo di nomina del medico competente e l’estensione della sorveglianza sanitaria anche nei casi individuati dalla valutazione dei rischi (art. 18, co. 1, lett a) TUSL); --b) l’estensione degli obblighi di tutela a favore dei lavoratori autonomi e dei componenti dell’impresa familiare che, adesso, devono utilizzare le opere provvisionali in conformità alle disposizioni del titolo IV (cantieri mobili e temporanei), fermo restando che le attrezzature di lavoro devono essere utilizzate secondo quanto previsto dal titolo III (art. 21, co. 1, lett. a) TUSL); --c) il medico competente deve adesso richiedere al lavoratore la cartella sanitaria rilasciata dal precedente datore di lavoro e deve tenerne conto ai fini della formulazione del primo giudizio di idoneità dopo l’assunzione (art. 25, co.1, lett. e-bis) TUSL); --d) il medico competente, in caso di suo impedimento per gravi motivi, deve comunicare per iscritto al datore di lavoro il nome di un suo sostituto in possesso dei previsti requisiti per l’esercizio della funzione in sua assenza (art. 25, co. 1, n-bis) TUSL); --e) il datore di lavoro che usi personalmente attrezzature che richiedano conoscenze o responsabilità particolari, deve provvedere alla propria formazione e al proprio addestramento, fermo restando i casi in cui deve possedere l’abilitazione (art. 73, co. 4-bis) TUSL). Quest’obbligo è stato presidiato da un’apposita sanzione che prevede l’arresto da 3 a 6 mesi o l’ammenda da 3.071,27 a 7.862,44 euro a carico del contravventore (art. 87, co. 2, TUSL); --f) gli enti pubblici e privati devono condividere con l’Ispettorato Nazionale del Lavoro e rendere accessibili anche alla Guardia di Finanza i dati in loro possesso sui fattori di rischio riguardanti la salute e sicurezza del lavoro, di lavoro irregolare e di evasione od omissione contributiva; --g) è istituito un fondo per i familiari degli studenti vittime di infortuni occorsi durante i percorsi di alternanza scuola-lavoro, che deve essere coerente con il corso di studi seguito nonché avvenire presso imprese iscritte al relativo registro istituito presso il Ministero dell’istruzione e che abbiano aggiornato il proprio DVR con una sezione specifica relativa alle misure di prevenzione e ai DPI da adottare nei confronti degli studenti; --h) è istituita una tutela assicurativa sperimentale per studenti e docenti impegnati in attività formative; --i) nella Regione Sicilia e nelle Province autonome di Trento e Bolzano l’INL potrà impiegare proprio personale ispettivo anche per svolgere funzioni di polizia giudiziaria in materia di salute e sicurezza del lavoro.
Le suddette misure vanno ad aggiungersi alle non meno importanti novità apportate al TUSL poco meno di due anni fa per mezzo del D.L. n. 146/2021 (conv. in l. n. 215/2021), cambiamenti che hanno significativamente modificato l’organizzazione dei controlli sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro attribuendo, di fatto, all’INL un ruolo ancor più importante rispetto al passato.
3. Provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale.
Uno dei più efficaci provvedimenti per contrastare le irregolarità prevenzionistiche riscontrate dal personale ispettivo sui luoghi di lavoro è rappresentato dal provvedimento cautelare di sospensione dell’attività imprenditoriale previsto dall’art. 14, del d.lgs. n. 81/2008.
Questo provvedimento è stato introdotto nel 2006 con la finalità di reprimere il lavoro sommerso ed assicurare così una più efficace azione di prevenzione degli infortuni sul lavoro. La constatazione dalla quale il Legislatore, difatti, ha tratto spunto è che l’integrità psico-fisica dei lavoratori possa essere garantita soltanto se alla base vi sia un’assunzione regolare, giacché il personale irregolarmente assunto non è stato verosimilmente addestrato ed informato sui pericoli che caratterizzano l’attività svolta.
Sono legittimati a adottare il provvedimento in questione: --a) il personale ispettivo dell’INL (compresi i carabinieri del NIL), tanto nell’ipotesi di presenza di lavoratori irregolari quanto nell’ipotesi di gravi violazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro (il D.L. n. 146/2021 ha previsto che la competenza del personale ispettivo dell’INL fosse estesa a tutti i settori produttivi); --b) il personale delle Aziende sanitarie locali, limitatamente alla accertata presenza sui luoghi di lavoro di gravi violazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro; --c) il Comando provinciale dei Vigili del Fuoco, che ha competenza esclusiva e limitata alle violazioni in materia di prevenzione incendi.
Il provvedimento va adottato in tutti i casi in cui sia accertata - nell’unità produttiva ispezionata - una delle seguenti situazioni: --a) impiego di personale irregolare in misura pari o superiore al 10% del totale dei lavoratori regolarmente occupati; --b) gravi violazioni della disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro individuate dall’allegato I del medesimo TUSL.
A quest’ultimo riguardo, la l. n. 215/2021 ha previsto che il provvedimento cautelare vada adottato ogniqualvolta venga accertata una delle tredici violazioni-presupposto tassativamente previste nel riformulato Allegato I del TUSL.
Sotto il profilo soggettivo, questo provvedimento è destinato essenzialmente ai datori di lavoro che rivestono la qualifica d’imprenditore ai sensi degli artt. 2082 e/o 2083 c.c.
Sempre in ordine all’ambito applicativo, è stato confermato che il provvedimento interdittivo non possa essere adottato nel caso in cui il lavoratore "in nero" risulti l'unico occupato dall'impresa (c.d. microimpresa). In tali circostanze gli organi di vigilanza, in via cautelare, potranno disporre l’allontanamento del lavoratore fino a quando il datore di lavoro non abbia provveduto a regolarizzarlo, anche e soprattutto sotto il profilo della sicurezza.
A tal proposito, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro - in risposta ad un quesito dell’Ispettorato interregionale del lavoro di Roma e dopo aver sentito il parere del Ministero del lavoro – interpretando restrittivamente la norma ha chiarito che tale immunità non riguarda, tuttavia, la microimpresa nella quale sia occupato un dipendente in “nero” e che, allo stesso tempo, integri una delle gravi violazioni di natura prevenzionistica indicate nell’ Allegato I del d.lgs. n. 81/2008, ivi compresa la mancanza del Documento di valutazione dei rischi (DVR) o della nomina del Responsabile del servizio prevenzione e protezione (RSPP) che, da sole, sono sufficienti a giustificare l’adozione del provvedimento interdittivo (V. Lippolis, Sicurezza sul lavoro: cambiano regole e controlli contro gli infortuni, in https://www.dottrinalavoro.it).
L’eccezione normativa legata al requisito dimensionale, pertanto, riguarda soltanto la microimpresa che eventualmente occupi lavoratori irregolari senza integrare alcuna delle gravi violazioni previste dall’All. I del TUSL (INL, nota n. 162 del 24 gennaio 2023).
È stato appena pubblicato dall’INL il “Rapporto annuale delle attività di tutela e vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale 2022”. Dalla lettura dei dati aggregati contenuti nel documento emerge che, nel corso dell’anno 2022, su oltre 82mila ispezioni effettuate, ben il 72% dei datori di lavoro sia risultato irregolare ai controlli. Inoltre, sono stati tutelati dall’Agenzia quasi 110mila lavoratori e per circa un quarto di questi sono state riscontrate violazioni relative alla salute e sicurezza. Il settore produttivo con la maggior incidenza di violazioni prevenzionistiche è stato quello edile con oltre la metà di tutte le violazioni accertate.
Relativamente al totale delle violazioni penali di tipo prevenzionistico contestate dall’INL, quelle che fanno riferimento al campo di applicazione del D.Lgs. n. 81/2008, risultano pari a 24.980 e sono riconducibili principalmente alle violazioni in tema di formazione ed informazione (4765 violazioni accertate) ed alla sorveglianza sanitaria (4.419 violazioni accertate) Del totale delle violazioni accertate, è preoccupante constatare come il 22% di esse abbia riguardato il gravissimo rischio di caduta dall’alto.
Analizzando, infine, i dati relativi ai provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale adottati ai sensi dell’art. 14, del d.lgs. n. 81/2008 si può rilevare che il 34% dei provvedimenti cautelarti è stato adottato a fronte di gravi violazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro consentendo, per effetto della prevista procedura di revoca, l’eliminazione delle violazioni accertate.
Dalle informazioni sopra riportate si desume in modo evidente come l'attività di vigilanza svolta dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro sia estremamente incisiva. Tuttavia, per prevenire gli infortuni, non sono sufficienti soltanto i controlli e le sanzioni perché occorre che tutti i soggetti coinvolti si smarchino dal tradizionale approccio burocratico/normativo per approdare ad un più efficace ed efficiente approccio culturale di tipo “generativo” nel quale la sicurezza diventa una parte integrante del modo di operare.
4. I nuovi poteri di disposizione degli ispettori del lavoro: più tutele per i lavoratori.
La legge di conversione n. 120/2020 del d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni) ha integralmente sostituito l'art. 14 d.lgs. n. 124/2004 ampliando l'ambito applicativo del potere di disposizione degli ispettori del lavoro. Il personale dell'Ispettorato nazionale del lavoro potrà quindi ordinare al datore di lavoro di ripristinare la regolarità di un comportamento non sanzionato con una specifica sanzione penale o amministrativa. La novella consente pertanto di coprire tutte quelle violazioni in materia di lavoro e di legislazione sociale, non presidiate da sanzioni, ma che di fatto non tutelano i diritti dei lavoratori.
L'art. 12-bis del d.l. n. 76/2020, introdotto in sede di conversione dalla l. n. 120/2020, ha integralmente sostituito l'art. 14 del d.lgs. n. 124/2004 in materia di potere di disposizione degli ispettori del lavoro.
Il nuovo art. 14 afferma dunque che il personale dell'Ispettorato nazionale del lavoro può adottare nei confronti del datore di lavoro un provvedimento di disposizione, immediatamente esecutivo, in tutti i casi in cui le irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale non siano soggette a sanzioni penali o amministrative.
La nuova disposizione non elimina la previsione degli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 520/1955 che stabilisce che le disposizioni impartite dagli ispettori del lavoro in materia di prevenzione infortuni sono esecutive. Sono parimenti esecutive, quando siano approvate dal capo dell'Ispettorato provinciale competente le disposizioni impartite dagli ispettori per l'applicazione di norme obbligatorie per cui sia attribuito all'Ispettorato dalle singole leggi un apprezzamento discrezionale.
Differente previsione è quella dell’art. 302-bis del d.lgs. n. 81/2008 (T.U. in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) che prevede che gli organi di vigilanza - quindi anche l'Asl - impartiscono disposizioni esecutive ai fini dell'applicazione delle norme tecniche e delle buone prassi, laddove volontariamente adottate dal datore di lavoro e da questi espressamente richiamate in sede ispettiva, qualora ne riscontrino la non corretta adozione, e salvo che il fatto non costituisca reato.
Dunque, il potere di disposizione può essere esercitato da un lato nelle materie degli infortuni e sicurezza del lavoro; dall'altro nella materia del lavoro e della legislazione sociale. In quest'ultimo caso trova applicazione il novellato art. 14 d.lgs. n. 124/2004, la cui portata applicativa è molto ampia.
L'Ispettorato nazionale del lavoro con la circolare n. 5 del 30 settembre 2020 ha fornito le prime indicazioni per un corretto utilizzo del nuovo potere di disposizione da parte del personale ispettivo.
Innanzitutto, è opportuno precisare che il provvedimento di disposizione disciplinato dall'art. 14 cit. è prerogativa dell'ispettore del lavoro, diversamente da quello previsto dal T.U. in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro che può essere esercitato anche dai funzionari dell'Asl.
In secondo luogo, la circolare delimita il campo di applicazione stabilendo che la disposizione è adottabile dagli ispettori del lavoro "in tutti i casi in cui le irregolarità rilevate in materia di lavoro e di legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative". Pertanto, l'esercizio del potere di disposizione è discrezionale nelle ipotesi di mancato rispetto sia di norme di legge sprovviste di una specifica sanzione, sia di norme del contratto collettivo applicato anche di fatto dal datore di lavoro. L'Ispettorato, invece, precisa che non appare opportuno il ricorso al potere di disposizione in riferimento ad obblighi che trovano la loro fonte in via esclusiva in una scelta negoziale delle parti, non derivanti quindi dalla legge o da previsioni collettive fermo restando che, qualora tali obblighi abbiano natura patrimoniale, sussiste sempre la possibilità di ricorrere alla conciliazione monocratica o alla diffida accertativa.
Appare evidente, perciò, l'ampiezza del campo applicativo del potere di disposizione.
Si pensi, ad esempio, al caso dei lavoratori notturni (art. 1, c. 2, lett. e, d.lgs. n. 66/2003) che devono essere sottoposti a controlli preventivi e periodici, almeno ogni due anni, volti a verificare l'assenza di controindicazioni per la loro salute; gli ispettori potranno quindi disporre all'azienda l'adeguatezza del controllo sanitario in relazione al rischio a cui è esposto il lavoratore notturno. L'irregolarità riscontrata dall'ispettore, allora, non attiene alla violazione di una norma presidiata da sanzione, ma concerne la mancata tutela della salute del lavoratore.
In materia di collocamento obbligatorio, l'ispettore potrebbe ordinare al datore di lavoro la cessazione dello svolgimento di mansioni non compatibili con le minorazioni del lavoratore assunto obbligatoriamente (art. 10, c. 2, l. n. 68/1999).
Altra ipotesi è la concessione di un adeguato riposo compensativo durante il giorno per il lavoratore domestico che abbia espletato prestazioni lavorative notturne (art. 8, c. 2, l. n. 339/1958).
Il Tar Lobardia ha riconosciuto la legittimità dell'esercizio del potere di disposizione di cui all'art. 14 d.lgs. n. 124/2004 (Tar Lombardia, 28 marzo 2011, n. 830).
In particolare, è stata ritenuta legittima la disposizione dell'ispettore del lavoro con la quale si prescrive l'uso di un sistema meccanico di rilevamento delle presenze con indicazione degli orari di entrata e di uscita, al fine di consentire agli organi di controllo la verifica dell'osservanza della normativa in materia di orario di lavoro, con specifico riferimento al rispetto del riposo settimanale di 11 ore consecutive nell'arco di 24 ore e della pausa intermedia ogni 6 ore di lavoro, non rilevabile dal libro unico del lavoro.
Il decreto semplificazioni nulla innova sul versante dei ricorsi. Il datore di lavoro, pertanto, può esperire ricorso avvero il provvedimento di disposizione (che si ricorda è pur sempre un provvedimento amministrativo e come tale deve essere motivato) entro 15 giorni dalla notifica al direttore dell'Ispettorato territoriale del lavoro, il quale dovrà decidere entro i successivi 15 giorni. Decorso inutilmente il termine previsto per la decisione il ricorso si intende respinto (c.d. silenzio-rigetto). Inoltre, il ricorso non sospende l'esecutività della disposizione.
Nei confronti del provvedimento è possibile ricorrere anche al tribunale amministrativo regionale solo per motivi di legittimità e non di opportunità; mentre è escluso che possano essere esperiti i rimedi degli artt. 16 e 17 d.lgs. n. 124/2004.
Sul piano sanzionatorio, la mancata ottemperanza all'ordine di disposizione comporta l'applicazione di una sanzione amministrativa da 500 a 3.000 euro, senza possibilità di applicare la procedura di diffida di cui all'art. 13 d.lgs. n. 124/2004. Ciò vuol dire che non troverà spazio il pagamento della sanzione nella misura del minimo previsto dalla legge ovvero nella misura pari ad un quarto della sanzione stabilita in misura fissa; ma la sanzione in misura ridotta ai sensi dell'art. 16 l. n. 689/1981 pari alla terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa o, se più favorevole e qualora sia stabilito il minimo della sanzione edittale, pari al doppio del relativo importo; che, nel nostro caso, porterà la sanzione all'importo di euro 1.000 (ovvero il doppio del minimo).
Invece, per la mancata ottemperanza alla disposizione di cui all'art. 10 d.P.R. n. 520/1955 - impartita in relazione alla materia della prevenzione degli infortuni o in relazione ad altre norme di legge per le quali è previsto un apprezzamento discrezionale da parte del personale ispettivo - trova applicazione la sanzione amministrativa da 512 a 2.580 euro o la pena dell'arresto fino a un mese o dell'ammenda fino a 413 euro se l'inosservanza riguarda disposizioni impartite dagli ispettori del lavoro in materia di sicurezza o igiene del lavoro.
5. L’aumento delle ammende in materia di sicurezza sul lavoro.
Le ammende e le sanzioni amministrative sono strumenti utilizzati dallo Stato e dalle autorità competenti per far rispettare leggi, regolamenti e norme. Servono a raggiungere diversi obiettivi, tra cui: - deterrenza: le sanzioni e le ammende hanno lo scopo di scoraggiare le persone dal commettere violazioni delle leggi o regolamenti. Sapendo che possono affrontare conseguenze finanziarie o legali per le loro azioni, le persone sono così più propense a rispettare le norme; - riparazione: in molti casi, vengono utilizzate per riparare i danni causati da un'azione illegale o inappropriata; - finanziamento pubblico: le ammende possono costituire una fonte di entrate per lo Stato o le autorità locali. Questi fondi possono essere utilizzati per finanziare servizi pubblici, progetti di infrastruttura o altre iniziative; - giustizia: le sanzioni servono anche a garantire che le persone rispondano delle loro azioni di fronte alla legge. Possono essere utilizzate per punire chiunque infranga le leggi o i regolamenti, assicurando che ci sia una conseguenza proporzionata all'illecito commesso;
- regolamentazione: le ammende possono essere utilizzate per regolare determinate attività economiche o comportamenti; - prevenzione: le sanzioni possono essere un mezzo per prevenire situazioni pericolose o comportamenti indesiderati.
L’art. 306, co. 4-bis del d.lgs. n. 81/2008 (TUSL) prevede che, ogni cinque anni, le ammende relative alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal decreto stesso, nonché da atti aventi forza di legge, vadano indicizzate al costo della vita.
Pertanto, la D.G. per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro del Ministero del Lavoro, dopo aver verificato che l’indice ISTAT dei prezzi al consumo ha complessivamente registrato nel quinquennio 2019-2023 un aumento pari al 15,9%, ha decretato un equivalente incremento di tutte le ammende e le sanzioni amministrative previste dal TUSL, nonché da atti aventi forza di legge.
Pertanto, le ammende riferite alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal d.lgs. n. 81/2008, nonché da atti aventi forza di legge, sono rivalutate nella misura del 15,9%. È quanto prevede il decreto n. 111 del 20 settembre 2023 a firma del Direttore Generale per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro del Ministero del lavoro e delle politiche sociali pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 242 del 16 ottobre 2023.
Si fa presente che l’incremento del 15,9% va calcolato sugli importi delle sanzioni vigenti al 30 giugno 2023 e, analogamente a quanto previsto nelle precedenti rivalutazioni, si applica esclusivamente alle ammende e alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate per le violazioni commesse successivamente al 1° luglio 2023.
Si evidenzia che l’incremento in questione non si applica alle “somme aggiuntive” di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 81/2008 che occorre versare ai fini della revoca del provvedimento cautelare di sospensione dell’attività imprenditoriale. Difatti, come rammentato più volte dall’INL, tali somme non costituiscono propriamente una “sanzione” (V. Lippolis, Salute e sicurezza sul lavoro: aumentano sanzioni e ammende in caso di violazioni, in https://www.dottrinalavoro.it).
(Fonte immagine: https://www.flickr.com/photos/iloasiapacific/48895853102, ILO/M. Fossat)
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