ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Un tema attuale, non certo nuovo; 2. I molteplici volti dell’imparzialità del magistrato; 3. Dall’obiettivo dell’imparzialità ai rischi della neutralità culturale; 4. L’“apparenza” d’imparzialità e la fiducia nel potere giudiziario; 5. Il dovere di apparire imparziale come regola di condotta del magistrato; 6. L’apparenza d’imparzialità e i possibili limiti di contenuto alla libertà d’espressione del magistrato: riserbo, non silenzio; 7. Quali regole per imporre “equilibrio e riserbo” e garantire l’immagine d’imparzialità della magistratura, tra hard law …; 8. … e soft law: la deontologia giudiziaria e il ruolo del C.S.M.; 9. Osservazioni conclusive.
1. Un tema attuale, non certo nuovo
Si fa un gran parlare di libertà d’espressione dei magistrati e di limiti alla stessa associabili[1]. Alcuni recenti episodi hanno ravvivato il dibattito, reso incandescente, una volta di più, dal clima di notevole tensione che caratterizza i rapporti tra magistratura e politica[2].
Il tema è attuale ma non certo nuovo, se è vero che già nel 1907, certamente in un contesto diverso da quello odierno, l’allora ministro della Giustizia, Vittorio Emanuele Orlando, adottava una circolare dedicata alle “Manifestazioni personali dei magistrati per mezzo della stampa”[3].
La questione, caso mai, risulta essere oggi “alterata” da alcuni fattori inediti, quali, tra tutti, la repentina affermazione di nuove forme di esercizio della libertà di esprimersi e di comunicare, a cominciare da quelle veicolate attraverso la rete o i social, tanto peculiari e per certi aspetti dirompenti da richiedere una verifica della tenuta delle tradizionali coordinate di riferimento.
Il tema richiama a prima vista l’esigenza di un bilanciamento tra libertà costituzionali del magistrato, ovviamente titolare dei diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento a ogni cittadino, e altri interessi di rango costituzionale eventualmente concorrenti[4]. Con riguardo poi ad alcuni specifici diritti costituzionali, quali la libertà di iscriversi a un partito politico, di svolgere attività in senso lato politica, di associarsi, di riunirsi e appunto di manifestare il proprio pensiero, si presenta la necessità di contemperare gli stessi con quello rappresentato dalla necessaria imparzialità che deve caratterizzare la funzione giurisdizionale, nelle varie declinazioni in cui essa, come dirò meglio più avanti, può essere predicata. Va da sé che l’esito di tale contemperamento di interessi può comportare, a seconda dei casi, una compressione, totale o parziale, del diritto coinvolto.
Le fonti che sottolineano l’esigenza di tale bilanciamento sono innumerevoli, sul piano internazionale e su quello interno. Numerose di esse verranno richiamate nel prosieguo.
Per adesso è sufficiente citare, per tutte, l’art. 10, comma 2, C.E.D.U., dedicato appunto alla libertà di espressione, ove si precisa che l’esercizio di tale libertà, comportando “doveri e responsabilità”, può essere sottoposto a “formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni”, le quali costituiscono misure necessarie, in una società democratica, allo scopo di preservare una serie di interessi tra i quali la garanzia della “autorità e imparzialità del potere giudiziario”[5].
“Autorità” e “imparzialità”, due valori fondamentali sui quali mi riservo di tornare.
2. I molteplici volti dell’imparzialità del magistrato
Com’è stato sostenuto, la ragione determinante per la quale l’ordinamento assegna al magistrato compiti di natura giurisdizionale “sta nelle garanzie che egli offre di provvedervi in modo adeguato e imparziale”[6]. L’imparzialità è un connotato imprescindibile della giurisdizione e una qualità essenziale all’idea stessa di magistrato[7]: un magistrato non imparziale non è un magistrato[8].
Le peculiari garanzie che la Costituzione riconosce ai magistrati, a cominciare dall’indipendenza, sono, in ultima analisi, strumentali a preservare tale qualità, la quale, a propria volta, è finalizzata ad assicurare l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla giustizia. Per questa ragione può affermarsi che il fondamento costituzionale dell’imparzialità dei magistrati e della funzione giudiziaria risiede direttamente nell’art. 3 Cost. e, indirettamente, nell’art. 101, comma 2, Cost., ai sensi del quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
A tale proposito, appare secondaria la circostanza che tale concetto, così essenziale, sia stato espressamente inserito nella Carta costituzionale soltanto con la legge cost. n. 2/1999, che, com’è noto, ha introdotto, al comma 2 dell’art. 111, la previsione ai sensi della quale ogni “giusto processo” deve svolgersi “davanti a giudice terzo e imparziale”. Si può aggiungere che, mentre l’approccio seguito dagli estensori dell’art. 111 Cost. esalta l’imparzialità come caratteristica oggettiva della funzione giurisdizionale, la diversa l’impostazione seguita nell’art. 6 C.E.D.U., ove si prevede che ciascun individuo ha diritto a che la propria causa sia esaminata “equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale”, privilegia la prospettiva del cittadino dinanzi al sistema giustizia, presentando l’imparzialità come un diritto soggettivo della parte di un processo.
Più in concreto, per imparzialità del giudice s’intende il suo essere in partenza super partes rispetto alla controversia da decidere, al fine di preservare la correttezza del processo attraverso il quale si forma il suo convincimento. Come ha precisato la Corte costituzionale, “va escluso, nel giudice, qualsiasi anche indiretto interesse nella causa da decidere” e qualsiasi “pregiudizio” o “convinzione precostituita”[9]. Per imparzialità del giudice, in altre parole, s’intende la sua equidistanza iniziale rispetto agli interessi che si confrontano nella causa dinanzi a lui pendente[10]. Ancora, per la Corte l’esercizio della funzione deve essere “libero da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza”[11].
Da queste condivisibili affermazioni del Giudice costituzionale si possono ricavare due prime interlocutorie conclusioni.
In primo luogo, l’imparzialità, pur essendo un valore costitutivo della funzione giudiziaria, non è un requisito che c’è o non c’è, bianco o nero, bensì esso si presenta spesso in una molteplicità di variazioni e situazioni diverse, per cui è vero che, in parte almeno, esso si impone al magistrato come un obiettivo da perseguire in ogni processo; non un presupposto della sua personalità ma un risultato che egli deve volta per volta realizzare all’atto del decidere[12].
Quest’idea dinamica dell’imparzialità, per inciso, è ben colta nell’art. 9 del Codice etico dell’A.N.M. del 2010, ai sensi del quale il magistrato, “nell’esercizio delle sue funzioni, opera per rendere effettivo il valore dell’imparzialità”.
In secondo luogo, l’imparzialità può essere effettivamente “misurata” soltanto all’interno di una vicenda processuale e nel momento in cui la funzione giudiziaria viene esercitata. Se infatti imparzialità significa che il percorso decisionale seguito dal magistrato non deve essere condizionato da fattori diversi dai fatti e dalle prove dedotte nel giudizio, ne consegue che la verifica del raggiungimento di tale risultato sarà possibile soltanto a conclusione del percorso, dinanzi a una motivazione che dia conto (anche) dell’effettiva imparzialità del giudizio.
Nessuna regola può assicurare che tale risultato venga effettivamente acquisito.
D’altra parte, è ovvio che l’ordinamento, agendo in via cautelativa, abbia affinato alcuni strumenti che, pur non potendo assicurare in senso assoluto l’imparzialità del risultato, fungono da presidi preventivi per scongiurare, per quanto possibile, occasioni che potrebbero favorire delle valutazioni parziali. Essi sono di varia natura e attengono sia alle modalità con le quali il processo è regolato sia alle caratteristiche del soggetto che è chiamato a decidere, atteso che, come detto, l’imparzialità riguarda, allo stesso tempo, sia il processo sia il giudice.
Tali istituti possano essere classificati in ragione della loro maggiore o minore vicinanza all’oggetto del giudizio.
Soltanto a titolo di esempio, è utile richiamare una delle previsioni più caratteristiche tra quelle poste a tutela dell’imparzialità, ovvero l’art. 51 c.p.c. sull’astensione del giudice. Tra le ipotesi di astensione obbligatoria troviamo sia la sussistenza di un interesse del giudice nella causa sia l’esistenza di legami di coniugio, parentela fino al quarto grado, convivenza, rapporti di stretta amicizia (commensale abituale) con una delle parti o con un difensore, ovvero la grave inimicizia, sua o della moglie, con una delle parti o con un difensore, o infine la circostanza di essere tutore, curatore, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti.
Si tratta di fattispecie tra loro piuttosto diverse: alcune di esse attengono appunto all’esistenza di un interesse diretto del giudice nella causa, ciò che, per il legislatore, rende quest’ultimo pregiudizialmente “incapace” di esercitare imparzialmente la giurisdizione; altre evidenziano un interesse solo potenziale e/o del tutto indiretto, che tuttavia il legislatore ha ritenuto di far rientrare tra le ipotesi che, pur con meno intensità delle prime, sono idonee a mettere a rischio la prerogativa del giudice di essere imparziale.
Se poi passiamo ai casi di astensione facoltativa, la suddetta gradualità di situazioni appare con maggiore evidenza, atteso che la norma consente al giudice di chiedere l’autorizzazione ad astenersi “in ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza”; si tratta di casi in relazione ai quali il magistrato è chiamato a compiere un giudizio prognostico non soltanto sulla sua capacità di essere effettivamente imparziale ma anche sul rischio che si possano ingenerare all’esterno dubbi sulla sua reale serenità e indipendenza di giudizio.
Com’è stato sottolineato, con l’art. 51 c.p.c. il legislatore ha mostrato attenzione “a che il processo si svolga innanzi a un giudice che non soltanto sia ab intra, ma soprattutto appaia ab extra, alle parti e alla comunità intera, sereno e rigoroso custode del compito demandatogli dall’ordinamento, dai suoi stessi concives e nel loro nome: giudicare gli interessi del prossimo con imparzialità ed equanimità, senza pregiudizi di alcun genere che possano inquinare la cognizione e la decisione sul caso”[13].
Lo ha confermato di recente la stessa Corte di Cassazione, quando, proprio in tema di astensione del giudice civile, ha sottolineato che tale istituto giuridico garantisce “sia l’indipendenza del singolo giudice sia il prestigio della sua funzione”[14].
Insomma, anche nella disciplina dell’astensione, l’istituto più classico dell’imparzialità del giudice, tale valore viene richiamato alludendo ad aspetti diversi dello stesso concetto, alcuni più vicini al cuore del problema, ovvero l’assenza di interessi diretti nel processo, altri via via più distanti ma orientati a quello stesso obiettivo[15]; mano a mano che ci si allontana dall’oggetto del giudizio il canone dell’imparzialità mette in risalto anche altri interessi di rilievo costituzionale, quali, in primo luogo, il prestigio e l’autorevolezza del potere giudiziario e la fiducia dei cittadini nei confronti dello stesso.
Sul punto tornerò più avanti. Ora vorrei rimarcare che, quando giustamente si afferma che l’imparzialità è un termine “polisenso” e pertanto suscettibile di assumere significati diversi e diverse sfaccettature[16], si deve aggiungere che questi diversi significati sono spesso così strettamente legati tra loro da rendere arduo il tentativo di tracciare una precisa linea di confine.
3. Dall’obiettivo dell’imparzialità ai rischi della neutralità culturale
La circostanza che il giudice debba essere imparziale non significa che egli non possa - e per certi versi non debba - essere portatore, con riferimento a una determinata controversia, di una sua idea generale, di una personale inclinazione, di un’esperienza di vita potenzialmente in grado di orientare la decisione; vale a dire, non è possibile ritenere che l’imparzialità pretenda la completa spersonalizzazione del giudice.
Come ha osservato ancora la Corte costituzionale, l’imparzialità del giudice “non può essere intesa in modo così lato e generico da farvi rientrare anche l’interesse che egli, come privato cittadino, possa avere a una determinata soluzione di problemi di principio inerenti a quella controversia, non essendoci giudice che non sia, al tempo stesso, elettore, pubblico dipendente, proprietario od affittuario, creditore o debitore …”[17].
Imparzialità, in altre parole, non significa indifferenza o neutralità culturale.
E ciò - si può aggiungere - risulta vero tanto più oggi e per almeno due concorrenti ragioni.
In primo luogo, perché, com’è noto, la sfera della discrezionalità interpretativa del giudice si è progressivamente ampliata.
Mentre nell’impostazione tradizionale, teorizzata da Montesquieu, la funzione giurisdizionale era qualificata come esercizio di un potere “nullo” e l’attività giudiziaria era concepita come una meccanica applicazione della volontà della legge, più di recente si è diffusa la contraria consapevolezza per la quale la stessa attività si caratterizza per unconsiderevole margine di libertà. Si è passati, nello spazio di circa un secolo, dal giudice mera “bocca della legge” alla “verità banale” della natura creativa dell’attività interpretativa[18]; o meglio, com’è stato detto, è platealmente venuta al pettine una contraddizione fondamentale che albergava nella cultura giuridica classica: “il giudice non deve creare diritto, eppure non può non crearlo”[19].
Tali trasformazioni si sono realizzate in forza di alcuni fattori eterogenei, quali la crescente complessità delle società moderne pluraliste, il rapporto diverso in cui è venuto a trovarsi il giudice rispetto alla legge in un sistema a Costituzione rigida, il principio di prevalenza del diritto dell’Unione europea su quello interno, i mutamenti riguardanti la rilevanza delle norme contenute nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il fenomeno della crisi della legge, spesso oscura, lacunosa, frammentata. In questo contesto, per inciso, è maturata anche la nota tendenza al c.d. “protagonismo giudiziario” e sono aumentate le occasioni di contrasto tra il piano della legislazione e quello della giurisdizione[20].
Per quanto qui più interessa, va da sé che i nuovi spazi dell’interpretazione del giudice non possono che essere “occupati” - o meglio orientati - anche dalle convinzioni personali e dalla visione del mondo di cui egli è portatore: pur nei limiti di ciò che il testo consente, sempre più spesso l’interpretazione richiede al giudice (anche) scelte ideali e di valore.
In secondo luogo, è divenuta del tutto insostenibile, in quanto incompatibile con la democrazia pluralista, l’idea classica del “magistrato-sacerdote”, isolato nella “torre d’avorio” e distaccato dalla vita della comunità[21].
Del resto, come di recente è stato efficacemente ricordato[22], il mito del magistrato “disincarnato”, estraneo alla dialettica culturale e politica del suo tempo, è stata in passato funzionale non tanto all’obiettivo dell’indipendenza e dell’imparzialità bensì ad un’adesione dello stesso al blocco storico-politico dominante, quale strumento di omologazione alla maggioranza del momento.
Per magistrati apolitici si intendeva, in altre parole, magistrati allineati.
Se dunque non si può pretendere un giudice senza idee e senza passioni, è peraltro vero che ciò comporta delle conseguenze in ordine al suo dovere d’imparzialità. Proprio perché il magistrato, oggi più che in passato, è “una persona carica di esperienze, animata da convinzioni, ispirata da ideali” - che dunque al momento del decidere non potrà che utilizzare questo suo mondo interiore per leggere la realtà all’interno della quale si cala la causa - egli dovrà riuscire a non farsi del tutto condizionare da tale lettura, rimanendo il più possibile indipendente (e imparziale) anche da se stesso, in una “consapevole tensione verso l’obiettività nello svolgimento della propria attività professionale”[23].
Anche da questa prospettiva l’imparzialità si presenta come un risultato da perseguire caso per caso.
4. L’“apparenza” d’imparzialità e la fiducia nel potere giudiziario
Si è accennato ai molteplici volti dell’imparzialità.
In particolare, è opinione diffusa che il giudice, oltre a essere imparziale, debba mostrare anche un’apparenza d’imparzialità, ovvero non debba trovarsi in situazioni o tenere comportamenti tali da far venir meno la fiducia delle parti e della comunità nella sua posizione equanime e disinteressata.
Sul punto occorre partire da una precisazione.
Si è anticipato che sostanza e apparenza d’imparzialità, pur essendo concetti autonomi - del resto, si può essere imparziali senza apparire tali e, viceversa, apparire imparziali e non esserlo in concreto[24] - nei fatti si rivelano spesso unite in modo inestricabile e ciò anche per il fatto che le regole poste a presidio dell’una assicurano, in misura variabile, anche il rispetto dell’altra. Allo scopo di assicurare il canone dell’imparzialità, infatti, il legislatore deve immaginare in anticipo le situazioni che potrebbero metterla a rischio sulla base di un giudizio prognostico, fondato su previsioni ipotetiche; difficile separare l’apparenza dalla sostanza.
Ciò precisato, quando si richiama specificamente l’apparenza d’imparzialità s’intende fare riferimento a una serie differenziata di condotte del magistrato - tra le quali sono certamente ricomprese le forme di manifestazione del pensiero - tenute al di fuori del processo e ad esso riconducibili in modo del tutto indiretto.
Si pensi, a titolo di esempio, alle ipotesi, evocate dai citati casi Apostolico e Degni, di un magistrato che partecipa a una manifestazione politica o a un dibattito pubblico, in rete o sui social media, su un tema d’attualità dal vasto impatto sociale (l’appartenenza politica, l’ambiente, i migranti, ecc.) e alle conseguenze di tali manifestazioni del pensiero sulla percezione esterna che si forma di tale magistrato circa la sua capacità di decidere imparzialmente un’eventuale causa rispetto alla quale tali temi siano in qualche misura rilevanti.
La casistica è infinita ma è possibile fornire qualche indicazione di ordine generale.
Partendo dal fondamento costituzionale, l’interesse all’apparenza d’imparzialità può essere individuato in due disposizioni della Carta ulteriori rispetto a quelle che si pongono a fondamento dell’apparenza in senso stretto.
Innanzi tutto, nell’art. 98, comma 2, Cost., ai sensi del quale “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”; essa è, in fondo, la sola disposizione che affronta direttamente il problema, atteso che il divieto d’iscrizione ad un partito politico è posto soprattutto a tutela dell’immagine d’imparzialità.
Lo ha sottolineato del resto la stessa Corte costituzionale, con la sent. n. 224/2009, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett. h) del d. lgs. n. 109/2006, ove si sanziona disciplinarmente non soltanto l’iscrizione ma anche la partecipazione sistematica e continuativa del magistrato ad un partito politico; nell’occasione il Giudice delle leggi ha osservato che tale disposizione, pur non limitandosi a prevedere il divieto d’iscrizione formale, rappresenta comunque una ragionevole attuazione dell’art. 98, comma 3, Cost., dal momento che anche la partecipazione sistematica e continuativa alla vita di un partito è suscettibile, al pari dell’iscrizione, di condizionare “l’esercizio indipendente ed imparziale delle funzioni e di compromettere l’immagine del magistrato”[25].
Inoltre, un’altra disposizione costituzionale che sembra opportuno richiamare è l’art. 54, comma 2, Cost., ai sensi del quale “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
Si tratta di un dovere di fedeltà “qualificato”, rafforzato ulteriormente dalla previsione del giuramento[26], teso a orientare le modalità esterne dell’operare del funzionario - e ovviamente anche del magistrato - e ad esaltare il suo senso di “responsabilità”, atteso che il suo operato è, immancabilmente, “destinato a riflettersi sull’immagine che di quella medesima istituzione i cittadini percepiscono e ad incidere, perciò, sulla fiducia che dovrebbero potervi riporre e sul rispetto che le dovrebbero portare”[27].
Il collegamento con l’art. 54 Cost. consente di confermare come l’apparenza d’imparzialità ponga al centro dell’attenzione l’interesse alla “fiducia” o alla “credibilità” nei confronti del singolo magistrato e, allo stesso tempo, della magistratura nel suo complesso[28].
Anche questo non è un tema nuovo: già Piero Calamandrei osservava che “per godere della fiducia del popolo, ai giudici non basta essere giusti ma occorre anche che si comportino in modo da apparire tali”[29].
Lo ha ricordato la Corte di Giustizia dell’Unione europea, sottolineando come, in una società democratica, i giudici devono ispirare la fiducia dei cittadini, a cominciare dalle parti del procedimento[30].
Di recente, anche la Corte di Cassazione, a conclusione del noto caso Emiliano[31], dopo aver sottolineato che “il giudice ha il dovere non soltanto di essere imparziale ma anche di apparire tale”, ovvero di essere “al di sopra di ogni sospetto di parzialità”, ha aggiunto: “con la differenza che, mentre l’essere parziale si declina in relazione al concreto processo, l’apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l’esercizio della giurisdizione come funzione sovrana; l’essere magistrato implica un’immagine pubblica di imparzialità”.
Tutto ciò, ha sottolineato ancora la Cassazione, “per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto”[32].
L’importanza della “immagine pubblica di imparzialità” del magistrato è stata sottolineata anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. In più occasioni - ora con riferimento alla garanzia dell’equo processo, di cui all’art. 6 C.E.D.U., ora con riguardo ai possibili limiti alla libertà di espressione, ai sensi dell’art. 10 C.E.D.U. - essa ha affermato che l’imparzialità del giudice deve essere apprezzata secondo un criterio “soggettivo” e un criterio “oggettivo”: il criterio soggettivo consiste nello stabilire se, dalle convinzioni personali e dal comportamento di un determinato giudice, si possa desumere che egli abbia un’idea preconcetta rispetto a una particolare controversia sottoposta al suo esame; il criterio oggettivo impone invece di valutare se esistano fatti verificabili che possano generare dubbi sulla sua imparzialità.
A tale proposito, anche l’apparenza è rilevante perché, ha sottolineato ancora la Corte europea, “non si deve solo fare giustizia, ma si deve anche vedere che è stata fatta, essendo in gioco la fiducia che i giudici debbono ispirare nell’opinione pubblica”[33].
L’apparenza d’imparzialità del singolo magistrato, quindi, contribuisce ad assicurare la fiducia dei cittadini nella magistratura intesa come istituzione, “legittimandola” presso i cittadini; obiettivo di vitale importanza, se è vero, com’è stato detto, che il potere giudiziario non deve andare alla ricerca del consenso ma non può fare a meno della fiducia, che è il vero “banco di prova del tasso di legittimità dei magistrati”[34].
Al contrario, com’è stato osservato, ove dovesse insinuarsi il sospetto di deviazioni da un percorso logico-giuridico scevro da prevenzioni o interesse condizionanti, si romperebbe quel rapporto di fiducia e potrebbero trovare spazio “attacchi delegittimanti che rendono difficile l’accettazione pacifica degli esiti delle controversie giudiziarie”[35].
Si tratta, in un certo senso, di un risvolto peculiare del carattere diffuso del potere giudiziario, che parla attraverso ogni suo singolo giudice non soltanto con la sentenza che adottata ma anche, entro certi limiti, con le condotte che tiene.
Si avverte anche l’eco dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, citato in precedenza, quando esso richiama, unitamente all’imparzialità, il valore dell’“autorità” del potere giudiziario tra quelli il cui perseguimento può giustificare limitazioni alla libertà di espressione.
5. Il dovere di apparire imparziale come regola di condotta del magistrato
L’apparire imparziale, anche aldilà del concreto esercizio della funzione giurisdizionale, costituisce quindi un dovere del singolo magistrato.
Nella notissima sent. n. 100/1981, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 del r.d.lgs. n. 511/1946[36], la Corte costituzionale ha riconosciuto la compatibilità di tale previsione, tra l’altro, con l’art. 21 Cost. atteso che indipendenza e imparzialità sono valori che devono essere tutelati sia con riferimento al concreto esercizio della funzioni giurisdizionale sia come “regola deontologica”, da osservarsi in ogni comportamento, “al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della indipendenza ed imparzialità dei magistrati”.
La difficoltà risiede nel comprendere in cosa effettivamente debba sostanziarsi tale regola di condotta e, di conseguenza, nell’individuare in concreto il punto di equilibrio tra la sua osservanza e la libertà costituzionale di manifestazione del pensiero.
In particolare, con riguardo alla libertà di espressione, occorre chiedersi se il dovere di apparire imparziali comporti in capo al magistrato limiti di forma o anche di contenuto.
Promettendomi di affrontare la questione degli eventuali limiti di contenuto nel successivo paragrafo, con riguardo a quelli di forma mi pare non vi possano essere dubbi e numerose sono le indicazioni utilizzabili in proposito.
In proposito, di estremo interesse la già citata sent. n. 170/2018, nella quale, pur partendo da una questione riguardante i limiti che il magistrato incontra nello svolgere attività politica all’interno di un partito, si ricorda come l’esercizio dei diritti di cui agli artt. 17, 18 e 21 Cost. sia condizionato dalla circostanza che esso si realizzi con “equilibrio e misura”, che devono caratterizzare ogni comportamento di rilevanza pubblica del magistrato.
L’invito alla “moderazione” si ritrova in molti documenti di varia natura e provenienza: possono richiamarsi, tra gli altri, il Codice etico dell’Associazione nazionale magistrati[37] e il Parere del Comitato consultivo dei Giudici europei del 2022, che si conclude con una serie di raccomandazioni tra le quali quella a mente della quale, “nell’esercitare la loro libertà di espressione, i giudici devono tener conto delle loro specifiche responsabilità e dei loro doveri nella società; devono quindi esercitare restraint nell’esprimere i loro punti di vista e opinioni in ogni circostanza in cui, dal punto di vista di un osservatore ragionevole, le loro dichiarazioni potrebbero compromettere l’indipendenza o imparzialità e la dignità del loro ufficio o mettere in crisi l’autorevolezza del potere giudiziario”[38].
In definitiva, il primo e unico limite di metodo che il magistrato incontra nell’esercizio della libertà di manifestare il proprio pensiero all’esterno della funzione giudiziaria si sostanzia in un invito, a seconda delle varie formule utilizzate, alla “moderazione”, alla “sobrietà”, alla “continenza”, alla “compostezza” o all’“equilibrio”.
Si tratta, a prima vista, di indicazioni piuttosto vaghe[39]; o meglio, condivisibili e chiare nella loro essenza ma di difficile definizione in concreto. Circostanza, com’è stato osservato, che impone uno scrutinio non particolarmente stretto del controllo sul loro rispetto, indirizzato a sanzionare i casi estremi, di evidente assenza di moderazione[40].
Inoltre, come ben si evidenzia nel citato parere del Comitato consultivo dei giudici europei del 2022, appare decisivo individuare l’interlocutore-tipo rispetto al quale deve misurarsi la correttezza della condotta del magistrato, affinché la stessa non trasmodi in una lesione dell’apparenza d’imparzialità e dunque della fiducia nella magistratura; risposta che viene in quella sede individuata nell’“osservatore ragionevole”, ovvero nel “cittadino-medio”, vale a dire una persona “mediamente ragionevole, imparziale e informata”[41].
Circostanza che rafforza ulteriormente l’idea dell’estrema vaghezza dei concetti presi in considerazione e della conseguente necessità che il controllo sulle manifestazioni del pensiero del magistrato che esorbitano i criteri di equilibrio e misura debba essere orientato a scoraggiare le deviazioni più gravi ed evidenti.
6. L’apparenza d’imparzialità e i possibili limiti di contenuto alla libertà d’espressione del magistrato: riserbo, non silenzio
Discorso diverso, invece, quello riguardante la possibilità, allo scopo di assicurare la sua immagine d’imparzialità, d’immaginare in capo al singolo magistrato anche dei limiti di contenuto, ovvero di poter precludere allo stesso di esternare le proprie idee su determinati temi.
È evidente che dei limiti s’impongono con riguardo alle esternazioni che attengono ai contenuti dei procedimenti trattati dal magistrato o sono comunque strettamente collegate all’attività dell’ufficio.
Rilevano, a tale proposito, alcune puntuali disposizioni disciplinari contenute nel d.lgs. n. 109/2006:
a) art. 2, comma 1, lettera u), ove si prevede come illecito “la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui”;
b) art. 2, comma 1, lettera v), che sanziona le “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui, nonché in violazione del divieto di cui all’art. 5, commi 1, 2, 2-bis e 3, del d. lgs. n. 106/2006” (in merito alle informazioni riguardanti le attività delle Procure della Repubblica);
c) art. 2, comma 1, lettera aa), ove si prevede l’illecito consistente nel “sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero [nel] costituire e utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati”.
Per quanto riguarda invece le esternazioni non collegate a procedimenti giudiziari in corso, la sola indicazione che pare ragionevole fornire è quella per cui certi argomenti più “sensibili”, di maggior impatto sociale e/o politico, impongono al magistrato doveri d’equilibrio e misura corrispondentemente più rigorosi[42].
Per il resto, è ben difficile anche solo ipotizzare l’idea di escludere a priori determinati contenuti della libertà di espressione del magistrato senza cadere in una violazione irragionevole della stessa libertà.
Viene in soccorso, ancora, la giurisprudenza della Corte E.D.U., laddove essa - definendo cause che hanno coinvolto ordinamenti statali nei quali le garanzie d’indipendenza della magistratura sono state poste a rischio - si è soffermata con estrema attenzione su tale delicatissimo bilanciamento. Da un lato, essa ha ricordato, ancora una volta, che la missione particolare del potere giudiziario impone ai magistrati un dovere di riserbo, anche perché “le parole del magistrato sono ricevute come frutto di una valutazione obiettiva” ed esse impegnano non solo chi le esprime, ma tutta l’istituzione giudiziaria.
Tuttavia, dall’altro lato - ed è quanto qui ora più interessa - la Corte E.D.U. ha precisato che, “il fatto che un dibattito abbia delle implicazioni politiche non è ragione per impedire ad un giudice di esprimersi in proposito”; anzi, quando il magistrato si esprime nella qualità di attore della società civile, “egli ha talora il dovere, non solo il diritto, di intervenire”[43].
La giurisprudenza della Corte E.D.U., dunque, aggiunge un altro tassello di cui tenere conto nel contemperamento di interessi: la libertà d’espressione non è soltanto un diritto fondamentale del singolo ma, tanto più quando i connotati essenziali dello stato di diritto paiono messi a rischio, essa è espressione anche di un interesse della collettività intera. In questo senso, può dirsi che l’imparzialità della magistratura, intesa nella sua immagine esterna, ha come “controvalori” anche la libertà di essere informati dai cittadini.
7. Quali regole per imporre “equilibrio e riserbo” e garantire l’immagine d’imparzialità della magistratura, tra hard law…
Occorre, a questo punto, chiedersi quale debba essere la natura e il rango delle fonti destinate ad incidere sulla libertà d’espressione del magistrato; e poiché i limiti all’esercizio di un diritto costituzionale devono essere posti per legge, o per atto avente forza di legge, occorre avviare la ricognizione dal piano delle fonti primarie[44].
Già si è detto, a tale proposito, che sono previsti con fonte primaria - in particolare dal d. lgs. n. 109/2006, sotto forma di illeciti disciplinari - i limiti alla libertà di espressione del magistrato inerenti all’esercizio delle funzioni giudiziarie.
Per quanto riguarda, però, i limiti riguardanti le esternazioni rese al di fuori dell’attività giudiziaria - ovvero i richiamati doveri di riserbo e di misura, finalizzati a garantire l’apparenza d’imparzialità - il discorso è più nebuloso.
Fino al 2006 la norma più calzante in proposito era senza dubbio l’art. 18 della legge sulle guarentigie della magistratura (r.d.lgs. n. 511/1956), laddove essa stabiliva che “il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari …”.
Proprio su tale previsione, del resto, si era fondato quell’indirizzo della giurisprudenza costituzionale - sopra richiamato [45]- secondo cui imparzialità e indipendenza sono valori che il magistrato deve apprezzare alla stregua di una “regola deontologica”, da osservarsi in ogni comportamento; e non sono mancati negli anni, ancorché non frequentemente, taluni provvedimenti della Sezione disciplinare del C.S.M. che, in applicazione di tale norma, hanno sanzionato esternazioni improvvide, ritenute lesive del prestigio dell’ordine[46].
Tuttavia, com’è noto, anche sulla scia di un annoso dibattito che ne aveva stigmatizzato l’eccessiva genericità e indeterminatezza, tale previsione è stata abrogata con il d. lgs. n. 109/2006, che, a propria volta, a parte una generica previsione ai sensi della quale “il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con correttezza, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona” (art. 1), dedica alla questione ben pochi riferimenti.
In particolare, se si fa eccezione del richiamato divieto d’iscrizione o partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici (art. 3 del d. lgs. n. 109/2006) - che, come detto, è teso a garantire l’imparzialità soprattutto nella sua immagine esterna - nessuna disposizione è prevista a tale riguardo[47].
Nella prima versione del decreto n. 109, in realtà, la situazione era assai diversa, dal momento che esso contemplava tre illeciti rilevanti in proposito, tutti successivamente abrogati con legge n. 269/2006 in ragione della loro eccessiva indeterminatezza:
a) tenere, anche fuori dall’esercizio delle proprie funzioni, “comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio della istituzione giudiziaria” (art. 1, comma 2);
b) il “rilascio di interviste o dichiarazioni in violazione dei criteri di equilibrio e misura” (art. 2, comma 1, lettera bb);
c) ogni altro comportamento “tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza” (art. 3, comma 1, lettera l).
Soprattutto quest’ultima disposizione - che, non a caso, nel corso del dibattito originato dal citato caso Apostolico, alcuni avrebbero volute reintrodurre[48] - era espressamente orientata alla garanzia dell’immagine d’imparzialità dei magistrati; d’altra parte, la sua estrema genericità e il connesso rischio che la stessa potesse prestarsi ad attuazioni imprevedibili e potenzialmente illiberali ha convinto il Parlamento a procedere alla sua repentina abrogazione.
Tale vicenda dimostra l’estrema difficoltà in cui si trova il legislatore quando tenta di regolare in astratto fattispecie così impalpabili, essendo arduo fissare una volta per tutte il punto di equilibrio del bilanciamento tra gli interessi coinvolti in questo frangente e alto il rischio di arrecare un vulnus a principi costituzionali più grave del vantaggio che si intende perseguire[49].
Tuttavia, non è forse impossibile immaginare, nel contesto della tipizzazione rigida che caratterizza il sistema italiano di giustizia disciplinare, una fattispecie nuova di illecito, meno indeterminata di quelle appena richiamate, che sia volta a sanzionare i casi più eclatanti di deviazione dai canoni di continenza e riserbo riferiti ad esternazioni del magistrato non direttamente collegate all’esercizio della funzione disciplinare[50].
Per inciso, in linea teorica, un’altra soluzione applicabile, sotto il profilo in senso lato sanzionatorio, potrebbe essere quella del trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge sulle guarentigie della magistratura, ai sensi del quale il C.S.M può adottare tale provvedimento “quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa, [i magistrati n.d.r.] non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità”[51].
Tale soluzione, peraltro, oltre a poter essere utilizzata esclusivamente in casi estremamente gravi e peculiari, per intervenire in maniera rapida in situazioni che, per la loro consistenza obbiettiva, siano idonee a mettere in discussione la credibilità dell’esercizio della funzione giudiziaria in uno specifico contesto, potrebbe essere praticabile soltanto accedendo a una interpretazione dell’art. 2, comma 2, ai sensi della quale per “causa indipendente da loro colpa” si intenda, un pò forzatamente, “prive di rilevanza disciplinare”; interpretazione, com’è noto, sovente accolta e praticata dal C.S.M. ma certamente non priva di controindicazioni[52].
8. … e soft law: la deontologia giudiziaria e il ruolo del C.S.M.
Non è dunque agevole risolvere la questione sul piano dell’intervento “repressivo” del legislatore. Sembrano in definitiva più adeguati - in linea di principio anche in concorso con i primi - strumenti più “morbidi”, di soft law, volti a promuovere comportamenti virtuosi, più che a reprimere e sanzionare le deviazioni dagli stessi.
In questa direzione si pongono alcuni recenti documenti, di carattere sovranazionale e nazionale, citati in precedenza[53].
Limitandomi alle prospettive realizzabili in ambito statale, ne segnalo due, che rappresentano altrettante possibili soluzioni del problema.
Una prima soluzione è rappresentata dalla deontologia giudiziaria e, in particolare, dalle indicazioni contenute nel Codice etico del 2010. Tale documento, all’art. 6, comma 2, sollecita il magistrato a ispirare le proprie condotte a criteri di “equilibrio, dignità e misura”; e, al successivo art. 8, precisa che “il magistrato garantisce e difende, all’esterno e all’interno dell’ordine giudiziario, l’indipendente esercizio delle proprie funzioni e mantiene una immagine di imparzialità e di indipendenza”.
Per inciso, alla luce anche dello sviluppo della tecnologia e dei social media, alcune norme del Codice etico potrebbero essere utilmente aggiornate.
La seconda soluzione risiede in un intervento diretto dell’organo di governo autonomo della magistratura, sulla falsariga di quanto ha fatto di recente, con riguardo alla magistratura amministrativa, il Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa attraverso l’adozione delle “Linee guida sull’utilizzo dei social media”[54].
Tali linee guida sono espressamente dedicate a promuovere le condotte virtuose dei magistrati amministrativi con riguardo alle manifestazioni del loro pensiero soprattutto attraverso i social. Tra di esse si legge che “i magistrati amministrativi utilizzano i social media, quale forma della libertà di manifestazione del pensiero, nel rispetto dei canoni di comportamento da essi esigibili, anche nella vita privata, secondo i codici etici dei magistrati amministrativi e le vigenti norme disciplinari, al fine di salvaguardare il prestigio e l’imparzialità dei singoli magistrati e della giustizia amministrativa nel suo insieme e la fiducia di cui sia i singoli che l’Istituzione devono godere nell’opinione pubblica”; e ancora, che “i magistrati amministrativi fanno un uso dei social media ispirato a parametri di consapevolezza dei rischi e dei vantaggi derivanti dall’utilizzo di tale forma di comunicazione, e di assunzione di responsabilità individuale per comportamenti e dichiarazioni divulgati con tali mezzi”; e infine che “i magistrati amministrativi adottano elevati parametri di continenza espressiva, utilizzando un linguaggio adeguato e prudente rispetto a tutte le interazioni in essere sulle piattaforme di social media, nonché con riferimento al rischio della perdita di controllo del o dei contenuti immessi ed alla tipologia di contenuto oggetto di pubblicazione e diffusione”.
Entrambe le soluzioni, quella del Codice etico e quella delle Linee guida adottate dall’organo di governo autonomo - tra loro non alternative anche se andrebbero probabilmente coordinate - avrebbero il vantaggio della flessibilità, di avere una natura eminentemente promozionale e di essere orientate a costruire una cultura diffusa di attenzione a tali problemi.
Nessuna delle due, peraltro, appare priva di controindicazioni.
Quanto alla prima, lasciare alle sole norme deontologiche il compito di garantire l’immagine d’imparzialità dei magistrati sconta un’evidente debolezza che risiede sia nella stessa natura “fragile” di tali regole, dalla finalità eminentemente persuasiva, sia nel procedimento di formazione delle stesse: ovvero, nella circostanza che la definizione e il rispetto di tali norme è affidato per legge a un’associazione privata (l’A.N.M.) alla quale non tutti i magistrati sono iscritti e dalla quale non tutti potrebbero sentirsi “rappresentati”[55].
Quanto alla seconda, la predisposizione di “Linee guida” da parte dell’organo del governo autonomo della magistratura - in prospettiva il C.S.M. si sta ponendo tale problema[56] - potrebbe far conseguire il risultato con maggiore efficacia ma sconterebbe il rischio di un’eccessiva concentrazione, in capo a tale organo, di molteplici ed eterogenee funzioni: quella promozionale-orientativa propria delle eventuali “Linee guida”, quella disciplinare esercitata dalla Sezione e infine quella riguardante le valutazioni di professionalità.
Concentrazione che, pur da non doversi escludere in modo assoluto, determinerebbe probabilmente alcune criticità[57].
9. Osservazioni conclusive
Difficile, in conclusione, individuare la soluzione più adeguata allo scopo di presidiare il dovere di ciascun magistrato di preservare l’immagine d’imparzialità. L’alternativa tra intervento legislativo in ambito disciplinare, misure di natura deontologica e possibile adozione da parte del C.S.M. di Linee guida comporta, per ciascuna di tali soluzioni, costi e benefici che non rendono agevole la scelta.
In linea di principio, sarebbe possibile pensare ad un intervento su più livelli.
In conclusione, mi sentirei di riprendere l’osservazione fatta in apertura: il tema di cui oggi si discute non è affatto nuovo e il dibattito attuale andrebbe depurato di alcuni evidenti esagerazioni.
Certamente, come detto, sono nuove le forme del comunicare, più dirette, efficaci, immediate, durature e meno controllate, impensabili soltanto qualche anno fa. Circostanza che, pur non mettendo a rischio le coordinate teoriche e giuridiche richiamate in precedenza, inserisce nel bilanciamento relativo ai singoli casi concreti degli elementi inediti di cui occorre tenere conto[58].
Si pensi, a tale proposito, alla circostanza che le manifestazioni del pensiero, quando finiscono nella rete, sono destinate a rimanerci tendenzialmente per sempre e a “spuntare fuori” al momento opportuno, all’esito di una semplice “ricerca”. Dato, quest’ultimo, che, se da un lato sembra rafforzare l’esigenza di equilibrio e misura nelle esternazioni del magistrato, dall’altro lato non può certo rappresentare un fattore di compressione “continuativa” della libertà di espressione.
Altrettanto certamente si sono registrati, nei tempi più recenti, dei protagonismi eccessivi da parte di alcuni magistrati, delle esternazioni abbondantemente sopra le righe, che non hanno fatto un buon servizio alla credibilità della magistratura nel suo insieme. E tuttavia, si è trattato di episodi isolati, in un contesto di una magistratura composta da migliaia di magistrati, spesso i primi a provare imbarazzo dinanzi agli eccessi dei colleghi.
Ma vi è un altro elemento nuovo di cui non si può non tenere conto, ovvero la crescente strumentalizzazione politica del tema.
Ciò che più colpisce, infatti, è la diffusa insofferenza di una larga parte della classe politica nei confronti delle esternazioni non gradite provenienti anche da cittadini-magistrati, che conduce con troppa leggerezza a sollevare polemiche pretestuose circa presunte violazioni dell’imparzialità, con ciò screditando - magari avendo anche altri fini - la legittimità e l’autorità della magistratura come istituzione.
Situazione che non può non preoccupare, perché essa mette a rischio non soltanto il pluralismo democratico ma anche i tratti costitutivi dello Stato di diritto.
[1] Di grande interesse, da ultimo, le riflessioni contenute nel numero monografico di Questione giustizia, n. 1/2 del 2024, intitolato Magistrati: essere o apparire imparziali.
[2] Di recente si sono registrati i casi, pur tra loro diversi, della giudice Iolanda Apostolico - la quale, alcuni anni prima dell’adozione di un provvedimento con il quale non aveva convalidato il trattenimento di uno straniero, aveva partecipato a una manifestazione pubblica a sostegno dei migranti; cfr. per tutti N. Rossi, Il caso Apostolico: essere e apparire imparziali nell’epoca dell’emergenza migratoria, in Questione giustizia, 10 ottobre 2023 - e del consigliere (di nomina governativa) della Corte dei Conti Marcello Degni, autore di un messaggio social nel quale aveva duramente criticato la manovra economica varata dal Governo (cfr. V. Azzolini, Il consigliere della Corte dei Conti Marcello Degni ha sbagliato, il Pd lo censuri senza remore, in Domani, 8 gennaio 2024).
[3] Lo ricorda C. Bologna, La libertà di espressione dei “funzionari”, Bologna, 2020, 150 e, prima ancora, S. De Nardi, La libertà di espressione dei magistrati, Napoli, 2008, 555 s.
[4] Cfr. per tutti A. Pizzorusso, Appunti per lo studio della libertà di opinioni dei funzionari: ambito soggettivo del problema, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, 1631 ss.
[5] Questo il testo completo dell’art. 10, comma 2, C.E.D.U.: “L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.
[6] A. Pizzorusso, Giustizia e giurisdizione: nozioni fondamentali, ora in L’Ordinamento giudiziario, vol. 1, Napoli, 2019, 13.
[7] Cfr. P. Gaeta, Poteri e garanzie (la magistratura), in Enc. Dir., Milano, 2023, 843 ss.
[8] Per quanto la Corte costituzionale le richiami sovente come se fossero intercambiabili (cfr. Corte cost., sent. n. 240/2003), è utile precisare che imparzialità e terzietà, spesso associate, non sono concetti del tutto sovrapponibili: l’imparzialità attiene alla posizione sostanziale del magistrato rispetto agli interessi in gioco nel processo mentre la terzietà evoca una collocazione anche formale di equidistanza dalle parti.
A tale proposito può dirsi che la terzietà rappresenta la forma più intensa d’imparzialità, richiesta al solo magistrato giudicante, mentre l’imparzialità contraddistingue anche il magistrato requirente, che assume il ruolo di parte nel processo, sebbene, a differenza dell’avvocato difensore, di parte pubblica.
A tale proposito v. Corte cost., sent. n. 34/2020, dove si evidenzia l’“asimmetria strutturale” tra i due principali antagonisti del processo penale e si sottolinea che il principio di parità non si traduce in un’assoluta simmetria di poteri: l’avvocato e il pubblico ministero sono due realtà tra loro “irriducibili”, nella misura in cui il primo è un privato professionista il cui mandato è quello di assicurare al meglio gli interessi del suo assistito, a prescindere dal dato sostanziale della sua colpevolezza o innocenza (ovvero difendere i suoi diritti fondamentali: in primis, la sua libertà personale), mentre l’altro è un soggetto pubblico, che agisce nell’esercizio di un potere ed è chiamato a garantire l’interesse generale alla ricerca della verità nel processo.
[9] Corte cost., sentt. nn. 60/1969 e 155/1996.
[10] È del tutto ovvio che il giudice, avendo il compito di decidere, deve alla fine, per così dire, scegliere una parte, ovvero distribuire i torti e le ragioni, ma ciò avviene sulla base di un percorso e di un atteggiamento in partenza disinteressato ed equidistante.
[11] Corte cost., sent. n. 18/1989.
[12] Cfr. L. De Renzis, L’imparzialità del giudice: un obiettivo raggiungibile, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 20 ss.
[13] Così A. Tedoldi, Astensione, ricusazione e responsabilità dei giudici, in Commentario del Codice di Procedura Civile, a cura di S. Chiarloni, Libro primo: Disposizioni generali, 54.
[14] Cass. civ., sez. un., sent. n. 24148/2013.
[15] Analogamente, con riguardo all’art. 34 c.p.p., la Corte costituzionale ha ricordato che la disciplina della incompatibilità del giudice per atti già compiuti nel procedimento è volta a garantire il “giusto processo” tramite “un giudizio imparziale, che non sia né possa apparire condizionato da precedenti valutazioni del giudice” (Corte cost., sent. n. 177/1996).
[16] Cfr. Volpi, L’imparzialità dei magistrati e la loro partecipazione alla vita politico-sociale, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 57 ss.
[17] Così Corte cost., sent. n. 135/1975.
[18] Cfr., per tutti, M. Cappelletti, Giudici legislatori?, Milano, 1984, I ss.
[19] M. Barberis, Separazione dei poteri e teoria giusrealista dell’interpretazione, in Analisi del diritto 2004. Ricerche di giurisprudenza analitica, a cura di P. Comanducci e G. Guastini, Torino, 2005, 1 ss.
In argomento, da ultimo, cfr. I. Massa Pinto, Il dilemma del giudice che non deve produrre diritto, ma che non può non produrlo: il costituzionalismo e le ragioni di Creonte, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 90 ss.
È noto che, nell’esperienza italiana, uno snodo cruciale del cammino verso la suddetta consapevolezza è stato rappresentato dal Convegno di Gardone nel 1965, in occasione del quale, tra gli orientamenti più radicali, si manifestò addirittura l’idea secondo cui i magistrati avrebbero dovuto essere considerati portatori di un proprio “indirizzo politico-costituzionale”; cfr. G. Maranini, Funzione giurisdizionale e indirizzo politico nella Costituzione, in Funzione giurisdizionale ed indirizzo politico nella Costituzione, Atti del XII Congresso nazionale magistrati italiani, Gardone Riviera, 25-28 settembre 1965, Roma, 1966, 7 ss.
Nella mozione finale del Convegno di Gardone viene espressamente rifiutata “la concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad un’attività puramente formalistica, indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese”, per affermare che “il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione giudiziaria, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione”. La mozione è ripresa in A. Pizzorusso (a cura di), L’ordinamento giudiziario, Bologna, 1974, 31, in nota.
[20] Cfr. ora, per tutti, M. Luciani, Ogni cosa al suo posto, Milano 2023, spec. 147 ss.
[21] Cfr. G. Persico, La nuova magistratura, Roma, 1945, 46, che osservava, allora, che i magistrati “dovranno considerare la loro missione come un vero e proprio sacerdozio …”.
[22] G. Silvestri, Imparzialità del magistrato e credibilità della magistratura, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 42 ss.
[23] N. Rossi, Sull’imparzialità dei magistrati: intelligenze e competenze diverse a confronto, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 7.
[24] T. Giovannetti, I magistrati, la politica e l’insostenibile peso dell’apparenza, in Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti, a cura di G. Campanelli, F. Dal Canto, E. Malfatti, S. Panizza, P. Passaglia e A. Pertici, Torino, 2010, 371 ss.
[25] Analogamente sul punto, v. anche Corte cost., sent. n. 170/2018.
[26] Cfr., per i magistrati, l’art. 9 del r.d. n. 12/1941.
[27] Così R. Rordorf, L’art. 54 della Costituzione, in La magistratura, 22 aprile 2022.
Per un “rilancio” del dovere sotteso alla “disciplina ed onore” dei funzionari pubblici, v. F. Merloni, R. Cavallo Perin (a cura di), Al servizio della Nazione, Milano, 2009, 1 ss.
[28] Analogamente, cfr. P. Curzio, Una questione di fiducia, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 50 ss.
[29] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, 1954, 239.
Di recente il Capo dello Stato ha ricordato che “l’imparzialità della decisione va tutelata anche attraverso l’irreprensibilità e la riservatezza dei comportamenti individuali, così da evitare il pericolo di apparire condizionabili o di parte” (S. Mattarella, Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i magistrati ordinari in tirocinio, 15 giugno 2023, disponibile su www.quirinale.it.).
[30] Cfr. C.G.U.E., C-585/18 del 19 novembre 2019, richiamata anche in R. Sanlorenzo-E. Scoditti, Presentazione. Le ragioni di questo fascicolo, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 9.
[31] Vicenda cui si riferiscono anche le già citate pronunce costituzionali nn. 224/2009 e 170/2018. Per un esame di tale complessa vicenda giudiziaria sia consentito il rinvio a F. Dal Canto, Magistrati e impegno politico: problemi e prospettive a partire dalla recente definizione della vicenda Emiliano, in Giustizia insieme, 21 luglio 2020.
[32] Cass. civ, sez. un., sent. n. 8906/2020. Cfr. anche Corte Cost., sent. n. 197/2018 e ord. n. 81/1995.
[33] Cfr., ex multis, Corte E.D.U., Danilet v. Romania, sent. 20 febbraio 2024; Daineliene v. Lituania, sent. 16 ottobre 2018; Kamenos contro Cipro, sent. 31 ottobre 2017; Morice v. Francia, sent., Grande Camera, 23 aprile 2015; Dragojevic v. Croazia, sent. 15 gennaio 2015; Di Giovanni v. Italia, sent. n. 9 luglio 2013; Castello Algar v. Spagna, 28 ottobre 1998; Piersack v. Belgio, sent. 1° ottobre 1982.
[34] L. Ferrajoli, Etica e giurisdizione. I fondamenti teorici, in Scuola superiore della magistratura, 15 aprile 2024, di cui si riporta il seguente brano: “non è il consenso, ma la fiducia dei cittadini e soprattutto delle parti in causa, primi tra tutti gli imputati, il banco di prova del tasso di legittimità dei magistrati. Consenso e fiducia sono sentimenti tra loro diversi. Il consenso è l’adesione o la condivisione del merito dei provvedimenti giudiziari, frutto talora delle pressioni dell’opinione pubblica e dell’inclinazione dei giudici a soddisfarle. La fiducia riguarda invece la correttezza, la soggezione alla legge, il rispetto delle garanzie e l’indipendenza dei magistrati ed è anzi tanto maggiore quanto più è sorretta dalla convinzione che essi siano capaci, ripeto, di assolvere quando tutti pretendono la condanna e di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione”.
[35] Così G. Silvestri, Imparzialità del magistrato e credibilità della magistratura, cit., 44.
[36] Ai sensi del quale veniva sanzionato disciplinarmente il magistrato che teneva una condotta che lo rendeva “immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere” o comprometteva “il prestigio dell’ordine giudiziario”; com’è noto, tale previsione è stata abrogata con il d.lgs. n. 109/2006.
[37] Cfr., in particolare, l’art. 6, ripreso più avanti nel testo.
Si veda anche, di recente, la Mozione del 36° Congresso dell’A.N.M., svoltosi a Palermo il 12 maggio 2024, disponibile su www.anm.it., ove si legge, tra l’altro: “proprio perché riteniamo che il contributo del magistrato possa essere particolarmente qualificato per l’apporto delle specifiche ed uniche peculiarità professionali, è importante che queste traspaiono nella scelta del linguaggio e dell’argomentazione, evidenziando così anche le differenze rispetto alla comunicazione pubblica del politico o di portatori di diverse culture”.
[38] Parere n. 25/2022 del Comitato consultivo dei Giudici europei, adottato a Strasburgo il 2 dicembre 2022, dedicato alla Libertà di espressione, reperibile su www.coe.int/CCJE, sul quale si veda E. Bruti Liberati, La libertà di espressione dei giudici in Europa, in Questione giustizia, 2023.
[39] Cfr. N. Rossi, Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in Questione giustizia, n. 4/2018, 250, il quale raccomanda che il magistrato “parli e argomenti in modo chiaro e comprensibile, che partecipi al dibattito pubblico come un attore razionale, capace di ascolto degli argomenti altrui e di repliche meditate; che non prorompa nell’urlo fazioso, nell’invettiva, nella semplificazione magari brillante ma brutale e fuorviante”.
Cfr. anche V. Roppo, Su imparzialità e indipendenza del magistrato: concetti, principi, casi, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 55.
[40] Cfr. G. Silvestri, Imparzialità del magistrato e credibilità della magistratura, cit., 46.
Cfr. anche C. Bologna, La libertà di espressione dei “funzionari”, cit., spec. 188 ss., che invita ad evitare la “tirannia dell’apparenza”.
[41] In argomento, entrami criticamente, cfr. T. Giovannetti, I magistrati, la politica e l’insostenibile peso dell’apparenza, cit., 378 e L. Pepino,Apparire imparziali: ma agli occhi di chi? in Magistrati: essere e apparire imparziali, cit., 47 ss., che legge nella richiesta ai giudici di apparire imparziali un disegno di omologazione alla maggioranza e al pensiero dominante.
[42] Cfr. Mozione del 36° Congresso A.N.M., cit., 2, ove si legge: “Più in generale è necessario prendere atto che, per una parte dell’uditorio, le dichiarazioni rese dal magistrato vengono percepite quali espressioni di pensieri e valori riferibili all’intera magistratura e la comunicazione deve quindi adeguarsi a questo dato quanto a scelta dei temi, stile e contenuti. Siamo consapevoli della difficoltà di perimetrare un ambito predefinito dei temi, ma certamente ne fanno parte quelli attinenti alla funzione, al ruolo e alle attribuzioni della magistratura, così come quelli correlati alle leggi sostanziali e processuali che ne governano l’operato, comprese quelle che definiscono, accrescono o restringono il catalogo dei diritti. Né possono essere esclusi i temi che, essendo pertinenti all’equilibrio tra i poteri definiti dalla Costituzione, incidono, anche indirettamente, sul ruolo della giurisdizione rispetto agli altri poteri pubblici. Non vi è dubbio che, in ogni caso, il magistrato debba sempre interrogarsi se vi sia un interesse a ricevere le sue opinioni e valutazioni e se la sua cultura e la sua esperienza possano arricchire in modo qualificante il dibattito pubblico sul tema specifico, ovvero essere di pari valore rispetto a quelle espresse da ogni altro cittadino”.
[43] Cfr. Corte E.D.U., San Leonard Band Club v. Malta, sent. 29 luglio 2004; Buscemi v. Italia, sent. 16 settembre 1999. In dottrina, cfr. F. Buffa, La libertà di espressione dei magistrati e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 313 ss.
[44] Cfr. Corte cost., sent. n. 100/1981.
[45] Cfr. ancora Corte cost., sent. n. 100/1981.
[46] Cfr. R. Pinardi, La libertà di manifestazione del pensiero dei magistrati nella giurisprudenza costituzionale e disciplinare, in A. Pizzorusso, R. Romboli, A. Ruggeri, A. Saitta, G. Silvestri (a cura di), Libertà di manifestazione del pensiero e giurisprudenza costituzionale, Milano, 2005, 293 ss.
[47] Cfr. L. Imarisio, La libertà di espressione dei magistrati tra responsabilità disciplinare, responsabilità deontologica ed equilibri del sistema informativo, in Magistratura e democrazia italiana: problemi e prospettive, Napoli, 2010, 260 ss.
[48] Cfr. A. Carestia, La violazione del dovere del giudice di essere e apparire imparziale, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 181, che richiama, a tale proposito, la risposta a un’interrogazione parlamentare del ministro della Giustizia Nordio.
[49] In linea di principio si potrebbero distinguere diverse tipologie di manifestazioni del pensiero rese fuori dall’esercizio della funzione (dichiarazioni alla stampa, partecipazione a dibattiti pubblici, interventi in convegni di natura scientifica, ecc.), ma rimarrebbe comunque decisivo il singolo caso.
[50] Cfr. S. R. Vinceti, Magistrati e social media: una riflessione alla luce dell’esperienza statunitense, in Media laws, 26 ottobre 2023, 181 ss.
[51] Cfr. art. 2, comma 2, del r. d. lgs. n. 511/1946, come modificato dall’art. 26 del d. lgs. n. 109/2006.
[52] Cfr. F. Troncone, Il trasferimento d’ufficio in via amministrativa dei magistrati: le visioni del governo autonomo e le conseguenti declinazioni dei limiti interni dell’istituto, in R. Balduzzi (a cura di), La riforma della legislazione del Consiglio superiore della magistratura, Milano, 2022, 148 ss.
[53] Sul piano sovranazionale si veda il Parere n. 25/2022 del Comitato consultivo dei Giudici europei, citato alla nota 37. In argomento cfr. G. Grasso, Riferimenti internazionali e comparati sui rapporti tra giustizia, comunicazione e informazione, in Scuola Superiore della Magistratura, Comunicazione e giustizia, Torino, 2024, 3 ss.
[54] Cfr. delibera n. 40 del 25/03/2021.
[55] Cfr. art. 58-bis del d. lgs. n. 29/1993 (introdotto con l’art. 26 del d. lgs. n. 546/1993), i cui contenuti sono stati successivamente trasfusi, con qualche modifica, nell’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001 e poi ulteriormente modificati con l’art. 1 della legge n. 190/2012: all’art. 54, comma 4, del decreto n. 165, nel testo vigente, si prevede che, “per ciascuna magistratura e per l’Avvocatura dello Stato, gli organi delle associazioni di categoria adottano un codice etico a cui devono aderire gli appartenenti alla magistratura interessata. In caso di inerzia, il codice è adottato dall’organo di autogoverno”.
Si noti la formula, introdotta nel 2012, “devono aderire”, che impone l’adesione al Codice anche ai magistrati non iscritti all’A.N.M. (ovviamente per quanto riguarda la magistratura ordinaria), considerando implicitamente quest’ultima una sorta di “sindacato” rappresentativo dell’intera categoria. Si noti, inoltre, la “stranezza” per cui, in caso d’inerzia dell’A.N.M., è il C.S.M. a dover intervenire per adottare il codice deontologico.
In argomento cfr. L. Aschettino, D. Bifulco, H. Epineuse e R. Sabato (a cura di), Deontologia giudiziaria. Il Codice etico alla prova dei primi dieci anni, Napoli, 2006, 1 ss.
[56] Proprio dal C.S.M. è stato organizzato nei giorni 16-17 maggio 2024 un Incontro di studio dal titolo La magistratura e i social network,espressamente finalizzato a “trovare risposte” da offrire ai magistrati (consultabile su https://www.youtube.com/@ConsiglioSuperioreMagistratura).
[57] Già A. Pizzorusso, Il “codice etico” dei magistrati, in L. Aschettino, D. Bifulco, H. Epineuse e R. Sabato (a cura di), Deontologia giudiziaria, cit., 56, con specifico riferimento all’eventualità che il C.S.M. approvasse il codice deontologico in caso di inerzia dell’A.N.M., osservava come tale prospettiva mal si conciliasse con la titolarità, sempre in capo al C.S.M., della funzione disciplinare.
[58] Cfr. S. R. Vinceti, Magistrati e social media, cit., 181 ss.
Immagine: Vuk Cosic, Raging Bull, Video, 1999.
Sommario: 1. Dall'aurora boreale all'incerta luce dell'alba; 2. I magistrati tributari che verranno; 3. L’ordinamento della magistratura e l’organizzazione delle Corti; 4. Un “tema speciale”: la Corte di giustizia tributaria centrale; 5. In conclusione
1. Dall'aurora boreale all'incerta luce dell'alba
Il 7 giugno scorso è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il bando del primo concorso esterno per la nuova magistratura tributaria professionale italiana istituita dalla legge 130/2022. Si avvia dunque il percorso di una riforma istituzionale della quale si è parlato a lungo negli scorsi decenni, anche se essenzialmente nella ristretta cerchia degli "addetti ai lavori". Una netta accelerazione si è avuta con la costituzione -nel 2021- della Commissione di studio per la riforma della giustizia tributaria, presieduta dal prof. Giacinto della Cananea, voluta dagli allora ministri della giustizia Cartabia e dell’economia/finanze Franco.
Come noto, la Commissione si è spaccata in due. La maggioranza dei componenti (quelli di provenienza accademica/professionale) ha presentato una articolata proposta normativa che prevedeva appunto un giudice speciale professionale di primo e secondo grado, a “tempo pieno”, assunto per concorso come le altre magistrature. Una minoranza di componenti (quelli di appartenenza magistratuale) ha contro proposto un intervento più limitato, che invece manteneva, almeno in via transitoria, il vecchio ordinamento per il primo grado ed interveniva in via mirata (rilevanza delle cause/delimitazioni territoriali) solo per il grado di appello.
Erano due “filosofie di intervento” molto distanti tra loro che, nonostante qualche sforzo, non è stato possibile conciliare e fondere in qualche forma di compromesso. La “minoranza” della Commissione della Cananea soprattutto obiettava che fare una magistratura “nuova di zecca” era un’impresa di notevole difficoltà e che richiedeva molto tempo, quindi implicava un’inevitabile, incerta, soprattutto lunga fase di transizione dal “vecchio” al “nuovo” assetto.
Ma la maggioranza di quella Commissione ha ritenuto che la strada della “quinta magistratura” era assolutamente indispensabile per garantire un livello più stabile e qualitativamente elevato della produzione giurisdizionale tributaria di merito, ad ogni costo ed ogni tempo di attuazione.
Erano forse troppo “realisti” i primi, sicuramente sono stati molto “illuministi” i secondi.
Forse bisognava intraprendere una strada totalmente diversa, la meno complessa, la più affidabile e costituzionalmente compatibile: “ordinarizzare” la giurisdizione tributaria nei due gradi di merito e quindi portarla all’interno dello stesso sistema generale, prefigurato dalla Costituzione repubblicana, con al vertice la Corte di Cassazione.[1]
Tuttavia, non sempre le idee meno complesse e perciò più realizzabili hanno fortuna nelle vicende umane e della politica legislativa in particolare. Anzi, nel nostro Paese parrebbe esattamente il contrario.
In questo caso poi hanno congiurato almeno tre fattori contrari non superabili: una posizione pregiudiziale contraria al giudice ordinario e favorevole a quello speciale di tutta o quasi la dottrina tributaristica, a partire dagli opinion leaders, che si sono fatti sentire con tutto il loro peso anche nella stessa Commissione della Cananea; il timore recondito della categoria di difensori professionali più interessata (commercialisti) di perdere un sostanziale monopolio; il disinteresse, se non addirittura la contrarietà espressa, della magistratura ordinaria a vedersi recapitata una competenza giurisdizionale aggiuntiva di notevole rilevanza sia quantitativa che qualitativa, senza garanzie di un correlato, necessario ed importante, aumento delle risorse personali e materiali per poterla adeguatamente affrontare.
A ciò, di per sé bastevole, va aggiunto un MEF molto poco propenso a rilasciare al ministero della giustizia un settore di attività giudiziaria che ha sempre considerato come “suo”, nelle varie accezioni, più o meno “politicamente corrette”, di questo termine.
Tant’è, è andata così. La Commissione della Cananea ha prodotto quelle proposte, sulla sua scia, nel convulso finale di legislatura, a camere sciolte, un pdl governativo generato in poche settimane è arrivato in Parlamento, che in una sola settimana, nel caldo agostano, ha generato la legge 31 agosto 2022, n. 130.
Sarebbe abbastanza sciocco pensare che si tratti di una scelta reversibile, ma altrettanto sarebbe pensare che les jeux sont faits. Anzi, con questo primo concorso esterno il “gioco” della quinta magistratura professionale italiana è solo al suo -timido/impacciato- inizio, dopo il clamoroso fallimento dell’opzione dei giudici tributari “togati”.
Adesso dunque, le “donne e gli uomini di buona volontà” che in qualche modo e misura sono interessati dall’attuazione di questa “riforma” hanno il dovere istituzionale e morale di almeno provare a farla decollare.
Non è un’impresa semplice, per nulla.
Di seguito si proverà ad illustrarne le difficoltà, evidenti, e a metterne in luce le opportunità, che pure ci possono essere, ma a determinate condizioni culturali e “di sistema”.
2. I magistrati tributari che verranno
Partiamo dalla questione delle risorse di personale giudicante ossia dai protagonisti di questa nuova magistratura.
Come detto, i professionisti delle altre magistrature hanno risposto negativamente all’ “appello” della legge 130/22. Su 100 posti a disposizione (50 per gli ordinari), hanno esercitato l’opzione in 22 (18 ordinari).
Non poteva andare diversamente: troppa incertezza sullo status giuridico ed economico; mancanza totale di un correlato disegno organizzativo (chi andrà a fare cosa e dove, salvo il “minimo sindacale garantito” della permanenza nella sede “tributaria” pregressa). Così ne sono mancati 78 ed è quindi mancato quel “nerbo iniziale” che doveva favorire la start up della riforma, “preferibilmente” nel grado di appello.
Peraltro, riflettendo sull’opzione fallita, si rende evidente soprattutto una prima, grave, aporia della riforma medesima: le nuove Corti di giustizia tributaria, implementate via via dal corpus di magistrati assunti per concorso ed a “tempo pieno” da chi verranno dirette? Dagli attuali Capi di Corte part time? Forse per le realtà più piccole (tante, troppe) può essere ipotizzabile. Non lo è per quelle più grandi.
Risulta allora chiaro che, fino a che, oltre i 22 che già ci sono, la nuova magistratura non avrà prodotto i “suoi” dirigenti, ci vorranno “vescovi” e “cardinali” stranieri, che non possono essere trovati se non nelle altre magistrature professionali e, per la legge dei “grandi numeri”, soprattutto in quella ordinaria.
Appare pertanto indispensabile riaprire a queste categorie l’opzione di transito nella magistratura tributariafull time, ma questa volta farlo in modo adeguato, con una visione d’assieme. Quindi bisogna dare ai potenziali optanti garanzie personali di natura ordinamentale/economica ed avere un’idea precisa sul dove allocare queste, indispensabili, risorse umane dirigenziali.
Tutto sommato è più semplice risolvere la prima questione, lo è invece molto meno la seconda, poiché ha una correlazione inscindibile con il grande tema organizzativo della revisione della “geografia” delle Corti di giustizia tributaria di primo e di secondo grado. Senza questo collegamento non è infatti possibile dare un senso oggettivo, completo, razionale a tale misura, che pure, di per sé, come detto appare non evitabile.
Questa prima riflessione è strategica, ma vale soltanto per la “testa” della quinta magistratura, per la sua dirigenza. Poi ci sono tutti gli altri magistrati, quelli che devono arrivare a completarne l’organico.
Adesso si parte con il primo concorso ed è lapalissiano dire che bisognerà partire nel migliore dei modi. [2]Chiare sono le difficoltà, non essendoci che le regole -minime- della legge 130/2022, più volte modificata e la lex bandi che la attua. Nessuna esperienza applicativa, a partire dai suoi criteri. Si tratta dunque di un compito delicatissimo, con più soggetti istituzionali coinvolti: il MEF che organizza, il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria che sovraintende, la Commissione esaminatrice che concretizza la procedura concorsuale.
Le incognite/variabili sono molte e quello che accadrà la prima volta segnerà la strada di quelle successive (previste nel 2026/2029). Con la prima selezione saranno infatti messe le “basi soggettive” della nuova giurisdizione, la parte più sensibile, la più difficile della “sfida riformatrice”. Tuttavia, far nascere una magistratura da un concorso è la condizione costituzionalmente necessaria, ma il percorso di “costituzionalizzazione sostanziale” di una magistratura ha molti profili, nessuno di semplice e facile realizzazione.
Chi entra nelle magistrature attuali trova un ambiente professionale consolidato, fatto di prassi, di relazioni interpersonali, di norme ordinamentali. Trova Scuole superiori ed affidatari che ne curano il tirocinio di formazione iniziale e poi permanente. Trova un autogoverno strutturato, anche al livello locale. Insomma trova un apparato organizzativo.
I 22 “volonterosi optanti” ed i 146 vincitori del primo concorso non troveranno tutto questo, ma solo una sua pallida replica, anzi, troveranno solo un cantiere aperto, nel quale dovranno mettersi a lavorare con pochi punti di riferimento precisi. Non è certo il modo migliore per iniziare, per loro, ma anche per il sistema di giustizia che si vuole avviare, quasi avventurosamente, tipo: li buttiamo in acqua così imparano a nuotare (o vanno a fondo …).
Risulta perciò evidente che, nel tempo che ci sarà prima che la carica dei 146 arrivi sulla linea del fuoco, bisognerà approntare almeno le condizioni minime perché non finisca male.
Quindi organizzare una rete di formatori on the job; mettere la Scuola superiore della magistratura tributaria in condizione di operare; dare dei punti di riferimento dirigenziali solidi; rafforzare, di molto, il ruolo dell’autogoverno.
Altrimenti la sfida rimane solo quella che -geneticamente- è: un azzardo.
E fin qui non si è fatto ancora praticamente nulla per queste misure complementari indispensabili. Sperabile che qualcosa si faccia. Presto.
Comunque sia, selezionati al meglio di quello che con un concorso si può fare, accolti in modo adeguato ed adeguatamente “tirocinati”, il compito più difficile per i nuovi magistrati tributari, la parte più importante della loro “costituzionalizzazione sostanziale”, individuale e collettiva, sarà però quella di acquisire, immediatamente, dalla prima sentenza, il senso profondo della giurisdizione, nella sua dimensione culturale. Dovranno introiettare l’autonomia, l’indipendenza, l’imparzialità ossia le caratteristiche consustanziali dell’essere giudice nel quadro costituzionale italiano ed unionale europeo.
E questo non è né semplice né scontato, in un tempo nel quale la tendenza alla “burocratizzazione” è indubbiamente forte e vieppiù in una materia che vede una fortissima contrapposizione tra l’ “interesse fiscale” ed i “diritti del contribuente”. Determinare la giusta imposta, che è lo specifico compito costituzionale ed unionale del giudice tributario, implica infatti una grande competenza tecnica, ma una ancora più grande cultura degli obblighi e dei diritti; richiede un particolare equilibrio di pensiero; impone un’interpretazione davvero sentita della funzione giudicante, ovviamente senza “esagerazioni di senso”.
A tal fine, il “tempo pieno”, la specializzazione, da soli non bastano affatto. È invece necessario che la nuova magistratura acquisisca da subito l’habitus mentale che le compete, al pari delle altre esistenti, che acquisisca l’immediata consapevolezza del proprio ruolo di regolazione delle crisi di cooperazione, tantissime, che in Italia si concretizzano nella, "difficile", attuazione dei tributi. Insomma la "quinta magistratura" deve mettersi a fare giurisdizione, senza se, senza ma, con la guida dei principi costituzionali ed unionali, interpretando ed applicando la legge tributaria.
Qui sta la parte più delicata della sfida riformatrice e qui sta la chiave del suo successo.
Chi ha voluto “questa riforma”, nonostante tutti gli avvertimenti, ne ha forse sottovalutato questo aspetto, essenziale. Ora però, come detto, è inutile sottolinearlo. Bisogna quindi operare nel senso del “successo”, che pure è possibile.
3. L’ordinamento della magistratura e l’organizzazione delle Corti
Servono dunque risorse di personale giudicante all’altezza, sotto ogni profilo, tecnico e culturale, ma servono anche ordinamento (norme di) e strutture organizzative.
L’ordinamento della giustizia tributaria attuale è un vestito di Arlecchino, con molte toppe e tanti buchi. Il d.lgs. 545/1992, stravolto dalla legge 130/2022 e modifiche successive, fotografa la “transizione”. È quindi chiaro che la nuova magistratura necessita di un nuovo ordinamento, autonomo e completo in ogni sua parte, com’è per le altre (legge “archetipo” è quella, pur anch’essa molto novellata, di ordinamento giudiziario ordinario).
Ma, come noto, la normazione primaria è tutt’altro che sufficiente a “dare le regole” ad una magistratura: serve infatti quella secondaria attuativa/integrativa. E serve quindi chi la fa, che nel sistema della Costituzione e delle Carte europee, non possono essere che gli organi di governo autonomo.
Il CPGT nella strutturazione organizzativa attuale è inadeguato a questo ruolo (ma anche più in generale), a partire dalla disponibilità del tempo dei suoi componenti, per proseguire con le strutture materiali e con l’organizzazione del personale ausiliario. Oggi, è soltanto un organo di autogoverno per una magistratura “onoraria”, com’era quella preesistente.
Così com’è, il Consiglio non può affrontare utilmente nemmeno la start up di quella nuova e dunque il suo rafforzamento generale si presenta come questione del tutto necessaria ed urgente. Bene nemmeno pensare che questo non sia presto fatto, giacché altrimenti si autorizzano soltanto letture malevoli sulla volontà politica di garantire, sul serio, l’indipendenza e l’autonomia, individuale e collettiva (nel senso sopra detto) della magistratura tributaria.
Quanto alle strutture organizzative, bisogna partire dall’affermazione, difficilmente smentibile, che le Corti di giustizia tributaria [3] sono troppe e vanno ridotte. Questo è sicuramente il “punto chiave” di ogni possibile ed auspicabile ristrutturazione dell’offerta territoriale giurisdizionale di settore. È una questione nient’affatto semplice, multifattoriale, molto condizionata dai campanilismi politici, quindi da affrontare con tantissimo buon senso, pur non privo della necessaria determinazione. Probabilmente, la soluzione “di massima”, il compromesso sta nel salvaguardare il più possibile la “prossimità” del primo grado del giudizio, cercando invece di concentrarne il secondo grado. I modi sono più di uno (accorpamenti, sezioni distaccate, gestione amministrativa del personale giudicante ed ausiliario).
L’organico della nuova magistratura è 576, 128 in appello, gli altri in primo grado. È del tutto evidente che con l’organizzazione attuale non è possibile un’equa ed efficiente redistribuzione territoriale dello stesso. Quindi il tema della “revisione della geografia” è decisivo. Su di esso la leale cooperazione tra plesso politico (Governo-MEF/Parlamento) ed autogoverno (CPGT) è del tutto imposta dai principi e dal buon senso.
4. Un “tema speciale”: la Corte di giustizia tributaria centrale
Tra le, molte, contraddizioni, della riforma della giustizia tributaria, forse quella di percezione meno immediata è il mantenimento della “scissione” ordinamentale tra giurisdizione di merito e giurisdizione di legittimità, speciale la prima, ordinaria la seconda.
Questo vero è proprio vulnus -che già tanti problemi ha creato, soprattutto dopo il 1996, quando è entrata in vigore la riforma del 1992 e quindi dopo la soppressione della Commissione tributaria centrale [4]- è destinato nel medio-lungo periodo a diventare un problema serissimo.
A ben vedere infatti la creazione della “quinta magistratura”, non subito, ma presto, sicuramente tra qualche anno, realizza la situazione -anomala- che un ordine professionale specializzato dedicato farà una “giurisprudenza sotto tutela” del vertice di una giurisdizione con la quale, nemmeno di fatto, avrà più niente a che fare. Infatti, tra non molti anni, l’ampio serbatoio di giudici tributari del “ruolo unico” che appartengono alla giurisdizione ordinaria sarà esaurito. Quindi, le pronunce dei giudici tributari verranno sindacate, pur nei limiti della legittimità, da una Sezione “specializzata” della Corte di Cassazione (ex art. 3, legge 130/2022) formata, a quel punto, da magistrati che non hanno mai esercitato, nemmeno part time, la funzione dei primi.[5]
È davvero difficile pensare che questa sia una buona cosa e soprattutto che possa reggere nel tempo. Dunque bisognerà fare qualcosa e qualcosa si è proposto di fare.[6]
Appare ormai chiaro che la migliore soluzione, la più ragionevole, è senz'altro la revisione dell’art. 111, ottavo comma, Cost., con l'attribuzione alle Corti di giustizia tributaria dello stesso status di autonomia giurisdizionale del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, quindi limitando l'impugnabilità per cassazione delle decisioni tributarie alle sole questioni di giurisdizione.[7]
Tuttavia, a parte le difficoltà di qualsiasi revisione costituzionale, soprattutto in materia di giustizia, ve n’è una, per così dire, “di fatto”, che non può essere assolutamente trascurata, pena il rischio di un corto circuitogravissimo nel sistema della giustizia tributaria.
La revisione costituzionale deve essere infatti necessariamente preceduta da un abbattimento drastico dell’arretrato della Cassazione, altrimenti si profilerebbe un periodo transitorio lungo nel quale coesisterebbero “due nomofilachie”, quella vecchia e quella nuova. È del tutto evidente che questo -inevitabile- effetto di una revisione costituzionale non adeguatamente “preparata” sarebbe quanto di più manifestamente irrazionale. In ogni caso il Paese non se lo potrebbe permettere.
Ed allora l’istituzione medio tempore di una Corte di giustizia tributaria centrale, oltre agli altri pregi [8], porterebbe con sé questa "dote essenziale": rendere attuabile, volendolo, nel medio periodo, un percorso di avvicinamento alla completa autonomia ordinamentale e funzionale del nuovo plesso giurisdizionale.
E non pare affatto poco.
5. In conclusione
È dunque difficile salutare senza preoccupazione la pubblicazione del primo bando di concorso per magistrato tributario, anche senza voler trasmetterne un influsso negativo sui tanti che si accingono a questa prova, alla cui competenza ed impegno è principalmente affidato il passaggio dall'alba al pieno giorno della riforma,
Tuttavia, bisogna confidare che la necessità generi virtù. Questo può e deve accadere, ma sarà così solo alla condizione che i vari protagonisti di questa nuova storia istituzionale facciano fino in fondo la parte loro assegnata, che abbiano la piena contezza dei problemi e chiaro il modo per risolverli, che sappiano interagire.
Purtroppo, all’avvio della procedura concorsuale non sembra che sia effettivamente questa la situazione, quanto piuttosto, come avviene in Italia, ci sia ancora molta, come dire, “rilassatezza” in ordine alle mosse da fare. Soprattutto risulta davvero poco avvertita l’esigenza di un lavoro comune per la realizzazione della riforma della giustizia tributaria, quasi una trovatella alla ricerca di punti di riferimento che le diano la forza e la spinta per andare avanti con la giusta velocità e nel modo migliore.
Il tempo che abbiamo davanti dirà se le troverà.
[1] Cfr. E.MANZON, Per una riforma ordinamentale “possibile” della giustizia tributaria, in questa Rivista, 9 dicembre 2020.
[2] Denominazione ridondante, forse frutto del caldo agostano nel quale è stata coniata. Assai preferibile quella, più semplice e tradizionale, di Tribunale tributario e Corte tributaria di appello. Chissà se in qualche “ritocco” della riforma, magari in una stagione più fredda, questo non si possa fare. Magari proprio in sede di revisione della “geografia” degli organi di giustizia tributaria.
[3] V. E. MANZON, F. PISTOLESI, Una “cassazione speciale” da affiancare alla cassazione ordinaria: brevi appunti sull’idea di una Corte di giustizia tributaria centrale, in questa Rivista, 28 marzo 2024.
[5] cfr. C. GLENDI, Rinvio pregiudiziale nel processo tributario? Antinomie ai vertici, da risolvere presto e bene, in Diritto e pratica tributaria, n. 2/2023, 605.
[6] Cfr. E.MANZON, F. PISTOLESI, cit.
[7] cfr. C. GLENDI, L'incompiuta riforma della Cassazione tributaria. Cosa manca, in Diritto e pratica tributaria, n. 2/2023, 609.
[8] Cfr. E.MANZON, F. PISTOLESI, cit.
Sul tema si veda anche Criptofonini: fissati i punti di diritto (6 marzo 2024) e La Corte di Giustizia e i criptofonini (6 maggio 2024) di Giorgio Spangher.
Dopo la sentenza della Corte di Giustizia Grande sezione 30 aprile 2024 MV (Encrochat) sono state depositate anche le motivazioni delle sezioni unite (Cass. nn. 23755 e 23756 del 14-06.-2024) in tema di criptofonini.
Dovrebbero essere note le vicende dapprima quelle fattuali in Francia, poi quelle interpretative in Italia nel momento valutativo del materiale trasmesso, poi ancora quelle delle possibili soluzioni delle questioni giuridiche, ed ancora quelle della duplice prospettazione distinta dei quesiti alle Sezioni Unite.
La loro trattazione unitaria pur se disgiunta, stante la diversità dei motivi proposti con i ricorsi ha dato luogo a due massime provvisorie, a due decisioni sui ricorsi (di rigetto), a due sentenze come detto, ma che sono strutturate in una parte comune di motivazione, quella che da corpo in larga parte, come si dirà, ad una riscrittura complessiva del punto di diritto.
Escluso ogni possibile riferimento all’art 234 bis c.p.p., in tal modo cancellando tutta o quasi la giurisprudenza sul punto in quanto non si tratta di una prova ma di una modalità di acquisizione di una particolare tipologia di elementi di prove formate all’estero, il Supremo Collegio riunito ritiene necessario fare riferimento alla disciplina dell'OIE come regolato dalla direttiva 2014/41/UE del parlamento europeo e del consiglio d'Europa del 3 4 2014 in quanto si tratta nel caso di specie di rapporti tra autorità giudiziarie di stati diversi tutti inseriti nell'UE.
In altri termini, mentre l’art 234 bis c.p.p. riguarda l’acquisizione di elementi conservati all’estero che prescinde da forme di collaborazione con l’autorità giudiziaria di altro stato, la disciplina relativa all’OIE attiene all’acquisizione di elementi conservati all'estero da ottenere od ottenuti con la collaborazione della autorità giudiziaria di altro stato.
Il primo dato deducibile dalla disciplina dell'OIE relativo alle prove già in possesso delle autorità giudiziarie estere attiene alla legittimazione alla richiesta che potrà riguardare ogni tipo di prova e che comunque dovrà essere necessaria e proporzionata.
Ribadendo quanto previsto dall'art 27 comma 1 del d.lgs. 108 del 2017 attuativo dell’OIE ove si prevede in termini generali che il pubblico ministero e il giudice che procede possono emettere nell'ambito delle relative attribuzioni un ordine di indagine e trasmetterlo direttamente al giudice di esecuzione, si sottolinea che la richiesta possa essere avanzata sia dal pubblico ministero sia dal giudice.
In secondo luogo il tema riguarda le garanzie che sia all’estero sia in Italia devono governare l’utilizzabilità degli atti trasmessi.
Al riguardo, la cassazione sottolinea che nella fase di esecuzione all’estero dovranno essere rispettati i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in tema di diritti fondamentali nonché in tema di libertà e di giusto processo. Si precisa tuttavia che non è necessario che siano osservate le stesse previsioni che in Italia regolano singoli atti ma, solo quelli che disciplinano la circolazione probatoria. Il riferimento e a quanto previsto dagli artt. 238 e 270 c.p.p. e all’art 78 disp. att. c.p.p. La conclusione è giustificata sulla scorta della reciproca fiducia e in forza del necessario rispetto dei diritti fondamentali.
Resta ferma la possibilità per la difesa di far valere davanti al giudice dello stato di emissione la violazione delle garanzie riconosciute dall’ordinamento italiano e dunque il diritto di difesa.
Alla luce di queste considerazioni la corte per un verso spesso, assemblando due elementi (il soggetto richiedente in Italia e la natura dell’atto) esclude che quanto trasmesso dalla Francia possa essere anche l’incerto orizzonte contenutistico, un documento informatico risultando la sua acquisibilità disposta dal pubblico ministero (autorità giudiziaria ex art 15 Cost). Parimenti non assume rilievo il fatto che potrebbe trattarsi di un elemento relativo al traffico all'ubicazione e al contenuto di comunicazioni elettroniche, in quanto la relativa disciplina riguarda il gestore e il fornitore.
Trattandosi secondo la Cassazione di intercettazioni di comunicazioni assunte in altri procedimenti troverà applicazione l’art 270 c.p.p. anche in questo caso con richiesta di trasmissione da parte del pubblico ministero.
La. Cassazione nega rilievo alla mancata informazione alla difesa dell’algoritmo usato per la decriptazione in considerazione del fatto che la sua eventuale alterazione renderebbe incomprensibile la comunicazione. Alla luce di un recente episodio domestico la affermazione suscita non poche perplessità.
Non trova nessun riscontro nella massima il riferimento all’attività di intercettazione nel territorio dello stato da parte dell’autorità straniera senza autorizzazione. Secondo la Cassazione l’acquisizione è legittima qualora si tratti di reati gravi per i quali l’attività e consentirà nel nostro paese.
Sulla base di queste considerazioni il collegio riunito definisce la questione di diritto affermando che “La trasmissione, richiesta con ordine europeo di indagine, del contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall'autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 234-bis cod. proc. pen., che opera al di fuori delle ipotesi di collaborazione tra autorità giudiziarie, bensì nella disciplina relativa alla circolazione delle prove tra procedimenti penali, quale desumibile dagli artt. 238 e 270 cod. proc. pen. e 78 disp. att. cod. proc. pen."
La vicenda si presta al di là del merito ad alcune chiavi di lettura.
La prima riguarda le dinamiche della nomofilachia: si consideri che le sentenze "spazzano via" una giurisprudenza non solo consolidata ma che voleva ostacolare una diversa interpretazione che poi è stata parzialmente accolta.
Si dirà che questa e la funzione della cassazione e delle sue dinamiche interne. Il dato resta significativo perché si trattava di misure cautelari ancorché legate alla criminalità organizzata.
La seconda attiene alla necessità di riscrivere lo statuto delle prove penali stante l’inadeguatezza dell’attuale disciplina sia sotto il profilo della necessità di accrescere la riserva su giurisdizione, sia alla luce a questa collegata delle implicazioni dello sviluppo scientifico e tecnologico, anche nella prospettiva dell’IA.
Immagine: Mediengruppe Bitnik, Installazione della macchina telefonica al Cabaret Voltaire, 2007, Zurigo.
Stefano Venturini approdò nella prima sezione della corte di appello di Roma, nella quale io militavo già da tre anni, nel marzo 2017. Dal primo momento capii che saremmo andati d’accordo: il suo sguardo aperto e sorridente preannunciava quella che sarebbe stata una bella amicizia, interrotta solo dall’intervento di un destino imprevedibile e crudele il 14 giugno di quest’anno.
Stefano non era solo un collega che amava il diritto penale, per la possibilità infinita di indagine nell’animo umano che la materia offre all’interprete. E l’animo umano era da lui indagato con la curiosità del giurista ma anche con il rispetto dell’umanista e dell’uomo di cultura. Stefano infatti coltivava soprattutto dubbi e non riteneva mai di essere depositario di verità rivelate e immutabili.
Abbiamo lavorato nello stesso collegio fino alla mia assegnazione in qualità di presidente alla terza sezione, e abbiamo affrontato talvolta decisioni non facili, alle quali giungevamo dopo lunghe e feconde discussioni. Di quelle camere di consiglio ricorderò sempre la bonomia e la mitezza con le quali Stefano sosteneva le proprie argomentazioni e il rispetto per le persone che giudicavamo: si chiedeva sempre se la persona le cui sorti eravamo chiamati a decidere, a distanza di tempo, fosse la stessa che aveva commesso il reato, se il tempo non avesse operato un cambiamento in quella persona, a volte radicale.
Rileggendo la lunghissima serie di messaggi che ci siamo scambiati a margine delle udienze, ho sorriso (tra le lacrime) per le “perle di saggezza” che emergevano dalle sue riflessioni, sempre condite da battute intelligenti dal tono lieve e ironico. Mi sono anche meravigliata per il quantitativo di ricette di cucina che siamo riusciti a scambiarci in questi sette anni.
Appassionante è stato poi rileggere le sue ineccepibili citazioni in latino e dalla Divina Commedia, brani lunghissimi che ricordava a memoria e che citava sempre a proposito e con grande arguzia. Nonostante avesse subìto le dolorose e premature perdite del papà e del fratello Paolo, Stefano era sempre sorridente, disponibile e portatore di una visione ottimistica del futuro e in generale dell’umanità.
Era anche uno sportivo instancabile, coltivava con regolarità discipline che andavano dallo sci al tennis, alla vela, al rugby, nelle quali si impegnava a fondo, riuscendo incredibilmente a non trascurare il lavoro e la famiglia. Non ha mai depositato un provvedimento in ritardo ed era sempre, quando occorreva, al fianco della moglie Maria Teresa e del figlio Federico. Ricordo la gioia e la soddisfazione che trasparivano dai suoi occhi quando rientrò da un breve viaggio in Sicilia in moto con Federico, con il quale intratteneva un dialogo continuo e affettuoso, che è rarissimo di questi tempi riscontrare tra un padre e un figlio.
Ma anche con gli amici non si risparmiava. Mi aveva promesso che non ci saremmo persi di vista dopo il mio trasferimento ad altra sezione e così è stato.
Abbiamo continuato a parlarci e a commentare i fatti di attualità che ci sembravano più rilevanti. Il mio ultimo ricordo risale a qualche mese fa, quanto gli raccontai che avevo acquistato un quadro enorme (circa due metri per due) e pesantissimo che non sarei mai riuscita ad appendere nella mia nuova stanza. Stefano era anche un esperto di bricolage.
Si presentò in ufficio con la cassetta degli attrezzi, il trapano, il martello, la livella. Sgomberò la parete, si arrampicò su una scala e in poco tempo mi risolse il problema. Era così, semplice e diretto. La sua gioia di vivere, la sua amabilità, la sua attenzione per il prossimo mi mancheranno tanto, e sono certa che mancheranno a tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo. Ma il prezioso patrimonio di umanità che ci ha lasciato ci terrà compagnia e allevierà il dolore per la sua assenza.
Buon viaggio, Stefano
Daniela Rinaldi
Roma, 20 giugno 2024
Stefano lascia un vuoto incolmabile tra i familiari e nei tanti amici e colleghi che hanno avuto modo di conoscerlo ed ammirarlo nell’esercizio della sua professione di Magistrato e nei gesti, anche i più piccoli e in apparenza banali, della vita quotidiana.
Persona di straordinaria intelligenza, sensibilità, umanità, rettitudine morale ed energia vitale, Stefano ha messo a disposizione dell’intera collettività tutti i numerosi talenti di cui era dotato, incarnandoli nella sua figura di Giudice colto, serio, umile e profondamente rispettoso dei diritti di coloro che attendevano il suo giudizio.
Ciò che più colpiva nella sua persona era però una dote rara, quella profonda attenzione per gli altri, quella intelligenza del cuore che consente di “vedere” nella sua interezza la persona che si ha di fronte anche al di là dei suoi comportamenti e delle sue manifestazioni esterne.
Nei diversi passaggi della sua esperienza professionale di Giudice, dapprima a Caltagirone, in Sicilia, quindi a Rieti, poi per tanti anni ad Avezzano, nella nostra Marsica, ed infine a Roma, come Consigliere della Corte d’appello, è stato non solo profondamente stimato dai colleghi e dalla classe forense per l’autorevolezza, la cultura giuridica e il valore professionale, ma amato nelle comunità sociali e dalle persone comuni che, ovunque, nelle diverse realtà territoriali in cui ha operato hanno visto nella sua persona un sicuro e invalicabile punto di riferimento nell’esercizio di una giurisdizione attenta alla tutela dei diritti, specie delle persone più deboli e indifese.
Dalla lettura dei suoi provvedimenti emerge un distillato di rigorosa applicazione della legge illuminata da quel senso di umanità che sempre deve ispirare l’attività di un Giudice.
Non parlo solo del collega, ma soprattutto dell’uomo e dell’amico, del compagno di Liceo con il quale abbiamo condiviso esperienze di vita e professionali indimenticabili, creando, specie con gli amici e colleghi destinati al Tribunale di Caltagirone all’inizio degli anni novanta, in un passaggio storico particolarmente problematico per l’Italia e le sue Istituzioni, una comunità di affetti e valori umani che ancora oggi resiste, indissolubile, perché animata dai medesimi principi di giustizia al servizio della collettività.
Ci ha lasciati troppo presto.
La sua vita terrena è stata segnata da sventure e dolori atroci, che solo la sua straordinaria forza morale ed energia vitale gli hanno consentito di superare, con l’aiuto dei suoi cari: tetragono nelle avversità, ha resistito a tutto, non alla tragica fatalità che lo ha colpito.
Ha affrontato la vita con enorme coraggio, a viso aperto, senza mai risparmiarsi né tirarsi indietro nel lavoro.
Ha combattuto una buona battaglia.
Dietro il velo dell’esistenza terrena, Stefano, con il suo sorriso lieve e ironico di uomo retto e profondamente buono, rimarrà sempre al nostro fianco e ci sarà ancora di esempio.
Certi ricordi, come ha detto un grande poeta, bastano a profumare un’anima per sempre.
Gaetano De Amicis
Tagliacozzo, 19 giugno 2024
Entro in aula e vedo Stefano, una testa riccia nera, tutta ondulata, china a studiare bene le carte. Lo saluto con affetto, come al solito, lui alza lo sguardo, serissimo, poi mi fissa, sembra pieno di pensieri… ma mi coglie di sorpresa con una nuova storia da raccontarmi e scoppiamo a ridere… e continuiamo a ridere felici finché non ci stanchiamo per quanto ci fanno male i muscoli del viso.
Ecco, questo era Stefano, serissimo, quasi intransigente, che parlava del suo lavoro come di un “mestiere”, al servizio agli altri, che raccontava l’esperienza di giudice come una missione, qualcosa che andava al di là del giudicare, ma era il “rendere giustizia”, con tutte le sue forze, fino all’ultima stilla di sudore, sapendo della fallacia dell’agire umano e della fragilità degli uomini.
Poi, però, vi era l’altra parte di Stefano, quella sconosciuta ai più, quella di chi sapeva che la vita era una perentesi breve e che andava bevuta tutta d’un fiato. Il piacere di stare a raccontare storie con un amico, la pacca sulla spalla, quel modo un po' abruzzese di cercare i sentimenti veri e profondi, senza sovrastrutture, la semplicità, un pranzo condiviso, una bevanda fresca ristoratrice, la partita a tennis, lo sci… naturalmente fuori pista… La vita è qui, hic et nunc, avrebbe aggiunto con naturalezza… Si tra le sue parole spesso trovavi perle variopinte e rare, come in una enorme conchiglia colorata, adagiata sul fondale marino, erosa dal sale, ma non ancora aperta a sufficienza, che sprigiona mistero. Uno scrigno nascosto, questo si nascondeva nell’anima bella di Stefano, insieme con l’amore per Federico e Teresa, e per suo fratello Paolo, oltre che per tutti coloro che hanno avuto la ventura di imbattersi nella sua anima.
Stefano dava l’idea di essere una sorta di superuomo, sorridente anche dopo l’ennesimo intervento chirurgico che lo rimetteva sugli sci. Un uomo che anche nell’incedere trasmetteva sicurezza, che sapevi non ti avrebbe mai tradito. Incarnava la sicurezza, la certezza, il punto fermo, come marito, padre, collega, amico. Un uomo forse d’altri tempi, con valori inossidabili, come una quercia ben piantata al suolo, che lascia accarezzare le foglie dal vento tiepido della primavera.
Epperò, anche sul lavoro, talora bastava che alzasse lo sguardo… poi piegava la testa, torceva il collo, scrollava il capo, accennava una increspatura sulla bocca e gli occhi sfavillavano gioiosi…. aveva capito e ti dava conferma che eravamo allineati. Tra noi poche parole, ma era sufficiente un cenno, quella sua capacità di parlare anche attraverso i gesti, la postura del corpo, i movimenti del capo, lo strabuzzare degli occhi, il corrugarsi della fronte.
Un amico, un collega, un uomo dai valori forti, leale, gentile, coltissimo, con un cuore grande, dalla battuta rapida e leggera. Lo sguardo severo, ma dolce nel profondo. Amava il suo lavoro, come lo sport e la vita. Si è preso cura del nipotino dopo che è mancato suo fratello, con un amore raro, pieno di dolcezza, ma di sicuro affidamento. Un amico leale, un padre affettuoso, un marito accogliente, un porto sicuro, un uomo saldo nei suoi valori.
Non avrei mai pensato di dover scrivere queste parole... non si è mai pronti a farlo... ma resta nei nostri cuori... con un'ultima sua battuta... “ma che stai a scrive' Lui’?”
Luigi D'Orazio
Caro Stefano, ci conosciamo da tanti anni, sei stato – sei – per me un collega, un amico, un fratello; per anni abbiamo lavorato gomito a gomito, passato insieme l’intera giornata.
Abbiano continuato a sentirci e a parlarci, pur vedendoci meno, anche negli ultimi tempi.
Ho ancora molte cose da dirti e te le dirò, ma non ora; non qui.
Ora voglio pensare non a ciò che ho da dirti io, ma a ciò che mi avresti detto tu, se fossi dovuto partire per un lungo viaggio, senza poter avvertire né salutare nessuno.
Tu mi avresti detto – ne sono certo – di parlare di Te a tuo figlio e a tua moglie, nella lieta certezza che li avresti un giorno rivisti, ma nella dolorosa impossibilità di immaginare quando.
Parlerò allora loro di tre sentimenti, tra i più belli tra quelli che nobilitano le virtù umane e che in te, amico mio, quasi per una grazia sovrannaturale, si sono eccezionalmente riuniti, formando un dono magnifico e prezioso, un dono che ti hanno fatto gli Dei nella culla.
Essi sono la PASSIONE, la GENEROSITÀ DISINTERESSATA, l’IRONIA.
La PASSIONE vive con te, irrequieta come una giovane donna, sembra volare via dai tuoi lunghi capelli che guardo, invidioso, aprirsi al vento, mentre ti vedo scendere dalla pista della Volpe verso quella degli Innamorati, o correre veloce sull’erba con la palla ovale sotto al braccio, o tentare una demi- volée dalla linea del servizio.
Caro Federico, tuo padre tutto ciò che faceva lo faceva per PASSIONE.
La prima, la più grande, era quella per il suo lavoro e per il diritto, in particolare il diritto penale, che applicava quotidianamente nelle aule di giustizia, rendendo esemplare omaggio alla Toga orgogliosamente indossata e ricevendo la stima e l’apprezzamento unanime, non solo quello professionale degli avvocati, ma anche quello personale delle vittime dei reati e persino degli imputati, dei cui diritti era sacro tutore.
Ma oltre che applicarlo, gli piaceva studiarlo, il diritto, e qui emergeva la PASSIONE.
Una volta – voglio raccontarti questo episodio, caro Federico – ci facemmo in macchina in giornata Avezzano-Bologna e ritorno solo per sentir parlare il Prof. Ferrando Mantovani sulla teoria dell’errore nella dogmatica del reato. Tornando, sulla A14, tuo padre si era talmente appassionato alle parole del vecchio maestro che, discutendo animatamente della teoria dell’errore, mancò l’uscita di Città Sant’Angelo. Gli dissi: “Stefano, non abbiamo preso la A 25”. La sua risposta fu: “Caro Paolo, non tutti mali vengono per nuocere, ora ce ne andiamo a mangiare il pesce a Termoli”.
Se la passione sono i tuoi capelli, la GENEROSITÀ sono i tuoi occhi, Stefano: quegli occhi soccorrenti, amicali, che mi restituirono la forza e il coraggio sottrattimi dal terremoto, che mi rialzarono dalla prostrazione in cui ero piombato offrendomi aiuto, rifugio, amicizia; quegli occhi da cui sgorgava con ineffabile, naturale dolcezza, il profondo amore che regalavi alla tua sposa, alla tua amata Maria Teresa.
Ricordi, Teresa, quando ci ospitaste in Calabria? Federico era già un ragazzo, i miei figli erano ancora bambini. Stefano sorreggeva il piccolo Mario tra le acque rocciose e profonde e ti sorrideva mentre parlavi con Stefania.
Egualmente ti sorrideva in quel bar di Sirolo, quando raggiungemmo con un ritardo di oltre 4 ore la costa marchigiana e il Monte Conero per colpa mia, che vi avevo fatto sbagliare strada, perdendovi tra le mille vie della campagna umbra; mentre sorseggiavamo l’aperitivo eravamo stanchissimi e voi ragazze un poco infastidite, ma Stefano sdrammatizzò, dicendo che ti avrebbe portato in braccio in albergo. Rimasi colpito - e credo anche tu – non tanto dalle parole ma dal sorriso da cui sgorgarono, e dagli occhi che le dicevano, vere sorgenti d’amore.
In quel sorriso, che incorniciava la generosità degli occhi e la passione dei capelli, deflagra la tua IRONIA, caro Stefano; essa non è immediatamente percepibile, palpabile, come lo è la passione; è più recondita, perché ama sorprendere, palesarsi all’improvviso, ma è pronta ad accendersi, di improvvise, generose, fiammate, in una battuta, un racconto, uno scherzo.
Cari Federico e Teresa, Stefano – credo lo sappiate – amava regalare ai suoi amici, oltre la sua generosa amicizia, anche la sua propensione allo scherzo. E quanto più cresceva la diffidenza di chi la riceveva, tanto più aumentava quella propensione; al caro, comune amico che, per telefono, non aveva in un primo momento creduto che a parlare era l’ambasciatore armeno in Italia, disse, in una successiva telefonata, di essere il proconsole dei paesi emergenti dell’Asia Minore e quegli non poté fare a meno di credergli.
La PASSIONE, la GENEROSITÀ DISINTERESSATA e l’IRONIA sono stati il tuo modo di vivere, Caro Stefano, i sentimenti che hanno costantemente ispirato il tuo agire e che hanno qualificato la tua personalità.
Essi sono il contrario dell’egoismo, dell’avarizia, del distacco; sono sentimenti tipici dei ragazzi. Basta avere uno di questi tre doni, per non invecchiare, tu li avevi tutti e tre.
Per questo, ovunque sarai, continuerai, caro agli Dei, a scendere con i capelli al vento dalla pista degli Innamorati, a correre sul campo da rugby con la palla ovale sotto il braccio, a tentare demi-volée dalla linea del servizio.
E noi continueremo a parlarci, amico mio, ancora e per sempre, ne sono certo.
Paolo Spaziani
La partecipazione dei magistrati addetti alla Segreteria del CSM alle procedure di nomina per il conferimento di uffici direttivi e il paradosso del divieto rovesciato (nota a Tar Lazio, 18 marzo 2024, n. 5355).
di Fabio Francario
Sommario: 1. La sentenza Tar Lazio n. 5355/2024 e il paradosso del divieto rovesciato - 2. L’interpretazione “evolutiva” delle norme sull’ordinamento giudiziario e l’esasperazione del sindacato di legittimità e il problema mai sopito dell’indipendenza della magistratura ordinaria. - 3. Il problema del sindacato giurisdizionale (amministrativo) sugli atti di autogoverno della magistratura ordinaria - 4. Anomalie del sistema – 5. Osservazioni conclusive.
1. La sentenza Tar Lazio n. 5355/2024 e il paradosso del divieto rovesciato
La sentenza che si annota esclude che il magistrato che abbia ricoperto l’incarico di Segretario generale del Consiglio Superiore della Magistratura possa concorrere al conferimento dell’ufficio di Procuratore Generale Aggiunto della Corte di Cassazione, ritenendo che ciò sia espressamente vietato dalle vigenti Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura recate dalla l. 24 marzo 1958 n. 195. Precisamente dall’art. 41 il quale, con specifico riferimento alla “posizione dei giuridica dei segretari”, dispone che “I magistrati addetti alla segreteria del Consiglio superiore non possono partecipare ai concorsi o agli scrutini, salvo che abbiano cessato di far parte della segreteria almeno un anno prima della scadenza del termine stabilito per presentare la domanda di partecipazione al concorso o allo scrutinio, ovvero che il Consiglio, della cui segreteria facevano parte, sia cessato prima della scadenza anzidetta”.
La univoca e consolidata prassi interpretativa del Consiglio Superiore della Magistratura ha invece pacificamente considerato non più esistente tale divieto, ritenendo tale norma abrogata per effetto della radicale riforma del sistema di progressione delle carriere dei magistrati successivamente intervenuta. In origine, il RD 30 gennaio 1941 n. 12 sull’ordinamento giudiziario prevedeva infatti ruoli distinti per i magistrati di tribunale, di appello e di cassazione e che il passaggio da un ruolo all’altro avvenisse “mediante concorso” o “mediante scrutinio a turno di anzianità”(cfr. artt. 131, 145, 176 e 184); e la citata l. 195/1958 statuiva, tanto per i magistrati componenti il Consiglio Superiore, quanto per quelli addetti alla segreteria, il divieto di partecipazione ai concorsi e agli scrutini (artt. 34 e 41). Per i soli magistrati componenti stabiliva anche il divieto di conferimento di uffici direttivi (art. 35), divieto che non veniva invece riproposto per i magistrati adetti alla segreteria. Tra la seconda metà degli anni sessanta e la prima metà degli anni settanta del secolo scorso, il sistema dei concorsi interni viene abolito, tanto per la progressione a magistrato di corte d’appello, quanto per quella a magistrato di cassazione (l. 570/1966 e 831/1973) e sostituito da un diverso sistema, secondo il quale le relative qualifiche si acquisiscono al maturare di una determinata anzianità di servizio e all’esito della positiva valutazione da parte del Consiglio Superiore della Magistratura dell’attività svolta. La progressione di carriera non viene quindi più a dipendere dall’espletamento dei concorsi e scrutini originariamente previsti dai sopra citati articoli 131 e seguenti della legge sull’ordinamento giudiziario[1].
Orbene, secondo la pronuncia che si commenta, la perdurante vigenza del divieto di cui all’art. 41 l. 195/1958 non precluderebbe più, ai magistrati che ricoprano la posizione di segretario generale, la progressione di carriera attraverso le valutazioni di professionalità (che consistono, si badi, pur sempre “in un giudizio espresso ai sensi dell’art. 10 l 24 marzo 1958 n. 195 dal Consiglio superiore della Magistratura”; art. 11 d lgs 5 aprile 2006 n. 160 Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati), ma ne precluderebbe invece la partecipazione alle procedure concorsuali per il conferimento delle funzioni degli uffici giudiziari. Nonostante l’art. 12 del citato d. lgs. 160/2006 preveda che ad esse possano partecipare “tutti i magistrati che abbiano conseguito almeno la valutazione di professionalità richiesta” e nonostante nessuna norma abbia mai vietato ai magistrati addetti alla segreteria di concorrere per il conferimento degli uffici, come invece previsto per i magistrati componenti il Consiglio. Il divieto di cui all’art. 41 viene dunque considerato ancora vigente, ma applicato alla diversa fattispecie del conferimento dell’ufficio (e non della progressione di carriera); producendo così un risultato paradossale, perché ciò che era in origine precluso (la progressione di carriera) viene ritenuto possibile e ciò che era possibile (il conferimento di ufficio) viene invece ritenuto vietato.
La decisione non pare ineccepibile sotto il profilo esegetico. Nemmeno appare condivisibile nella sua ratio di fondo, dal momento che esclude che la posizione rivestita nella Segreteria possa esser di per sé tale da condizionare la decisione del Consiglio nella valutazione necessaria per la progressione di carriera, salvo assumere poi che tale posizione sarebbe tale da poter condizionare la decisione del Consiglio sul conferimento dell’ufficio. Delle due l’una: o la posizione è tale da far ritenere che la vicinanza della Segreteria al Consiglio comprometta la serenità e l’imparzialità del giudizio di quest’ultimo; o non lo è. Ma è paradossale che, come già sottolineato, l’interpretazione evolutiva della norma porti a vietare ciò che prima non lo era e a permettere ciò che prima era vietato.
Ciò che più colpisce della pronuncia è però il fatto che il giudice amministrativo, attraverso una interpretazione “evolutiva” del termine concorso, finisce con il ridisegnare in parte qua le regole per il conferimento degli uffici giudiziari, in netto contrasto con la prassi applicativa e interpretativa finora univocamente e pacificamente seguita dall’organo di autogoverno della magistratura ordinaria[2]. Prassi della quale viene peraltro negata l’esistenza, che è invece fatto notorio e di comune esperienza nell’ambito della comunità giudiziaria.
2. L’interpretazione “evolutiva” delle norme sull’ordinamento giudiziario e l’esasperazione del sindacato di legittimità e il problema mai sopito dell’indipendenza della magistratura ordinaria.
La sentenza che si commenta non è certamente l’unico caso in cui si manifesta una marcata tendenza del giudice amministrativo a sindacare gli atti dell’organo di autogoverno della magistratura ordinaria in maniera talmente penetrante da sollevare dubbi sull’effettivo rispetto dei limiti del sindacato di legittimità e da riproporre sotto diverso e nuovo profilo il mai sopito problema dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura ordinaria.
Oltre al caso in esame, l’esperienza mostra infatti come il giudice amministrativo, chiamato sempre più spesso a decidere delle nomine agli uffici anche apicali e di vertice della magistratura ordinaria, esercita un sindacato difficilmente riconducibile nei ragionevoli limiti della ragionevolezza e sostanzialmente basato sul carattere più o meno persuasivo della motivazione, valutazione che evoca opinabilità e soggettività dell’apprezzamento e che riduce ad una mera clausola di stile l’affermazione del riconoscimento al Consiglio Superiore della Magistratura della “esclusiva attribuzione del merito delle valutazioni, su cui non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale”.
I casi sono innumerevoli. Tra i più recenti e significativi, basti ricordare quelli riguardanti la nomina del Presidente e del Presidente aggiunto della Corte di Cassazione, decisi dal Consiglio di Stato con le sentenze 14 gennaio 2022 nn. 267 e 268. Le sentenze ritengono pacifico che si sia in presenza di candidati tutti eccellenti e che vi sia stata effettiva comparazione dei rispettivi curricula ai fini della nomina; così come danno pacificamente atto che non vi sarebbero state violazioni dei criteri di nomina così come predefiniti dalla legge (in ptcl dall’art. 21 del T.U. che stabilisce che “ «Costituiscono specifici indicatori di attitudine direttiva […]: a) l’adeguato periodo di permanenza nelle funzioni di legittimità almeno protratto per sei anni complessivi anche se non continuativi; b) la partecipazione alle Sezioni Unite; c) l’esperienza maturata all’ufficio spoglio; d) l’esperienze e le competenze organizzative maturate nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, anche con riferimento alla presidenza dei collegi»). È pacifico dunque che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia operato una effettiva comparazione e deciso applicando i criteri predeterminati per legge. Nel caso della nomina del Presidente, si ritengono tuttavia insufficientemente motivati i giudizi di prevalenza in quanto privi di “spiegazione concreta e circostanziata” laddove hanno ritenuto sostanzialmente equivalenti esperienze consistentemente diverse (funzioni di legittimità); ovvero privi di ragionevole e compiuta spiegazione dell’esito valutativo perché “l’oggettiva consistenza dei dati curriculari nei termini suindicati avrebbe richiesto una (ben diversa e) più adeguata motivazione in ordine alle conclusioni raggiunte dal Csm: seppure il dato quantitativo-temporale sul possesso degli indicatori specifici non ha infatti valore assorbente e insuperabile, né implica di per sé alcun automatismo sull’esito valutativo, occorre nondimeno una motivazione ragionevole e adeguata per poter giustificare una conclusione difforme dalle (univoche) emergenze dei dati oggettivi” (partecipazione alle Sezioni Unite); o ancora formulati “ al di là della opinabilità, e cioè del fisiologico esercizio della discrezionalità spettante all’amministrazione nel quadro degli indicatori previsti dal Testo unico” nel momento in cui si è ritenuto che una determinata sezione (la Sesta Civile) rivestisse un ruolo essenziale e strategico quale Sezione filtro perché tale valutazione sarebbe avvenuta “in assenza di criteri (predeterminati) in tal senso nell’ambito del Testo unico” e conduce evidentemente “ben oltre la discrezionalità valutativa nell’apprezzamento dell’uno o dell’altro profilo curriculare” (ufficio spoglio). Nel caso della nomina del Presidente aggiunto, si ritiene del pari che “l’oggettiva consistenza dei dati curriculari nei termini suindicati avrebbe richiesto una (ben diversa e) più adeguata motivazione in ordine alla conclusione di ritenuta equivalenza dei profili dei candidati, conclusione che non risulta invece allo stato esplicabile né ragionevolmente intellegibile alla luce dello scarno passaggio motivazionale speso dal Csm al riguardo Tanto in piùin un caso, quale quello in esame, in cui l’importanza del posto a concorso, gli eccellenti profili dei candidati in competizione e la indiscutibile rilevanza dei loro curricula impongono - oltre all’attenta, accurata e completa ricognizione di tutti gli aspetti della rispettiva carriera, anche attraverso la opportuna comparazione - un particolare obbligo di motivazione, puntuale ed analitico, tale da far emergere in modo quanto più preciso ed esauriente le ragioni della prevalenza di un candidato sull’altro”[3].
Motivazioni eccessivamente invasive della discrezionalità che dovrebbe esser propria di atti di alta amministrazione, quali comunemente sono ritenuti quelli di autogoverno del Consiglio superiore della Magistratura[4], e interpretazioni evolutive delle norme sull’ordinamento giudiziario, che creano divieti al conferimento degli uffici giudiziari non esistenti in passato, fanno sorgere il dubbio che un sindacato così penetrante sugli atti espressione dell’autogoverno della magistratura ordinaria possa comprometterne la garanzia dell’indipendenza. Tanto più se operato da un giudice, “speciale” secondo la Costituzione, le garanzie d’indipendenza del quale sono attenuate rispetto a quelle proprie della magistratura ordinaria[5].
3.- Il problema del sindacato giurisdizionale (amministrativo) sugli atti di autogoverno della magistratura ordinaria.
Rebus sic stantibus, il problema del sindacato del giudice amministrativo sugli atti del Consiglio superiore della Magistratura non si pone in materia di provvedimenti disciplinari, in quanto l'attività del Consiglio in tal caso viene qualificata come giurisdizionale e le decisioni vengono impugnate con ricorso alle Sezioni unite della Corte di cassazione.
Il problema riguarda essenzialmente le decisioni, diverse da quelle disciplinari, incidenti sullo status di magistrato e trova adesso esplicita definizione nell’art 17 della legge sull’ordinamento giudiziario. Dopo aver previsto che “tutti provvedimenti riguardanti i magistrati sono adottati, in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore, con decreto del Presidente della repubblica controfirmato dal Ministro; ovvero, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto del Ministro per grazia e giustizia” e dato per scontato che “la tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo è disciplinata dal codice del processo amministrativo”, l’art. 17 della l. 195/1958 e smi, nel testo attualmente vigente, dispone come segue: “Per la tutela giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti concernenti il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi si segue, per quanto applicabile, il rito abbreviato disciplinato dall'articolo 119 del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Nel caso di azione di ottemperanza, il giudice amministrativo, qualora sia accolto il ricorso, ordina l'ottemperanza ed assegna al Consiglio superiore un termine per provvedere. Non si applicano le lettere a) e c) del comma 4 dell'articolo 114 del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo n. 104 del 2010”. La giurisdizione amministrativa è data dunque per pacifica, anche se residuano incertezze sui poteri decisori concretamente spendibili dal giudice amministrativo. L’esperibilità del giudizio di ottemperanza in quanto tale, e con essa la possibilità di sostituzione dell’organo di autogoverno nel conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi del giudice amministrativo, viene pacificamente dichiarata, anche se i limiti in ordine al contenuto ordinatorio e alla possibilità di determinare le modalità esecutive in presenza di sentenze non ancora passate in giudicato lasciano quantomeno il dubbio che possa realizzarsi una piena sostituzione [6].
Oggi come oggi non desta quindi certamente scandalo il fatto che il giudice amministrativo intervenga nei processi decisionali del Consiglio Superiore della Magistratura condizionando inevitabilmente le scelte dell’organo di autogoverno, essendo ormai pacifica e codificata l’impugnabilità delle sue decisioni. Rimane però il fatto che si è pur sempre di fronte a un tema delicato e complesso, che appare meritevole di particolare attenzione e cautela non già ratione personae, come una sorta di privilegio di casta riservato a persone particolarmente in alto nella scala sociale, ma perché l’autogoverno della magistratura è previsto nella Costituzione a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Questo è il senso della riserva operata dall’art. 105 Cost. allorquando statuisce che “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”[7]. La norma costituzionale non ha natura puramente organizzativa, come se fosse volta semplicemente a regolare la distribuzione delle competenze amministrative per il personale di magistratura, ma, attraverso il riconoscimento dell’autogoverno, è volta a rendere concreta la garanzia di autonomia e indipendenza della magistratura rispetto al potere esecutivo (“ad ogni altro potere”), esplicitamente affermata nell’art. 104 Cost. e rinforzata dall’affermazione della soggezione del giudice “soltanto alla legge”, recata dall’art. 101 Cost.. Il problema rimane a tutt’oggi ancora aperto, come testimonia la soluzione di compromesso codificata nella stesura sopra ricordata dell’art. 17 della l. 195/1958[8].
La necessità di garantire anche al personale di magistratura il diritto alla tutela giurisdizionale, riconosciuto dall’art. 24 della Costituzione come diritto fondamentale dell’individuo, deve dunque svolgersi in modo da non compromettere quell’autonomia e quell’indipendenza che la Costituzione vuole venga garantita alla magistratura ordinaria e deve essere quindi tenuto nella debita considerazione il fatto che, oggi come oggi, la concentrazione della tutela giuridizionale in capo al giudice amministrativo finisce con il presentare più di una anomalia. Specie se in un periodo come questo attuale si discute molto de jure condendo di nuove forme dell’autogoverno delle magistrature[9].
4.- Anomalie del sistema
L’anomalia si evidenzia sotto due distinti ma connessi profili; ovvero, può considerarsi duplice.
Sotto un primo profilo, deriva dalla impossibilità di negare il deficit di apparenza d’indipendenza del Consiglio di Stato, organo di vertice della magistratura amministrativa, rispetto al Governo.
Quello dell’apparenza d’indipendenza della magistratura amministrativa è un prolema antico, ma sempre attuale. È vero, infatti, che l’ordinamento delle magistrature speciali si è progressivamente avvicinato al modello di autogoverno della magistratura ordinaria, evidenziando un crescente distacco dal potere esecutivo nelle cui articolazioni erano precedentemente assorbite[10]. È innegabile, però, che le garanzie d’indipendenza dei giudici speciali sono attenuate e non sono le medesime previste per la magistratura ordinaria. Per i giudici speciali, l’art. 108, comma secondo, Cost. rinvia alla legge ordinaria (“La legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso presso di esse e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia”) e la disciplina concretamente dettata dal legislatore ordinario non ha certamente assicurato l’indipendenza assoluta del Consiglio di Stato rispetto al Governo. Che, a differenza del giudice ordinario, vi sia quindi un deficit d’indipendenza del giudice amministrativo rispetto al potere esecutivo è un dato oggettivo, che viene generalmente e storicamente sottolineato dalla dottrina. Nonostante la questione di costituzionalità sia stata più volte dichiarata infondata dalla Corte costituzionale, nei suoi termini di fondo la questione torna ad essere ciclicamente rimediata dalla dottrina[11]. Segno evidente che le motivazioni addotte dalla Corte, soprattutto nella pronuncia n. 177 del 19 dicembre 1973, resa con specifico riferimento al tema della nomina governativa dei Consiglieri di Stato e fatte proprie anche dalle successive sentenze, sono apparse poco convicenti nel momento in cui sostanzialmente si riassumono nella considerazione che “gli eventuali rapporti tra il prescelto e la pubblica amministrazione che abbiano preceduto la nomina o che, intervenuta questa potrebbero in ipotesi suscitare vincoli di sorta, si dissolvono nelle persone che siano idonee a ricoprire l’ufficio e all’atto in cui acquistano uno status”.
È evidente infatti che risolvere la garanzia d’indipendenza nel “potere trasfigurante”[12]dello status di magistrato lascia aperto il problema di fondo derivante dal fatto che le garanzie d’indipendenza riguardano innanzi tutto l’ufficio, prima ancora che le persone che siano ad esso preposte. È cioè evidente il limite di fondo di non distinguere tra indipendenza funzionale e istituzionale [13]. Per quanto sia stato quindi intrapreso un percorso di avvicinamento del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa al modello costituzionale dell’autogoverno tipizzato nel Consiglio Superiore della Magistratura, la mancata definitiva rescissione del cordone ombelicale del Consiglio di Stato con il Governo lascia al fondo irrisolti sempre gli stessi problemi, derivanti dalla nomina governativa dei Consiglieri di Stato, dal cumulo tra funzioni giurisdizionali e consultive, dagli incarichi extra giudiziali, della nomina del Presidente del Consiglio di Stato su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri previa delibera del Consiglio dei Ministri sentito il parere del Consiglio di Presidenza, dal conferimento dell’incarico di Segretario Generale con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio di Stato, sentito il Consiglio di presidenza.
Dal momento che l’indipendenza non può dunque ridursi ad una qualità ideale che il giudice acquista per la semplice acqusizione delle guarentigie inerenti alla sua funzione, il deficit che si sconta sotto il profilo della apparenza d’indipendenza istituzionale non esclude che la concentrazione della giurisdizione sullo status e sul rapporto di servizio dei magistrati ordinari in capo al giudice amministrativo possa esser in astratto tale da compromettere la garanzia dell’indipendenza di cui all’art. 104 Cost..
Sotto un secondo profilo, l’anomalia è data dal fatto che la concentrazione della giurisdizione in capo al giudice amministrativo risulta priva dell’adeguato bilanciamento che potrebbe essere dato dalla competenza della magistratura ordinaria sulle controversie riguardanti il personale della magistrartura amministrativa. Allorquando si è discusso dell'impugnabilità innanzi al giudice amministrativo dei provvedimenti incidenti sullo status dei magistrati ordinari, la questione si è infatti posta non solo con riferimento al tema della intrinseca impugnabilità degli atti del Consiglio Superiore della Magistratura, ma anche sulla scelta di radicare la giurisdizione nel giudice amministrativo. Entrambi i profili sono stati presi in considerazione dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n. 44 del 14 maggio 1968 [14], la motivazione della quale sotto questo profilo offre importanti indicazioni. La pronuncia, com’è noto, risolve innanzi tutto il problema del conflitto tra l’esigenza di assicurare a tutti i cittadini, compresi quelli appartenenti alla categoria dei magistrati, la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi legittimi e l’esigenza di evitare qualsiasi interferenza da parte non solo dei potere esecutivo, ma anche dello stesso potere giurisdizionale, a favore del primo. Affermando la prevalenza dell'esigenza di tutela giurisdizionale su quella d'indipendenza del Consiglio superiore della Magistratura, si è poi aperto l’ulteriore distinto problema della individuazione del giudice competente, la soluzione del quale a favore del giudice amministrativo, nella decisione, appare tutt’altro che scontata. Nella decisione, la individuazione del giudice amministrativo non deriva infatti automaticamente dal fatto che le difficoltà derivanti dalla non riducibilità del Consiglio Superiore ad una semplice pubblica amministrazione vengono superate valorizzando il carattere sostanzialmente amministrativo dell’attività svolta (in tal senso del resto v. già Corte Cost. 168/1963[15]), ma è frutto di una specifica autonoma valutazione di opportunità. La preferenza per il giudice amministrativo è frutto di una scelta che viene giustificata dalla necessità di evitare “la confluenza che verrebbe a verificarsi negli appartenenti allo stesso ordine di destinatari dei provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura e di giudici della regolarità dei medesimi”. Se la ratio decidendi è dunque quella di evitare la “confluenza” nel medesimo ordine giurisdizionale sulle decisioni dell'organo di autogoverno, va da sé che il medesimo principio dovrebbe impedire al giudice amministrativo di conoscere dei provvedimenti adottati dal proprio organo di autogoverno, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa. Dovrebbe cioè impedire che il giudice amministrativo conosca delle decisioni sui giudici amministrativi creando una giurisdizione domestica[16].
5.- Osservazioni conclusive.
La criticità rappresentata dalle anomalie sopra descritte diventa ancor più evidente alla luce dell’orientamento della Corte Costituzionale volto a tutelare l’assetto pluralistico dell’ordinamento giurisdizionale. Mi riferisco alle note pronunce 6 luglio 2004 n. 204 e 18 gennaio 2018 n. 6, rese dalla Corte costituzionale per precisare i limiti del sindacato della Corte di cassazione sulla giurisdizione del giudice amministrativo, che è stato circoscritto e limitato negando l’esistenza di una unità organica della giurisdizione e ritenendo ravvisabile un’unità solo funzionale delle giurisdizioni[17]. Riprendendo le parole pronunciate da Costantino Mortati nella seduta pomeridiana del 27 novembre 1947 dell’Assemblea costituente, la Corte ha affermato che l’assetto pluralistico “non esclude anzi implica una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé”. Diventa infatti chiaro a questo punto che l’equiparazione dei diversi ordinamenti di magistratura in punto di autonomia e indipendenza non può non valere secondo un principio di reciprocità e non può valere a vantaggio esclusivamente della magistratura amministrativa. Che è invece proprio quel che si verifica nel momento in cui la magistratura amministrativa ha un suo proprio organo di autogoverno ed è giudice dei provvedimenti che questo adotta; laddove quella ordinaria, l’unica magistratura ad avere l’organo di autogoverno coperto dalla garanzia costituzionale, vede gli atti del suo organo di autogoverno soggetti al sindacato del giudice amministrativo, l’apparenza di assoluta indipendenza istituzionale del quale dal Governo continua ancor oggi a sollevare più di un dubbio in dottrina. Si è in presenza di una duplice anomalia, alla quale primo o poi occorrerà porre rimedio.
[1] Per una compiuta ricostruzione dell’evoluzione del sistema v. P. Filippi, La valutazione di professionalità, in E. Albamonte e P. Filippi (a cura di), Ordinamento giudiziario. Leggi , regolamenti e procedimenti, Torino, 2009, 351 ss.
[2] Per quanto si discuta se l’espressione organo di “autogoverno” sia propriamente utilizzata a proposito del Consiglio Superiore della Magistratura (per tutti v. A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., in Quad. Cost., 1989, 471 ss), è fuor di dubbio che esso sia concepito come “organo di garanzia costituzionale operante al fine primario di assicurare l’attuazione dei valori posti per l’ordine giudiziario dall’art. 104 Cost” (così F. Bonifacio, G. Giacobbe, Commento all’art. 105 Cost., in G. Branca (a cura di), Commentario della costituzione. La magistratura. Art 104-107, II, Bologna Roma, 1986, 118). Su tali profili v. di recente V. Campigli, L’autodichia degli organi costituzionali. Dal privilegio dell’organo alla tutela amministrativa dell’individuo, Napoli, 2023, 199 e ivi ulteriori riferimenti.
[3] Cfr. Il Consiglio di Stato (e la) nomina (del) Presidente e (del) Presidente aggiunto della Corte di Cassazione (Consiglio di Stato, Sez. V, 14 01 2022 nn. 267 e 268), in GiustiziaInsieme, 15 gennaio 2022. Sempre in questa Rivista, in tema v. anche G. Tropea, Conferimento di incarichi direttivi e giudice amministrativo: il lungo addio all’ineffettività della tutela (nota a Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2020 n. 4584), in GiustiziaInsieme, 24 luglio 2020; M.R. Spasiano, Nomina dei compeonenti togati del Comitato direttivo della Scuola Superiore della magistratura: è l’autovincolo a imporre il procedimento selettivo a carattere comparativo, in GiustiziaInsieme, 2 febbraio 2021; F. Francario, Autogoverno della magistratura e tutela giurisdizionale. Brevi cenni sui profili problematici della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei magistrati, in GiustiziaInsieme, 2018; C. Riviezzo, Il sindacato del giudice amministrativo sugli atti di autogoverno, in GiustiziaInsieme, 2/2010.
[4] Per tutti v. G. Tropea, Conferimento di incarichi direttivi e giudice amministrativo, cit.
[5] Nel testo si fa ovviamente riferimento alla necessità di porre al riparo dalle sollecitazioni dell’ambito politico o comunque esterne non già la persona del giudice in quanto tale (per questo profilo si rinvia per tutti ai contributi raccolti nel recente fascicolo monotematico della rivista Questione Giustizia, 1/2024, Magistrati: essere ed apparire impararziali), ma l’istituzione di appartenenza, l’indipendenza della quale deve essere pur sempre anch’essa valutata, secondo principi pacificamente enunciati ed applicati dalle Corti europee (ex multis cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea - grande sezione, 5 novembre 2019, causa C-192/18, Commissione c. Repubblica di Polonia; Id., 19 novembre 2019, cause riunite C-585/18, C-624/18 e C-625/18; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Prima Sezione, 20 agosto 2021, causa BEG spa vs Italia; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sezione seconda, sentenza 21 febbraio 2023, Catană contro Moldavia; per ulteriori riferimenti per tutti v. L. Montanari, La garanzia europea dell’indipendenza dei giudici nazionali, in DPCE on line, 1/2020, 957 ss), secondo la teoria cd dell’apparenza e non dell’effettiva sussistenza. Sull’attenuazione delle garanzie nel caso del Consiglio di Stato, organo di vertice della magistratura amministrativa, v. infra, sub § 4 e in ptcl dottrina citata sub nota 11.
[6] L’ammissibilità del giudizio di ottemperanza nel contenzioso sugli uffici direttivi e semidirettivi è stata esplicitamente affermata dalla Corte cost. nelle sentenze 8 settembre 1995 n. 419 e 15 settembre 1995 n. 435, rese su conflitto di attribuzione sollevato dal CSM nei confronti del Consiglio di Stato e decise sulla base del richiamo del principio di effettività della tutela giurisdizionale e della circostanza che si trattasse di porre in essere attività vincolate o meramente esecutive della pronuncia, prive pertanto di discrezionalità. Che il problema sia rimasto aperto è testimoniato dalla tormentata riscrittura dell’art. 17 della l. 195/1958 riportato nel testo, che approda alla versione attualmente vigente che esprime un evidente tentativo di raggiungere un compromesso tra contrapposte esigenze. Sul tema specifico dell’ammissibilità del giudizio di ottemperanza e dei suoi limiti per tutti v. A. Storto, I provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura e il giudizio di ottemperanza: storia di un conflitto di attribuzione che vuole rimanere tale, in B. Capponi, B. Sassani, A. Storto, R. Tiscini (a cura di), Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, Torino, 2014, 1365 ss. Sul tema in generale del sindacato sugli atti del CSM e dei suoi limiti, ex multis v. V. Spagna Musso, Sulla sindacabilità degli atti del C.S.M. da parte del Consiglio di Stato, in Giur cost., 1962, 1609 ss; A. M. Sandulli , Atti del Consiglio superiore della magistratura e sindacato giurisdizionale, in Giust. civ., 1963, II, 3 ss.; U. De Siervo, A proposito della ricorribilità in Consiglio di Stato delle deliberazioni del Consiglio superiore della Magistratura, in Giur. cost., 1968, 690 ss; E. Cannada - Bartoli, Tutela dei magistrati eletti al Consiglio superiore, giurisdizione del Consiglio di Stato e forma degli atti, in Foro amm., 1972, 109 ss; F.G. Scoca, Atti del CSM e loro sindacato giurisdizionale, in Dir. Proc. Amm., 1/1987, 5 ss; G. Ferrari, Consiglio Superiore della Magistratura, in Enc. Giur. Treccani, VIII, Roma, 1988; G. Cugurra, Atti del Consiglio Superiore della Magistraura e sindacato giurisdizionale, in Dir. Proc. Amm., 3/1984, 310ss; F. Patroni Griffi, Atti del CSM e sindacato giurisdizionale nel DL 24 giugno 2014 n. 90 in www.giustizia-amministrativa.it, 4 agosto 2014; R. De Nictolis, Il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM, in www.giustizia-amministrativa.it, 9 novembre 2019; E. Zampetti, Il controverso requisito della permanenza in servizio per il consigliere CSM, la decisione spetta al giudice ordinario, in GiustiziaInsieme, 19 novembre 2020; Id., Postilla a Il controverso requisito della permanenza in servizio per il consigliere CSM, la decisione spetta al giudice ordinario (nota a Cons. Stato, Sez. V, 7 gennaio 2021 n. 215), in GiustiziaInsieme, 23 febbraio 2021.
[7] V. ante , sub nota 2.
[8] V. sub nota 6.
[9] Per tutti v. T. F. Giupponi, Il Consiglio superiore della magistratura e le prospettive di riforma, in Quaderni costituzionali, n. 1/2021; M. Lipari, Verso l’Alta Corte disciplinare e dei conflitti? Unità funzionale della giurisdizione, responsabilità del giudice e autogoverno delle magistrature, in www.giustizia-amministrativa.it, 7 agosto 2022; M.A. Sandulli, Intervista a cura di P. Filippi e R. Conti nell’ambito del Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte. La rivoluzione dell’assetto giurisdizionale in vista dell’istituzione di una giurisdizione speciale per i giudici, in Giustiziainsieme,28 marzo 2022; R. Greco, L’indipendenza del giudice amministrativo tra falsi problemi e criticità reali, in GiustiziaInsieme, 27 settembre 2023.
[10] Il Consiglio superiore della magistratura viene istituito con l. 24 marzo 1958 n. 195; il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa con l. 27 aprile 1982 n. 186; il Consiglio di presidenza della corte dei conti con l. 13 aprile 1988 n. 117; il Consiglio della magistratura militare con l. 30 dicembre 1988 n. 561. Per il quadro d’insieme ex multis v. G. Verde, L’unità della giurisdizione e la diversa scelta del costituente, in Dir. proc. Amm., 2003, 363 ss; R. Garofoli, Unicità della giurisdizione e indipendenza del giudice: principi costituzionali ed effettivo sviluppo del sistema costituzionale, in Dir. proc. Amm., 1998, 144 ss; A. D’Aloia, L’autogoverno delle magistrature “non ordinarie” nel sistema costituzionale della giurisdizione, Napoli, 1995; S. Senese, Giudice (nozione e diritto costituzionale), in Dig. Disc. Pubbl., VII, Torino Utet, 1991, 218 ss; R. Pinardi, Sulla composizione degli organi di garanzia delle magistrature speciali, in Consulta online.
[11] Ex multis: A. M. Sandulli, Giudici amministrativi, concorsi, indipendenza, in Giur. It., 1973, III, 1, 129 ss; F. Sorrentino, I consiglieri di Stato e la Corte, in Dir. soc., 1974, 162 ss; G. Silvestri, Giudici ordinari, giudici speciali e unità della giurisdizione nella Costituzione italiana, inScritti in onore di M.S. Giannini, Milano, 1988, III, 707 ss; G. Scarselli, La terzietà e l’indipendenza dei giudici del Consiglio di Stato, in Foro It., 2001, III, 269 ss; S. Raimondi, L’ordinamento della giustizia amministrativa in Sicilia, Privilegio e condanna, Milano, 2009; A. Orsi Battaglini,Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia “non amministrativa”, Milano, 2005; M. Protto, Le garanzie di indipendenza e imparzialità del giudice nel processo amministrativo, in G. Piperata , A Sandulli (a cura di), Le garanzie delle giurisdizioni: indipendenza e imparzialità dei giudici, Napoli, 2012, 95 ss; M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2013, 119 ss; E. Follieri, Le garanzie d’indipendenza del Consiglio di Stato, in Dir. proc. Amm., 4/2016, 1234 ss; A. Proto Pisani, G. Scarselli, La strana idea di consentire ai giudici amministrativi di comporre i collegi delle sezioni unite, in Foro it., 2018, V, 62 ss; P. Tanda, Profili istituzionali,processuali e comparatistici dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice amministrativo, in Giur. Cost., 2020, 3, 697 ss; G. Montedoro, E Scoditti, Il giudice amministrativo come risorsa, in Questione Giustizia, 1/2021, 15 ss; F. Volpe, Un marziano a spasso per il processo amministrativo (divertissement sul non-processo), in GiustiziaInsieme, 13 marzo 2024; L. Ferrara, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2024, 51 ss; A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2024, 94 ss.
[12] Così efficacemente G.P.Cirillo, I principi generali del processo amministrativo, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, Trattato di diritto amministrativo diretto da G. Santaniello, Padova, 2014, 28.
[13] S. Bartole, Indipendenza del giudice (teoria generale), in Enc. Giur. Treccani, XVI, Roma, 1989, 1; R. Romboli – S. Panizza, Ordinamento giudiziario, in Dig. Disc. Pubbl., X Torino, 1995, 380 ss; U. Pototschnig, Il giudice interessato non è indipendente, in Giur. Cost., 1965, 1291 ss.
[14] Corte cost. 14.5.1968, n.44, in Foro it., 1968, I, 1396 ss.
[15] Pacificamente ammessa nei confronti del decreto presidenziale o ministeriale di recepimento, l'impugnativa è stata dunque ben presto estesa alla delibera del Consiglio Superiore della Magistratura in quanto atto preparatorio del procedimento concluso dal decreto presidenziale o ministeriale (Cons Stato, Sez. IV, 14 marzo 1962 n. 248; Id., 22 novembre 1962 n. 752) e, successivamente, alla deliberazione in quanto tale, indipendentemente dalla circostanza che si traduca in un decreto presidenziale o ministeriale (Tar Lazio, Sez. I, 8 giugno 1983 n. 491).
[16] Cfr. Cass. SU 29 settembre 2000 n. 1049
[17] La letteratura sul tema è molto ampia. Mi limito pertanto a rinviare, anche per gli uteriori riferimenti, a F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in GiustiziaInsieme, 11 novembre 2020; Id., Quel pasticciacio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in Federalismi, 34/2020; Id., Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, in Federalismi, 9 febbraio 2022.
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