ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Questo contributo fa parte della discussione aperta da questa Rivista sul disegno di legge di riforma costituzionale n. 935, comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, che prende il nome di premierato. Si veda anche Premierato sì, ma non così di Stefano Ceccanti, Trent’anni dopo. L’Ingegneria costituzionale e le Riforme di Alessandro Mangia, Brevissime note sulla riforma costituzionale del premierato di Giuliano Scarselli.
La senatrice a vita Liliana Segre è intervenuta a Palazzo Madama durante la discussione sul disegno di legge costituzionale in oggetto il 14 maggio 2024. Pubblichiamo di seguito il testo integrale del suo discorso.
Signor Presidente, Care Colleghe, Cari Colleghi,
continuo a ritenere che riformare la Costituzione non sia una vera necessità del nostro Paese. E le drastiche bocciature che gli elettori espressero nei referendum costituzionali del 2006 e del 2016 lasciano supporre che il mio convincimento non sia poi così singolare.
Continuo anche a ritenere che occorrerebbe impegnarsi per attuare la Costituzione esistente. E innanzitutto per rispettarla.
Confesso, ad esempio, che mi stupisce che gli eletti dal popolo – di ogni colore – non reagiscano al sistematico e inveterato abuso della potestà legislativa da parte dei Governi, in casi che non hanno nulla di straordinariamente necessario e urgente.
Ed a maggior ragione mi colpisce il fatto che oggi, di fronte alla palese mortificazione del potere legislativo, si proponga invece di riformare la Carta per rafforzare il già debordante potere esecutivo.
In ogni caso, se proprio si vuole riformare, occorre farlo con estrema attenzione. Il legislatore che si fa costituente è chiamato a cimentarsi in un’impresa ardua: elevarsi, librarsi al di sopra di tutto ciò che – per usare le parole di Leopardi – “dall’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Sollevarsi dunque idealmente tanto in alto da perdere di vista l’equilibrio politico dell’oggi, le convenienze, le discipline di partito, tutto ciò che sta nella realtà contingente, per tentare di scrutare quell’ “Infinito” nel quale devono collocarsi le Costituzioni. Solo da quest’altezza si potrà vedere come meglio garantire una convivenza libera e sicura ai cittadini di domani, anche in scenari ignoti e imprevedibili.
Dunque occorrono non prove di forza o sperimentazioni temerarie, ma generosità, lungimiranza, grande cultura costituzionale e rispetto scrupoloso del principio di precauzione.
Non dubito delle buone intenzioni della cara amica Elisabetta Casellati, alla quale posso solo esprimere gratitudine per la vicinanza che mi ha sempre dimostrato. Poiché però, a mio giudizio, il disegno di riforma costituzionale proposto dal governo presenta vari aspetti allarmanti, io non posso e non voglio tacere.
Il tentativo di forzare un sistema di democrazia parlamentare introducendo l’elezione diretta del capo del governo, che è tipica dei sistemi presidenziali, comporta, a mio avviso, due rischi opposti.
Il primo è quello di produrre una stabilità fittizia, nella quale un presidente del consiglio cementato dall’elezione diretta deve convivere con un parlamento riottoso, in un clima di conflittualità istituzionale senza uscita. Il secondo è il rischio di produrre un’abnorme lesione della rappresentatività del parlamento, ove si pretenda di creare a qualunque costo una maggioranza al servizio del Presidente eletto, attraverso artifici maggioritari tali da stravolgere al di là di ogni ragionevolezza le libere scelte del corpo elettorale.
La proposta governativa è tale da non scongiurare il primo rischio (penso a coalizioni eterogenee messe insieme pur di prevalere) e da esporci con altissima probabilità al secondo. Infatti, l’inedito inserimento in Costituzione della prescrizione di una legge elettorale che deve tassativamente garantire, sempre, mediante un premio, una maggioranza dei seggi a sostegno del capo del governo, fa sì che nessuna legge ordinaria potrà mai prevedere una soglia minima al di sotto della quale il premio non venga assegnato.
Paradossalmente, con una simile previsione la legge Acerbo del 1923 sarebbe risultata incostituzionale perché troppo democratica, visto che l’attribuzione del premio non scattava qualora nessuno avesse raggiunto la soglia del 25%.
Trattando questa materia è inevitabile ricordare l’Avvocato Felice Besostri, scomparso all’inizio di quest’anno, che fece della difesa del diritto degli elettori di poter votare secondo Costituzione la battaglia della vita. Per ben due volte la Corte Costituzionale gli ha dato ragione, cassando prima il Porcellum e poi l’Italicum perché lesivi del principio dell’uguaglianza del voto, scolpito nell’art. 48 della Costituzione. E dunque, mi chiedo, come è possibile perseverare nell’errore, creando per la terza volta una legge elettorale destinata a produrre quella stessa “illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare” ?
Ulteriore motivo di allarme è provocato dal drastico declassamento che la riforma produce a danno del Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato infatti non solo viene privato di alcune fondamentali prerogative, ma sarebbe fatalmente costretto a guardare dal basso in alto un Presidente del Consiglio forte di una diretta investitura popolare.
E la preoccupazione aumenta per il fatto che anche la carica di Presidente della Repubblica può rientrare nel bottino che il partito o la coalizione che vince le elezioni politiche ottiene, in un colpo solo, grazie al premio di maggioranza.
Anzi, è addirittura verosimile che, in caso di scadenza del settennato posteriore alla competizione elettorale, le coalizioni possano essere indotte a presentare un ticket, con il n°1 candidato a fare il capo del governo ed il n° 2 candidato a insediarsi al Quirinale, avendo la certezza matematica che – sia pure dopo il sesto scrutinio (stando all’emendamento del Senatore Borghi) – la maggioranza avrà i numeri per conquistare successivamente anche il Colle più alto.
Ciò significa che il partito o la coalizione vincente - che come si è visto potrebbe essere espressione di una porzione anche assai ridotta dell’elettorato (nel caso in cui competessero tre o quattro coalizioni, come è già avvenuto in un recente passato) sarebbe grado di conquistare in un unico appuntamento elettorale il Presidente del Consiglio e il governo, la maggioranza assoluta dei senatori e dei deputati, il Presidente della Repubblica e, di conseguenza, anche il controllo della Corte Costituzionale e degli altri organismi di garanzia. Il tutto sotto il dominio assoluto di un capo del governo dotato di fatto di un potere di vita e di morte sul Parlamento.
Nessun sistema presidenziale o semi-presidenziale consentirebbe una siffatta concentrazione del potere; anzi, l’autonomia del Parlamento in quei modelli è tutelata al massimo grado. Non è dunque possibile ravvisare nella deviazione dal programma elettorale della coalizione di governo – che proponeva il presidenzialismo – un gesto di buona volontà verso una più ampia condivisione. Al contrario, siamo di fronte ad uno stravolgimento ancora più profondo e che ci espone a pericoli ancora maggiori.
Aggiungo che il motivo ispiratore di questa scelta avventurosa non è facilmente comprensibile, perché sia l’obiettivo di aumentare la stabilità dei governi sia quello di far eleggere direttamente l’esecutivo si potevano perseguire adottando strumenti e modelli ampiamente sperimentati nelle democrazie occidentali, che non ci esporrebbero a regressioni e squilibri paragonabili a quelli connessi al cosiddetto “premierato”.
Non tutto può essere sacrificato in nome dello slogan “scegliete voi il capo del governo!” Anche le tribù della preistoria avevano un capo, ma solo le democrazie costituzionali hanno separazione dei poteri, controlli e bilanciamenti, cioè gli argini per evitare di ricadere in quelle autocrazie contro le quali tutte le Costituzioni sono nate.
Motivazione “apparente” della sentenza e controllo giurisdizionale sulla discrezionalità amministrativa (nota a Consiglio di Stato, Sez. III, 16 novembre 2023, n. 9824)
di Marco Magri e Enrico Zampetti
Sommario: 1. La vicenda. 2. La motivazione apparente quale causa di rimessione al primo giudice. 3. L’inconfigurabilità nel caso di specie di un’ipotesi di motivazione apparente. 4. Motivazione apparente e omessa pronuncia. 5. Motivazione apparente e discrezionalità amministrativa (in tema di sindacato sull’atto di scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose).
1. La vicenda.
L’esito della decisione annotata è già di per sé abbastanza significativo: il Consiglio di Stato riforma una sentenza del Tar Lazio[1] che, in linea con un indirizzo giurisprudenziale consolidato, aveva respinto il ricorso presentato contro il decreto di scioglimento di un Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose (art. 143 TUEL).
La pronuncia di primo grado, tipico esempio di sindacato estrinseco sul vizio di eccesso di potere[2], aveva ritenuto sostanzialmente corrette le valutazioni dell’amministrazione, annettendo valore decisivo all’ampio margine di discrezionalità di cui quest’ultima dispone nel ponderare gli elementi indiziari circa i collegamenti diretti e indiretti degli amministratori locali con la criminalità organizzata.
In appello però i ricorrenti avevano insistito su tutte le censure sollevate in primo grado, sostenendo che il Tar non le avesse sostanzialmente esaminate. A loro avviso il giudice, anziché compiere una valutazione sulla sussistenza dei presupposti per lo scioglimento del consiglio comunale, si era limitato a richiamare princìpi generali e a recepire acriticamente gli esiti dell’istruttoria eseguita dall’amministrazione, senza alcun riguardo per le contestazioni che i ricorrenti avevano addotto per dimostrare l’infondatezza degli elementi di contiguità mafiosa rilevati a carico dell’ente locale.
La sentenza d’appello, come si accennava, rovescia la pronuncia di primo grado in modo piuttosto inaspettato. Ma altrettanto significative sono le conseguenze processuali che il Consiglio di Stato ne trae rispetto al principio del doppio grado di giurisdizione. Ci riferiamo all’esclusione dell’effetto devolutivo dell’appello e alla scelta di accogliere il gravame con una pronuncia di rito, disponendo la regressione al giudice di primo grado e la ripetizione del processo amministrativo.
Il Consiglio di Stato perviene infatti all’ulteriore considerazione che “nel caso in esame, non può riscontrarsi la presenza di requisiti minimi e nemmeno la struttura decisionale essenziale per consentire l’intervento ‘ortopedico’ del giudice di appello”. In linea con le sentenze dell’Adunanza Plenaria nn. 10 e 11 del 2018, la Sezione riconosce nella pronuncia del Tar il vizio di motivazione “apparente”, che comporta la nullità della sentenza appellata con rinvio della causa al primo giudice “per il combinato disposto degli artt. 88, comma 2, lett. d), e 105, comma 1, c.p.a.”.
È bene però subito soggiungere che la motivazione è ritenuta “apparente” non tanto perché il Tar si sia fermato alla classica petizione di principio, abbia cioè completamente trascurato di porre a fondamento della propria decisione le risultanze degli atti di causa. Gli elementi che l’atto impugnato considerava indizi di infiltrazione mafiosa erano stati tutti richiamati, valutati, ritenuti verosimili, o non irragionevoli, nella sentenza di primo grado. Non si trattava insomma di un difetto di collegamento tra la motivazione della sentenza e il concreto svolgimento del giudizio.
Decisivo, secondo il Consiglio di Stato, è che il Tar abbia rigettato il ricorso, dopo essersi rifatto alle circostanze ravvisate dall’amministrazione, senza curarsi di “confutare” la posizione dei ricorrenti. Al di sotto della nullità per motivazione apparente vi è quindi una compromissione del principio di imparzialità del giudice, un diseguale trattamento delle parti e, in ultima analisi, una menomazione del contraddittorio in senso lato. Il che è degno di nota, se posto a paragone della massima, correntemente avallata dalla giurisprudenza (e dalla stessa Plenaria), per cui la “lesione del diritto di difesa” e la “mancanza di contraddittorio”, autonomamente previste dall’art. 105 c.p.a. quali ipotesi di annullamento con rinvio, debbono intendersi come fattispecie tipiche, identificabili solo attraverso la violazione di norme processuali che prevedono poteri o garanzie strumentali a quelle di difesa e contraddittorio[3]. A più riprese la sentenza annotata offre l’impressione di non sentirsi vincolata da questa tradizionale interpretazione e di ritenere, piuttosto, che la categoria della nullità possa assicurare il doppio grado di giurisdizione in una prospettiva ampia, capace di valorizzare adeguatamente i profili sostanziali della garanzia sancita dall’articolo 24 Cost.[4]
Per il Consiglio di Stato, le “circostanze fattuali” avrebbero dovuto essere esaminate “anche alla luce delle allegazioni dei ricorrenti e non solo con l’indicazione dell’elenco di taluni elementi indizianti sulla contiguità tra gli organi comunali e la criminalità organizzata”, visto che l’art. 143 del TUEL esige una valutazione di “univocità e rilevanza” dei sintomi di infiltrazione mafiosa.
Occorreva dunque che il Tar Lazio operasse un “filtro”, una “valutazione critica” dell’operato degli organi statali, un “riferimento argomentato ai vari elementi indiziari sui quali si è basato il censurato decreto di scioglimento (pur contestati, uno per uno, nel ricorso introduttivo e nei motivi aggiunti)”.
Invece il ricorso è stato respinto tramite un “apodittico richiamo a principi e regole giurisprudenziali (…) non declinati in relazione al caso concreto esaminato”; privo di “ragioni ulteriori rispetto alla generica affermazione della sua infondatezza” e senza alcuna “confutazione” delle allegazioni difensive dei ricorrenti.
Ciò secondo il giudice d’appello “non consente in alcun modo di comprendere il percorso logico-giuridico su cui il Tar ha fondato le proprie conclusioni”. Ne consegue una “parvenza” di motivazione, da cui l’applicazione dell’art. 105 c.p.a. come interpretato dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 11/2018.
Il precedente della Plenaria ha costituito un riferimento obbligato perché in quella sede, allineandosi agli indirizzi della Cassazione, l’organo di nomofilachia del Consiglio di Stato ha chiarito cosa debba intendersi per “motivazione apparente” e ha precisato che essa si configura (dunque la sentenza va dichiarata nulla) non solo nel caso-limite della mancanza materiale della motivazione, ma anche nell’ipotesi di motivazione apodittica, assertiva, tautologica, incomprensibile.
Di più, il caso in esame suggerisce che la nullità della sentenza per motivazione tautologica può verificarsi anche di fronte ad argomentazioni chiare, articolate con riferimento ai fatti di causa; se il giudice aderisce al provvedimento impugnato in modo preconcetto e privo di ogni considerazione per le difese dei ricorrenti.
La sentenza della terza Sezione merita, a nostro giudizio, di essere commentata per due motivi: il primo è che il concetto di “motivazione apparente” ne risulta particolarmente esteso e offre lo spunto per qualche considerazione più generale sulla garanzia del doppio grado di giurisdizione nel processo amministrativo; il secondo è che la nullità con rimessione al giudice di primo grado viene giustificata con riferimento all’esigenza di un confronto più serrato tra allegazioni di parte e valutazioni dell’amministrazione, richiamando un punto di vista rimasto recessivo nell’interpretazione giurisprudenziale della norma sullo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose e, forse, nell’intera sistematica del giudizio su atti discrezionali.
Sotto questo secondo profilo, non può sfuggire che, mentre nel giudizio civile di annullamento della sentenza per “motivazione apparente” il rinvio al giudice di grado inferiore non fa sorgere alcun problema di discrezionalità, ma, al più, di esatto rapporto del giudice con i fatti di causa, la circostanza in cui sia il Consiglio di Stato a pronunciare la nullità per “motivazione apparente” impone al Tar, nel giudizio di rinvio, un più penetrante sindacato sull’atto impugnato. In altri termini, la declaratoria di nullità per “motivazione apparente” della pronuncia di un Tar non si limita a risolvere un cattivo funzionamento del doppio grado; essa implica sempre, in qualche misura, una correzione del rapporto tra giudice amministrativo e amministrazione.
2. La motivazione apparente quale causa di rimessione al primo giudice.
Come è noto, la nullità della sentenza rappresenta una delle cause di rimessione previste dall’articolo 105 c.p.a., ai sensi del quale “il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l'ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l'estinzione o la perenzione del giudizio”[5]. Il c.p.a. si riferisce genericamente alla nullità della sentenza, differenziandosi in ciò dal codice di procedura civile, che, invece, prevede la rimessione al primo giudice esclusivamente al cospetto di una sentenza nulla per difetto di sottoscrizione[6]. Senonchè, la generica espressione nullità della sentenza non offre alcuna puntuale qualificazione della correlata ipotesi di rimessione, dal momento che, come pure è stato osservato, una sentenza può ritenersi tecnicamente nulla per qualsiasi vizio processuale[7], come, ad esempio, quando nel relativo giudizio si sia perpetrato un difetto di contraddittorio o una lesione del diritto di difesa, ipotesi anch’esse incluse dal citato articolo 105 c.p.a. tra le cause di rimessione. Ciò significa che la causa di rimessione rappresentata dalla nullità della sentenza viene spesso a sovrapporsi o confondersi con altre delle cause previste dalla norma codicistica, restando così priva di una sua specifica autonomia. Dove, invece, la causa in questione acquista un’autonoma rilevanza ai fini della rimessione è nell’elaborazione giurisprudenziale sul difetto assoluto di motivazione, ossia sulle ipotesi in cui la motivazione sarebbe inesistente o soltanto “apparente” o “meramente assertiva”[8]. Al riguardo, la giurisprudenza precisa che il difetto assoluto di motivazione non “si identifica con la motivazione illogica, contraddittoria, errata, incompleta o sintetica” e che, più in generale, l’ordinario difetto di motivazione non può rappresentare una causa di rimessione al primo giudice, considerato che il carattere sostitutivo dell’appello consentirebbe “sempre al giudice di secondo grado di correggere, integrare e completare la motivazione carente, contraddittoria o insufficiente e di pronunciarsi sul merito della causa”[9]. Piuttosto, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, il difetto assoluto di motivazione riguarderebbe soltanto le ipotesi di mancanza "fisica" o "grafica" della motivazione, di “motivazione palesemente non pertinente rispetto alla domanda proposta (perché fa riferimento a parti, fatti e motivi totalmente diversi da quelli dedotti negli scritti difensivi)” e di “motivazione apparente”, dove per motivazione apparente si intende la “motivazione tautologica o assertiva, espressa attraverso mere formule di stile” ovvero la motivazione che, a sostegno dell'accoglimento o non accoglimento del ricorso, “non individua neppure una ragione ulteriore rispetto alla generica affermazione della sua fondatezza o infondatezza, di cui, però, non viene dato conto e spiegazione, se non attraverso l'utilizzo di astratte formule di stile”[10]. In sostanza, a dar luogo alla nullità della sentenza sarebbero soltanto quelle anomalie motivazionali che si identificano o nella “mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico”, o nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, o nella “motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica, oppure obiettivamente incomprensibile”[11]. In questi casi, la grave anomalia motivazionale rende nulla la sentenza imponendo la rimessione della causa ai sensi dell’articolo 105 c.p.a. Il giudice di appello non potrebbe, infatti, adottare alcuna decisione sulla causa, poiché il difetto assoluto della motivazione gli impedisce “di esercitare un qualsivoglia sindacato di tipo sostitutivo per essere mancata, nella sostanza, una statuizione sulla quale egli possa incidere, seppure nella forma di integrazione/emendazione delle motivazioni”[12].
Da questo rapido excursus si evince che il difetto assoluto di motivazione impedisce in toto di individuare le ragioni alla base della decisione di accoglimento o di rigetto e che, in sua presenza, la causa deve essere rimessa al primo giudice ai sensi dell’articolo 105 c.p.a. In aggiunta, si può osservare che la rimessione sarebbe giustificata anche per il vulnus inferto dal difetto assoluto di motivazione al diritto di difesa, posto che, all’evidenza, la non intellegibilità del percorso argomentativo a sostegno della decisione implica una “lesione del diritto di difesa” rilevante agli effetti dell’articolo 105. In ogni caso, il riscontro di un difetto assoluto di motivazione priva l’appello del suo tipico carattere rinnovatorio e sostitutivo, precludendo ogni intervento del giudice che non sia quello di prendere atto della nullità e disporre il rinvio.
Di per sé il richiamato orientamento non presenta particolari problemi applicativi, dal momento che l’eccezionalità delle ipotesi di motivazione apparente dovrebbe consentire agevolmente di cogliere la differenza tra un difetto di motivazione assoluto rilevante agli effetti della rimessione e un difetto di motivazione soltanto ordinario che impone al giudice di decidere la causa.
3. L’inconfigurabilità nel caso di specie di un’ipotesi di motivazione apparente.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla decisione in commento, la sentenza del TAR non sembra affatto afflitta da un difetto assoluto di motivazione che giustifichi il rinvio della causa. Basti considerare che:
1) Il TAR richiama preliminarmente i principi della materia, rilevando che “la qualificazione della concretezza, univocità e rilevanza delle circostanze poste a fondamento del provvedimento di cui si verte, va riferita non “atomisticamente” a ogni singolo elemento preso in esame in sede istruttoria, ma a una valutazione complessiva del coacervo di elementi acquisiti” e che “l’amministrazione gode di ampi margini di discrezionalità nella valutazione degli elementi su collegamenti diretti o indiretti, non traducibili in singoli addebiti personali, ma tali da rendere plausibile il condizionamento degli amministratori, essendo asse portante della valutazione di scioglimento, da un lato, l’accertata o notoria diffusione sul territorio della criminalità organizzata e, dall’altro, le precarie condizioni di funzionalità dell’ente in conseguenza del condizionamento criminale (…)”;
2) tanto premesso, evidenzia che “il quadro emergente dall’istruttoria de qua svolta dall’autorità descrive un contesto generale che depone per una non occasionale “contiguità” tra gli organi comunali e la criminalità organizzata, talchè il disposto scioglimento resiste al sindacato estrinseco di legittimità del Giudice amministrativo”, poiché “emerge invero dagli atti un quadro connotato da diffusa illegalità e condizionamento, che la relazione ha individuato in vari ambiti della vita consiliare”;
3) con specifico riferimento al difetto di motivazione censurato nel ricorso, precisa che “la doglianza non può essere accolta, proprio alla luce delle sopra riferite coordinate ermeneutiche” poiché “vari elementi depongono per la rilevata disfunzione dell’amministrazione locale e per la “prossimità” degli organi amministrativi con le consorterie criminali”, tra cui: (…) “le varie operazioni di polizia giudiziaria sfociate anche nell’applicazione di misure cautelari; - il rilevato palesato sostegno elettorale, confermato dalle risultanze giudiziarie, di esponenti della locale criminalità in favore di taluni candidati che facevano parte della lista che sosteneva l’organo di vertice dell’ente; - la riscontrata rete di rapporti parentali e di frequentazioni che esisteva da taluni amministratori e esponenti delle locali consorterie; - la partecipazione del primo cittadino quale testimone di nozze al matrimonio di un soggetto legato a locale famiglia mafiosa e la presenza in seno al consiglio comunale di amministratori gravati da legami con i medesimi esponenti dei clan camorristici (…) i coinvolgimenti in procedimenti penali di personale amministrativo dell’ente, la carente strutturazione delle procedure di gara, anche sotto il profilo dell’acquisizione della documentazione antimafia; -l’avvenuto pagamento effettuato in favore di una società destinataria di un provvedimento interdittivo e l’affidamento di commesse in via diretta e senza rotazione”;
4) osserva che “la difesa degli istanti tenta di smontare minuziosamente tutti gli episodi valorizzati dall’amministrazione, ma lo fa in chiave “atomistica”, senza riuscire ad inficiare l’impressione d’assieme di un comune fortemente esposto all’illegalità e al condizionamento criminale, alla luce della applicazione del ridetto criterio del “più probabile che non”, il quale sorregge il giudizio di inferenza posto in essere dall’amministrazione”;
5) rileva ancora che “le risultanze dell’attività di indagine e la significatività degli elementi indiziari emersi, alla luce del sopramenzionato criterio probabilistico, siano state correttamente valutate dall’amministrazione intimata, la quale gode di ampio margine di discrezionalità nella ponderazione degli elementi indiziari circa i collegamenti diretti e indiretti, che rendano verosimile una pericolo di condizionamento ovvero di soggezione dell’amministratore locale alla criminalità organizzata; e ciò anche laddove tali elementi non siano sufficienti a sostenere un’azione penale a esitare in una condanna, posto che si tratta di due giudizi ontologicamente differenti, in ragione della natura preventiva e di “difesa anticipata” tipico della misura dissolutoria di cui si verte”;
6) conclude che “alla luce delle superiori considerazioni, la censura di illogicità e di deficit motivazionale articolata in ricorso deve essere disattesa ed il ricorso deve dunque essere respinto”.
In sintesi, il TAR evidenzia l’ampia discrezionalità che in materia caratterizza le valutazioni dell’amministrazione; individua gli elementi dell’istruttoria idonei a giustificare lo scioglimento del consiglio comunale; ritiene che tali elementi siano stati correttamente valutati dall’amministrazione ai fini dell’adozione del provvedimento impugnato; reputa che la censura di illogicità e difetto di motivazione non sia accoglibile perché incapace di inficiare gli elementi presi in considerazione dall’amministrazione, anche per il carattere “atomistico” delle difese; conclude per il rigetto del ricorso sulla base delle considerazioni svolte. Dalla motivazione addotta emerge come la ratio decidendi della pronuncia sia perfettamente comprensibile nel suo percorso argomentativo, anche alla luce delle censure d’illogicità e difetto di motivazione dedotte nel ricorso. La motivazione non si basa su mere formule di stile tautologiche e apodittiche, ma individua pur sempre le ragioni poste a sostegno del rigetto anche in relazione ai motivi di ricorso, in un contesto in cui il sindacato giurisdizionale deve comunque misurarsi con l’ampia discrezionalità delle valutazioni amministrative.
Ciò non significa che le ragioni addotte siano corrette o sufficienti a giustificare il rigetto del ricorso o che la motivazione non sia carente o illogica, ma basta per escludere che nel caso di specie possa ritenersi sussistente un difetto assoluto di motivazione rilevante agli effetti della rimessione. Le anomalie motivazionali riscontrate dal Consiglio di Stato integrano al più un ordinario difetto di motivazione della sentenza, che, in conformità al carattere sostitutivo e rinnovatorio dell’appello, avrebbe potuto e dovuto essere corretto dal giudice di secondo grado[13].
4. Motivazione apparente e omessa pronuncia.
Pur nell’esplicito richiamo all’orientamento in materia di motivazione apparente, la decisione del Consiglio di Stato finisce di fatto per disattenderlo, ricomprendendo nel difetto assoluto di motivazione anche ipotesi, quale quella in esame, che andrebbero ricondotte ad un ordinario difetto di motivazione. Il concetto di motivazione apparente subisce così un’eccessiva dilatazione che, oltre a non essere giustificata dall’attuale contesto normativo, rischia in parte di comprimere il carattere sostitutivo e rinnovatorio dell’appello. È quindi auspicabile che il concetto, così come elaborato dall’attuale orientamento, resti circoscritto alle ipotesi in cui la “motivazione” impedisca completamente di individuare le ragioni alla base della decisione, arrecando così un vulnus al diritto di difesa. In questi casi, la rimessione al primo giudice è pienamente idonea a reintegrare la violazione perpetrata, in quanto garantisce che la causa sia decisa sin dal primo grado con una “vera” motivazione. Al contempo, il rinvio tutela pienamente il principio del doppio grado, perché la “vera” motivazione a corredo della nuova decisione potrà essere oggetto di una successiva impugnazione innanzi al giudice di appello.
Resta a questo punto da chiedersi perché se la rimessione è prevista nei casi di motivazione apparente, non lo sia anche nei casi di omessa pronuncia. Anche in questi casi si determina una lesione del diritto di difesa, forse anche più grave di quella arrecata da una motivazione apparente: se, infatti, la decisione corredata da motivazione apparente impedisce di comprendere le ragioni di un decisum, la sentenza afflitta dal vizio di omessa pronuncia è financo priva di un decisum, quantomeno per la domanda dimenticata dal giudice[14]. Senonchè, la giurisprudenza continua a ritenere che i casi di omessa pronuncia non integrino alcuna lesione del diritto di difesa e che il giudice di appello possa decidere la domanda dimenticata senza che ciò implichi alcuna violazione del principio del doppio grado[15]. Pur se la questione è più complessa e non può certo essere approfondita in questa sede, è lampante la contraddizione nell’ammettere la rimessione al cospetto di una motivazione apparente e nell’escluderla a fronte di un’omessa pronuncia. Nei limiti del presente scritto si può solamente osservare che, per superare la contraddizione, è necessario assumere una concezione del diritto di difesa e del principio del doppio grado diversa da quella attualmente assunta dal prevalente orientamento. Bisognerebbe, cioè, ammettere che la lesione del diritto di difesa rilevante agli effetti della rimessione possa dipendere anche da un vizio della decisione e non soltanto da un vizio del procedimento; e che la garanzia del doppio grado, lungi dall’esaurirsi nel potere di appellare, comporti che ogni decisione di merito debba poter sempre essere sindacata in appello, così da impedire che le controversie attribuite ai TAR possano essere decise per la prima volta nel merito dal Consiglio di Stato, di fatto in unico grado[16]. Si tratta di una strada oggi impervia che si scontra frontalmente con il prevalente orientamento, ma che sembra meglio adattarsi alla specificità costituzionale di una giurisdizione amministrativa articolata in due gradi di giudizio e priva del controllo in cassazione per violazione di legge.
5. Motivazione apparente e discrezionalità amministrativa (in tema di sindacato sull’atto di scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose).
Può darsi tuttavia che l’eccessiva dilatazione del concetto di motivazione apparente sia, nella sentenza in esame, anche la conseguenza di una particolare sensibilità del giudice verso gli interessi coinvolti caso concreto.
Gli appellanti erano rimasti ingiustamente senza risposta, davanti a un provvedimento che, come sempre, tocca profili alquanto delicati della vita delle comunità locali. Di fronte all’enorme latitudine del potere di scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiose (quale senza dubbio si ricava dall’art. 143 TUEL), il giudice amministrativo è costretto a rispettare il principio di separazione dei poteri, ma non può rinunciare a quel briciolo di garanzia data dalla sua stessa posizione di terzietà.
Bisogna quindi fare il giusto credito all’ipotesi che l’annullamento con rinvio sia stato anche, forse soprattutto, una soluzione escogitata per rimandare il processo al Tar con il vincolo a un più stringente effetto conformativo, un sindacato più penetrante sulla discrezionalità amministrativa, a garanzia della stessa impugnabilità dei decreti di scioglimento. Nullità della sentenza e regressione del giudizio servirebbero, allora, non tanto a ripristinare l’integrità del doppio grado dinanzi a un vizio del procedimento giurisdizionale, quando a provocare una valutazione giudiziaria più oculata degli apprezzamenti svolti dall’amministrazione resistente (nel caso di specie: gli indizi di contiguità mafiosa dell’ente locale e dei suoi amministratori).
Va detto che la sentenza in esame ha il merito di un atteggiamento più spregiudicato verso l’amplissima discrezionalità dei provvedimenti di scioglimento per infiltrazioni mafiose. Tanto che il Consiglio di Stato dà l’impressione di rifarsi all’interpretazione più rigorosa e costituzionalmente conforme dell’art. 143 del TUEL.
La pronuncia annullata, come tante altre, seguiva un indirizzo giurisprudenziale oramai consuetudinario, al punto che, se non si conoscesse la sentenza di appello, sarebbe assai difficile imputare al Tar Lazio un qualche margine di errore.
È prassi consolidata che il giudice amministrativo, nel respingere i ricorsi avverso i decreti di scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, metta davanti a tutto la natura ampiamente discrezionale dell’atto impugnato e neghi la necessità di confutare “una per una” le circostanze fattuali contestate dai ricorrenti, sul presupposto che la ricostruzione della dinamica infiltrativa operata dall’amministrazione statale vada giudicata nel suo complesso e non “atomisticamente”[17].
A rafforzare tale indirizzo ha contribuito, con ogni probabilità, la modifica intervenuta con la legge n. 94/2009, che ha introdotto nel testo dell’art. 143 TUEL (comma 11), una nuova misura di prevenzione, cosiddetta “interdittiva elettorale”: l’incandidabilità per due turni, dichiarata dal tribunale civile ad esito di giudizio camerale che si svolge, su istanza del Ministero dell’interno, contro gli amministratori locali ritenuti responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento.
L’esistenza di un giudizio civile sulla responsabilità dei singoli amministratori offre un nuovo quadro di accertamento dell’imputazione soggettiva dell’infiltrazione mafiosa, sia pure con riguardo a comportamenti non necessariamente rilevanti a fini penali e, anzi, neppure isolatamente considerati o parcellizzati. Vale anche per il giudizio d’interdittiva elettorale la massima per cui, trattandosi di misure di prevenzione, la valutazione indiziaria a carico della persona non deve essere “atomistica”[18], nel senso che i fatti rilevanti per la dichiarazione di incandidabilità degli amministratori locali prescindono dal coinvolgimento in processi penali e possono quindi essere considerati nel loro complesso, secondo la regola del “più probabile che non”.
Il procedimento d’incandidabilità implica un più ampio potere di rivalutazione dei fatti da parte del giudice civile, che, come ha chiarito la Cassazione, non è vincolato dagli accertamenti eseguiti dall’amministrazione e tanto meno dalle conclusioni alle quali essa è pervenuta; può qualificare autonomamente le condotte (attive od omissive) degli amministratori al fine di giudicare sulla loro responsabilità[19].
Ciò peraltro non sottrae al giudice amministrativo, davanti al quale sia stato proposto il ricorso contro l’atto di scioglimento del consiglio comunale, la potestà di apprezzamento della contiguità mafiosa delle persone coinvolte: l’atteggiamento dei singoli, nonostante la devoluzione al giudice civile del suo accertamento ai fini dell’incandidabilità, resta elemento essenziale anche del controllo sull’organo[20]. Ai sensi del comma 1 dell’art. 143, il consiglio comunale può essere sciolto in presenza di due requisiti: il primo – preliminare – è la sussistenza di elementi “concreti, univoci e rilevanti” su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata degli amministratori di cui all’articolo 77 comma 2 o su forme di condizionamento degli stessi; il secondo – conseguenziale – è che gli indizi di collegamento o condizionamento mafioso, rilevati a carico degli amministratori dell’ente, siano “tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati”.
Il giudizio sul contegno dei singoli, ossia l’origine dell’infiltrazione mafiosa, non può quindi ritenersi “assorbito” dalla valutazione di malfunzionamento dell’ente, che ne rappresenta solo il contraccolpo organizzativo. Le due situazioni sono collegate da un nesso di causa-effetto, ma proprio per questo rappresentano passaggi autonomi e distinti della decisione sullo scioglimento del consiglio, che deve valutarli entrambi: le situazioni di collegamento o condizionamento degli amministratori, in cui trova spazio la specificità ordinamentale della mafia[21], e la compromissione funzionale dell’organizzazione, che, nonostante sia provocata dalla presenza della criminalità, rimane di per sé costituita da semplice cattivo andamento politico-amministrativo, il quale si può verificare anche in enti locali non interessati da fenomeni di contiguità mafiosa degli amministratori (i Comuni in stato di dissesto, per esempio).
Non di rado invece le sentenze dei giudici amministrativi tollerano una visione attenuata o addirittura capovolta di tale ordine logico, sganciando lo scioglimento del Consiglio da una prospettiva di stretta causalità e configurandolo come un controllo di tipo oggettivo, i cui parametri sono il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione locale; mentre la contiguità mafiosa dei singoli viene declassata a conseguenza, spesso immotivata, di una diffusa malamministrazione. In tale prospettiva, l’idea che il giudizio infiltrativo non possa essere “atomistico” viene a significare alcunché di diverso dalla non necessaria rilevanza penale del fatto; diventa un modo di spiegare che lo scioglimento deve spingersi a valutare ciascun elemento indiziario nella sua connessione con gli altri, come se nessuno fosse decisivo, ma tutti, nell’insieme, si reggessero vicendevolmente, l’uno rappresentando la “stampella” dell’altro.
Assumono allora rilievo, ai fini dello scioglimento del Consiglio, situazioni non traducibili in episodici addebiti individuali, che, prese per loro stesse, sarebbero insufficienti per l’applicazione di misure di prevenzione personali[22].
Così argomentando, però, la giurisprudenza amministrativa si allontana dalle coordinate interpretative della Corte costituzionale[23], che ha sempre annesso allo scioglimento la natura di sanzione (e non di misura di prevenzione) diretta a colpire “l’organo collegiale considerato nel suo complesso, in ragione della sua inidoneità a gestire la cosa pubblica”. Muovendo da tale premessa, la Corte ha sottolineato che la norma implica una “stringente consequenzialità” tra due fattori: le situazioni di collegamento o condizionamento mafioso, da un lato, e l’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi o la compromissione del buon andamento o dell’imparzialità dell’amministrazione locale, dall’altro. E ne ha concluso – dal punto di vista che a noi interessa – che il rispetto della garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 113 Cost.) è assicurata proprio dal controllo del giudice amministrativo sulla “consistenza fattuale” degli elementi addotti a giustificazione dello scioglimento (sentenza n. 103/1993), fino ad ammettere che lo scioglimento per mafia “evoca chiaramente una fattispecie penale ben specifica: il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis cod. pen.” (sentenza n. 195/2019).
L’ampia discrezionalità che caratterizza il potere di scioglimento non viene meno; ma si localizza soprattutto nel secondo momento di cui si è detto: quello in cui lo Stato valuta gli effetti, pregiudizievoli per l’ente locale, delle situazioni di collegamento e condizionamento acclarate a carico dei singoli amministratori locali.
Differente è la natura del potere amministrativo quando si tratta di stabilire l’origine delle infiltrazioni, ovverosia il rapporto di contiguità, compiacente o soggiacente, tra le condotte degli amministratori e il mondo della criminalità organizzata; momento in cui, per la Corte costituzionale, va messa al primo posto l’esigenza che le ragioni dello scioglimento trovino riscontro “con riferimento a risultanze obbiettive circa l’effettiva sussistenza di quelle situazioni” (sentenza n. 103/1993)[24].
Il principio del controllo giudiziario “non atomistico”, sul quale, nel caso qui esaminato, aveva fatto perno la sentenza di primo grado, tende a confondere questi due piani del discorso ed è pertanto ragguardevole che il Consiglio di Stato lo abbia colto, ancorando il sindacato del giudice amministrativo a un “minimo costituzionale”, coincidente con il confronto tra la ricostruzione dei fatti basata sull’attività informativa degli organi statali e le contrarie allegazioni del ricorrente[25].
Rimane tuttavia il dubbio – se questo era ciò che il Consiglio di Stato voleva garantire (una valutazione più mirata dei comportamenti che avevano dato causa allo scioglimento) – che la correzione di cui il Tar sarà capace, nel giudizio di rinvio, valga la pena di un nuovo processo di primo grado. Senza dubbio una motivazione che non si limiti a uno scrutinio di ragionevolezza del provvedimento e si spinga fino a confutare le difese dei ricorrenti è più giusta: su questo la sentenza in esame è assolutamente da condividere. Ma difficilmente il giudizio sull’eccesso di potere, pur così riorganizzato, potrà andare oltre i limiti di un sindacato estrinseco sulle ragioni che hanno portato il governo allo scioglimento del consiglio comunale. Il Tar Lazio potrà prendere posizione sulle argomentazioni dei ricorrenti; sempre, però, nel quadro di un giudizio su valutazioni riservate all’amministrazione (stabilire se esistono indizi concreti, univoci e rilevanti di collegamento o condizionamento mafioso).
Forse allora tanto sarebbe valso non impedire all’appello di svolgere la propria funzione rinnovatoria e rinunciare a un’interpretazione così ampia dell’art. 105 c.p.a.. La quale rischia, tra l’altro, di estendersi a tutti i giudizi su provvedimenti discrezionali, trasformando l’annullamento con rinvio in un rimedio operante ogniqualvolta il giudice di primo grado non abbia portato il proprio sindacato al “minimo” sufficiente.
* Nell’ambito di una riflessione comune, i paragrafi 1 e 5 sono di Marco Magri e i paragrafi 2, 3 e 4 sono di Enrico Zampetti.
[1] Tar Lazio, Roma, sez. I, 17 aprile 2023 n. 6586,
[2] Limite che la giurisprudenza amministrativa riconosce a sé stessa oramai tradizionalmente, come sottolinea senza eccezioni (ma non senza voci critiche) la dottrina. Si vedano al riguardo, per stare solo agli scritti più recenti, F. Manganaro, R. Parisi, Note sullo scioglimento dei consigli degli enti locali per infiltrazioni mafiose, in Dir. econ., 2023, pp. 251 ss., 265; R. Rolli, Dura lex, sed lex. Scioglimento dei Consigli comunali per infiltrazioni mafiose, interdittive prefettizie antimafia e controllo giudiziario, in Ist. Fed., 2023, pp. 15 ss., 23.
[3] Cons. St., ad. plen., 30 luglio 2018, n. 10; Id., 30 luglio 2018 n. 11.
[4] E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo. Studio sugli editi del giudizio di appello, Napoli, 2020, p. 180.
[5] Sulla disciplina della rimessione recata nell’articolo 105 c.p.a., senza pretesa di completezza, D. Corletto, commento all’articolo 105 c.p.a., in Il processo amministrativo, a cura di A. Quaranta - V. Lopilato, Milano, 2011, 810 ss.; F.P. Luiso, Le impugnazioni, in Il codice del processo amministrativo, a cura di R.Villata – B. Sassani, Torino, 2012, 1207 ss.; R. De Nictolis - M. Nunziata, commento all’articolo 105 c.p.a. in Codice della giustizia amministrativa, a cura di G. Morbidelli, cit., 965 ss.; C.E. Gallo, Omessa pronuncia e annullamento con rinvio da parte del giudice di appello nel processo amministrativo, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. Francario e M.A. Sandulli, Napoli, 2019, 81 ss.; M. Trimarchi, Omessa pronuncia in primo grado regime dell’appello (sull’alternativa tra ritenzione della causa e annullamento con rinvio), in Dir. proc. amm., 2/2020, 341 ss.; E. Zampetti, L’appello, in Il giudizio amministrativo. Principi e regole, a cura di M.A. Sandulli, Napoli, 2024, 608 ss.; Id., Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo, cit.; Id., Riflessioni a margine delle decisioni dell’Adunanza Plenaria nn. 10.11 e 15 del 2018 in tema di annullamento con rinvio, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. Francario e M.A. Sandulli, cit., 427 ss.; G. Tropea, art. 105, in Commentario breve al codice del processo amministrativo, a cura di G. Falcon, F. Cortese, B. Marchetti, Padova, 2021, 820 ss.
[6] Come noto, l’articolo 354 c.p.c. prevede che “il giudice d'appello, se dichiara la nullità della notificazione dell'atto introduttivo, riconosce che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte, oppure dichiara la nullità della sentenza di primo grado a norma dell'articolo 161 secondo comma, pronuncia sentenza con cui rimette la causa al primo giudice”; a sua volta, l’articolo 161, co. 2, stabilisce che la regola generale, secondo cui la nullità della sentenza deve essere fatta valere nei limiti e secondo le regole dei mezzi d’impugnazione (appello e ricorso in cassazione), non si applica alle ipotesi in cui “la sentenza manca della sottoscrizione del giudice”; per approfondimenti in tema, B. Gambineri, Appello, in Commentario al Codice di Procedura civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 2018, 768 ss.; C. Besso, art. 161, in C. Besso – M. Lupano, Atti processuali, Bologna, 2016, 798 ss.
[7] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2019, 339, evidenzia che l’espressione “nullità della sentenza” è utilizzata “in modo palesemente improprio, perché qualsiasi vizio processuale nel giudizio di primo grado determina tecnicamente la nullità della sentenza, mentre la rimessione al giudice di primo grado va disposta solo in casi particolari”.
[8] Sulla motivazione della sentenza del giudice amministrativo, G. Strazza, La motivazione della sentenza amministrativa, in Il giudizio amministrativo. Principi e regole, a cura di M.A. Sandulli, Napoli, 2024, 533 ss.
[9] Cons. St., ad. pl., nn. 10 e 11 del 2018, cit.; cfr. anche Cons. St., ad.pl., 5 settembre 2018 n. 14; Id., 28 settembre 2018 n. 15.
[10] Cons. St., ad. pl., nn. 10 e 11 del 2018
[11] Così, sempre Cons. St., ad. pl., nn. 10 e 11 del 2018, cit.
[12] Cons. St., ad. pl. nn. 10 e 11 del 2018, cit.; Cons.St., ad. pl., n. 14 del 2018, cit., evidenzia che, ai fini dell’integrazione di un’ipotesi di nullità della sentenza, il difetto assoluto di motivazione deve essere apprezzato “con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso” e non “in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso”.
[13] Merita ribadire che “il carattere sostitutivo dell'appello consente sempre al giudice di secondo grado di correggere, integrare e completare la motivazione carente, contraddittoria o insufficiente e di pronunciarsi sul merito della causa” (Cons. St., ad. pl., n. 10/2018, cit.); sulla tassonomia dei vizi della motivazione della sentenza, G. Strazza, La motivazione della sentenza amministrativa, cit., 544 ss.
[14] Le stesse considerazioni dovrebbero valere anche per i casi di erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità del ricorso in cui, a causa di un errore del giudice, la sentenza si arresta ad un profilo di rito senza decidere nel merito la controversia. Anche in queste ipotesi, secondo la prospettiva indicata, l’errore del giudice verrebbe ad integrare una lesione del diritto di difesa, ossia un’ipotesi che l’articolo 105 c.p.a. annovera testualmente tra le cause di rimessione al primo giudice. Tuttavia, come noto, questa soluzione non è condivisa dal prevalente orientamento giurisprudenziale, fermo nell’escludere che l’errore in rito del primo giudice determini una violazione del diritto di difesa rilevante ai sensi dell’articolo 105 c.p.a., dovendosi piuttosto inquadrare in un ordinario error in iudicando che, come tale, non comporta l’annullamento con rinvio (Cons. ad. pl., nn. 10 e 11 del 2018, cit.). Va segnalato che, con una recentissima decisione, il Cons. St., sez. VII, 19 febbraio 2024, n. 1653, ha riesaminato la questione alla luce dell’altrettanto recente orientamento espresso dalle Corte di cassazione, sez. un., 23 novembre 2023, n. 32559 (v. anche Cass., sez. un., 9 gennaio 2024, n. 786), secondo il quale integrerebbe una questione di giurisdizione, sindacabile con il ricorso ai sensi dell’articolo 111, co.8 Cost, “la decisione con cui il giudice amministrativo esclude la sussistenza di una posizione giuridica attiva che consente di agire in giudizio”. Come rilevato dal Consiglio di Stato, questo nuovo orientamento della Cassazione potrebbe avere degli effetti anche sulla disciplina di cui all’articolo 105 c.p.a., in quanto se, in linea con quanto affermato dalla Cassazione, la rilevata insussistenza della legittimazione ad agire viene ad integrare un diniego di giurisdizione, coerentemente l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione dovrebbe considerarsi alla stregua di un erroneo diniego di giurisdizione rilevante agli effetti della rimessione della causa al primo giudice. Senonchè, il Consiglio di Stato ritiene di non condividere il nuovo orientamento della Cassazione e ribadisce, pertanto, che “l’errata declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione attiva, così come l’errata estromissione dal giudizio di una parte intervenuta, non rientrano nell’ambito delle questioni di giurisdizione di cui all’articolo 105”, pur evidenziando “le persistenti criticità dell’attuale assetto della disciplina che, secondo un’opinione talvolta prospettata in dottrina, non consentirebbero il pieno e completo sviluppo del principio del doppio grado”. Va, tuttavia, sottolineato che la decisione del Consiglio di Stato riesamina la questione solo dal punto di vista del diniego di giurisdizione, ma non anche nella diversa prospettiva qui indicata, secondo cui l’erronea declaratoria d’inammissibilità, irricevibilità e improcedibilità del ricorso integrerebbe una lesione del diritto di difesa rilevante ai sensi dell’articolo 105 c.p.a. (E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo, cit., 183 ss.).
[15] In dottrina, M. Trimarchi, Omessa pronuncia in primo grado e regime dell’appello (sull’alternativa tra ritenzione della causa e annullamento con rinvio), cit., 385, ritiene che l’omissione di pronuncia “su una porzione della domanda o su una o più domande proposte cumulativamente (…) comporta la nullità della sentenza” e che, pertanto, si potrebbe configurare l’ipotesi di rimessione della causa al primo giudice prevista dall’articolo 105 c.p.a.
[16] In questi termini, E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo, cit., 194.
[17] Tra le tante, Cons. St., sez. III, 18 luglio 2023, n. 7049; 15 dicembre 2021, n. 8362; 22 settembre 2020, n. 5548. Per più ampia trattazione del tema, anche con riferimento alla giurisprudenza, R. Rolli, Il comune degli altri. Lo scioglimento degli organi di governo degli enti locali per infiltrazioni mafiose, Roma, Aracne, 2013; F. Manganaro, R. Parisi, Note sullo scioglimento dei consigli degli enti locali per infiltrazioni mafiose, cit.; M. Magri, Il commissariamento degli enti locali per infiltrazioni o condizionamenti della criminalità organizzata, in F. Astone, F. Manganaro. R. Rolli, F. Saitta (a cura di) Legalità ed efficienza nell’amministrazione commissariata, Napoli, E.S.I., 2020, pp. 131 ss.
[18] Cass. civ., sez. I, 12 aprile 2024, n. 9928; sez. I, 2 novembre 2023, n. 30428; sez. I, 21 ottobre 2022, n. 31214;
[19] Cass. civ., sez. I, 13 novembre 2023, n. 31550, dove si precisa che “l’accertamento della incandidabilità degli amministratori attiene alle condotte che hanno dato causa allo scioglimento dell'organo consiliare, non alla valutazione del provvedimento amministrativo di scioglimento dell'organo, che quelle hanno pure generato” e che “la valutazione della legittimità del provvedimento Presidenziale fuoriesce dal thema decidendum, costituendo l’atto un mero presupposto dell'indagine, svolta in sede amministrativa, che ha ad oggetto, invero, la responsabilità degli amministratori dell'ente locale con riferimento alle loro condotte (omissive o commissive) che hanno dato causa allo scioglimento dell'organo consiliare o ne siano state una concausa (Cass. n. 3024/2019)”.
[20] Tra l’altro, è un’anomalia che questo dualismo comporti convinzioni opposte di giudici civili e amministrativi sulla situazione di contiguità mafiosa, partendo dai medesimi elementi di fatto (F.G. Scoca, Organi elettivi sciolti per condizionamento mafioso: stessi fatti, diverse valutazioni giudiziali, in Giustamm., n. 9/2019); non manca peraltro chi, ricostruendo la storia della disposizione oggi tradotta nell’art. 143 TUEL, arriva a mettere in dubbio la razionalità dell’istituto dell’incandidabilità in quanto tale (M. Magri,Osservazioni critiche sulla incandidabilità degli amministratori locali a seguito di scioglimento del consiglio per infiltrazioni mafiose, in federalismi.it, 7 aprile 2021).
[21] Sull’uso giudiziario dell’equazione tra mafia e ordinamento giuridico, G. Fiandaca, La mafia come ordinamento giuridico. Utilità e limiti di un paradigma, in Foro it., 1992, V, pp. 22 ss.
[22] Tipico l’esempio dei vincoli di parentela o di affinità, dei rapporti di amicizia o di affari, delle frequentazioni, della continuità amministrativa tra tornate elettorali, ecc. In giurisprudenza, le tante affermazioni del principio citato nel testo, TAR Lazio, Roma, sez. I, 5 marzo 2024, n. 4419); tra le tante altre, sez. I, 22 giugno 2023, n. 10570; Cons. St., sez. III, 12 marzo 2020, n. 1764; sez. III, 11 ottobre 2019, n. 6918; sez. III, 19 febbraio 2019, n. 1165.
[23] Come rileva anche A. Crismani, L’influenza della criminalità organizzata sul libero esercizio dell’azione amministrativa degli enti locali, in federalsimi.it, 2 aprile 2014, p. 17.
[24] Non a torto, osserva F.G. Scoca, Scioglimento di organi elettivi per condizionamento della criminalità organizzata, in Giur. it., 2016, pp. 1722 ss., che in questo caso a rigore non dovrebbe neppure parlarsi di discrezionalità amministrativa: “l’esercizio del potere prende avvio dall’accertamento di elementi di fatto. In questa prima operazione non è ipotizzabile alcuna valutazione discrezionale, ossia valutazione di interessi (pubblici); tanto più che i fatti devono essere concreti, univoci e rilevanti. Si tratta semplicemente di accertarli” (p. 1725).
[25] Per la garanzia di questo “minimo costituzionale” nel giudizio civile di incandidabilità degli amministratori locali, cfr. Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2024, n. 6200 (con esisti diversi da quelli della decisione in commento).
Questo contributo costituisce il secondo di una serie di approfondimenti sul "d.d.l. Nordio" di questa Rivista. Si veda D.d.l. Nordio in materia di intercettazioni: l'ennesima ombra gettata sull'operato del pubblico ministero (e l'ennesimo passo verso la separazione delle carriere) di Andrea Apollonio.
D.d.l. Nordio: l’interrogatorio prima della misura cautelare e l’elefante nella stanza [1]
di Costantino De Robbio
Sommario: 1. La riforma preannunciata sui media… e il disegno di legge. 2. Custodia in carcere e arresti domiciliari: le due misure cautelari più afflittive separano i loro destini. 3. Verso un nuovo assetto del bilanciamento tra interesse pubblico e diritti del singolo nella valutazione delle esigenze cautelari. 4. Ancora un bilanciamento di interessi: la misura cautelare tra necessità di azione tempestiva e diritto al contraddittorio. 5. Il dilemma tra efficacia dell’azione e responsabilità per gli errori: uno sguardo all’esterno. 6. La gerarchizzazione delle esigenze cautelari…. e l’elefante nella stanza.
1. La riforma preannunciata sui media… e il disegno di legge.
Poco più di un anno fa il Ministro della Giustizia ed alcuni esponenti del Governo attualmente in carica rilasciavano alcune dichiarazioni ai media preannunciando l’ennesima riforma del codice penale e del codice di procedura penale.
Tra le modifiche sommariamente illustrate, due riguardavano il delicato settore delle misure cautelari personali:
Si trattava di novità così allarmanti e dirompenti rispetto al sistema processuale vigente da provocare molteplici e diffuse riflessioni critiche “in prevenzione”[2].
Poche settimane dopo il progetto preannunciato sui media dagli esponenti del Governo si è tradotto nella presentazione del disegno di legge numero 808, che giunge in questi giorni, a tappe forzate, alla votazione alla Camera dei Deputati.
Rispetto alle previsioni iniziali, il provvedimento in discussione contiene alcune precisazioni, che non diminuiscono le perplessità e l’allarme[3] ma impongono una nuova riflessione.
2. Custodia in carcere e arresti domiciliari: le due misure cautelari più afflittive separano i loro destini.
Nelle prime interviste il Ministro della Giustizia e gli altri esponenti del Governo avevano proclamato l’intenzione di introdurre un generale obbligo di interrogatorio prima dell’emissione delle ordinanze cautelari personali.
Il disegno di legge effettivamente presentato contiene invece due importanti limitazioni, poiché circoscrive l’ambito di applicazione dell’interrogatorio preventivo:
La limitazione della previsione dell’interrogatorio preventivo ai casi di massima compressione della limitazione della libertà personale (custodia in carcere) non può che essere salutata con favore, quantomeno perché riduce significativamente l’impatto quantitativo di un intervento legislativo che suscita profonda perplessità, per le ragioni che qui si proveranno ad esporre.
Questo risultato viene ottenuto però “a caro prezzo”, perché il legislatore pone in discussione, forse inavvertitamente, uno dei cardini storici del sistema della cautela, costituito dalla equiparazione della misura cautelare degli arresti domiciliari a quella inframuraria.
Tale equiparazione, va ricordato, nasce dall’esigenza di riconoscere massima afflittività alla misura degli arresti domiciliari (conteggiando ad esempio il periodo trascorso tra le mura domestiche a quello in carcere ai fini del pre-sofferto), in ossequio ad una visione garantista che tende a limitare al massimo l’applicazione delle misure cautelari custodiali (carcere e domiciliari) e in tempi recenti è servito anche per fornire una copertura giuridica alla necessità di deflazionare le case circondariali da sempre sollecitate oltre la capienza: allorquando la Corte EDU ha “bacchettato” l’Italia per l’eccessivo sovraffollamento delle strutture carceraria, si è intervenuti implementando l’utilizzo alternativo degli arresti domiciliari, sul presupposto che si trattasse di due misure cautelari parimenti afflittive e quindi sostanzialmente equiparabili.
La nuova previsione, che prevede che l’indagato debba essere ascoltato prima della sola applicazione della custodia in carcere come se l’applicazione degli arresti domiciliari improvvisamente non avesse (più) la medesima afflittività, potrebbe costituire un pericoloso passo indietro in questo senso, poiché sembra frutto del ritorno ad una concezione che vede la custodia in carcere come misura indirettamente più efficace in quanto più oppressiva per chi la subisce.
3. Verso un nuovo assetto del bilanciamento tra interesse pubblico e diritti del singolo nella valutazione delle esigenze cautelari.
Perplessità (ancora) maggiori desta la differenziazione operata tra le diverse esigenze cautelari previste dall’articolo 274 del nostro codice di rito, che porterà ad un’implicita gerarchizzazione tra tipologie di misure cautelari aventi analogo contenuto di cui è difficile scorgere la rispondenza al nostro sistema.
Secondo il disegno di legge in commento si potrà continuare ad applicare inaudita altera parte la misura custodiale massima, rinviando l’interrogatorio alla fase successiva all’esecuzione, nel caso in cui la misura sia applicata per il pericolo di inquinamento delle prove (art. 274 lettera a) o per il pericolo di fuga (art. 274 lettera b), mentre l’indagato dovrà essere interrogato prima della valutazione della richiesta del Pubblico Ministero se il pericolo paventato è quello di reiterazione di delitti della stessa specie di quelli per cui si procede (art. 274 lettera c).
Qual è la ragione di questa inedita differenziazione del procedimento esecutivo delle misure cautelari personali?
La ratio dell’interrogatorio preventivo è (o dovrebbe essere) quella di non procedere alla limitazione della libertà personale dell’indagato in modo azzardato, risultato che si ritiene di poter raggiungere attribuendo al soggetto passivo dell’ordinanza la facoltà di fornire al giudice la propria versione dei fatti prima di essere esposto al danno di essere ristretto in carcere.
In merito, occorre sgombrare il campo da un retropensiero pernicioso: nessuno può seriamente affermare che, in linea generale ed astratta e fatte salve le dolorose eccezioni presenti in ogni categoria o professione, i giudici delle indagini preliminari non abbiano ben presente l’afflittività delle misure cautelari che redigono e sottoscrivono.
Incidere sulla libertà degli altri è un lavoro tutt’altro che piacevole o agevole, e si procede in tal senso all’esito di un ponderato e sofferto bilanciamento tra due interessi fondamentali: da un lato i diritti individuali dell’indagato, dall’altro i rischi per la collettività e la sicurezza sociale.
Solo quando risultano a giudizio del magistrato prevalenti i secondi, secondo i criteri dettati dalla legge, si ricorre ad una misura “a cautela” della collettività e a detrimento del singolo, a carico del quale devono peraltro essere stati individuati gravi indizi di colpevolezza in ordine a uno o più reati di sensibile allarme sociale.
Spiace dover precisare questi concetti, che non si dubita siano ben presenti in ogni collettività che affida la Giustizia allo Stato e non alla vendetta individuale e che a maggior ragione si ritiene siano patrimonio di tecnici del diritto quali devono essere considerati i rappresentanti del potere legislativo.
Tuttavia, l’esame della riforma in discussione sembra partire dal presupposto che la valutazione dei giudici sul predetto bilanciamento degli interessi sia attualmente viziata dalla mancata audizione delle ragioni dell’indagato.
È evidente che l’unica ragione della necessità di ricorrere alla sua voce (peraltro, naturalmente, tutt’altro che imparziale) sia da cercare nella solita ed onnipresente sfiducia nel ruolo del Pubblico Ministero, ritenuto non (più) in grado di offrire al giudice un quadro imparziale ed esaustivo così come previsto dall’impianto codicistico.
La riforma, a ben vedere, ha un senso solo se si immagina un pubblico ministero confinato nel ruolo di accusatore a tutti i costi e ormai incapace di onorare il ruolo di magistrato che dirige le indagini nella indifferenza dei suoi esiti come indicato dal codice di procedura penale: l’asserito venir meno del ruolo di interprete imparziale del suo ruolo è all’origine dell’esasperazione dell’anticipazione del contraddittorio prevista.
In buona sostanza, la parzialità della prospettazione del magistrato inquirente abbisognerebbe di un contrappeso che si individua nel diritto di interlocuzione anticipata dell’indagato, prima che il giudice – a sua volta, evidentemente, incapace di formarsi un giudizio non condizionato - arrechi un danno irreparabile procedendo alla privazione della libertà personale dell’indagato.
Entrambi i presupposti su cui poggia questa costruzione sono però indimostrati e smentiti dai fatti, che attestano come sia la perdita generalizzata della tenuta istituzionale della figura del Pubblico Ministero che l’appiattimento incondizionato del ruolo del GIP a quello del PM siano più spauracchi che realtà.
Del resto, si tratta di postulati indimostrabili: inutile invocare l’alta percentuale di accoglimento delle richieste del PM da parte dei GIP per dimostrare il potere di condizionamento dei primi sui secondi, perché questa percentuale può essere utilizzata anche a contrario, per dimostrare l’alta professionalità dei magistrati inquirenti (proprio il contrario dell’assunto di partenza del disegno di legge).
E del resto, nei casi in cui i giudici hanno mostrato sul campo di non essere condizionati dalle richieste dei Pubblici Ministeri non solo nessuno si è tranquillizzato, ma si è registrato curiosamente l’effetto opposto: in un recente caso di imputazione coatta, celebre perché riguardante un esponente del Governo, gli stessi che hanno esposto il disegno di legge in esame si sono affrettati a preannunciare … l’abolizione dell’istituto dell’imputazione coatta.
È dunque problematico scorgere linee di coerenza nella tumultuosa opera di riforma in atto, sicché non bisogna forse sorprendersi se la ratio invocata – sottrarre i GIP all’influenza nefasta di pubblici ministeri imparziali dando voce all’indagato – non convinca del tutto.
4. Ancora un bilanciamento di interessi: la misura cautelare tra necessità di azione tempestiva e diritto al contraddittorio.
Quanto detto non comporta ovviamente che il sistema attuale sia a prova di errore; gli errori ci sono e in questo settore – coinvolgendo un bene primario come la libertà personale – hanno un costo enorme e dolorosissimo.
Conseguentemente, l’intento di limitarli è assolutamente giusto e condivisibile.
È necessario però non dimenticare l’altro interesse in gioco, costituito come detto dalla necessità di tutela della collettività e chiedersi in che misura questo interesse viene sacrificato e se il bilanciamento dei due interessi ne risulti ancora equilibrato.
La riforma, giova ricordarlo, non introduce un obbligo nuovo, ma ne anticipa uno esistente.
L’interrogatorio del soggetto attinto da misura cautelare è infatti già previsto dall’articolo 294 del codice di procedura penale ed è il primo, doveroso adempimento, cui il giudice è tenuto dopo l’emissione dell’ordinanza applicativa della misura stessa, peraltro in termini strettissimi, pena l’inefficacia della misura emessa.
È però stato immaginato – finora - come adempimento differito rispetto alla restrizione della libertà dell’indagato per un motivo evidente: evitare che la misura cautelare sia del tutto inefficace o ridotta ad un mero simulacro, togliendo alla stessa i caratteri di tempestività e segretezza che le sono connaturali.
La misura cautelare è strumento connotato ontologicamente dal carattere di urgenza, essendo stato pensato quale intervento di reazione al pericolo di un accadimento irreparabile che interviene, vanificandolo, nelle more del processo penale (periculum in mora).
Facciamo un passo indietro: la privazione della libertà personale disposta dall’autorità giudiziaria è normalmente effetto dell’affermazione della responsabilità per un reato, e presuppone l’accertamento incontrovertibile della violazione di un precetto penale e l’attribuibilità di tale violazione all’imputato da parte del giudice competente (condanna passata in giudicato).
Incidere sopprimendolo, sia pur temporalmente, sul più sacro dei diritti costituzionali o anche semplicemente comprimere tale diritto, in assenza della certezza processuale di avere di fronte il colpevole del reato sembra dunque un controsenso.
Tuttavia, è altrettanto vero che la proclamazione della responsabilità penale non può prescindere da un accertamento serio, approfondito e in cui sia garantito il pieno rispetto del contraddittorio.
Questo tipo di processo comporta l’impiego di un notevole lasso di tempo: la formazione della prova richiede la massima attenzione e, nonostante i principi di oralità ed immediatezza che teoricamente informano il nostro sistema processuale penale, un’attenta ponderazione sia nella fase delle indagini che in quella del dibattimento.
Prima ancora della formazione in contraddittorio e della valutazione, le prove devono essere raccolte, ed in un momento ancora anteriore individuate e cercate, in quella fase delicata e importante del processo denominata nel nostro attuale sistema processuale penale “indagini preliminari”: un esito insoddisfacente o incompleto delle stesse porta inevitabilmente all’assoluzione, secondo il principio fondamentale del sistema accusatorio.
È pertanto fondamentale preservare tutta la fase delle indagini, e quella successiva del dibattimento, dal pericolo che le prove siano occultate, nascoste, manipolate, distrutte, distorte: ed è inevitabile e naturale che sia proprio chi ha commesso il reato ad essere interessato ad un accertamento incompleto o distorto.
Sorge dunque la necessità di “proteggere” (cautelare) il procedimento penale dalle aggressioni del suo attore principale: l’indagato/imputato.
È inoltre inevitabile che, man mano che si acquisisca la ragionevole certezza della colpevolezza di taluno, anche se questa certezza non è ancora sacralizzata in una sentenza di condanna definitiva, il fatto stesso che il colpevole continui a circolare libero crea allarme sociale, soprattutto in relazione a determinati reati.
Laddove, in casi siffatti, si raccolgano elementi consistenti sulla persistente attività delinquenziale dello stesso soggetto lo Stato è chiamato ad intervenire, con la massima urgenza possibile, per evitare che il tempo occorrente per lo svolgimento del giusto processo comporti un prezzo eccessivamente alto per la collettività e l’ordine pubblico.
Anche la funzione general-preventiva della pena, oltre che quella strettamente sanzionatoria, è dunque “cautelata” dal nostro sistema processuale; ed è proprio a questo scopo che è dettata la norma della lettera c dell’articolo 274 del nostro codice di rito.
Infine, è intuitivo che l’imputato, man mano che si rende conto che l’accertamento processuale procede verso l’acquisizione di un compendio probatorio pieno ed inoppugnabile e che dovrà dunque essere assoggettato alla privazione della libertà in risposta alla violazione del precetto da lui compiuta, possa considerare la fuga come strumento per sottrarsi alle conseguenze penali della sua azione: per impedire che il tempo di accertamento processuale del responsabilità comporti la frustrazione in concreto dello scopo principale del processo stesso (assoggettare a sanzione il responsabile della violazione del precetto) è dunque possibile, ancora una volta, intervenire in via preventiva impedendo che l’imputato fuggendo si sottragga alle sue responsabilità.
La prima ragione dell’esistenza delle misure cautelari è dunque data dalla necessaria protrazione temporale del momento di accertamento della verità processuale, che comporta l’esistenza di un sensibile periodo in cui taluno, pur sospettato o gravemente indiziato di essere l’autore di un reato, non è ancora formalmente etichettabile come “colpevole”: “se il processo fosse un punto e non una retta non occorrerebbero le misure cautelari” (la citazione è di Giovanni Conso).
Da quanto detto deriva che il requisito più importante per assicurare l’efficacia dell’intervento cautelare è senza dubbio la tempestività: un intervento tardivo rispetto alla verifica della sussistenza delle situazioni di pericolo rischia di essere del tutto vano, e risolversi nella mera anticipazione degli effetti della pena che l’articolo 274 del codice di procedura penale intendeva, come si è visto, scongiurare.
Questo requisito rischia di passare in secondo piano con la riforma in esame.
La totale elisione dell’effetto sorpresa, l’instaurazione del contraddittorio, la ponderazione del materiale raccolto dal richiedente e l’allungamento dei tempi configurano la misura cautelare ipotizzata come una sorta di dibattimento anticipato, dove i pericula in mora hanno perso ogni valore e sbiadiscono sullo sfondo della decisione dell’istituendo collegio, ridotta ad una valutazione quasi del tutto sbilanciata sull’analisi della sussistenza dei gravi indizi.
Di più: appare impossibile emettere un’ordinanza motivata sul periculum in mora, perché l’intervento pensato per scongiurare i suddetti pericula è vanificato dalle regole di azione del giudice della cautela, che è chiamato ad agire, paradossalmente, senza alcuna cautela ma anzi con modalità tale da avvertire l’indagato del pericolo per la sua libertà, effetto contrario a quello proprio delle misure cautelari.
Un esempio, tra i tanti, di applicazione delle nuove ipotizzate regole ai procedimenti che i Pubblici Ministeri gestiscono quotidianamente: nel corso di un’indagine per pedopornografia gli inquirenti individuano alcuni degli utilizzatori degli IP da cui parte e si diffonde quotidianamente materiale illecito e scoprono, attraverso intercettazione dei messaggi, che gli stessi si apprestano a reperire e divulgare ulteriore materiale pedopornografico. Il Pubblico Ministero avanza dunque richiesta di applicazione di misura cautelare motivata – oltre che dai gravi indizi di colpevolezza delle condotte precedenti – dal concreto ed attuale pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie.
Il Collegio dei GIP dovrebbe dunque, secondo le regole della paventata riforma, convocare gli indagati e chiedergli, alla presenza dei difensori, di fornire la loro versione sui delitti di cui sono accusati nonché convincere i giudici della insussistenza del pericolo di reiterazione, dopo essere stati avvertiti che se non saranno convincenti potrebbero essere privati della libertà personale.
È evidente che la tutela delle vittime, della sicurezza, dell’ordine pubblico e tutte le ragioni che sono connaturate all’intervento cautelare (cioè, letteralmente: “a cautela”) scompaiono del tutto in favore del principio di non colpevolezza, trascurando la circostanza che quando si agisce in via di urgenza l’articolo 272 del codice di procedura penale impone già un severo vaglio della sussistenza dei gravi indizi.
La stessa scena può essere immaginata nel caso di una richiesta di misura cautelare per soggetti per i quali emerge dalle indagini un’attività di spaccio di stupefacente in corso: anche in questo caso non si potrebbe intervenire con una misura cautelare prima di avere chiesto agli indagati di fornire la loro versione e convincere il Collegio dei GIP del fatto che il Pubblico Ministero sbaglia a ritenere che l’attività di spaccio in itinere continuerà anche in futuro.
Di fatto, si sta proponendo di abolire le misure cautelari previste dalla lettera c dell’articolo 274 e procedere ad una sorta di incidente probatorio del tutto eccentrico in quanto avente ad oggetto non l’assunzione di una singola prova ma il giudizio di colpevolezza dell’indagato (non ancora imputato); un innesto nel procedimento penale sostanzialmente inutile e al contempo una pericolosa abdicazione del presidio d’urgenza del processo e della sicurezza pubblica.
5. Il dilemma tra efficacia dell’azione e responsabilità per gli errori: uno sguardo all’esterno.
Il tentativo di eliminare o limitare al massimo gli errori nell’applicazione delle misure cautelari attraverso un depotenziamento totale della loro efficacia dunque non convince, perché sacrifica del tutto la protezione degli interessi collettivi a cui sono finalizzate le misure medesime.
Quello del processo penale non è del resto l’unico campo in cui la collettività demanda a qualcuno, in nome degli interessi collettivi, il potere di comprimere (a certe condizioni) diritti individuali fondamentali.
Basti pensare al medico, che ha il potere, anche senza il consenso del paziente (ad esempio in casi di urgenza) di provocare lecitamente lesioni ad un individuo, aggredendone addirittura l’integrità fisica.
Anche in questo campo, naturalmente, si determinano errori; e questi errori hanno conseguenze persino più importanti (e a volte drammatiche) di quelli che possono derivare da una custodia cautelare.
Eppure, è a tutti noto che il legislatore è più volte intervenuto negli ultimi anni per limitare fin quasi ad azzerare la responsabilità penale per gli errori dei medici e degli operatori sanitari, sul presupposto che non si possa consentire alla magistratura di intimorire e condizionare con lo spettro di un processo penale l’operato di un settore così importante.
E senza andare troppo lontano, nello stesso disegno di legge 808 che qui si commenta è contenuta la norma che abroga l’abuso d’ufficio.
Questa abrogazione viene giustificata dalla necessità di liberare gli amministratori pubblici dal “terrore della firma”.
Attenuare (se non azzerare) la responsabilità di chi provoca danni con la sua azione in nome di un superiore interesse pubblico (la salute del paziente, il buon andamento della pubblica amministrazione) è dunque possibile e il legislatore, anche questo legislatore, sembra essere assai propenso a questa scelta per molti settori, persino se coinvolgono interessi ancora più importanti della libertà personale (come la salute o la stessa vita, settori di azione dei medici).
Se ne potrebbe dedurre che la sicurezza e l’ordine pubblico, interessi alla cui tutela è preposta la lettera c dell’articolo 274 del codice di procedura penale, sono interessi ritenuti dall’attuale legislatore sacrificabili.
Ma questa conclusione è smentita da una penalizzazione esasperata che è impossibile non riscontrare nell’attuale legislazione e da altre recenti riforme del settore, tra cui si segnalano quelle che rafforzano i poteri della Polizia Giudiziaria nella applicazione di misure precautelari come arresto e fermo.
E allora torna ad affacciarsi il dubbio che il problema non sia la salvaguardia della libertà personale dell’indagato ma una larvata forma di commissariamento del potere di controllo sulla violazione dei precetti penali che la Costituzione affida alla magistratura.
6. La gerarchizzazione delle esigenze cautelari…. e l’elefante nella stanza.
Un ulteriore elemento di perplessità è costituito dalla gerarchizzazione tra le esigenze cautelari previste dal nostro codice di procedura penale, cui si accennava al termine del primo paragrafo.
Dall’impianto della riforma emerge, come si è visto, che tempestività ed efficacia della misura cautelare non sono più valori meritevoli di tutela, ma solo per alcune delle ipotesi che pure sono previste dall’articolo 274 come talmente “pericolose” da richiedere all’autorità giudiziaria di agire senza attendere l’esito del processo per comprimere la libertà dell’accusato.
Non è agevole comprendere quale sia il motivo per cui sia stata operata questa divisione tra esigenze cautelari, che sembra postulare una differenza tra un intervento cautelare a salvaguardia del processo (lettere a e b), che si connota di urgenza tale da superare l’esigenza di audire l’indagato anticipatamente, e intervento cautelare a salvaguardia della collettività (lettera c).
Il periculum in mora, in pratica, è un po’ meno… “periculum” se il rischio cui la collettività è esposta è che un soggetto gravemente indiziato di un delitto continui a delinquere.
L’importante è che non fugga o non inquini le prove del reato già commesso.
Viene da chiedersi quale sia la coerenza sistematica rispetto a recenti modifiche quali l’arresto in flagranza differita, che sembrano avere indicato la necessità di ricorrere alla privazione della libertà personale in modo massiccio anche a costo di torcere il concetto di flagranza oltre i suoi limiti concettuali.
Non è senza significato che pochi mesi orsono è stato indetto un referendum per l’abrogazione della lettera c dell’articolo 274 del codice di procedura penale.
Pur se la consultazione popolare ha avuto esito negativo per i proponenti, è interessante rilevare che la ragione per cui si è proposta l’abrogazione della norma è stata indicata in un asserito contrasto con il principio di colpevolezza.
Sul punto è sufficiente rilevare che tale contrasto è reiteratamente stato escluso dalla Corte Costituzionale, che ha stabilito che ragioni di prevenzione (esterne al processo) possono essere poste a fondamento delle misure cautelari.
Vale la pena rilevare incidentalmente che la stragrande maggioranza delle misure cautelari nel nostro paese sono adottate proprio con riferimento alla lettera c dell’articolo 274, perché di fatto è evento statisticamente assai più ricorrente che chi si renda responsabile di un reato possa reiterarlo piuttosto che lo stesso soggetto inquini le prove o si dia alla fuga, anche perché il giudizio prognostico nel primo caso è meno arduo da provare rispetto a quello delle altre due.
L’abrogazione di questa norma avrebbe dunque comportato di fatto una riduzione drastica dei casi di applicazione delle misure cautelari e la conseguente perdita di un presidio di sicurezza di fondamentale importanza.
L’introduzione dell’interrogatorio preventivo porterebbe al medesimo risultato, in pratica portando alla rarefazione dell’intervento cautelare da parte dei Pubblici Ministeri in fase di indagine, proprio mentre - per altro verso - si chiede alla Polizia Giudiziaria di arrestare anche senza flagranza.
Forse lo scenario tanto spesso evocato dai critici della separazione delle carriere, che paventano un pubblico ministero depotenziato e ridotto a mero esecutore delle operazioni di polizia, avanza a passi più veloci di quanto si immagini.
Ma c’è un ultimo aspetto da considerare: se il legislatore avesse voluto assegnare al pericolo di reiterazione dei delitti un valore ontologicamente diverso dagli altri due pericula avrebbe semplicemente previsto che, per tutte le richieste basate sulla lettera c dell’articolo 274 c.p.p., si doveva procedere ad interrogatorio preventivo.
Per quanto discutibile, questa soluzione avrebbe mantenuto un profilo di coerenza riconoscibile: la cautela della collettività (protetta dalla lettera c) è meno importante di quella del processo (protette dalle lettere a e b) e dunque deve cedere di fronte ai diritti dell’indagato.
Tuttavia, come si è detto, non è questa la scelta evincibile dal disegno di legge in esame, perché anche nell’ambito delle misure cautelari per il pericolo di reiterazione dei delitti è stata introdotta un’ulteriore distinzione: solo quelle per i reati “meno gravi” richiederanno l’interrogatorio preventivo, mentre per le altre si seguirà la regola tradizionale.
Al di là della discutibilità del criterio seguito, che rinviando all’elenco dell’articolo 407 comma 2 lettera a del codice di procedura penale assegna maggiore o minore gravità ai reati a seconda che siano o meno inserite nella norma pensata per la lunghezza dei termini delle indagini preliminari (che è cosa ben diversa), è evidente che allora anche il discorso cambia completamente.
Non si può dire che la tutela della collettività ceda rispetto agli interessi del singolo, ma che l’interesse del singolo prevale solo per determinati reati che ricadono in una fascia considerata grave (perché consentono l’adozione di una misura cautelare) ma non abbastanza (perché non inseriti nello speciale elenco dell’articolo 407 comma 2 lettera a).
Per questa specifica fascia di reati dovrebbe ipotizzarsi che una reiterazione dei delitti possa essere elisa anticipando l’interrogatorio dell’indagato, come se – anziché privare il soggetto che si rivela gravato da indizi di colpevolezza della libertà personale – bastasse chiamarlo e renderlo edotto della spada di Damocle di una richiesta di misura cautelare per indurlo a cessare dalle condotte illecite, circostanza che risulta difficile immaginare in chi vive abitualmente di delinquenza (come negli esempi fatti del soggetto dedito alla pedopornografia o dello spacciatore) ma che si attaglia bene ai delitti compiuti da non professionisti del crimine come ad esempio i “colletti bianchi”.
E poiché è inverosimile che un giudice si accontenti in tal senso delle mere rassicurazioni dell’indagato di impegnarsi a non reiterare il delitto, questa cessazione dovrebbe essere resa plasticamente da qualche condotta riscontrabile, come può accadere ad esempio per i delitti contro la Pubblica Amministrazione con le dimissioni dalla carica…. Cominciate a vedere anche voi l’elefante nella stanza?
[1] Da Wikipedia: “elefante nella stanza” (in inglese elephant in the room) è un’espressione tipica della lingua inglese per indicare una verità che, per quanto ovvia e appariscente, viene ignorata o minimizzata. L’espressione si riferisce cioè ad un problema noto ma di cui nessuno vuole discutere… questo atteggiamento è tipicamente adottato in presenza di tabu sociali o di situazioni imbarazzanti”.
[2] Costantino De Robbio, Collegialità del giudice della misura cautelare e separazione delle carriere: due tasselli di uno stesso mosaico, in questa Rivista, 19 maggio 2023.
[3] Le voci critiche, pressoché unanimi, non vengono solo dalla magistratura cfr. documenti redatti sul punto dall’ANM – ma altresì dalla dottrina: sul punto cfr. Tra gli altri MARANDOLA, Troppi dubbi sulle garanzie dell’interrogatorio cautelare anticipato, in Sistema Penale, 10 maggio 2024 o BRONZO, Brevi note sul “disegno di legge Nordio”, in Sistema Penale, 12 aprile 2024.
Nell'immagine, l'elefante in una stanza secondo Banksy.
Sommario: 1. Un tema attuale, non certo nuovo; 2. I molteplici volti dell’imparzialità del magistrato; 3. Dall’obiettivo dell’imparzialità ai rischi della neutralità culturale; 4. L’“apparenza” d’imparzialità e la fiducia nel potere giudiziario; 5. Il dovere di apparire imparziale come regola di condotta del magistrato; 6. L’apparenza d’imparzialità e i possibili limiti di contenuto alla libertà d’espressione del magistrato: riserbo, non silenzio; 7. Quali regole per imporre “equilibrio e riserbo” e garantire l’immagine d’imparzialità della magistratura, tra hard law …; 8. … e soft law: la deontologia giudiziaria e il ruolo del C.S.M.; 9. Osservazioni conclusive.
1. Un tema attuale, non certo nuovo
Si fa un gran parlare di libertà d’espressione dei magistrati e di limiti alla stessa associabili[1]. Alcuni recenti episodi hanno ravvivato il dibattito, reso incandescente, una volta di più, dal clima di notevole tensione che caratterizza i rapporti tra magistratura e politica[2].
Il tema è attuale ma non certo nuovo, se è vero che già nel 1907, certamente in un contesto diverso da quello odierno, l’allora ministro della Giustizia, Vittorio Emanuele Orlando, adottava una circolare dedicata alle “Manifestazioni personali dei magistrati per mezzo della stampa”[3].
La questione, caso mai, risulta essere oggi “alterata” da alcuni fattori inediti, quali, tra tutti, la repentina affermazione di nuove forme di esercizio della libertà di esprimersi e di comunicare, a cominciare da quelle veicolate attraverso la rete o i social, tanto peculiari e per certi aspetti dirompenti da richiedere una verifica della tenuta delle tradizionali coordinate di riferimento.
Il tema richiama a prima vista l’esigenza di un bilanciamento tra libertà costituzionali del magistrato, ovviamente titolare dei diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento a ogni cittadino, e altri interessi di rango costituzionale eventualmente concorrenti[4]. Con riguardo poi ad alcuni specifici diritti costituzionali, quali la libertà di iscriversi a un partito politico, di svolgere attività in senso lato politica, di associarsi, di riunirsi e appunto di manifestare il proprio pensiero, si presenta la necessità di contemperare gli stessi con quello rappresentato dalla necessaria imparzialità che deve caratterizzare la funzione giurisdizionale, nelle varie declinazioni in cui essa, come dirò meglio più avanti, può essere predicata. Va da sé che l’esito di tale contemperamento di interessi può comportare, a seconda dei casi, una compressione, totale o parziale, del diritto coinvolto.
Le fonti che sottolineano l’esigenza di tale bilanciamento sono innumerevoli, sul piano internazionale e su quello interno. Numerose di esse verranno richiamate nel prosieguo.
Per adesso è sufficiente citare, per tutte, l’art. 10, comma 2, C.E.D.U., dedicato appunto alla libertà di espressione, ove si precisa che l’esercizio di tale libertà, comportando “doveri e responsabilità”, può essere sottoposto a “formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni”, le quali costituiscono misure necessarie, in una società democratica, allo scopo di preservare una serie di interessi tra i quali la garanzia della “autorità e imparzialità del potere giudiziario”[5].
“Autorità” e “imparzialità”, due valori fondamentali sui quali mi riservo di tornare.
2. I molteplici volti dell’imparzialità del magistrato
Com’è stato sostenuto, la ragione determinante per la quale l’ordinamento assegna al magistrato compiti di natura giurisdizionale “sta nelle garanzie che egli offre di provvedervi in modo adeguato e imparziale”[6]. L’imparzialità è un connotato imprescindibile della giurisdizione e una qualità essenziale all’idea stessa di magistrato[7]: un magistrato non imparziale non è un magistrato[8].
Le peculiari garanzie che la Costituzione riconosce ai magistrati, a cominciare dall’indipendenza, sono, in ultima analisi, strumentali a preservare tale qualità, la quale, a propria volta, è finalizzata ad assicurare l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla giustizia. Per questa ragione può affermarsi che il fondamento costituzionale dell’imparzialità dei magistrati e della funzione giudiziaria risiede direttamente nell’art. 3 Cost. e, indirettamente, nell’art. 101, comma 2, Cost., ai sensi del quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
A tale proposito, appare secondaria la circostanza che tale concetto, così essenziale, sia stato espressamente inserito nella Carta costituzionale soltanto con la legge cost. n. 2/1999, che, com’è noto, ha introdotto, al comma 2 dell’art. 111, la previsione ai sensi della quale ogni “giusto processo” deve svolgersi “davanti a giudice terzo e imparziale”. Si può aggiungere che, mentre l’approccio seguito dagli estensori dell’art. 111 Cost. esalta l’imparzialità come caratteristica oggettiva della funzione giurisdizionale, la diversa l’impostazione seguita nell’art. 6 C.E.D.U., ove si prevede che ciascun individuo ha diritto a che la propria causa sia esaminata “equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale”, privilegia la prospettiva del cittadino dinanzi al sistema giustizia, presentando l’imparzialità come un diritto soggettivo della parte di un processo.
Più in concreto, per imparzialità del giudice s’intende il suo essere in partenza super partes rispetto alla controversia da decidere, al fine di preservare la correttezza del processo attraverso il quale si forma il suo convincimento. Come ha precisato la Corte costituzionale, “va escluso, nel giudice, qualsiasi anche indiretto interesse nella causa da decidere” e qualsiasi “pregiudizio” o “convinzione precostituita”[9]. Per imparzialità del giudice, in altre parole, s’intende la sua equidistanza iniziale rispetto agli interessi che si confrontano nella causa dinanzi a lui pendente[10]. Ancora, per la Corte l’esercizio della funzione deve essere “libero da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza”[11].
Da queste condivisibili affermazioni del Giudice costituzionale si possono ricavare due prime interlocutorie conclusioni.
In primo luogo, l’imparzialità, pur essendo un valore costitutivo della funzione giudiziaria, non è un requisito che c’è o non c’è, bianco o nero, bensì esso si presenta spesso in una molteplicità di variazioni e situazioni diverse, per cui è vero che, in parte almeno, esso si impone al magistrato come un obiettivo da perseguire in ogni processo; non un presupposto della sua personalità ma un risultato che egli deve volta per volta realizzare all’atto del decidere[12].
Quest’idea dinamica dell’imparzialità, per inciso, è ben colta nell’art. 9 del Codice etico dell’A.N.M. del 2010, ai sensi del quale il magistrato, “nell’esercizio delle sue funzioni, opera per rendere effettivo il valore dell’imparzialità”.
In secondo luogo, l’imparzialità può essere effettivamente “misurata” soltanto all’interno di una vicenda processuale e nel momento in cui la funzione giudiziaria viene esercitata. Se infatti imparzialità significa che il percorso decisionale seguito dal magistrato non deve essere condizionato da fattori diversi dai fatti e dalle prove dedotte nel giudizio, ne consegue che la verifica del raggiungimento di tale risultato sarà possibile soltanto a conclusione del percorso, dinanzi a una motivazione che dia conto (anche) dell’effettiva imparzialità del giudizio.
Nessuna regola può assicurare che tale risultato venga effettivamente acquisito.
D’altra parte, è ovvio che l’ordinamento, agendo in via cautelativa, abbia affinato alcuni strumenti che, pur non potendo assicurare in senso assoluto l’imparzialità del risultato, fungono da presidi preventivi per scongiurare, per quanto possibile, occasioni che potrebbero favorire delle valutazioni parziali. Essi sono di varia natura e attengono sia alle modalità con le quali il processo è regolato sia alle caratteristiche del soggetto che è chiamato a decidere, atteso che, come detto, l’imparzialità riguarda, allo stesso tempo, sia il processo sia il giudice.
Tali istituti possano essere classificati in ragione della loro maggiore o minore vicinanza all’oggetto del giudizio.
Soltanto a titolo di esempio, è utile richiamare una delle previsioni più caratteristiche tra quelle poste a tutela dell’imparzialità, ovvero l’art. 51 c.p.c. sull’astensione del giudice. Tra le ipotesi di astensione obbligatoria troviamo sia la sussistenza di un interesse del giudice nella causa sia l’esistenza di legami di coniugio, parentela fino al quarto grado, convivenza, rapporti di stretta amicizia (commensale abituale) con una delle parti o con un difensore, ovvero la grave inimicizia, sua o della moglie, con una delle parti o con un difensore, o infine la circostanza di essere tutore, curatore, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti.
Si tratta di fattispecie tra loro piuttosto diverse: alcune di esse attengono appunto all’esistenza di un interesse diretto del giudice nella causa, ciò che, per il legislatore, rende quest’ultimo pregiudizialmente “incapace” di esercitare imparzialmente la giurisdizione; altre evidenziano un interesse solo potenziale e/o del tutto indiretto, che tuttavia il legislatore ha ritenuto di far rientrare tra le ipotesi che, pur con meno intensità delle prime, sono idonee a mettere a rischio la prerogativa del giudice di essere imparziale.
Se poi passiamo ai casi di astensione facoltativa, la suddetta gradualità di situazioni appare con maggiore evidenza, atteso che la norma consente al giudice di chiedere l’autorizzazione ad astenersi “in ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza”; si tratta di casi in relazione ai quali il magistrato è chiamato a compiere un giudizio prognostico non soltanto sulla sua capacità di essere effettivamente imparziale ma anche sul rischio che si possano ingenerare all’esterno dubbi sulla sua reale serenità e indipendenza di giudizio.
Com’è stato sottolineato, con l’art. 51 c.p.c. il legislatore ha mostrato attenzione “a che il processo si svolga innanzi a un giudice che non soltanto sia ab intra, ma soprattutto appaia ab extra, alle parti e alla comunità intera, sereno e rigoroso custode del compito demandatogli dall’ordinamento, dai suoi stessi concives e nel loro nome: giudicare gli interessi del prossimo con imparzialità ed equanimità, senza pregiudizi di alcun genere che possano inquinare la cognizione e la decisione sul caso”[13].
Lo ha confermato di recente la stessa Corte di Cassazione, quando, proprio in tema di astensione del giudice civile, ha sottolineato che tale istituto giuridico garantisce “sia l’indipendenza del singolo giudice sia il prestigio della sua funzione”[14].
Insomma, anche nella disciplina dell’astensione, l’istituto più classico dell’imparzialità del giudice, tale valore viene richiamato alludendo ad aspetti diversi dello stesso concetto, alcuni più vicini al cuore del problema, ovvero l’assenza di interessi diretti nel processo, altri via via più distanti ma orientati a quello stesso obiettivo[15]; mano a mano che ci si allontana dall’oggetto del giudizio il canone dell’imparzialità mette in risalto anche altri interessi di rilievo costituzionale, quali, in primo luogo, il prestigio e l’autorevolezza del potere giudiziario e la fiducia dei cittadini nei confronti dello stesso.
Sul punto tornerò più avanti. Ora vorrei rimarcare che, quando giustamente si afferma che l’imparzialità è un termine “polisenso” e pertanto suscettibile di assumere significati diversi e diverse sfaccettature[16], si deve aggiungere che questi diversi significati sono spesso così strettamente legati tra loro da rendere arduo il tentativo di tracciare una precisa linea di confine.
3. Dall’obiettivo dell’imparzialità ai rischi della neutralità culturale
La circostanza che il giudice debba essere imparziale non significa che egli non possa - e per certi versi non debba - essere portatore, con riferimento a una determinata controversia, di una sua idea generale, di una personale inclinazione, di un’esperienza di vita potenzialmente in grado di orientare la decisione; vale a dire, non è possibile ritenere che l’imparzialità pretenda la completa spersonalizzazione del giudice.
Come ha osservato ancora la Corte costituzionale, l’imparzialità del giudice “non può essere intesa in modo così lato e generico da farvi rientrare anche l’interesse che egli, come privato cittadino, possa avere a una determinata soluzione di problemi di principio inerenti a quella controversia, non essendoci giudice che non sia, al tempo stesso, elettore, pubblico dipendente, proprietario od affittuario, creditore o debitore …”[17].
Imparzialità, in altre parole, non significa indifferenza o neutralità culturale.
E ciò - si può aggiungere - risulta vero tanto più oggi e per almeno due concorrenti ragioni.
In primo luogo, perché, com’è noto, la sfera della discrezionalità interpretativa del giudice si è progressivamente ampliata.
Mentre nell’impostazione tradizionale, teorizzata da Montesquieu, la funzione giurisdizionale era qualificata come esercizio di un potere “nullo” e l’attività giudiziaria era concepita come una meccanica applicazione della volontà della legge, più di recente si è diffusa la contraria consapevolezza per la quale la stessa attività si caratterizza per unconsiderevole margine di libertà. Si è passati, nello spazio di circa un secolo, dal giudice mera “bocca della legge” alla “verità banale” della natura creativa dell’attività interpretativa[18]; o meglio, com’è stato detto, è platealmente venuta al pettine una contraddizione fondamentale che albergava nella cultura giuridica classica: “il giudice non deve creare diritto, eppure non può non crearlo”[19].
Tali trasformazioni si sono realizzate in forza di alcuni fattori eterogenei, quali la crescente complessità delle società moderne pluraliste, il rapporto diverso in cui è venuto a trovarsi il giudice rispetto alla legge in un sistema a Costituzione rigida, il principio di prevalenza del diritto dell’Unione europea su quello interno, i mutamenti riguardanti la rilevanza delle norme contenute nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il fenomeno della crisi della legge, spesso oscura, lacunosa, frammentata. In questo contesto, per inciso, è maturata anche la nota tendenza al c.d. “protagonismo giudiziario” e sono aumentate le occasioni di contrasto tra il piano della legislazione e quello della giurisdizione[20].
Per quanto qui più interessa, va da sé che i nuovi spazi dell’interpretazione del giudice non possono che essere “occupati” - o meglio orientati - anche dalle convinzioni personali e dalla visione del mondo di cui egli è portatore: pur nei limiti di ciò che il testo consente, sempre più spesso l’interpretazione richiede al giudice (anche) scelte ideali e di valore.
In secondo luogo, è divenuta del tutto insostenibile, in quanto incompatibile con la democrazia pluralista, l’idea classica del “magistrato-sacerdote”, isolato nella “torre d’avorio” e distaccato dalla vita della comunità[21].
Del resto, come di recente è stato efficacemente ricordato[22], il mito del magistrato “disincarnato”, estraneo alla dialettica culturale e politica del suo tempo, è stata in passato funzionale non tanto all’obiettivo dell’indipendenza e dell’imparzialità bensì ad un’adesione dello stesso al blocco storico-politico dominante, quale strumento di omologazione alla maggioranza del momento.
Per magistrati apolitici si intendeva, in altre parole, magistrati allineati.
Se dunque non si può pretendere un giudice senza idee e senza passioni, è peraltro vero che ciò comporta delle conseguenze in ordine al suo dovere d’imparzialità. Proprio perché il magistrato, oggi più che in passato, è “una persona carica di esperienze, animata da convinzioni, ispirata da ideali” - che dunque al momento del decidere non potrà che utilizzare questo suo mondo interiore per leggere la realtà all’interno della quale si cala la causa - egli dovrà riuscire a non farsi del tutto condizionare da tale lettura, rimanendo il più possibile indipendente (e imparziale) anche da se stesso, in una “consapevole tensione verso l’obiettività nello svolgimento della propria attività professionale”[23].
Anche da questa prospettiva l’imparzialità si presenta come un risultato da perseguire caso per caso.
4. L’“apparenza” d’imparzialità e la fiducia nel potere giudiziario
Si è accennato ai molteplici volti dell’imparzialità.
In particolare, è opinione diffusa che il giudice, oltre a essere imparziale, debba mostrare anche un’apparenza d’imparzialità, ovvero non debba trovarsi in situazioni o tenere comportamenti tali da far venir meno la fiducia delle parti e della comunità nella sua posizione equanime e disinteressata.
Sul punto occorre partire da una precisazione.
Si è anticipato che sostanza e apparenza d’imparzialità, pur essendo concetti autonomi - del resto, si può essere imparziali senza apparire tali e, viceversa, apparire imparziali e non esserlo in concreto[24] - nei fatti si rivelano spesso unite in modo inestricabile e ciò anche per il fatto che le regole poste a presidio dell’una assicurano, in misura variabile, anche il rispetto dell’altra. Allo scopo di assicurare il canone dell’imparzialità, infatti, il legislatore deve immaginare in anticipo le situazioni che potrebbero metterla a rischio sulla base di un giudizio prognostico, fondato su previsioni ipotetiche; difficile separare l’apparenza dalla sostanza.
Ciò precisato, quando si richiama specificamente l’apparenza d’imparzialità s’intende fare riferimento a una serie differenziata di condotte del magistrato - tra le quali sono certamente ricomprese le forme di manifestazione del pensiero - tenute al di fuori del processo e ad esso riconducibili in modo del tutto indiretto.
Si pensi, a titolo di esempio, alle ipotesi, evocate dai citati casi Apostolico e Degni, di un magistrato che partecipa a una manifestazione politica o a un dibattito pubblico, in rete o sui social media, su un tema d’attualità dal vasto impatto sociale (l’appartenenza politica, l’ambiente, i migranti, ecc.) e alle conseguenze di tali manifestazioni del pensiero sulla percezione esterna che si forma di tale magistrato circa la sua capacità di decidere imparzialmente un’eventuale causa rispetto alla quale tali temi siano in qualche misura rilevanti.
La casistica è infinita ma è possibile fornire qualche indicazione di ordine generale.
Partendo dal fondamento costituzionale, l’interesse all’apparenza d’imparzialità può essere individuato in due disposizioni della Carta ulteriori rispetto a quelle che si pongono a fondamento dell’apparenza in senso stretto.
Innanzi tutto, nell’art. 98, comma 2, Cost., ai sensi del quale “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”; essa è, in fondo, la sola disposizione che affronta direttamente il problema, atteso che il divieto d’iscrizione ad un partito politico è posto soprattutto a tutela dell’immagine d’imparzialità.
Lo ha sottolineato del resto la stessa Corte costituzionale, con la sent. n. 224/2009, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett. h) del d. lgs. n. 109/2006, ove si sanziona disciplinarmente non soltanto l’iscrizione ma anche la partecipazione sistematica e continuativa del magistrato ad un partito politico; nell’occasione il Giudice delle leggi ha osservato che tale disposizione, pur non limitandosi a prevedere il divieto d’iscrizione formale, rappresenta comunque una ragionevole attuazione dell’art. 98, comma 3, Cost., dal momento che anche la partecipazione sistematica e continuativa alla vita di un partito è suscettibile, al pari dell’iscrizione, di condizionare “l’esercizio indipendente ed imparziale delle funzioni e di compromettere l’immagine del magistrato”[25].
Inoltre, un’altra disposizione costituzionale che sembra opportuno richiamare è l’art. 54, comma 2, Cost., ai sensi del quale “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
Si tratta di un dovere di fedeltà “qualificato”, rafforzato ulteriormente dalla previsione del giuramento[26], teso a orientare le modalità esterne dell’operare del funzionario - e ovviamente anche del magistrato - e ad esaltare il suo senso di “responsabilità”, atteso che il suo operato è, immancabilmente, “destinato a riflettersi sull’immagine che di quella medesima istituzione i cittadini percepiscono e ad incidere, perciò, sulla fiducia che dovrebbero potervi riporre e sul rispetto che le dovrebbero portare”[27].
Il collegamento con l’art. 54 Cost. consente di confermare come l’apparenza d’imparzialità ponga al centro dell’attenzione l’interesse alla “fiducia” o alla “credibilità” nei confronti del singolo magistrato e, allo stesso tempo, della magistratura nel suo complesso[28].
Anche questo non è un tema nuovo: già Piero Calamandrei osservava che “per godere della fiducia del popolo, ai giudici non basta essere giusti ma occorre anche che si comportino in modo da apparire tali”[29].
Lo ha ricordato la Corte di Giustizia dell’Unione europea, sottolineando come, in una società democratica, i giudici devono ispirare la fiducia dei cittadini, a cominciare dalle parti del procedimento[30].
Di recente, anche la Corte di Cassazione, a conclusione del noto caso Emiliano[31], dopo aver sottolineato che “il giudice ha il dovere non soltanto di essere imparziale ma anche di apparire tale”, ovvero di essere “al di sopra di ogni sospetto di parzialità”, ha aggiunto: “con la differenza che, mentre l’essere parziale si declina in relazione al concreto processo, l’apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l’esercizio della giurisdizione come funzione sovrana; l’essere magistrato implica un’immagine pubblica di imparzialità”.
Tutto ciò, ha sottolineato ancora la Cassazione, “per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto”[32].
L’importanza della “immagine pubblica di imparzialità” del magistrato è stata sottolineata anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. In più occasioni - ora con riferimento alla garanzia dell’equo processo, di cui all’art. 6 C.E.D.U., ora con riguardo ai possibili limiti alla libertà di espressione, ai sensi dell’art. 10 C.E.D.U. - essa ha affermato che l’imparzialità del giudice deve essere apprezzata secondo un criterio “soggettivo” e un criterio “oggettivo”: il criterio soggettivo consiste nello stabilire se, dalle convinzioni personali e dal comportamento di un determinato giudice, si possa desumere che egli abbia un’idea preconcetta rispetto a una particolare controversia sottoposta al suo esame; il criterio oggettivo impone invece di valutare se esistano fatti verificabili che possano generare dubbi sulla sua imparzialità.
A tale proposito, anche l’apparenza è rilevante perché, ha sottolineato ancora la Corte europea, “non si deve solo fare giustizia, ma si deve anche vedere che è stata fatta, essendo in gioco la fiducia che i giudici debbono ispirare nell’opinione pubblica”[33].
L’apparenza d’imparzialità del singolo magistrato, quindi, contribuisce ad assicurare la fiducia dei cittadini nella magistratura intesa come istituzione, “legittimandola” presso i cittadini; obiettivo di vitale importanza, se è vero, com’è stato detto, che il potere giudiziario non deve andare alla ricerca del consenso ma non può fare a meno della fiducia, che è il vero “banco di prova del tasso di legittimità dei magistrati”[34].
Al contrario, com’è stato osservato, ove dovesse insinuarsi il sospetto di deviazioni da un percorso logico-giuridico scevro da prevenzioni o interesse condizionanti, si romperebbe quel rapporto di fiducia e potrebbero trovare spazio “attacchi delegittimanti che rendono difficile l’accettazione pacifica degli esiti delle controversie giudiziarie”[35].
Si tratta, in un certo senso, di un risvolto peculiare del carattere diffuso del potere giudiziario, che parla attraverso ogni suo singolo giudice non soltanto con la sentenza che adottata ma anche, entro certi limiti, con le condotte che tiene.
Si avverte anche l’eco dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, citato in precedenza, quando esso richiama, unitamente all’imparzialità, il valore dell’“autorità” del potere giudiziario tra quelli il cui perseguimento può giustificare limitazioni alla libertà di espressione.
5. Il dovere di apparire imparziale come regola di condotta del magistrato
L’apparire imparziale, anche aldilà del concreto esercizio della funzione giurisdizionale, costituisce quindi un dovere del singolo magistrato.
Nella notissima sent. n. 100/1981, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 del r.d.lgs. n. 511/1946[36], la Corte costituzionale ha riconosciuto la compatibilità di tale previsione, tra l’altro, con l’art. 21 Cost. atteso che indipendenza e imparzialità sono valori che devono essere tutelati sia con riferimento al concreto esercizio della funzioni giurisdizionale sia come “regola deontologica”, da osservarsi in ogni comportamento, “al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della indipendenza ed imparzialità dei magistrati”.
La difficoltà risiede nel comprendere in cosa effettivamente debba sostanziarsi tale regola di condotta e, di conseguenza, nell’individuare in concreto il punto di equilibrio tra la sua osservanza e la libertà costituzionale di manifestazione del pensiero.
In particolare, con riguardo alla libertà di espressione, occorre chiedersi se il dovere di apparire imparziali comporti in capo al magistrato limiti di forma o anche di contenuto.
Promettendomi di affrontare la questione degli eventuali limiti di contenuto nel successivo paragrafo, con riguardo a quelli di forma mi pare non vi possano essere dubbi e numerose sono le indicazioni utilizzabili in proposito.
In proposito, di estremo interesse la già citata sent. n. 170/2018, nella quale, pur partendo da una questione riguardante i limiti che il magistrato incontra nello svolgere attività politica all’interno di un partito, si ricorda come l’esercizio dei diritti di cui agli artt. 17, 18 e 21 Cost. sia condizionato dalla circostanza che esso si realizzi con “equilibrio e misura”, che devono caratterizzare ogni comportamento di rilevanza pubblica del magistrato.
L’invito alla “moderazione” si ritrova in molti documenti di varia natura e provenienza: possono richiamarsi, tra gli altri, il Codice etico dell’Associazione nazionale magistrati[37] e il Parere del Comitato consultivo dei Giudici europei del 2022, che si conclude con una serie di raccomandazioni tra le quali quella a mente della quale, “nell’esercitare la loro libertà di espressione, i giudici devono tener conto delle loro specifiche responsabilità e dei loro doveri nella società; devono quindi esercitare restraint nell’esprimere i loro punti di vista e opinioni in ogni circostanza in cui, dal punto di vista di un osservatore ragionevole, le loro dichiarazioni potrebbero compromettere l’indipendenza o imparzialità e la dignità del loro ufficio o mettere in crisi l’autorevolezza del potere giudiziario”[38].
In definitiva, il primo e unico limite di metodo che il magistrato incontra nell’esercizio della libertà di manifestare il proprio pensiero all’esterno della funzione giudiziaria si sostanzia in un invito, a seconda delle varie formule utilizzate, alla “moderazione”, alla “sobrietà”, alla “continenza”, alla “compostezza” o all’“equilibrio”.
Si tratta, a prima vista, di indicazioni piuttosto vaghe[39]; o meglio, condivisibili e chiare nella loro essenza ma di difficile definizione in concreto. Circostanza, com’è stato osservato, che impone uno scrutinio non particolarmente stretto del controllo sul loro rispetto, indirizzato a sanzionare i casi estremi, di evidente assenza di moderazione[40].
Inoltre, come ben si evidenzia nel citato parere del Comitato consultivo dei giudici europei del 2022, appare decisivo individuare l’interlocutore-tipo rispetto al quale deve misurarsi la correttezza della condotta del magistrato, affinché la stessa non trasmodi in una lesione dell’apparenza d’imparzialità e dunque della fiducia nella magistratura; risposta che viene in quella sede individuata nell’“osservatore ragionevole”, ovvero nel “cittadino-medio”, vale a dire una persona “mediamente ragionevole, imparziale e informata”[41].
Circostanza che rafforza ulteriormente l’idea dell’estrema vaghezza dei concetti presi in considerazione e della conseguente necessità che il controllo sulle manifestazioni del pensiero del magistrato che esorbitano i criteri di equilibrio e misura debba essere orientato a scoraggiare le deviazioni più gravi ed evidenti.
6. L’apparenza d’imparzialità e i possibili limiti di contenuto alla libertà d’espressione del magistrato: riserbo, non silenzio
Discorso diverso, invece, quello riguardante la possibilità, allo scopo di assicurare la sua immagine d’imparzialità, d’immaginare in capo al singolo magistrato anche dei limiti di contenuto, ovvero di poter precludere allo stesso di esternare le proprie idee su determinati temi.
È evidente che dei limiti s’impongono con riguardo alle esternazioni che attengono ai contenuti dei procedimenti trattati dal magistrato o sono comunque strettamente collegate all’attività dell’ufficio.
Rilevano, a tale proposito, alcune puntuali disposizioni disciplinari contenute nel d.lgs. n. 109/2006:
a) art. 2, comma 1, lettera u), ove si prevede come illecito “la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui”;
b) art. 2, comma 1, lettera v), che sanziona le “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui, nonché in violazione del divieto di cui all’art. 5, commi 1, 2, 2-bis e 3, del d. lgs. n. 106/2006” (in merito alle informazioni riguardanti le attività delle Procure della Repubblica);
c) art. 2, comma 1, lettera aa), ove si prevede l’illecito consistente nel “sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero [nel] costituire e utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati”.
Per quanto riguarda invece le esternazioni non collegate a procedimenti giudiziari in corso, la sola indicazione che pare ragionevole fornire è quella per cui certi argomenti più “sensibili”, di maggior impatto sociale e/o politico, impongono al magistrato doveri d’equilibrio e misura corrispondentemente più rigorosi[42].
Per il resto, è ben difficile anche solo ipotizzare l’idea di escludere a priori determinati contenuti della libertà di espressione del magistrato senza cadere in una violazione irragionevole della stessa libertà.
Viene in soccorso, ancora, la giurisprudenza della Corte E.D.U., laddove essa - definendo cause che hanno coinvolto ordinamenti statali nei quali le garanzie d’indipendenza della magistratura sono state poste a rischio - si è soffermata con estrema attenzione su tale delicatissimo bilanciamento. Da un lato, essa ha ricordato, ancora una volta, che la missione particolare del potere giudiziario impone ai magistrati un dovere di riserbo, anche perché “le parole del magistrato sono ricevute come frutto di una valutazione obiettiva” ed esse impegnano non solo chi le esprime, ma tutta l’istituzione giudiziaria.
Tuttavia, dall’altro lato - ed è quanto qui ora più interessa - la Corte E.D.U. ha precisato che, “il fatto che un dibattito abbia delle implicazioni politiche non è ragione per impedire ad un giudice di esprimersi in proposito”; anzi, quando il magistrato si esprime nella qualità di attore della società civile, “egli ha talora il dovere, non solo il diritto, di intervenire”[43].
La giurisprudenza della Corte E.D.U., dunque, aggiunge un altro tassello di cui tenere conto nel contemperamento di interessi: la libertà d’espressione non è soltanto un diritto fondamentale del singolo ma, tanto più quando i connotati essenziali dello stato di diritto paiono messi a rischio, essa è espressione anche di un interesse della collettività intera. In questo senso, può dirsi che l’imparzialità della magistratura, intesa nella sua immagine esterna, ha come “controvalori” anche la libertà di essere informati dai cittadini.
7. Quali regole per imporre “equilibrio e riserbo” e garantire l’immagine d’imparzialità della magistratura, tra hard law…
Occorre, a questo punto, chiedersi quale debba essere la natura e il rango delle fonti destinate ad incidere sulla libertà d’espressione del magistrato; e poiché i limiti all’esercizio di un diritto costituzionale devono essere posti per legge, o per atto avente forza di legge, occorre avviare la ricognizione dal piano delle fonti primarie[44].
Già si è detto, a tale proposito, che sono previsti con fonte primaria - in particolare dal d. lgs. n. 109/2006, sotto forma di illeciti disciplinari - i limiti alla libertà di espressione del magistrato inerenti all’esercizio delle funzioni giudiziarie.
Per quanto riguarda, però, i limiti riguardanti le esternazioni rese al di fuori dell’attività giudiziaria - ovvero i richiamati doveri di riserbo e di misura, finalizzati a garantire l’apparenza d’imparzialità - il discorso è più nebuloso.
Fino al 2006 la norma più calzante in proposito era senza dubbio l’art. 18 della legge sulle guarentigie della magistratura (r.d.lgs. n. 511/1956), laddove essa stabiliva che “il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari …”.
Proprio su tale previsione, del resto, si era fondato quell’indirizzo della giurisprudenza costituzionale - sopra richiamato [45]- secondo cui imparzialità e indipendenza sono valori che il magistrato deve apprezzare alla stregua di una “regola deontologica”, da osservarsi in ogni comportamento; e non sono mancati negli anni, ancorché non frequentemente, taluni provvedimenti della Sezione disciplinare del C.S.M. che, in applicazione di tale norma, hanno sanzionato esternazioni improvvide, ritenute lesive del prestigio dell’ordine[46].
Tuttavia, com’è noto, anche sulla scia di un annoso dibattito che ne aveva stigmatizzato l’eccessiva genericità e indeterminatezza, tale previsione è stata abrogata con il d. lgs. n. 109/2006, che, a propria volta, a parte una generica previsione ai sensi della quale “il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con correttezza, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona” (art. 1), dedica alla questione ben pochi riferimenti.
In particolare, se si fa eccezione del richiamato divieto d’iscrizione o partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici (art. 3 del d. lgs. n. 109/2006) - che, come detto, è teso a garantire l’imparzialità soprattutto nella sua immagine esterna - nessuna disposizione è prevista a tale riguardo[47].
Nella prima versione del decreto n. 109, in realtà, la situazione era assai diversa, dal momento che esso contemplava tre illeciti rilevanti in proposito, tutti successivamente abrogati con legge n. 269/2006 in ragione della loro eccessiva indeterminatezza:
a) tenere, anche fuori dall’esercizio delle proprie funzioni, “comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio della istituzione giudiziaria” (art. 1, comma 2);
b) il “rilascio di interviste o dichiarazioni in violazione dei criteri di equilibrio e misura” (art. 2, comma 1, lettera bb);
c) ogni altro comportamento “tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza” (art. 3, comma 1, lettera l).
Soprattutto quest’ultima disposizione - che, non a caso, nel corso del dibattito originato dal citato caso Apostolico, alcuni avrebbero volute reintrodurre[48] - era espressamente orientata alla garanzia dell’immagine d’imparzialità dei magistrati; d’altra parte, la sua estrema genericità e il connesso rischio che la stessa potesse prestarsi ad attuazioni imprevedibili e potenzialmente illiberali ha convinto il Parlamento a procedere alla sua repentina abrogazione.
Tale vicenda dimostra l’estrema difficoltà in cui si trova il legislatore quando tenta di regolare in astratto fattispecie così impalpabili, essendo arduo fissare una volta per tutte il punto di equilibrio del bilanciamento tra gli interessi coinvolti in questo frangente e alto il rischio di arrecare un vulnus a principi costituzionali più grave del vantaggio che si intende perseguire[49].
Tuttavia, non è forse impossibile immaginare, nel contesto della tipizzazione rigida che caratterizza il sistema italiano di giustizia disciplinare, una fattispecie nuova di illecito, meno indeterminata di quelle appena richiamate, che sia volta a sanzionare i casi più eclatanti di deviazione dai canoni di continenza e riserbo riferiti ad esternazioni del magistrato non direttamente collegate all’esercizio della funzione disciplinare[50].
Per inciso, in linea teorica, un’altra soluzione applicabile, sotto il profilo in senso lato sanzionatorio, potrebbe essere quella del trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge sulle guarentigie della magistratura, ai sensi del quale il C.S.M può adottare tale provvedimento “quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa, [i magistrati n.d.r.] non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità”[51].
Tale soluzione, peraltro, oltre a poter essere utilizzata esclusivamente in casi estremamente gravi e peculiari, per intervenire in maniera rapida in situazioni che, per la loro consistenza obbiettiva, siano idonee a mettere in discussione la credibilità dell’esercizio della funzione giudiziaria in uno specifico contesto, potrebbe essere praticabile soltanto accedendo a una interpretazione dell’art. 2, comma 2, ai sensi della quale per “causa indipendente da loro colpa” si intenda, un pò forzatamente, “prive di rilevanza disciplinare”; interpretazione, com’è noto, sovente accolta e praticata dal C.S.M. ma certamente non priva di controindicazioni[52].
8. … e soft law: la deontologia giudiziaria e il ruolo del C.S.M.
Non è dunque agevole risolvere la questione sul piano dell’intervento “repressivo” del legislatore. Sembrano in definitiva più adeguati - in linea di principio anche in concorso con i primi - strumenti più “morbidi”, di soft law, volti a promuovere comportamenti virtuosi, più che a reprimere e sanzionare le deviazioni dagli stessi.
In questa direzione si pongono alcuni recenti documenti, di carattere sovranazionale e nazionale, citati in precedenza[53].
Limitandomi alle prospettive realizzabili in ambito statale, ne segnalo due, che rappresentano altrettante possibili soluzioni del problema.
Una prima soluzione è rappresentata dalla deontologia giudiziaria e, in particolare, dalle indicazioni contenute nel Codice etico del 2010. Tale documento, all’art. 6, comma 2, sollecita il magistrato a ispirare le proprie condotte a criteri di “equilibrio, dignità e misura”; e, al successivo art. 8, precisa che “il magistrato garantisce e difende, all’esterno e all’interno dell’ordine giudiziario, l’indipendente esercizio delle proprie funzioni e mantiene una immagine di imparzialità e di indipendenza”.
Per inciso, alla luce anche dello sviluppo della tecnologia e dei social media, alcune norme del Codice etico potrebbero essere utilmente aggiornate.
La seconda soluzione risiede in un intervento diretto dell’organo di governo autonomo della magistratura, sulla falsariga di quanto ha fatto di recente, con riguardo alla magistratura amministrativa, il Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa attraverso l’adozione delle “Linee guida sull’utilizzo dei social media”[54].
Tali linee guida sono espressamente dedicate a promuovere le condotte virtuose dei magistrati amministrativi con riguardo alle manifestazioni del loro pensiero soprattutto attraverso i social. Tra di esse si legge che “i magistrati amministrativi utilizzano i social media, quale forma della libertà di manifestazione del pensiero, nel rispetto dei canoni di comportamento da essi esigibili, anche nella vita privata, secondo i codici etici dei magistrati amministrativi e le vigenti norme disciplinari, al fine di salvaguardare il prestigio e l’imparzialità dei singoli magistrati e della giustizia amministrativa nel suo insieme e la fiducia di cui sia i singoli che l’Istituzione devono godere nell’opinione pubblica”; e ancora, che “i magistrati amministrativi fanno un uso dei social media ispirato a parametri di consapevolezza dei rischi e dei vantaggi derivanti dall’utilizzo di tale forma di comunicazione, e di assunzione di responsabilità individuale per comportamenti e dichiarazioni divulgati con tali mezzi”; e infine che “i magistrati amministrativi adottano elevati parametri di continenza espressiva, utilizzando un linguaggio adeguato e prudente rispetto a tutte le interazioni in essere sulle piattaforme di social media, nonché con riferimento al rischio della perdita di controllo del o dei contenuti immessi ed alla tipologia di contenuto oggetto di pubblicazione e diffusione”.
Entrambe le soluzioni, quella del Codice etico e quella delle Linee guida adottate dall’organo di governo autonomo - tra loro non alternative anche se andrebbero probabilmente coordinate - avrebbero il vantaggio della flessibilità, di avere una natura eminentemente promozionale e di essere orientate a costruire una cultura diffusa di attenzione a tali problemi.
Nessuna delle due, peraltro, appare priva di controindicazioni.
Quanto alla prima, lasciare alle sole norme deontologiche il compito di garantire l’immagine d’imparzialità dei magistrati sconta un’evidente debolezza che risiede sia nella stessa natura “fragile” di tali regole, dalla finalità eminentemente persuasiva, sia nel procedimento di formazione delle stesse: ovvero, nella circostanza che la definizione e il rispetto di tali norme è affidato per legge a un’associazione privata (l’A.N.M.) alla quale non tutti i magistrati sono iscritti e dalla quale non tutti potrebbero sentirsi “rappresentati”[55].
Quanto alla seconda, la predisposizione di “Linee guida” da parte dell’organo del governo autonomo della magistratura - in prospettiva il C.S.M. si sta ponendo tale problema[56] - potrebbe far conseguire il risultato con maggiore efficacia ma sconterebbe il rischio di un’eccessiva concentrazione, in capo a tale organo, di molteplici ed eterogenee funzioni: quella promozionale-orientativa propria delle eventuali “Linee guida”, quella disciplinare esercitata dalla Sezione e infine quella riguardante le valutazioni di professionalità.
Concentrazione che, pur da non doversi escludere in modo assoluto, determinerebbe probabilmente alcune criticità[57].
9. Osservazioni conclusive
Difficile, in conclusione, individuare la soluzione più adeguata allo scopo di presidiare il dovere di ciascun magistrato di preservare l’immagine d’imparzialità. L’alternativa tra intervento legislativo in ambito disciplinare, misure di natura deontologica e possibile adozione da parte del C.S.M. di Linee guida comporta, per ciascuna di tali soluzioni, costi e benefici che non rendono agevole la scelta.
In linea di principio, sarebbe possibile pensare ad un intervento su più livelli.
In conclusione, mi sentirei di riprendere l’osservazione fatta in apertura: il tema di cui oggi si discute non è affatto nuovo e il dibattito attuale andrebbe depurato di alcuni evidenti esagerazioni.
Certamente, come detto, sono nuove le forme del comunicare, più dirette, efficaci, immediate, durature e meno controllate, impensabili soltanto qualche anno fa. Circostanza che, pur non mettendo a rischio le coordinate teoriche e giuridiche richiamate in precedenza, inserisce nel bilanciamento relativo ai singoli casi concreti degli elementi inediti di cui occorre tenere conto[58].
Si pensi, a tale proposito, alla circostanza che le manifestazioni del pensiero, quando finiscono nella rete, sono destinate a rimanerci tendenzialmente per sempre e a “spuntare fuori” al momento opportuno, all’esito di una semplice “ricerca”. Dato, quest’ultimo, che, se da un lato sembra rafforzare l’esigenza di equilibrio e misura nelle esternazioni del magistrato, dall’altro lato non può certo rappresentare un fattore di compressione “continuativa” della libertà di espressione.
Altrettanto certamente si sono registrati, nei tempi più recenti, dei protagonismi eccessivi da parte di alcuni magistrati, delle esternazioni abbondantemente sopra le righe, che non hanno fatto un buon servizio alla credibilità della magistratura nel suo insieme. E tuttavia, si è trattato di episodi isolati, in un contesto di una magistratura composta da migliaia di magistrati, spesso i primi a provare imbarazzo dinanzi agli eccessi dei colleghi.
Ma vi è un altro elemento nuovo di cui non si può non tenere conto, ovvero la crescente strumentalizzazione politica del tema.
Ciò che più colpisce, infatti, è la diffusa insofferenza di una larga parte della classe politica nei confronti delle esternazioni non gradite provenienti anche da cittadini-magistrati, che conduce con troppa leggerezza a sollevare polemiche pretestuose circa presunte violazioni dell’imparzialità, con ciò screditando - magari avendo anche altri fini - la legittimità e l’autorità della magistratura come istituzione.
Situazione che non può non preoccupare, perché essa mette a rischio non soltanto il pluralismo democratico ma anche i tratti costitutivi dello Stato di diritto.
[1] Di grande interesse, da ultimo, le riflessioni contenute nel numero monografico di Questione giustizia, n. 1/2 del 2024, intitolato Magistrati: essere o apparire imparziali.
[2] Di recente si sono registrati i casi, pur tra loro diversi, della giudice Iolanda Apostolico - la quale, alcuni anni prima dell’adozione di un provvedimento con il quale non aveva convalidato il trattenimento di uno straniero, aveva partecipato a una manifestazione pubblica a sostegno dei migranti; cfr. per tutti N. Rossi, Il caso Apostolico: essere e apparire imparziali nell’epoca dell’emergenza migratoria, in Questione giustizia, 10 ottobre 2023 - e del consigliere (di nomina governativa) della Corte dei Conti Marcello Degni, autore di un messaggio social nel quale aveva duramente criticato la manovra economica varata dal Governo (cfr. V. Azzolini, Il consigliere della Corte dei Conti Marcello Degni ha sbagliato, il Pd lo censuri senza remore, in Domani, 8 gennaio 2024).
[3] Lo ricorda C. Bologna, La libertà di espressione dei “funzionari”, Bologna, 2020, 150 e, prima ancora, S. De Nardi, La libertà di espressione dei magistrati, Napoli, 2008, 555 s.
[4] Cfr. per tutti A. Pizzorusso, Appunti per lo studio della libertà di opinioni dei funzionari: ambito soggettivo del problema, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, 1631 ss.
[5] Questo il testo completo dell’art. 10, comma 2, C.E.D.U.: “L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.
[6] A. Pizzorusso, Giustizia e giurisdizione: nozioni fondamentali, ora in L’Ordinamento giudiziario, vol. 1, Napoli, 2019, 13.
[7] Cfr. P. Gaeta, Poteri e garanzie (la magistratura), in Enc. Dir., Milano, 2023, 843 ss.
[8] Per quanto la Corte costituzionale le richiami sovente come se fossero intercambiabili (cfr. Corte cost., sent. n. 240/2003), è utile precisare che imparzialità e terzietà, spesso associate, non sono concetti del tutto sovrapponibili: l’imparzialità attiene alla posizione sostanziale del magistrato rispetto agli interessi in gioco nel processo mentre la terzietà evoca una collocazione anche formale di equidistanza dalle parti.
A tale proposito può dirsi che la terzietà rappresenta la forma più intensa d’imparzialità, richiesta al solo magistrato giudicante, mentre l’imparzialità contraddistingue anche il magistrato requirente, che assume il ruolo di parte nel processo, sebbene, a differenza dell’avvocato difensore, di parte pubblica.
A tale proposito v. Corte cost., sent. n. 34/2020, dove si evidenzia l’“asimmetria strutturale” tra i due principali antagonisti del processo penale e si sottolinea che il principio di parità non si traduce in un’assoluta simmetria di poteri: l’avvocato e il pubblico ministero sono due realtà tra loro “irriducibili”, nella misura in cui il primo è un privato professionista il cui mandato è quello di assicurare al meglio gli interessi del suo assistito, a prescindere dal dato sostanziale della sua colpevolezza o innocenza (ovvero difendere i suoi diritti fondamentali: in primis, la sua libertà personale), mentre l’altro è un soggetto pubblico, che agisce nell’esercizio di un potere ed è chiamato a garantire l’interesse generale alla ricerca della verità nel processo.
[9] Corte cost., sentt. nn. 60/1969 e 155/1996.
[10] È del tutto ovvio che il giudice, avendo il compito di decidere, deve alla fine, per così dire, scegliere una parte, ovvero distribuire i torti e le ragioni, ma ciò avviene sulla base di un percorso e di un atteggiamento in partenza disinteressato ed equidistante.
[11] Corte cost., sent. n. 18/1989.
[12] Cfr. L. De Renzis, L’imparzialità del giudice: un obiettivo raggiungibile, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 20 ss.
[13] Così A. Tedoldi, Astensione, ricusazione e responsabilità dei giudici, in Commentario del Codice di Procedura Civile, a cura di S. Chiarloni, Libro primo: Disposizioni generali, 54.
[14] Cass. civ., sez. un., sent. n. 24148/2013.
[15] Analogamente, con riguardo all’art. 34 c.p.p., la Corte costituzionale ha ricordato che la disciplina della incompatibilità del giudice per atti già compiuti nel procedimento è volta a garantire il “giusto processo” tramite “un giudizio imparziale, che non sia né possa apparire condizionato da precedenti valutazioni del giudice” (Corte cost., sent. n. 177/1996).
[16] Cfr. Volpi, L’imparzialità dei magistrati e la loro partecipazione alla vita politico-sociale, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 57 ss.
[17] Così Corte cost., sent. n. 135/1975.
[18] Cfr., per tutti, M. Cappelletti, Giudici legislatori?, Milano, 1984, I ss.
[19] M. Barberis, Separazione dei poteri e teoria giusrealista dell’interpretazione, in Analisi del diritto 2004. Ricerche di giurisprudenza analitica, a cura di P. Comanducci e G. Guastini, Torino, 2005, 1 ss.
In argomento, da ultimo, cfr. I. Massa Pinto, Il dilemma del giudice che non deve produrre diritto, ma che non può non produrlo: il costituzionalismo e le ragioni di Creonte, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 90 ss.
È noto che, nell’esperienza italiana, uno snodo cruciale del cammino verso la suddetta consapevolezza è stato rappresentato dal Convegno di Gardone nel 1965, in occasione del quale, tra gli orientamenti più radicali, si manifestò addirittura l’idea secondo cui i magistrati avrebbero dovuto essere considerati portatori di un proprio “indirizzo politico-costituzionale”; cfr. G. Maranini, Funzione giurisdizionale e indirizzo politico nella Costituzione, in Funzione giurisdizionale ed indirizzo politico nella Costituzione, Atti del XII Congresso nazionale magistrati italiani, Gardone Riviera, 25-28 settembre 1965, Roma, 1966, 7 ss.
Nella mozione finale del Convegno di Gardone viene espressamente rifiutata “la concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad un’attività puramente formalistica, indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese”, per affermare che “il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione giudiziaria, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione”. La mozione è ripresa in A. Pizzorusso (a cura di), L’ordinamento giudiziario, Bologna, 1974, 31, in nota.
[20] Cfr. ora, per tutti, M. Luciani, Ogni cosa al suo posto, Milano 2023, spec. 147 ss.
[21] Cfr. G. Persico, La nuova magistratura, Roma, 1945, 46, che osservava, allora, che i magistrati “dovranno considerare la loro missione come un vero e proprio sacerdozio …”.
[22] G. Silvestri, Imparzialità del magistrato e credibilità della magistratura, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 42 ss.
[23] N. Rossi, Sull’imparzialità dei magistrati: intelligenze e competenze diverse a confronto, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 7.
[24] T. Giovannetti, I magistrati, la politica e l’insostenibile peso dell’apparenza, in Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti, a cura di G. Campanelli, F. Dal Canto, E. Malfatti, S. Panizza, P. Passaglia e A. Pertici, Torino, 2010, 371 ss.
[25] Analogamente sul punto, v. anche Corte cost., sent. n. 170/2018.
[26] Cfr., per i magistrati, l’art. 9 del r.d. n. 12/1941.
[27] Così R. Rordorf, L’art. 54 della Costituzione, in La magistratura, 22 aprile 2022.
Per un “rilancio” del dovere sotteso alla “disciplina ed onore” dei funzionari pubblici, v. F. Merloni, R. Cavallo Perin (a cura di), Al servizio della Nazione, Milano, 2009, 1 ss.
[28] Analogamente, cfr. P. Curzio, Una questione di fiducia, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 50 ss.
[29] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, 1954, 239.
Di recente il Capo dello Stato ha ricordato che “l’imparzialità della decisione va tutelata anche attraverso l’irreprensibilità e la riservatezza dei comportamenti individuali, così da evitare il pericolo di apparire condizionabili o di parte” (S. Mattarella, Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i magistrati ordinari in tirocinio, 15 giugno 2023, disponibile su www.quirinale.it.).
[30] Cfr. C.G.U.E., C-585/18 del 19 novembre 2019, richiamata anche in R. Sanlorenzo-E. Scoditti, Presentazione. Le ragioni di questo fascicolo, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 9.
[31] Vicenda cui si riferiscono anche le già citate pronunce costituzionali nn. 224/2009 e 170/2018. Per un esame di tale complessa vicenda giudiziaria sia consentito il rinvio a F. Dal Canto, Magistrati e impegno politico: problemi e prospettive a partire dalla recente definizione della vicenda Emiliano, in Giustizia insieme, 21 luglio 2020.
[32] Cass. civ, sez. un., sent. n. 8906/2020. Cfr. anche Corte Cost., sent. n. 197/2018 e ord. n. 81/1995.
[33] Cfr., ex multis, Corte E.D.U., Danilet v. Romania, sent. 20 febbraio 2024; Daineliene v. Lituania, sent. 16 ottobre 2018; Kamenos contro Cipro, sent. 31 ottobre 2017; Morice v. Francia, sent., Grande Camera, 23 aprile 2015; Dragojevic v. Croazia, sent. 15 gennaio 2015; Di Giovanni v. Italia, sent. n. 9 luglio 2013; Castello Algar v. Spagna, 28 ottobre 1998; Piersack v. Belgio, sent. 1° ottobre 1982.
[34] L. Ferrajoli, Etica e giurisdizione. I fondamenti teorici, in Scuola superiore della magistratura, 15 aprile 2024, di cui si riporta il seguente brano: “non è il consenso, ma la fiducia dei cittadini e soprattutto delle parti in causa, primi tra tutti gli imputati, il banco di prova del tasso di legittimità dei magistrati. Consenso e fiducia sono sentimenti tra loro diversi. Il consenso è l’adesione o la condivisione del merito dei provvedimenti giudiziari, frutto talora delle pressioni dell’opinione pubblica e dell’inclinazione dei giudici a soddisfarle. La fiducia riguarda invece la correttezza, la soggezione alla legge, il rispetto delle garanzie e l’indipendenza dei magistrati ed è anzi tanto maggiore quanto più è sorretta dalla convinzione che essi siano capaci, ripeto, di assolvere quando tutti pretendono la condanna e di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione”.
[35] Così G. Silvestri, Imparzialità del magistrato e credibilità della magistratura, cit., 44.
[36] Ai sensi del quale veniva sanzionato disciplinarmente il magistrato che teneva una condotta che lo rendeva “immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere” o comprometteva “il prestigio dell’ordine giudiziario”; com’è noto, tale previsione è stata abrogata con il d.lgs. n. 109/2006.
[37] Cfr., in particolare, l’art. 6, ripreso più avanti nel testo.
Si veda anche, di recente, la Mozione del 36° Congresso dell’A.N.M., svoltosi a Palermo il 12 maggio 2024, disponibile su www.anm.it., ove si legge, tra l’altro: “proprio perché riteniamo che il contributo del magistrato possa essere particolarmente qualificato per l’apporto delle specifiche ed uniche peculiarità professionali, è importante che queste traspaiono nella scelta del linguaggio e dell’argomentazione, evidenziando così anche le differenze rispetto alla comunicazione pubblica del politico o di portatori di diverse culture”.
[38] Parere n. 25/2022 del Comitato consultivo dei Giudici europei, adottato a Strasburgo il 2 dicembre 2022, dedicato alla Libertà di espressione, reperibile su www.coe.int/CCJE, sul quale si veda E. Bruti Liberati, La libertà di espressione dei giudici in Europa, in Questione giustizia, 2023.
[39] Cfr. N. Rossi, Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in Questione giustizia, n. 4/2018, 250, il quale raccomanda che il magistrato “parli e argomenti in modo chiaro e comprensibile, che partecipi al dibattito pubblico come un attore razionale, capace di ascolto degli argomenti altrui e di repliche meditate; che non prorompa nell’urlo fazioso, nell’invettiva, nella semplificazione magari brillante ma brutale e fuorviante”.
Cfr. anche V. Roppo, Su imparzialità e indipendenza del magistrato: concetti, principi, casi, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 55.
[40] Cfr. G. Silvestri, Imparzialità del magistrato e credibilità della magistratura, cit., 46.
Cfr. anche C. Bologna, La libertà di espressione dei “funzionari”, cit., spec. 188 ss., che invita ad evitare la “tirannia dell’apparenza”.
[41] In argomento, entrami criticamente, cfr. T. Giovannetti, I magistrati, la politica e l’insostenibile peso dell’apparenza, cit., 378 e L. Pepino,Apparire imparziali: ma agli occhi di chi? in Magistrati: essere e apparire imparziali, cit., 47 ss., che legge nella richiesta ai giudici di apparire imparziali un disegno di omologazione alla maggioranza e al pensiero dominante.
[42] Cfr. Mozione del 36° Congresso A.N.M., cit., 2, ove si legge: “Più in generale è necessario prendere atto che, per una parte dell’uditorio, le dichiarazioni rese dal magistrato vengono percepite quali espressioni di pensieri e valori riferibili all’intera magistratura e la comunicazione deve quindi adeguarsi a questo dato quanto a scelta dei temi, stile e contenuti. Siamo consapevoli della difficoltà di perimetrare un ambito predefinito dei temi, ma certamente ne fanno parte quelli attinenti alla funzione, al ruolo e alle attribuzioni della magistratura, così come quelli correlati alle leggi sostanziali e processuali che ne governano l’operato, comprese quelle che definiscono, accrescono o restringono il catalogo dei diritti. Né possono essere esclusi i temi che, essendo pertinenti all’equilibrio tra i poteri definiti dalla Costituzione, incidono, anche indirettamente, sul ruolo della giurisdizione rispetto agli altri poteri pubblici. Non vi è dubbio che, in ogni caso, il magistrato debba sempre interrogarsi se vi sia un interesse a ricevere le sue opinioni e valutazioni e se la sua cultura e la sua esperienza possano arricchire in modo qualificante il dibattito pubblico sul tema specifico, ovvero essere di pari valore rispetto a quelle espresse da ogni altro cittadino”.
[43] Cfr. Corte E.D.U., San Leonard Band Club v. Malta, sent. 29 luglio 2004; Buscemi v. Italia, sent. 16 settembre 1999. In dottrina, cfr. F. Buffa, La libertà di espressione dei magistrati e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 313 ss.
[44] Cfr. Corte cost., sent. n. 100/1981.
[45] Cfr. ancora Corte cost., sent. n. 100/1981.
[46] Cfr. R. Pinardi, La libertà di manifestazione del pensiero dei magistrati nella giurisprudenza costituzionale e disciplinare, in A. Pizzorusso, R. Romboli, A. Ruggeri, A. Saitta, G. Silvestri (a cura di), Libertà di manifestazione del pensiero e giurisprudenza costituzionale, Milano, 2005, 293 ss.
[47] Cfr. L. Imarisio, La libertà di espressione dei magistrati tra responsabilità disciplinare, responsabilità deontologica ed equilibri del sistema informativo, in Magistratura e democrazia italiana: problemi e prospettive, Napoli, 2010, 260 ss.
[48] Cfr. A. Carestia, La violazione del dovere del giudice di essere e apparire imparziale, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 181, che richiama, a tale proposito, la risposta a un’interrogazione parlamentare del ministro della Giustizia Nordio.
[49] In linea di principio si potrebbero distinguere diverse tipologie di manifestazioni del pensiero rese fuori dall’esercizio della funzione (dichiarazioni alla stampa, partecipazione a dibattiti pubblici, interventi in convegni di natura scientifica, ecc.), ma rimarrebbe comunque decisivo il singolo caso.
[50] Cfr. S. R. Vinceti, Magistrati e social media: una riflessione alla luce dell’esperienza statunitense, in Media laws, 26 ottobre 2023, 181 ss.
[51] Cfr. art. 2, comma 2, del r. d. lgs. n. 511/1946, come modificato dall’art. 26 del d. lgs. n. 109/2006.
[52] Cfr. F. Troncone, Il trasferimento d’ufficio in via amministrativa dei magistrati: le visioni del governo autonomo e le conseguenti declinazioni dei limiti interni dell’istituto, in R. Balduzzi (a cura di), La riforma della legislazione del Consiglio superiore della magistratura, Milano, 2022, 148 ss.
[53] Sul piano sovranazionale si veda il Parere n. 25/2022 del Comitato consultivo dei Giudici europei, citato alla nota 37. In argomento cfr. G. Grasso, Riferimenti internazionali e comparati sui rapporti tra giustizia, comunicazione e informazione, in Scuola Superiore della Magistratura, Comunicazione e giustizia, Torino, 2024, 3 ss.
[54] Cfr. delibera n. 40 del 25/03/2021.
[55] Cfr. art. 58-bis del d. lgs. n. 29/1993 (introdotto con l’art. 26 del d. lgs. n. 546/1993), i cui contenuti sono stati successivamente trasfusi, con qualche modifica, nell’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001 e poi ulteriormente modificati con l’art. 1 della legge n. 190/2012: all’art. 54, comma 4, del decreto n. 165, nel testo vigente, si prevede che, “per ciascuna magistratura e per l’Avvocatura dello Stato, gli organi delle associazioni di categoria adottano un codice etico a cui devono aderire gli appartenenti alla magistratura interessata. In caso di inerzia, il codice è adottato dall’organo di autogoverno”.
Si noti la formula, introdotta nel 2012, “devono aderire”, che impone l’adesione al Codice anche ai magistrati non iscritti all’A.N.M. (ovviamente per quanto riguarda la magistratura ordinaria), considerando implicitamente quest’ultima una sorta di “sindacato” rappresentativo dell’intera categoria. Si noti, inoltre, la “stranezza” per cui, in caso d’inerzia dell’A.N.M., è il C.S.M. a dover intervenire per adottare il codice deontologico.
In argomento cfr. L. Aschettino, D. Bifulco, H. Epineuse e R. Sabato (a cura di), Deontologia giudiziaria. Il Codice etico alla prova dei primi dieci anni, Napoli, 2006, 1 ss.
[56] Proprio dal C.S.M. è stato organizzato nei giorni 16-17 maggio 2024 un Incontro di studio dal titolo La magistratura e i social network,espressamente finalizzato a “trovare risposte” da offrire ai magistrati (consultabile su https://www.youtube.com/@ConsiglioSuperioreMagistratura).
[57] Già A. Pizzorusso, Il “codice etico” dei magistrati, in L. Aschettino, D. Bifulco, H. Epineuse e R. Sabato (a cura di), Deontologia giudiziaria, cit., 56, con specifico riferimento all’eventualità che il C.S.M. approvasse il codice deontologico in caso di inerzia dell’A.N.M., osservava come tale prospettiva mal si conciliasse con la titolarità, sempre in capo al C.S.M., della funzione disciplinare.
[58] Cfr. S. R. Vinceti, Magistrati e social media, cit., 181 ss.
Immagine: Vuk Cosic, Raging Bull, Video, 1999.
Sommario: 1. Dall'aurora boreale all'incerta luce dell'alba; 2. I magistrati tributari che verranno; 3. L’ordinamento della magistratura e l’organizzazione delle Corti; 4. Un “tema speciale”: la Corte di giustizia tributaria centrale; 5. In conclusione
1. Dall'aurora boreale all'incerta luce dell'alba
Il 7 giugno scorso è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il bando del primo concorso esterno per la nuova magistratura tributaria professionale italiana istituita dalla legge 130/2022. Si avvia dunque il percorso di una riforma istituzionale della quale si è parlato a lungo negli scorsi decenni, anche se essenzialmente nella ristretta cerchia degli "addetti ai lavori". Una netta accelerazione si è avuta con la costituzione -nel 2021- della Commissione di studio per la riforma della giustizia tributaria, presieduta dal prof. Giacinto della Cananea, voluta dagli allora ministri della giustizia Cartabia e dell’economia/finanze Franco.
Come noto, la Commissione si è spaccata in due. La maggioranza dei componenti (quelli di provenienza accademica/professionale) ha presentato una articolata proposta normativa che prevedeva appunto un giudice speciale professionale di primo e secondo grado, a “tempo pieno”, assunto per concorso come le altre magistrature. Una minoranza di componenti (quelli di appartenenza magistratuale) ha contro proposto un intervento più limitato, che invece manteneva, almeno in via transitoria, il vecchio ordinamento per il primo grado ed interveniva in via mirata (rilevanza delle cause/delimitazioni territoriali) solo per il grado di appello.
Erano due “filosofie di intervento” molto distanti tra loro che, nonostante qualche sforzo, non è stato possibile conciliare e fondere in qualche forma di compromesso. La “minoranza” della Commissione della Cananea soprattutto obiettava che fare una magistratura “nuova di zecca” era un’impresa di notevole difficoltà e che richiedeva molto tempo, quindi implicava un’inevitabile, incerta, soprattutto lunga fase di transizione dal “vecchio” al “nuovo” assetto.
Ma la maggioranza di quella Commissione ha ritenuto che la strada della “quinta magistratura” era assolutamente indispensabile per garantire un livello più stabile e qualitativamente elevato della produzione giurisdizionale tributaria di merito, ad ogni costo ed ogni tempo di attuazione.
Erano forse troppo “realisti” i primi, sicuramente sono stati molto “illuministi” i secondi.
Forse bisognava intraprendere una strada totalmente diversa, la meno complessa, la più affidabile e costituzionalmente compatibile: “ordinarizzare” la giurisdizione tributaria nei due gradi di merito e quindi portarla all’interno dello stesso sistema generale, prefigurato dalla Costituzione repubblicana, con al vertice la Corte di Cassazione.[1]
Tuttavia, non sempre le idee meno complesse e perciò più realizzabili hanno fortuna nelle vicende umane e della politica legislativa in particolare. Anzi, nel nostro Paese parrebbe esattamente il contrario.
In questo caso poi hanno congiurato almeno tre fattori contrari non superabili: una posizione pregiudiziale contraria al giudice ordinario e favorevole a quello speciale di tutta o quasi la dottrina tributaristica, a partire dagli opinion leaders, che si sono fatti sentire con tutto il loro peso anche nella stessa Commissione della Cananea; il timore recondito della categoria di difensori professionali più interessata (commercialisti) di perdere un sostanziale monopolio; il disinteresse, se non addirittura la contrarietà espressa, della magistratura ordinaria a vedersi recapitata una competenza giurisdizionale aggiuntiva di notevole rilevanza sia quantitativa che qualitativa, senza garanzie di un correlato, necessario ed importante, aumento delle risorse personali e materiali per poterla adeguatamente affrontare.
A ciò, di per sé bastevole, va aggiunto un MEF molto poco propenso a rilasciare al ministero della giustizia un settore di attività giudiziaria che ha sempre considerato come “suo”, nelle varie accezioni, più o meno “politicamente corrette”, di questo termine.
Tant’è, è andata così. La Commissione della Cananea ha prodotto quelle proposte, sulla sua scia, nel convulso finale di legislatura, a camere sciolte, un pdl governativo generato in poche settimane è arrivato in Parlamento, che in una sola settimana, nel caldo agostano, ha generato la legge 31 agosto 2022, n. 130.
Sarebbe abbastanza sciocco pensare che si tratti di una scelta reversibile, ma altrettanto sarebbe pensare che les jeux sont faits. Anzi, con questo primo concorso esterno il “gioco” della quinta magistratura professionale italiana è solo al suo -timido/impacciato- inizio, dopo il clamoroso fallimento dell’opzione dei giudici tributari “togati”.
Adesso dunque, le “donne e gli uomini di buona volontà” che in qualche modo e misura sono interessati dall’attuazione di questa “riforma” hanno il dovere istituzionale e morale di almeno provare a farla decollare.
Non è un’impresa semplice, per nulla.
Di seguito si proverà ad illustrarne le difficoltà, evidenti, e a metterne in luce le opportunità, che pure ci possono essere, ma a determinate condizioni culturali e “di sistema”.
2. I magistrati tributari che verranno
Partiamo dalla questione delle risorse di personale giudicante ossia dai protagonisti di questa nuova magistratura.
Come detto, i professionisti delle altre magistrature hanno risposto negativamente all’ “appello” della legge 130/22. Su 100 posti a disposizione (50 per gli ordinari), hanno esercitato l’opzione in 22 (18 ordinari).
Non poteva andare diversamente: troppa incertezza sullo status giuridico ed economico; mancanza totale di un correlato disegno organizzativo (chi andrà a fare cosa e dove, salvo il “minimo sindacale garantito” della permanenza nella sede “tributaria” pregressa). Così ne sono mancati 78 ed è quindi mancato quel “nerbo iniziale” che doveva favorire la start up della riforma, “preferibilmente” nel grado di appello.
Peraltro, riflettendo sull’opzione fallita, si rende evidente soprattutto una prima, grave, aporia della riforma medesima: le nuove Corti di giustizia tributaria, implementate via via dal corpus di magistrati assunti per concorso ed a “tempo pieno” da chi verranno dirette? Dagli attuali Capi di Corte part time? Forse per le realtà più piccole (tante, troppe) può essere ipotizzabile. Non lo è per quelle più grandi.
Risulta allora chiaro che, fino a che, oltre i 22 che già ci sono, la nuova magistratura non avrà prodotto i “suoi” dirigenti, ci vorranno “vescovi” e “cardinali” stranieri, che non possono essere trovati se non nelle altre magistrature professionali e, per la legge dei “grandi numeri”, soprattutto in quella ordinaria.
Appare pertanto indispensabile riaprire a queste categorie l’opzione di transito nella magistratura tributariafull time, ma questa volta farlo in modo adeguato, con una visione d’assieme. Quindi bisogna dare ai potenziali optanti garanzie personali di natura ordinamentale/economica ed avere un’idea precisa sul dove allocare queste, indispensabili, risorse umane dirigenziali.
Tutto sommato è più semplice risolvere la prima questione, lo è invece molto meno la seconda, poiché ha una correlazione inscindibile con il grande tema organizzativo della revisione della “geografia” delle Corti di giustizia tributaria di primo e di secondo grado. Senza questo collegamento non è infatti possibile dare un senso oggettivo, completo, razionale a tale misura, che pure, di per sé, come detto appare non evitabile.
Questa prima riflessione è strategica, ma vale soltanto per la “testa” della quinta magistratura, per la sua dirigenza. Poi ci sono tutti gli altri magistrati, quelli che devono arrivare a completarne l’organico.
Adesso si parte con il primo concorso ed è lapalissiano dire che bisognerà partire nel migliore dei modi. [2]Chiare sono le difficoltà, non essendoci che le regole -minime- della legge 130/2022, più volte modificata e la lex bandi che la attua. Nessuna esperienza applicativa, a partire dai suoi criteri. Si tratta dunque di un compito delicatissimo, con più soggetti istituzionali coinvolti: il MEF che organizza, il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria che sovraintende, la Commissione esaminatrice che concretizza la procedura concorsuale.
Le incognite/variabili sono molte e quello che accadrà la prima volta segnerà la strada di quelle successive (previste nel 2026/2029). Con la prima selezione saranno infatti messe le “basi soggettive” della nuova giurisdizione, la parte più sensibile, la più difficile della “sfida riformatrice”. Tuttavia, far nascere una magistratura da un concorso è la condizione costituzionalmente necessaria, ma il percorso di “costituzionalizzazione sostanziale” di una magistratura ha molti profili, nessuno di semplice e facile realizzazione.
Chi entra nelle magistrature attuali trova un ambiente professionale consolidato, fatto di prassi, di relazioni interpersonali, di norme ordinamentali. Trova Scuole superiori ed affidatari che ne curano il tirocinio di formazione iniziale e poi permanente. Trova un autogoverno strutturato, anche al livello locale. Insomma trova un apparato organizzativo.
I 22 “volonterosi optanti” ed i 146 vincitori del primo concorso non troveranno tutto questo, ma solo una sua pallida replica, anzi, troveranno solo un cantiere aperto, nel quale dovranno mettersi a lavorare con pochi punti di riferimento precisi. Non è certo il modo migliore per iniziare, per loro, ma anche per il sistema di giustizia che si vuole avviare, quasi avventurosamente, tipo: li buttiamo in acqua così imparano a nuotare (o vanno a fondo …).
Risulta perciò evidente che, nel tempo che ci sarà prima che la carica dei 146 arrivi sulla linea del fuoco, bisognerà approntare almeno le condizioni minime perché non finisca male.
Quindi organizzare una rete di formatori on the job; mettere la Scuola superiore della magistratura tributaria in condizione di operare; dare dei punti di riferimento dirigenziali solidi; rafforzare, di molto, il ruolo dell’autogoverno.
Altrimenti la sfida rimane solo quella che -geneticamente- è: un azzardo.
E fin qui non si è fatto ancora praticamente nulla per queste misure complementari indispensabili. Sperabile che qualcosa si faccia. Presto.
Comunque sia, selezionati al meglio di quello che con un concorso si può fare, accolti in modo adeguato ed adeguatamente “tirocinati”, il compito più difficile per i nuovi magistrati tributari, la parte più importante della loro “costituzionalizzazione sostanziale”, individuale e collettiva, sarà però quella di acquisire, immediatamente, dalla prima sentenza, il senso profondo della giurisdizione, nella sua dimensione culturale. Dovranno introiettare l’autonomia, l’indipendenza, l’imparzialità ossia le caratteristiche consustanziali dell’essere giudice nel quadro costituzionale italiano ed unionale europeo.
E questo non è né semplice né scontato, in un tempo nel quale la tendenza alla “burocratizzazione” è indubbiamente forte e vieppiù in una materia che vede una fortissima contrapposizione tra l’ “interesse fiscale” ed i “diritti del contribuente”. Determinare la giusta imposta, che è lo specifico compito costituzionale ed unionale del giudice tributario, implica infatti una grande competenza tecnica, ma una ancora più grande cultura degli obblighi e dei diritti; richiede un particolare equilibrio di pensiero; impone un’interpretazione davvero sentita della funzione giudicante, ovviamente senza “esagerazioni di senso”.
A tal fine, il “tempo pieno”, la specializzazione, da soli non bastano affatto. È invece necessario che la nuova magistratura acquisisca da subito l’habitus mentale che le compete, al pari delle altre esistenti, che acquisisca l’immediata consapevolezza del proprio ruolo di regolazione delle crisi di cooperazione, tantissime, che in Italia si concretizzano nella, "difficile", attuazione dei tributi. Insomma la "quinta magistratura" deve mettersi a fare giurisdizione, senza se, senza ma, con la guida dei principi costituzionali ed unionali, interpretando ed applicando la legge tributaria.
Qui sta la parte più delicata della sfida riformatrice e qui sta la chiave del suo successo.
Chi ha voluto “questa riforma”, nonostante tutti gli avvertimenti, ne ha forse sottovalutato questo aspetto, essenziale. Ora però, come detto, è inutile sottolinearlo. Bisogna quindi operare nel senso del “successo”, che pure è possibile.
3. L’ordinamento della magistratura e l’organizzazione delle Corti
Servono dunque risorse di personale giudicante all’altezza, sotto ogni profilo, tecnico e culturale, ma servono anche ordinamento (norme di) e strutture organizzative.
L’ordinamento della giustizia tributaria attuale è un vestito di Arlecchino, con molte toppe e tanti buchi. Il d.lgs. 545/1992, stravolto dalla legge 130/2022 e modifiche successive, fotografa la “transizione”. È quindi chiaro che la nuova magistratura necessita di un nuovo ordinamento, autonomo e completo in ogni sua parte, com’è per le altre (legge “archetipo” è quella, pur anch’essa molto novellata, di ordinamento giudiziario ordinario).
Ma, come noto, la normazione primaria è tutt’altro che sufficiente a “dare le regole” ad una magistratura: serve infatti quella secondaria attuativa/integrativa. E serve quindi chi la fa, che nel sistema della Costituzione e delle Carte europee, non possono essere che gli organi di governo autonomo.
Il CPGT nella strutturazione organizzativa attuale è inadeguato a questo ruolo (ma anche più in generale), a partire dalla disponibilità del tempo dei suoi componenti, per proseguire con le strutture materiali e con l’organizzazione del personale ausiliario. Oggi, è soltanto un organo di autogoverno per una magistratura “onoraria”, com’era quella preesistente.
Così com’è, il Consiglio non può affrontare utilmente nemmeno la start up di quella nuova e dunque il suo rafforzamento generale si presenta come questione del tutto necessaria ed urgente. Bene nemmeno pensare che questo non sia presto fatto, giacché altrimenti si autorizzano soltanto letture malevoli sulla volontà politica di garantire, sul serio, l’indipendenza e l’autonomia, individuale e collettiva (nel senso sopra detto) della magistratura tributaria.
Quanto alle strutture organizzative, bisogna partire dall’affermazione, difficilmente smentibile, che le Corti di giustizia tributaria [3] sono troppe e vanno ridotte. Questo è sicuramente il “punto chiave” di ogni possibile ed auspicabile ristrutturazione dell’offerta territoriale giurisdizionale di settore. È una questione nient’affatto semplice, multifattoriale, molto condizionata dai campanilismi politici, quindi da affrontare con tantissimo buon senso, pur non privo della necessaria determinazione. Probabilmente, la soluzione “di massima”, il compromesso sta nel salvaguardare il più possibile la “prossimità” del primo grado del giudizio, cercando invece di concentrarne il secondo grado. I modi sono più di uno (accorpamenti, sezioni distaccate, gestione amministrativa del personale giudicante ed ausiliario).
L’organico della nuova magistratura è 576, 128 in appello, gli altri in primo grado. È del tutto evidente che con l’organizzazione attuale non è possibile un’equa ed efficiente redistribuzione territoriale dello stesso. Quindi il tema della “revisione della geografia” è decisivo. Su di esso la leale cooperazione tra plesso politico (Governo-MEF/Parlamento) ed autogoverno (CPGT) è del tutto imposta dai principi e dal buon senso.
4. Un “tema speciale”: la Corte di giustizia tributaria centrale
Tra le, molte, contraddizioni, della riforma della giustizia tributaria, forse quella di percezione meno immediata è il mantenimento della “scissione” ordinamentale tra giurisdizione di merito e giurisdizione di legittimità, speciale la prima, ordinaria la seconda.
Questo vero è proprio vulnus -che già tanti problemi ha creato, soprattutto dopo il 1996, quando è entrata in vigore la riforma del 1992 e quindi dopo la soppressione della Commissione tributaria centrale [4]- è destinato nel medio-lungo periodo a diventare un problema serissimo.
A ben vedere infatti la creazione della “quinta magistratura”, non subito, ma presto, sicuramente tra qualche anno, realizza la situazione -anomala- che un ordine professionale specializzato dedicato farà una “giurisprudenza sotto tutela” del vertice di una giurisdizione con la quale, nemmeno di fatto, avrà più niente a che fare. Infatti, tra non molti anni, l’ampio serbatoio di giudici tributari del “ruolo unico” che appartengono alla giurisdizione ordinaria sarà esaurito. Quindi, le pronunce dei giudici tributari verranno sindacate, pur nei limiti della legittimità, da una Sezione “specializzata” della Corte di Cassazione (ex art. 3, legge 130/2022) formata, a quel punto, da magistrati che non hanno mai esercitato, nemmeno part time, la funzione dei primi.[5]
È davvero difficile pensare che questa sia una buona cosa e soprattutto che possa reggere nel tempo. Dunque bisognerà fare qualcosa e qualcosa si è proposto di fare.[6]
Appare ormai chiaro che la migliore soluzione, la più ragionevole, è senz'altro la revisione dell’art. 111, ottavo comma, Cost., con l'attribuzione alle Corti di giustizia tributaria dello stesso status di autonomia giurisdizionale del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, quindi limitando l'impugnabilità per cassazione delle decisioni tributarie alle sole questioni di giurisdizione.[7]
Tuttavia, a parte le difficoltà di qualsiasi revisione costituzionale, soprattutto in materia di giustizia, ve n’è una, per così dire, “di fatto”, che non può essere assolutamente trascurata, pena il rischio di un corto circuitogravissimo nel sistema della giustizia tributaria.
La revisione costituzionale deve essere infatti necessariamente preceduta da un abbattimento drastico dell’arretrato della Cassazione, altrimenti si profilerebbe un periodo transitorio lungo nel quale coesisterebbero “due nomofilachie”, quella vecchia e quella nuova. È del tutto evidente che questo -inevitabile- effetto di una revisione costituzionale non adeguatamente “preparata” sarebbe quanto di più manifestamente irrazionale. In ogni caso il Paese non se lo potrebbe permettere.
Ed allora l’istituzione medio tempore di una Corte di giustizia tributaria centrale, oltre agli altri pregi [8], porterebbe con sé questa "dote essenziale": rendere attuabile, volendolo, nel medio periodo, un percorso di avvicinamento alla completa autonomia ordinamentale e funzionale del nuovo plesso giurisdizionale.
E non pare affatto poco.
5. In conclusione
È dunque difficile salutare senza preoccupazione la pubblicazione del primo bando di concorso per magistrato tributario, anche senza voler trasmetterne un influsso negativo sui tanti che si accingono a questa prova, alla cui competenza ed impegno è principalmente affidato il passaggio dall'alba al pieno giorno della riforma,
Tuttavia, bisogna confidare che la necessità generi virtù. Questo può e deve accadere, ma sarà così solo alla condizione che i vari protagonisti di questa nuova storia istituzionale facciano fino in fondo la parte loro assegnata, che abbiano la piena contezza dei problemi e chiaro il modo per risolverli, che sappiano interagire.
Purtroppo, all’avvio della procedura concorsuale non sembra che sia effettivamente questa la situazione, quanto piuttosto, come avviene in Italia, ci sia ancora molta, come dire, “rilassatezza” in ordine alle mosse da fare. Soprattutto risulta davvero poco avvertita l’esigenza di un lavoro comune per la realizzazione della riforma della giustizia tributaria, quasi una trovatella alla ricerca di punti di riferimento che le diano la forza e la spinta per andare avanti con la giusta velocità e nel modo migliore.
Il tempo che abbiamo davanti dirà se le troverà.
[1] Cfr. E.MANZON, Per una riforma ordinamentale “possibile” della giustizia tributaria, in questa Rivista, 9 dicembre 2020.
[2] Denominazione ridondante, forse frutto del caldo agostano nel quale è stata coniata. Assai preferibile quella, più semplice e tradizionale, di Tribunale tributario e Corte tributaria di appello. Chissà se in qualche “ritocco” della riforma, magari in una stagione più fredda, questo non si possa fare. Magari proprio in sede di revisione della “geografia” degli organi di giustizia tributaria.
[3] V. E. MANZON, F. PISTOLESI, Una “cassazione speciale” da affiancare alla cassazione ordinaria: brevi appunti sull’idea di una Corte di giustizia tributaria centrale, in questa Rivista, 28 marzo 2024.
[5] cfr. C. GLENDI, Rinvio pregiudiziale nel processo tributario? Antinomie ai vertici, da risolvere presto e bene, in Diritto e pratica tributaria, n. 2/2023, 605.
[6] Cfr. E.MANZON, F. PISTOLESI, cit.
[7] cfr. C. GLENDI, L'incompiuta riforma della Cassazione tributaria. Cosa manca, in Diritto e pratica tributaria, n. 2/2023, 609.
[8] Cfr. E.MANZON, F. PISTOLESI, cit.
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