L’indipendenza della magistratura. Storia, attualità, prospettive
(Università di Genova 24 maggio 2024)
Relazione introduttiva
di Roberto Romboli
Sommario: 1. Premessa: il significato della indipendenza della magistratura e le ipotesi di riforma attualmente in discussione. – 2. L’indipendenza esterna: l’autonomia da ogni altro potere e la proposta di sopprimere il termine “altro”. – 3. Segue: la istituzione del Consiglio superiore della magistratura. Le ipotesi di riforma: quale Csm (organo amministrativo o costituzionale; organo rappresentativo o di garanzia)? - 4. Segue: le proposte di riforma relative alla composizione (il rapporto numerico tra laici e togati; la legge elettorale per membri togati e il sistema del sorteggio; la elezione dei membri laici: gli elementi di novità e le ipotesi di riforma). – 5. Segue: le proposte di riforma delle funzioni ed il funzionamento del Csm. – 6. L’indipendenza interna: i rapporti tra magistratura giudicante e requirente e la proposta di separazione delle carriere. – 7. La proposta di due diversi Csm: problemi applicativi e di funzionalità degli organi. – 8. La istituzione dell’Alta corte di disciplina. – 9. L’indipendenza interna con riguardo alla magistratura giudicante e la proposta di abrogazione dell’art. 107.3 della Costituzione. – 10. L’indipendenza interna con riguardo alla magistratura requirente: il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed i criteri di priorità quale contenuto obbligatorio del progetto organizzativo della procura. – 11. La indipendenza del giudice da sé medesimo: la fiducia nella giustizia e l’“apparenza di imparzialità”. I casi Apostolico e Toti e la necessità di un bilanciamento tra i diversi valori.
1. Premessa: il significato della indipendenza della magistratura e le ipotesi di riforma attualmente in discussione.
Il tema del Convegno (L’indipendenza della magistratura. Storia, attualità, prospettive) pone come oggetto la fondamentale garanzia che la nostra Costituzione ha voluto riconoscere ed imporre per la magistratura.
Alessandro Pizzorusso scriveva diversi anni fa che “l’indipendenza rappresenta il connotato fondamentale dell’attività giurisdizionale”, affermazione ribadita proprio in questi giorni da Gaetano Silvestri, che sottolinea come “occorre acquisire piena consapevolezza che nell’epoca contemporanea democrazia e legalità sono inscindibili e che non vi è vera legalità senza esercizio indipendente della giurisdizione”.
La Costituzione ha segnato il passaggio da uno stato legale (supremazia e sacralità della legge) ad uno stato costituzionale, nel quale anche le scelte del legislatore possono essere poste in discussione ed eventualmente cancellate dall’ordinamento.
Una fonte, quella costituzionale, organizzata più per principi che non per regole, la quale determina inevitabilmente un ampliamento del potere interpretativo del giudice, poi espresso con la possibilità (obbligo per la Corte costituzionale) di leggere la legge alla luce dei principi costituzionali (c.d. interpretazione costituzionalmente conforme).
Un nuovo ruolo pertanto del giudice, al quale viene riconosciuto il potere-dovere di dare attuazione alla Costituzione, sia attraverso la proposizione di questioni di legittimità costituzionale sia, entro i limiti consentiti dallo strumento interpretativo, attribuendo alla legge il significato che meglio realizzi, nella sua applicazione pratica, i principi costituzionali.
L’ordinamento sovranazionale attribuisce a sua volta un ruolo assai importante al giudice comune, sia nei suoi rapporti con la Corte di giustizia (si pensi all’utilizzo del rinvio pregiudiziale), sia con la Corte di Strasburgo (ad esempio in ordine al rispetto della Cedu ed alla interpretazione di questa fornita dalla Corte europea).
A quest’ultimo proposito Guido Raimondi ha recentemente sottolineato che se le Corti non sono credibili e indipendenti, e non sono percepite come tali, è l’intero edificio democratico su cui si fonda la Cedu che comincia a vacillare. I rischi per l’indipendenza non sono solo violazione della Cedu, ma problema di sistema che regge quello di tutela dei diritti umani.
Il nuovo ruolo riconosciuto ai giudici ha reso pertanto, molto di più di quanto non lo fosse nella fase precedente, ancora più necessario, a garanzia della decisione, preservare i giudici da influenze che potrebbero provenire dall’esterno o dall’interno dell’ordine giudiziario.
Garantire l’indipendenza del giudice significa in sostanza garantire la loro legittimazione nel nostro sistema istituzionale a creare il c.d. diritto giurisprudenziale, dal momento che quest’ultima non si fonda, come per gli organi politici, sulla natura rappresentativa, né sulla supposta infallibilità del giudicante, ma sulla natura indipendente, imparziale e professionale dello stesso.
Per questo l’importanza della indipendenza dei magistrati e lo sforzo della Costituzione e della legge nell’indicare gli strumenti attraverso i quali garantire la stessa (il particolare status che li distingue da tutti gli altri pubblici dipendenti – “magistrati o funzionari?”, il celebre titolo del volume curato da Maranini- la inamovibilità, il possibile divieto di iscrizione a partiti politici, la speciale disciplina per la responsabilità civile e per quella disciplinare ecc.).
Svolgere una introduzione al tema con riguardo ai principi costituzionali, come richiestomi dagli organizzatori di questo Convegno, impone pertanto una scelta a favore di una tra le molte impostazioni possibili.
Sperando di aver recepito le finalità dell’incontro, mi soffermerò, in estrema sintesi, sulla tre forme assai note di indipendenza (classiche, almeno le prime due), limitandomi ad indicare i principi costituzionali di riferimento, per poi passare a segnalare sui singoli temi che vengono in considerazione, le riforme (costituzionali e/o ordinarie) in questi giorni in discussione o comunque pendenti davanti alle camere. In questo esame sarà compreso anche il disegno di legge costituzionale presentato dal governo il 29 maggio (cinque giorni dopo la data del Convegno) ed avente ad oggetto la separazione delle carriere e la istituzione dell’Alta Corte di disciplina.
2. L’indipendenza esterna: l’autonomia da ogni altro potere e la proposta di sopprimere il termine “altro”.
Le tre diverse forme nelle quali tradizionalmente si articola la indipendenza della magistratura sono quelle: a) esterna; b) interna; c) da sé medesima.
Iniziando dalla prima i riferimenti costituzionali sono principalmente i seguenti: 1) “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101.2); 2) “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104.1); 3) la istituzione del Csm: composizione e funzioni (artt. 104 e 105).
Molti gli aspetti, riguardanti la indipendenza esterna, oggetto delle proposte di revisione costituzionale, partiamo da quella, assai ricorrente e presente in quasi tutti i progetti presentati, relativa alla eliminazione del termine “altro” dall’art. 104.1 Cost.
Attraverso una simile operazione si vorrebbe palesemente esprimere il concetto secondo cui la magistratura non è un potere dello Stato.
In proposito appare essenziale capire qual è la nozione di potere alla quale vogliamo fare riferimento, se a quella di un organo monolitico che esprime la volontà del potere, che parla con una sola voce e che è caratterizzato da un proprio indirizzo che si contrappone ad altri poteri (qualcuno ha parlato della magistratura come contropotere), vale a dire il potere legislativo e il potere esecutivo, in questo senso chiaramente la magistratura non è un potere dello Stato. Questo sia che il termine “altro” venga mantenuto, sia che venga eliminato.
Qualora invece si intenda riferirsi ad una nozione di potere come potere diffuso, unitario in ragione dello status che accomuna i componenti della magistratura e titolare di funzioni costituzionali attribuite specificamente ai singoli giudici, in questo caso allora è certo che possiamo parlare della magistratura e dei magistrati come potere dello Stato.
L’attuale versione dell’art. 104.1 Cost. è, come noto, in vigore dal 1° gennaio 1948. In questi anni la qualificazione della magistratura come potere dello Stato ha avuto una applicazione assai importante per la tutela della autonomia e della indipendenza della stessa con riguardo all’accesso allo strumento del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale.
Questa si è trovata infatti a dover interpretare la disposizione della legge 87/1953 (art. 37) che definisce il potere dello Stato, ai fini della sua legittimazione al conflitto, quale l’organo “competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”.
Da tempo la giurisprudenza costituzionale, dopo aver scartato di poter individuare l’organo legittimato a rappresentare la magistratura nel Csm o nella Corte di cassazione, ha riconosciuto la legittimazione attiva e passiva del singolo magistrato (giudicante o requirente) nei conflitti tra poteri, qualificando la magistratura un potere diffuso.
Da quel momento i conflitti tra poteri hanno visto, almeno nell’85% dei casi, la magistratura come parte attiva o come parte passiva ed essa ha potuto difendere la propria indipendenza nei riguardi del parlamento (si pensi alle immunità parlamentari di cui all’art. 68 Cost.), del governo ed anche del Presidente della Repubblica.
Sarebbe ingenuo chiedersi se la soppressione del termine “altro” potrebbe indurre la Corte a mutare la propria giurisprudenza. Con quasi certezza, tutto resterebbe come adesso.
La soppressione in parola pertanto avrebbe solo un valore simbolico, essendo chiaro che per un testo solenne quale è la Carta costituzionale, eliminare, dopo oltre settanta anni dalla sua entrata in vigore, un termine, non può non perseguire una specifica finalità in contrasto con l’originario disegno costituzionale: nella specie mostrare la volontà di un ridimensionamento del ruolo della magistratura e della valorizzazione del diritto giurisprudenziale rispetto al diritto politico.
3. Segue: la istituzione del Consiglio superiore della magistratura. Le ipotesi di riforma: quale Csm (organo amministrativo o costituzionale; organo rappresentativo o di garanzia)?
Sempre dall’art. 104.1 Cost. se ne deriva che la magistratura deve essere indipendente da qualsiasi altro potere, persino quindi dal soggetto titolare della sovranità, vale a dire il popolo. Il magistrato infatti non è politicamente responsabile, non fonda la sua legittimazione nel consenso popolare, ma nel rispetto del principio di legalità.
In specifico possiamo sostenere con certezza che la magistratura non dipende da Capo dello Stato, il quale presiede il Csm, ma come il Consiglio stesso non può interferire nell’esercizio dele funzioni giurisdizionali. Si pensi alle decisioni della cassazione sui limiti alla immunità presidenziale per i fatti commessi (dall’allora presidente Cossiga) fuori dall’esercizio delle sue funzioni.
Non dipende neppure dalla Corte costituzionale, se non quando questa pronuncia decisioni di incostituzionalità di una legge o di un atto con forza di legge. Si pensi, per tutte, alle vicende relative alla c.d. guerra delle due corti in relazione alla efficacia delle sentenze interpretative di rigetto e, più recentemente, all’obbligo di seguire la interpretazione costituzionalmente conforme.
Certamente non dipende dal parlamento in quanto tale, ma è soggetto alla sua volontà solo quando esso si esprime attraverso una legge. Il giudice è soggetto al prodotto, ma non al produttore.
Si pensi ai problemi suscitati dalle leggi di interpretazione autentica, allorchè si è ritenuto che le stesse fossero state approvate per interferire nell’attività giurisdizionale o al notissimo caso Englaro ed al relativo conflitto tra poteri (respinto dalla Corte), sollevato dalle camere per una supposta invasione della propria competenza legislativa ad opera di una pronuncia della cassazione, con la quale si sarebbe in sostanza scritta la disciplina relativa alla possibile interruzione di trattamenti vitali.
Resta comunque fermo che, storicamente, il “nemico naturale” della indipendenza della magistratura è il potere esecutivo, rappresentato dal ministro della giustizia.
Questo è stato il tema cui maggiormente si è dedicata l’Assemblea costituente, la quale intese porre rimedio alla esperienza del periodo precedente principalmente attraverso la creazione del Consiglio superiore della magistratura, un organo nuovo sconosciuto, al pari del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale, dal sistema istituzionale precedente.
La finalità fu, come noto, quella di sottrarre all’esecutivo la competenza a decidere sulla vita professionale dei magistrati, ad evitare possibili influenze sull’attività giurisdizionale.
Quella competenza fu attribuita pertanto ad un organo nuovo, autonomo dal governo e dalla politica, composto in prevalenza da magistrati eletti da magistrati. Contro i rischi di corporativismo e di isolamento della magistratura dagli organi politici e dalla stessa società, si volle la presenza di una componente minoritaria con sicure competenze in materia (professori ordinari e avvocati con quindici anni di servizio), eletta invece dal parlamento in seduta comune con una alta maggioranza, tale da obbligare il coinvolgimento delle minoranze.
Nessuno credo possa disconoscere il ruolo fondamentale svolto dal Csm, a partire dalla sua istituzione nel 1958, per la realizzazione nel nostro paese di una magistratura davvero indipendente dal potere politico, con le conseguenze ed i risultati che tutti conosciamo (la magistratura più indipendente d’Europa, come in varie occasioni ci è stato riconosciuto).
Delle dieci disposizioni che compongono il titolo IV della parte seconda della Costituzione, dedicato alla “magistratura”, ben cinque fanno riferimento al Csm. Naturale quindi che le proposte di modifica e di riforma del nostro modello di ordinamento giudiziario, abbiamo avuto molto spesso ad oggetto proprio il Consiglio, la sua composizione o le sue attribuzioni.
Un presupposto, apparentemente ovvio, di qualsiasi ipotesi di riforma dovrebbe essere quello di specificare quale Consiglio superiore si intende realizzare, dal momento che il dettato costituzionale, seppur appare abbastanza chiaro, lascia certamente spazio a diverse possibili letture.
Mi limito in sintesi a richiamare due contrapposizioni tra le moltissime (forse troppe e non tutte utili): quelle tra organo amministrativo (più o meno “alto”) o costituzionale (o di rilievo costituzionale) e tra organo di garanzia ed organo rappresentativo.
Riguardo alla prima potremmo ritenere che il passaggio delle stesse competenze da un soggetto (ministro) ad un altro (Csm) non possa aver cambiato la natura delle stesse, politiche erano e politiche restano, nel senso che non si tratta di esercitare una funzione amministrativa (seppure “alta”), ma di fare pure scelte che attengono alla amministrazione della giurisdizione, adesso riconosciuta di competenza del Consiglio. Il Csm, come rilevato da Silvestri, non può pretendere di esprimere un indirizzo politico fuori dal campo proprio della amministrazione della giustizia; esso però può e deve esprimere un proprio indirizzo in materia giudiziaria, nel rispetto della legge e della Costituzione.
In caso contrario sarebbe davvero difficile giustificare perché, al fine di svolgere un’attività amministrativa, un terzo dei componenti venga eletto dal parlamento in seduta comune tra esperti della materia e perché l’organo sia addirittura presieduto dal Capo dello Stato.
Per quanto concerne la seconda, alcuni hanno visto una non conciliabilità tra le due funzioni (garanzia e rappresentanza), rilevando come il Csm sia organo di garanzia, che come tale sfugge alla logica dell’organo rappresentativo e che le elezioni non hanno alcuna funzione rappresentativa, la cui logica sarebbe contraria a quella di un soggetto di garanzia, ma solo quella di garantire l’apporto della esperienza professionale dei magistrati nell’esercizio delle funzioni del Consiglio.
Come in altra sede ho già avuto modo di sostenere, credo invece, al contrario, che le due qualificazioni siano entrambe corrette e che si integrino perfettamente per il perseguimento del risultato di tutelare la indipendenza esterna ed interna della magistratura.
Certamente il carattere rappresentativo deve intendersi in maniera differente rispetto alla rappresentanza degli organi di formazione politica, anche qualora facessimo riferimento ai soli membri eletti dai magistrati, per cui il termine di rappresentanza non può intendersi nel senso di rappresentanza politica, né di rappresentanza sindacale e neppure di rappresentanza in senso privatistico.
Stante il tipo di funzioni che il Csm è chiamato ad esercitare, indubbio è il rilievo che vengono ad assumere le qualità personali del candidato, quali la professionalità, l’idoneità e le capacità specifiche richieste, l’indipendenza e l’autorevolezza.
Una volta però constatato che l’attività del consigliere consiste anche nel concorrere a determinare un indirizzo “politico” in tema di amministrazione della giurisdizione e una volta riconosciuta l’esistenza di un pluralismo culturale nella magistratura, i suddetti requisiti personali, pur necessari, non appaiono sufficienti a rappresentare il pluralismo di cui sopra, richiedendosi altresì che il candidato possa essere eletto anche allo scopo di esprimere la differente realtà sociale del corpo elettorale.
La rappresentanza del pluralismo culturale costituisce un elemento che contribuisce, in maniera decisiva, a far sì che il Csm possa svolgere, nella maniera più efficace e con più ampia legittimazione, le proprie funzioni di garanzia della indipendenza della magistratura. In questo senso pertanto la funzione di garanzia e quella di rappresentanza sono niente affatto in contrasto, bensì suscettibili di una piena ed utile integrazione.
Del resto una realtà sociale non può essere cancellata attraverso una legge elettorale e non è neppure opportuno che ciò avvenga, essendo illusoria la possibilità di cancellare per via normativa una realtà che per vari aspetti ha rappresentato e continua a rappresentare un vero e proprio snodo per la evoluzione del modo di essere della magistratura nel nostro paese.
4. Segue: le proposte di riforma relative alla composizione (il rapporto numerico tra laici e togati; la legge elettorale per membri togati e il sistema del sorteggio; la elezione dei membri laici: gli elementi di novità e le ipotesi di riforma).
Venendo alle proposte di riforma del Csm, possiamo distinguere tra quelle che attengono alla composizione e quelle invece relative alle funzioni, concludendo con qualche osservazione in ordine al funzionamento dell’organo.
Circa la composizione un primo aspetto oggetto delle proposte di riforme presentate alle Camere è quello relativo al rapporto tra la componente togata e quella laica.
Allo scopo di evitare che il Csm si atteggi come organo corporativo ed autoreferenziale, nonché di ridurre la politicità (!) dello stesso, viene proposto di aumentare il numero dei laici parificandolo a quello dei togati.
A parte ogni altra considerazione, non si può non rilevare come una simile riforma determinerebbe il mutamento del modello di Csm voluto dal Costituente, per il quale la componente laica è stata prevista allo scopo di evitare un autogoverno dei magistrati e di creare però un governo autonomo dagli organi politici.
Per la individuazione dei membri togati, quello della legge elettorale è stato nel tempo un cantiere aperto per la individuazione del sistema più idoneo a conciliare due aspetti per i quali la conciliazione non risulta sempre facile ed a portata di mano: quello della rappresentatività e quello della professionalità e l’autorevolezza.
In estrema sintesi la l. 195/1958 si fondava su un sistema di tipo maggioritario puro a collegio uninominale ed a turno unico e poteva ritenersi espressiva di una visione riduttiva del Csm e di una concezione piramidale della magistratura; la l. 1198/1967 prevedeva invece una doppia consultazione, la prima delle quali con la funzione simile alle primarie, alla quale seguiva poi una votazione con sistema maggioritario secco in collegi uninominali. Il paradossale risultato delle elezioni del 1972 nelle quali una sola corrente ottenne tutti i seggi disponibili, determinò l’approvazione di una nuova legge; la l. 695/1975 determinò un cambiamento radicale attraverso la introduzione di un sistema proporzionale a liste concorrenti che portava alla luce il ruolo esercitato dalla Anm e dalle correnti; la successiva l. 74/1990 si pose nella logica di limitare il peso delle correnti attraverso alcune modifiche alla legge del 1975 ed il mancato raggiungimento della suddetta finalità condusse alla approvazione della l. 44/2002, votata in un clima di forte contrapposizione fra la magistratura ed il governo Berlusconi, la quale pure non riuscì ad ottenere lo scopo che si era prefisso.
Si è giunti così alla legge Cartabia attualmente in vigore, che ha scelto per criterio maggioritario con elezione dei due candidati più votati (in un caso il miglior terzo) ed un criterio proporzionale per cinque membri, con possibilità di collegamento tra candidati.
Una ipotesi che molto ha fatto discutere è quella del sorteggio, già avanzata da Almirante nel 1971 poi in seguito più volte ripresa fino alla prima versione del c.d. progetto Bonafede.
Il ricordato disegno di legge costituzionale Nordio, presentato lo scorso 29 maggio, procede ad una sostituzione integrale dell’attuale art. 104 Cost.
Mentre non prevede la eliminazione del termine “altro”, né la parificazione dei membri laici e di quelli togati, stabilisce che questi ultimi siano estratti a sorte tra i magistrati giudicanti ed i magistrati requirenti (la proposta, come dirò, prevede la creazione di due distinti Csm), rinviando ad una legge ordinaria la indicazione del numero e delle procedure di sorteggio.
L’introduzione del sorteggio attraverso una legge di revisione costituzionale supera i fondati dubbi di costituzionalità che erano stati avanzati nei riguardi delle leggi ordinarie tendenti allo stesso risultato, dal momento che il sorteggio si pone in contrasto con il dettato costituzionale che parla di “eletti” – sia per l’ipotesi temperata di un sorteggio al quale segue l’elezione tra i sorteggiati, sia del sorteggio tra i candidati risultati eletti – determinando quindi una violazione dell’elettorato attivo o passivo o un possibile stravolgimento del risultato delle urne.
La revisione non pare invece superare i dubbi circa la conformità del sistema ideato con il modello di Csm voluto dal Costituente ed il ruolo che ad esso si è voluto riconoscere, né tantomeno le ragioni di opportunità da più parti avanzate in proposito.
Così ad esempio le Commissioni Vietti e Scotti si erano espresse in senso contrario al sorteggio, rilevando in maniera del tutto convincente come la pari dignità di ogni magistrato non equivale certo a significare che tutti sono ugualmente idonei al ruolo di consigliere del Csm e come la Costituzione richieda un metodo fiduciario che si pone in contrasto con il consigliere “per caso”. Il Costituente, si legge nella relazione della commissione Scotti, fissando la elettività, ha inteso richiamare il concetto di base fiduciaria ed un voto che riconosca idoneità, capacità, valenza istituzionale dell’eligendo. Il Csm non è un consiglio di amministrazione, ma un organo di garanzia, rappresentativo di idee, prospettive, orientamenti su come si effettua il governo della magistratura e su come si organizza il servizio giustizia.
Per questo non mi sembrano convincenti le recenti osservazioni (11 giugno 2024) di Sabino Cassese – il quale ritiene il fatto che quasi tutti i magistrati siano iscritti all’Anm “una circostanza veramente strana e inspiegabile” – circa l’uso del sorteggio nell’ambito del diritto pubblico per rompere maggioranze precostituite, allorché sostiene che “il sorteggio conferisce a qualunque magistrato eguali chances di fare parte del Csm. In questo modo l’organo diventa di nuovo un organo di ponderazione, esame e valutazione della carriera dei magistrati”.
Lo stesso dicasi per le giustificazioni del ministro Nordio, secondo cui “il sorteggio non è fatto tra persone che passano per strada, ma nell’ambito di magistrati che abbiano almeno 15 o 20 anni di esperienza” ed è “l’unico modo per dare alla magistratura indipendenza ed autonomia”. Il ministro, per dimostrare che il sorteggio “non è poi la bestemmia che sembra”, cita i casi dei giudici popolari della corte d’assise (già ricordato agli stessi fini da Mazzamuto nel 2011), del tribunale dei ministri (ai quali potremmo aggiungere quello della Corte costituzionale integrata).
Pare evidente come nei casi citati si tratta sempre di soggetti chiamati a svolgere una funzione giurisdizionale (ai quali potrebbe al più ritenersi omogenea la partecipazione a commissioni di concorso), del tutto differente da quella del consigliere del Csm, nella ricostruzione dello stesso come organo costituzionale o di rilievo costituzionale che ho cercato di evidenziare.
Con riguardo invece ai membri laici, questa consiliatura ha visto realizzarsi due elementi di novità: la necessità di una autocandidatura degli aspiranti ad essere eletti dal parlamento in seduta comune, con allegato il proprio curriculum vitae et studiorum, allo scopo di consentire ai parlamentari un voto maggiormente consapevole, nonché la elevazione del numero di membri da otto a dieci.
Quest’ultimo elemento ha determinato la necessità di cambiare pure i termini della convenzione tra i partiti, che fino ad allora era nel senso che gli otto nomi, cinque erano indicati dalla maggioranza e tre dall’opposizione.
In occasione dell’ultimo rinnovo del Consiglio l’aumento di due laici è andato totalmente a vantaggio della maggioranza, passando da un rapporto di cinque a tre ad uno di sette a tre. Ben quattro sono stati i laici indicati dal partito di maggioranza relativa (FdI), i quali pertanto, da soli, sono in grado di bloccare i lavori del Consiglio facendo mancare il numero legale (che è attualmente di sette laici).
Il disegno di riforma costituzionale governativo prevede che pure i membri laici siano estratti a sorte però da un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio compilato dal parlamento in seduta comune mediante elezione, “entro sei mesi dall’insediamento”.
A quest’ultimo proposito può essere utile ricordare quanto avvenuto per la individuazione dei sedici giudici aggregati alla Corte costituzionale, allorchè questa opera come giudice penale. L’art. 135 Cost., nella sua prima versione, stabiliva che questi venissero sorteggiati da un elenco di quarantacinque compilato dal parlamento “all’inizio di ogni legislatura”. La revisione costituzionale, avvenuta nel 1967, ha modificato l’art. 135 - il quale adesso prevede che l’elenco sia compilato “ogni nove anni” - con la dichiarata volontà di separare l’operazione dalla maggioranza politica del momento.
Anche nel nostro caso ritengo che, al contrario di quanto previsto nella proposta Nordio, sarebbe preferibile stabilire un termine diverso dalla legislatura per la compilazione dell’elenco dei sorteggiabili.
Trattasi pertanto di un sorteggio che seguirebbe ad una elezione realizzata verosimilmente con le solite convenzioni di spartizione per quote tra le forze politiche, le quali potrebbero essere rese inutili dalla sorte. Per questo, con riguardo all’appena ricordato sistema previsto per la individuazione dei giudici aggregati alla Corte costituzione, si è parlato da più parti (per primo Pizzorusso) di un sistema del tutto irrazionale.
Alle critiche già indicate al metodo del sorteggio, si aggiunga che il nuovo sistema di indicazione dei membri laici non risolve all’evidenza nessuno dei problemi che questo genere di elezione aveva evidenziato.
Ricordo, per tutti, i rilievi di Nicolò Zanon (ribaditi con l’ultima edizione del manuale scritto con Francesca Biondi, maggio 2024, 31), secondo cui “la designazione dei membri ‘laici’, anziché indirizzarsi su personalità di prestigio nel campo accademico o professionale, segue rigide logiche di schieramento o di collateralismo alla politica: ciò rischia di provocare, nel concreto funzionamento del plenum, fenomeni non meno dannosi della spesso lamentata divisione in correnti dei componenti provenienti dalla magistratura”.
5. Segue: le proposte di riforma delle funzioni ed il funzionamento del Csm.
Per quanto concerne le funzioni che l’art. 105 Cost. riconosce al Csm (“assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari”), sono state avanzate due diverse letture della previsione costituzionale.
Semplificando al massimo potremmo indicare una interpretazione estensiva, fondata sulle finalità per le quali il Csm è stato pensato, vale a dire la tutela della indipendenza dei magistrati. Sulla base di questa lettura, maggioritaria ed in larga parte avallata dalla giurisprudenza costituzionale, è stata giustificata l’estensione delle competenze anche fuori dalle materie espressamente elencate nell’art. 105, ma pur tuttavia essenziali alla tutela della indipendenza della magistratura. Si pensi in primis alla c.d. attività paranormativa con cui spesso il Csm ha coperto lacune o integrato i precetti derivanti dalla fonte primaria; al sistema tabellare; alle pratiche a tutela ecc.
Una seconda lettura, minoritaria e spesso riaffiorante al fine di ridimensionare il ruolo del Csm, secondo cui le materie del 105 Cost. debbono essere intese in maniera tassativa, con la finalità di limitare qualsiasi esorbitanza da una funzione che si vorrebbe solo di carattere amministrativo.
Così, all’esplicitato scopo di escludere che il Csm possa svolgere un ruolo contiguo con la politica, alcuni progetti prevedono che le competenze sono da ritenersi tassative, salvo l’attribuzione di ulteriori funzioni con legge costituzionale.
Questi progetti ricordano, nelle loro finalità, quelle proposte di riforma costituzionale avanzate a fronte di decisioni “manipolative” della Corte costituzionale, sgradite alle forze politiche e tendenti a ridurre le sentenze della Corte a quelle di “accoglimento, rigetto e inammissibilità”.
Sull’esempio di quanto previsto per la Corte costituzionale, alcuni progetti prevedono che sia abolita la prorogatio anche per i consiglieri del Csm, con l’effetto di determinare un blocco di qualsiasi attività del Consiglio fino al rinnovo dei componenti (come noto ciò non accade alla Corte costituzionale, in quanto l’organo non viene mai rinnovato integralmente e neppure in parte, ma solo a seguito del termine del mandato di ogni singolo giudice).
Concludo la parte relativa alla indipendenza esterna ed al Csm, con una piccola notazione riguardo al funzionamento del medesimo.
Nell’ampio dibattito che si è avuto a proposito della legge elettorale per il Csm, è stato correttamente posto in rilievo come un sistema di tipo maggioritario risulta confacente ad un organo il quale funziona secondo il criterio di una maggioranza e di una opposizione. Cosa che certamente non vale (o non dovrebbe valere) per il Consiglio superiore, i cui membri, come di recente ha ricordato il Presidente Mattarella, di diversa provenienza e sensibilità sono uniti da un unico scopo e risultato da realizzare: quello di garantire l’autonomia, l’indipendenza e la professionalità dei magistrati.
Durante la consiliatura in corso dobbiamo registrare la formazione di una nuova corrente, forse la più coesa ed unita nelle posizioni da sostenere in plenum, mi riferisco alla corrente dei consiglieri laici di centrodestra. Pensare che il ruolo dei laici o il più alto numero degli stessi viene spesso invocato per superare i guasti prodotti in Consiglio dal correntismo (!).
Scriveva qualche anno fa Gaetano Silvestri: “se si formassero all’interno del collegio maggioranze precostituite e stabili con vincoli di coalizione e guidate da prospettive di indirizzo politico e su accordi pregressi e vincolanti per tutti, sarebbe la negazione del ruolo assegnato al Consiglio superiore dalla Costituzione”.
Un elemento sul quale i componenti, laici e togati, del Csm dovrebbero riflettere è quello di evitare una eccessiva vicinanza ai soggetti della politica in genere ed alla maggioranza di governo in particolare.
Il Consiglio è certamente un soggetto che, nel senso e nei limiti che prima ho cercato di sintetizzare, fa scelte e quindi fa politica, ma la sua politicità è e deve essere del tutto differente da quella espressa dagli organi di indirizzo politico, altrimenti corriamo il rischio che venga a crearsi una sorta di cortocircuito: un organo pensato per garantire l’indipendenza della magistratura dalle influenze esterne e principalmente da quelle provenienti dai soggetti politici che viene a trasformarsi in un soggetto che si preoccupa troppo di “non scontentare” o di “non urtare” questi ultimi o che utilizza strumenti propri della politica (vincolo di gruppo, far mancare il numero legale ecc.).
Un organo nato per garantire l’indipendenza della magistratura dalle pressioni provenienti in particolare dal potere esecutivo che paradossalmente pare, in certe occasioni, voler garantire il governo da possibili decisioni o pareri non in linea con l’indirizzo politico dell’esecutivo.
Quanto il rischio sia concreto e non un’idea astratta pare essere dimostrato dalla esperienza del Consejo general del poder judicial, previsto dalla Costituzione spagnola del 1978 ed ispirato al nostro modello del Csm, la cui eccessiva vicinanza alla politica ha fatto, specie in certi momenti, scendere ai minimi storici il livello di apprezzamento da parte dell’opinione pubblica e del sistema istituzionale nei confronti del Consejo.
6. L’indipendenza interna: i rapporti tra magistratura giudicante e requirente e la proposta di separazione delle carriere.
Passando adesso a svolgere qualche considerazione in ordine alle garanzie di indipendenza interna, vorrei tenere separati tre aspetti, sebbene tutti facenti riferimento a profili interni all’ordine giudiziario. In particolare: a) quello della relazione tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti, con il tema della separazione delle funzioni e delle carriere, che vorrebbe garantire l’imparzialità e terzietà del giudice, senza diminuire le garanzie di indipendenza del p.m.; b) quello della indipendenza del giudice dagli altri giudici e del p.m. dagli altri magistrati della procura; c) quello della indipendenza del magistrato da se stesso, con il dovere non solo di essere indipendente ed imparziale, ma anche di apparire tale.
Il tema della separazione delle carriere rappresenta un “classico” per le riforme dell’ordinamento giudiziario, in ordine al quale pendono attualmente diversi progetti di revisione costituzionale, tra cui ultimamente quello governativo presentato il maggio scorso.
Un simile interesse – tale da essere presentato quale elemento assolutamente centrale della riforma della giustizia nel nostro Paese – parrebbe non avere riscontro nell’opinione pubblica, se è vero che la richiesta di referendum abrogativo tendente ad introdurre la separazione delle carriere, giudicata ammissibile e sottoposta al giudizio del corpo elettorale il 12 giugno 2022, ha segnato il record assoluto di disinteresse fra tutti i referendum abrogativi che finora si sono tenuti (ha infatti partecipato appena il 20,93% degli aventi diritto).
In realtà il maggior numero di questi progetti, che riprendono in larga misura una proposta di iniziativa popolare di revisione costituzionale promossa dalle camere penali nell’ottobre del 2017, vanno ben al di là della separazione delle funzioni o delle carriere per comprendere aspetti che niente hanno a che vedere con la stessa. Essi coinvolgono infatti la eliminazione del termine “altro” dall’art. 104 Cost. di cui già abbiamo detto; le competenze del Csm; la composizione del (o dei) Csm: metà togati e metà laici oppure, per i laici, nomina paritaria (cinque) da parte del Presidente della repubblica e del parlamento in seduta comune; la possibilità di nominare avvocati e professori universitari “a tutti i livelli della magistratura giudicante”; la modifica dell’art. 112 Cost., integrando (quindi negando) la obbligatorietà dell’azione penale, con la specificazione “nei casi e nei modi previsti dalla legge”; l’abrogazione del principio (come vedremo solo parzialmente collegato) per cui i magistrati si distinguono tra loro solo per diversità di funzioni; la eliminazione della prorogatio per il Csm.
Di per sé significativa la lettura delle relazioni con le quali le proposte di riforma costituzionale vengono presentate.
In esse si parla di una magistratura “onnivora” che assimila giudici e p.m. e che tiene innaturalmente uniti l’arbitro e il giocatore; di giudici-magistrati alla ricerca del consenso, pur non essendo eletti, i quali si sottraggono con ostinazione agli interventi del potere legislativo: un abisso istituzionale all’interno del quale la nostra stessa democrazia lentamente sprofonda. Da qui la necessità di operare affinché la politica assuma nuovamente su di sé la responsabilità del governo della società.
Controllore e controllato (giudice e pm) non possono appartenere allo stesso ordine, essere sottoposti allo stesso potere disciplinare, avere “gli stessi meccanismi di selezione elettorale della loro classe dirigente”.
Non si tratterebbe solo di amicizia (prendere insieme il caffè), ma della assenza di una necessaria “inimicizia” intesa in senso politico, come condizione di un indispensabile conflitto, di fisiologico antagonismo tra poteri. Viene denunciata la ipotesi di un giudice che prende le posizioni del pm, fenomeno, a detta del relatore, reso possibile dalla assunzione di una “identica cultura del processo come strumento di contrasto al crimine”. Se entrambi pensano di essere impegnati, sia pure con funzioni differenti, nella medesima lotta contro questo o quel fenomeno criminale, il giudice non potrà mai essere terzo. Necessità quindi di una situazione di “inimicizia” col significato di “separazione dei poteri”.
Con riguardo ai progetti presentati – ed in verità anche in molti degli interventi e delle discussioni che da tempo si tengono sul tema – vale la pena di sottolineare una confusione terminologica (non da poco) tra separazione delle funzioni e separazione delle carriere.
Si legge infatti nella relazione di uno dei progetti per la separazione delle carriere: “funzioni di accusa e decisione sono incompatibili: per le due funzioni valgono principi costituzionali diversi” (progetti ad iniziativa Costa e Giachetti, 2022) oppure si denuncia l’appartenenza a ruoli unificati “con la naturale e corrispondente possibilità di esercitare indifferentemente l’una funzione e l’altra” (progetto Calderone, 2023) (corsivi aggiunti).
Come noto, già da tempo, e definitivamente con la legge Cartabia, il passaggio di funzioni è stato ridotto in una misura tale da essere generalmente ritenuto ormai sostanzialmente precluso.
Un altro elemento importante da sottolineare è quello della fonte attraverso la quale si intende introdurre la separazione delle carriere: se attraverso l’approvazione di una legge ordinaria oppure a seguito di revisione costituzionale.
In proposito, in una nota decisione della Corte costituzionale pronunciata in sede di giudizio di ammissibilità di una richiesta di referendum abrogativo, questa ha sostenuto che la separazione delle carriere non trova un limite nella Costituzione e che può essere quindi realizzata anche attraverso una legge ordinaria, purché rimanga un unico ordine ed un unico Consiglio superiore (sent. 37/2000). La pronuncia è stata poi, più di recente, ribadita con la sent. 58/2022.
Il disegno di legge costituzionale Nordio (2024) procede, attraverso la riscrittura dell’art. 104 Cost., ad introdurre nella Costituzione il principio della separazione delle carriere (“la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”) e la presenza di due distinti Consigli superiori della magistratura.
La giustificazione della separazione dele carriere viene fondata principalmente sulla necessità di garantire la imparzialità e terzietà del giudice ed il principio di parità delle armi, entrambi fondati anche sulla “nuova” versione dell’art. 111 della Costituzione.
Da un lato potremmo ingenuamente chiederci se fino al 1999, anno in cui è stata approvata la revisione costituzionale dell’art. 111, la Costituzione non richiedeva al giudice di essere terzo ed imparziale e se solo a partire da quella data debba ritenersi costituzionalmente valido e vincolante il principio secondo cui un giudice non imparziale non è un giudice, essendo la imparzialità strettamente connaturata alla figura stesso del giudicante (tesi in realtà sostenuta da Sergio Bartole nel suo conosciuto volume su autonomia e indipendenza della magistratura, edito nel 1964).
Altrettanto ingenuamente potremmo chiederci se attualmente, e fintanto che la separazione delle carriere non sarà realizzata, i giudici non possono essere ritenuti terzi, con possibilità ad esempio di denunciare una simile violazione davanti alla Corte di Strasburgo (art. 6 Cedu).
In ogni caso la parità di cui si discute è comunque una parità funzionale e non ordinamentale, dal momento che è cosa a tutti evidente che il pubblico ministero, in quanto soggetto pubblico, è una parte diversa da quella privata.
La parità delle armi è quella endoprocessuale, garantita dalle norme processuali ed in questo l’art. 111 della Costituzione ha poca incidenza. È accaduto in varie occasioni, e specialmente quando la Corte costituzionale era chiamata a decidere questioni di costituzionalità di grosso rilievo (ad esempio la disciplina sui pentiti, le immunità previste dal c.d. lodo Alfano), che il pubblico ministero presente nel giudizio a quo avesse chiesto di costituirsi nel processo costituzionale, facendo valere la propria qualità di “parte” del giudizio, specie a seguito dell’entrata in vigore del nuovo processo penale.
La Corte costituzionale ha respinto simile richiesta, rilevando come a niente vale il carattere del nuovo processo penale, restando ciò nonostante netta la differenza con la parte privata. La Corte ha, nell’ultima occasione, preso espressamente in considerazione, per decidere sulla legittimazione del pubblico ministero a costituirsi, il “nuovo” art. 111 Cost. ed ha concluso che tale disposizione non comporta una identità di poteri processuali, potendo un diverso trattamento essere giustificato, nei limiti della ragionevolezza, da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia per la peculiare posizione del pubblico ministero e che nel processo costituzionale la parità di armi non impone che al pubblico ministero siano riconosciuti gli stessi poteri spettanti alle parti private.
In un recente volume scritto da un magistrato favorevole alla separazione delle carriere (Bono, Meglio separate, Firenze 2023) si legge “avvocato e pm indossano entrambi la toga ed hanno l’onere di convincere il giudice della bontà della loro tesi. Toga uguale ma che non pesa allo stesso modo: da un lato il p.m. rappresenta ed ha dietro l’apparato statale, l’avvocato ha dietro solo il suo cliente”.
Quanto agli effetti della riforma, scriveva Gaetano Silvestri nel 2004: “spero vivamente di non dover ricordare tra qualche anno agli entusiasti sostenitori della separazione delle carriere, che hanno volutamente rinunciato ad una parte delle loro garanzie, favorendo la formazione di una categoria di accusatori di professione sempre più avulsi dalla giurisdizione in senso stretto e sempre più animati dall'ansia di risultato”.
Senza voler apparire provocatorio (anche se certamente démodé), potrebbe essere rilanciata, a mio avviso, la proposta, opposta a quella della separazione, sostenuta dal mio illustre Maestro (Alessandro Pizzorusso) di rendere non facoltativo ma al contrario obbligatorio un periodo di permanenza del magistrato in entrambe le funzioni, al fine di acquisire quella che viene comunemente indicata, anche se con terminologia imprecisa, come la cultura della giurisdizione.
Appare infatti in sé contradittorio sostenere, da un lato, la separazione delle carriere e giudicare, dall’altro, positivamente, ai fini ad esempio della valutazione di professionalità e dell’attribuzione di incarichi direttivi o semidirettivi, l’aver maturato esperienze diverse ed in particolare sia nella funzione requirente che in quella giudicante.
7. La proposta di due diversi Csm: problemi applicativi e di funzionalità degli organi.
Quale conseguenza della separazione delle carriere viene spesso prevista la creazione di due distinti Csm, uno per la magistratura giudicante, l’altro per quella requirente.
Questa innovazione è presente pure nel progetto di revisione Nordio, il quale stabilisce che i due Consigli siano entrambi presieduti dal Capo dello Stato e che siano, rispettivamente, membri di diritto il primo presidente della cassazione ed il procuratore generale presso la stessa. La composizione resta per due terzi di togati ed un terzo di laici, scelti, come già abbiamo visto, con il sistema del sorteggio.
Le funzioni rimangono sostanzialmente le stesse (la dizione “promozioni” viene sostituita con “valutazioni di professionalità e conferimento di funzioni”), tranne per quella disciplinare che viene trasferita ad una “Alta Corte disciplinare”, come vedremo esterna al Csm.
Al proposito Nicolò Zanon ha avvertito sul rischio, con due Consigli, di dare vita ad una sorta di “Prokuratura” della funzione d’accusa, organo destinato a scaricare nell’ordinamento la forza sostanziale ed inquietante della funzione d’accusa, forza accresciuta da essere protetta, garantita e rappresentata da un organismo esponenziale separato e del tutto autonomo e non responsabile.
Un forum organizzato dalla rivista “Gruppo di Pisa” e pubblicato proprio in questi giorni, poneva tra le domande quella di esprimere un giudizio circa la creazione di due Csm.
Le risposte sono state quasi tutte negative: Balduzzi ha scritto che “l’esistenza di un Csm unitario rappresenta il più esplicito indicatore e, al contempo, il primo vincolo costituzionale nel senso della unitarietà dell’ordine della magistratura titolare del potere di esercitare la giurisdizione. La creazione di due organi separati altera quel modello perché punta alla formazione di due magistrature non solo funzionalmente, ma pure istituzionalmente e culturalmente distinte”; Silvestri ha rilevato come “lo sdoppiamento degli organi di garanzia della magistratura (…) mi sembra destinato a creare complicazioni e contraddizioni per la prevedibile formazione di orientamenti diversi, specie sui criteri di valutazione dei magistrati e altri importanti materie concernenti l’amministrazione della giurisdizione”.
Superato l’aspetto strettamente formale di costituzionalità – attraverso la nuova formulazione degli artt. 104 e 105 della Costituzione – restano molti gli aspetti critici circa la concreta realizzazione dei due Csm ed il loro concreto funzionamento.
La relazione illustrativa parla di “due consigli esattamente sovrapponibili tra loro”, per cui è prevedibile che ogni Csm abbia le proprie commissioni e quindi i propri magistrati-funzionari. L’Ufficio studi e documentazione - per il quale la l. Cartabia ha previsto un organico di dodici componenti, aprendo oltre ai magistrati anche a docenti universitari e avvocati – sarà pure questo sostituito da due distinti Uffici studi ognuno con un proprio organico?
La funzione di fornire pareri sulle iniziative normative attinenti l’ordinamento giudiziario e di approvare la relazione al parlamento sullo stato della giustizia, sarà esercitata da entrambi i Csm con il metodo della navette parlamentare oppure ogni Consiglio presenterà il suo parere o la sua relazione?
Ugualmente l’attività c.d. paranormativa (circolari ecc.) seguirà pure questa, per gli aspetti comuni a tutti i magistrati, il sistema della navette?
Quale sarà, in questo caso, il riflesso sui tempi e l’efficienza dei lavori consiliari?
Ancora: quale conseguenza della separazione saranno previsti due differenti concorsi di ammissione? Pensando alle attuali prove scritte ed orali, sarà possibile distinguere la preparazione giuridica richiesta agli aspiranti giudici rispetto agli aspiranti pubblici ministeri?
La recentissima introduzione della prova psicoattitudinale avrà caratteristiche diverse a seconda che si tratti di concorso per giudicanti oppure per requirenti?
Ricordo come questa ipotesi fosse già stata presentata anni addietro in termini pressochè identici (vale a dire una prova psicoattitudinale da tenersi dopo aver superato le prove scritte e prima di sostenere quelle orali), rispetto alla quale Silvestri (Convegno Aic 2004, i cui atti sono stati pubblicati nel 2008) si chiedeva “come si farà a capire se un soggetto è ‘adatto’ ad esempio a fare il pubblico ministero e non il giudice? Ci sarà uno strumento per misurare l’attitudine alla terzietà? Gli si chiederà se da bambino partecipava alle baruffe con i suoi compagni di scuola o se ne teneva sdegnosamente lontano?”.
La legge Cartabia, come noto, ha attribuito alla Scuola superiore della magistratura il compito di organizzare, anche a livello decentrato, corsi di preparazione al concorso in magistratura.
Dovranno essere organizzati due corsi diversificati (per l’accesso alla carriera giudicante ed a quella requirente)?
Più ancora, per l’attività di aggiornamento dei magistrati e per tutte le competenze attribuite alla Ssm, dovranno, al pari dei due Csm, essere create due differenti Scuole superiori, ovviamente con due diversi consigli direttivi?
8. La istituzione dell’Alta corte di disciplina.
Il recente disegno di legge costituzionale contiene anche una misura non strettamente dipendente dalla separazione delle carriere e in più occasioni apparsa dalla fine del secolo scorso nelle proposte di revisione costituzionale del titolo IV della parte seconda della Costituzione, vale a dire la istituzione di un’Alta corte disciplinare.
Spesso è stato posto in discussione il riconoscimento al Csm, e per esso ad una apposita sua sezione, della funzione di pronunciarsi, in veste di giudice, sugli illeciti disciplinari dei magistrati. Elemento pure questo di evidente diversificazione della posizione del magistrato rispetto a quella degli altri pubblici dipendenti, per i quali la responsabilità disciplinare è fatta valere attraverso un procedimento di tipo amministrativo e davanti alla amministrazione di appartenenza.
Una previsione, quella dell’art. 105 Cost., tendente all’evidenza a garantire la indipendenza della magistratura rispetto al titolare della amministrazione della giustizia.
La delicatezza della materia consiste appunto nella necessità di bilanciare la responsabilità disciplinare cui anche il magistrato, come pubblico dipendente, non può certo essere sottratto, con la tutela della indipendenza, ad evitare un uso strumentale ed intimidatorio dello strumento disciplinare.
Le ragioni avanzate per una eventuale riforma della materia sono state essenzialmente due: a) la denuncia di una giustizia troppo domestica e corporativa, con rare ipotesi di condanna; b) una pericolosa confusione tra funzioni di amministrazione della giurisdizione (specie trasferimenti per incompatibilità ambientale, valutazioni di professionalità e incarichi direttivi) con quelle giurisdizionali del giudizio disciplinare.
Ad attenuare gli inconvenienti derivanti dalle seconde (sub b), in via di legislazione ordinaria, è stata modificata la disciplina relativa alla composizione della sezione disciplinare, stabilendo ad esempio la incompatibilità dei consiglieri membri della disciplinare con l’essere componenti delle commissioni I (incompatibilità), IV (professionalità) e V (direttivi e semidirettivi).
Pur ritenendo questa innovazione certamente apprezzabile, è stato fatto osservare che i componenti della disciplinare partecipano comunque (e non potrebbe essere altrimenti) alle votazioni in plenum su tutte le pratiche, comprese quelle istruite dalle suddette commissioni.
Diverse le soluzioni e le competenze riconosciute alla Corte di disciplina nelle diverse proposte avanzate. In quella più recente del ministro Nordio è prevista un’unica Alta Corte disciplinare, nei riguardi dei magistrati giudicanti e requirenti, composta da quindici giudici (tre di nomina del Presidente della repubblica e tre estratti a sorte da un elenco compilato dal parlamento in seduta comune fra professori universitari ordinari di materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di servizio; sei magistrati giudicanti e tre requirenti estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie, con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità).
Le sentenze dell’Alta Corte sono impugnabili, anche per motivi di merito, solamente dinanzi alla stessa Corte, in diversa composizione rispetto al collegio che ha emesso la decisione impugnata.
Solo qualche breve osservazione.
La motivazione sub a) appare chiaramente fragile e difficilmente sostenibile. In ogni caso non si vede perché l’Alta Corte, composta per due terzi da magistrati come la disciplinare, dovrebbe garantire maggiormente sotto l’aspetto del corporativismo e dell’atteggiamento generalmente assolutorio.
L’Alta Corte è qualificabile quindi come un giudice speciale, il quale potrebbe porre dei dubbi di conformità con l’art. 102 che fissa il divieto di istituire giudici speciali, eccetto le deroghe espressamente previste nel testo costituzionale.
Tra queste sarebbe da ricomprendere anche la sezione disciplinare, sul presupposto della attribuzione al Csm della competenza a pronunciare “provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati” (art. 105 Cost.).
La tesi non è stata mai avallata esplicitamente dalla Corte costituzionale, che si è limitata a riconoscere alla sezione disciplinare la qualifica di “giudice” ai limitati fini della legittimazione a proporre questioni di costituzionalità, senza prendere posizione circa la sua natura, amministrativa o giurisdizionale.
L’istituzione dell’Alta Corte attraverso una puntuale riforma della Costituzione sembra comunque poter superare tali dubbi.
Pure il metodo del sorteggio, allo scopo di indicare i componenti di un organo giurisdizionale (come le corti di assise, il tribunale dei ministri o la Corte costituzionale integrata), pone a mio avviso dubbi decisamente minori.
Ci potremmo chiedere infine se debba ritenersi, ai sensi dell’art. 111 Cost., che anche le sentenze in appello dell’Alta Corte siano comunque ricorribili in cassazione, per violazione di legge e se possa ritenersi giustificata la limitazione posta ai magistrati di svolgere o aver svolto funzioni di legittimità.
9. L’indipendenza interna con riguardo alla magistratura giudicante e la proposta di abrogazione dell’art. 107.3 della Costituzione.
Passando adesso agli aspetti relativi alla indipendenza interna, esaminerò separatamente quelli relativi alla magistratura giudicante rispetto alla magistratura requirente.
Per i primi le disposizioni costituzionali che vengono maggiormente in considerazione sono quelle relative al principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25.1), alla soggezione dei giudici solo alla legge (art. 101.2) ed alla distinzione dei magistrati fra loro soltanto per diversità di funzioni (art. 107.3).
Come ricorda Pizzorusso, se in un primo momento la maggiore attenzione fu concentrata sui profili della indipendenza esterna, nella fase di attuazione dei principi costituzionali – e di realizzazione di quello che poi diverrà il modello italiano di ordinamento giudiziario – sarà l’indipendenza interna del giudice il principale banco di prova della realizzazione del principio costituzionale di indipendenza della magistratura.
Il modello costituzionale trova infatti le maggiori resistenze alla sua realizzazione nell’assetto gerarchico della magistratura ereditato dall’ordinamento precedente ed il principio di indipendenza interna si deve confrontare con gli aspetti pratici del funzionamento della giustizia quali il potere di individuazione del giudice competente, di assegnazione delle cause, di formazione dei collegi, di organizzazione degli uffici e quanto altro.
Allo scopo un ruolo di primo piano viene svolto dalla garanzia dell’art. 25.1 Cost. che vieta la distrazione dal giudice naturale precostituito dalla legge.
A partire dalla storica decisione della Corte costituzionale del 1962, viene infatti superata la equiparazione del principio in questione con il divieto di istituire giudici straordinari e il campo di applicazione della riserva di legge in ordine alla determinazione del giudice viene individuato in quello della competenza del giudice, che deve pertanto essere individuata solo dalla legge ed in anticipo rispetto al fatto da giudicare.
La riserva di legge, a differenza di quanto avviene solitamente, non svolge i suoi effetti per limitare i poteri di normazione secondaria del governo, quanto quelli dei “capi” degli uffici giudiziari.
Centrale, negli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso, la interpretazione del termine “giudice” (naturale) quale organo giudicante oggettivamente inteso (tribunale, corte d’appello ecc.) oppure come persona fisica componente l’organo.
Molte le discussioni e diverse ed oscillanti le prese di posizione da parte del Csm, della Cassazione e della Corte costituzionale. Oggi la seconda opzione può ritenersi assolutamente dominante.
Difficile pensare ad una realizzazione della riserva di legge portata fino alla individuazione dei singoli componenti l’organo giudicante, per questo, prima a livello di circolari del Csm poi con fondamento nella legislazione primaria, viene realizzato il c.d. sistema tabellare e trova diffusione la cultura del giudice naturale, anche quando la violazione del sistema tabellare non trova una efficace risposta a livello ordinamentale.
Il fondamento della indipendenza interna del giudice - sulla quale si fonda la presunzione assoluta in base al quale un giudice individuato in maniera diversa ed arbitraria non può essere ritenuto un giudice indipendente ed imparziale – è da sempre individuata nella previsione costituzionale per cui “i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni”.
Quest’ultima disposizione viene puramente e semplicemente abrogata, spesso senza neppure un rigo di motivazione, da quasi tutti i progetti di riforma costituzionale pendenti che intendono introdurre la separazione delle carriere (non così il più recente progetto Nordio).
Una simile operazione non può che lasciare quanto meno perplessi quanti hanno letto e inteso quella disposizione come il superamento della organizzazione gerarchica della magistratura (al cui interno le distinzioni sono appunto per diversità di funzioni e non per gradi).
Volendo individuare una giustificazione alla prevista abrogazione, questa la si può vedere nella volontà del legislatore costituzionale di affermare che la distinzione non è solo per funzioni, in quanto per magistrati giudicanti e requirenti viene introdotta una diversità di carriera.
Quand’anche fosse così, non si può negare che la semplice abrogazione porta con sé un significato che va ben oltre le finalità perseguite, finendo con il gettare, insieme all’acqua sporca, pure il bambino. Altre infatti avrebbero potuto essere le possibilità di riformulazione del principio che il legislatore costituzionale avrebbe potuto utilizzare.
Nel già ricordato Forum organizzato dalla rivista Gruppo di Pisa, il giudizio degli intervenuti è stato in proposito assai negativo.
Così, per citarne alcuni, Balduzzi sottolinea le conseguenze di portata sistemica ulteriori rispetto alla separazione delle carriere e la conseguente violazione del principio di indipendenza; Dal Canto definisce maldestro l’operato del legislatore che rischia di produrre effetti ulteriori e preoccupanti; Ferri si interroga su quali potrebbero essere le ripercussioni della eliminazione di un caposaldo dell’indipendenza interna dei magistrati; Ferro rileva come viene abrogato il baluardo formale di indipendenza interna funzionale che non ammette strutturazioni della magistratura improntate al principio gerarchico; Silvestri sostiene che “l’abrogazione (…) segnerebbe il tracollo definitivo dell’indipendenza interna della magistratura”.
Di fronte ad una abrogazione “secca” dell’art. 107.3 Cost. ed al significato che il principio rappresenta per il modello di magistratura voluto dalla Costituzione, ci potremmo chiedere se non sia possibile in questo caso parlare di una legge di revisione incostituzionale in quanto, seguendo la giurisprudenza costituzionale inaugurata nel 1988, non rispettosa del limite implicito alla revisione, rappresentato dai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
10. L’indipendenza interna con riguardo alla magistratura requirente: il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed i criteri di priorità quale contenuto obbligatorio del progetto organizzativo della procura.
Per la indipendenza interna della magistratura requirente, le disposizioni costituzionali che vengono in considerazione sono essenzialmente l’art. 107.4 (“il p.m. gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme dell’ordinamento giudiziario”) e l’art. 112 (“il p.m. ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”).
Ai magistrati del pubblico ministero viene, come noto, riconosciuta una equiparazione pressoché totale alla posizione dei magistrati giudicanti quanto alle garanzie di autonomia ed indipendenza esterna e comunque – nonostante le oscillazioni conseguenti agli interventi normativi delle leggi Castelli e Mastella, in parte poi recuperati dalle interpretazioni fornite dal Consiglio superiore e dalla Corte di cassazione – l’opportunità di una indipendenza interna, seppur in misura ridotta rispetto a quella del giudice.
Di notevole importanza a questo riguardo il recente riconoscimento, da parte della legge Cartabia e poi della circolare del Csm, della estensione anche per le procure di un sistema analogo a quello del tabellare per gli organi giudicanti.
Il principio di obbligatorietà dell’azione penale, mentre è giustificato dalla realizzazione dei principi di legalità e di uguaglianza di tutti davanti alla legge, trova altresì il suo fondamento nel principio di indipendenza sia esterna che interna, dell’attività del p.m.
Assai dibattuto in proposito il tema dei criteri di priorità, del loro fondamento giuridico e della loro legittimità costituzionale, anche con riguardo al principio di indipendenza.
Il problema si è posto principalmente per la c.d. priorità extralegale – vale a dire diversa da quella espressamente prevista dalla legge (art. 132 bis disp. att. c.p.p.) – a fronte del principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Un fondamento legale per i criteri di priorità è stato da alcuni individuato nei poteri che l’art. 1 d. leg. 106/2006 riconosce al procuratore della repubblica e la giustificazione degli stessi è stata individuata nei principi della ragionevole durata del processo, del corretto e uniforme esercizio dell’azione penale, nonché dell’uso di risorse tecnologiche e finanziarie.
I profili di costituzionalità hanno riguardato più in particolare un supposto contrasto con l’obbligatorietà dell’azione penale, da un lato, e con quello di indipendenza interna del p.m., dall’altro.
Sotto il primo aspetto credo si possa sostenere che il principio di obbligatorietà non può essere inteso
in una accezione assolutistica, ma vada necessariamente bilanciato con altri interessi di pari rilevanza costituzionale (buon andamento, giusto processo, durata ragionevole del processo). Ciò nella convinzione che una rigida applicazione del principio di obbligatorietà in sistemi ed uffici inflazionati può determinare un aggravamento della situazione di inefficienza, nonché una violazione del principio di eguaglianza a fronte di una disomogeneità di scelte da parte dei singoli procuratori.
Con riguardo invece al principio di indipendenza interna del p.m. la scelta a favore di un assetto verticistico degli uffici di procura è stata rimodulata in chiave funzionale dal Csm (risoluzioni 2007, 2009 e poi 2016) in base al principio cardine per cui l’assetto disegnato dal d. leg. 106/2006 deve svilupparsi secondo un modulo di orizzontalità e non di verticalità e di gerarchia.
Proprio nel perseguimento di tali finalità trova fondamento la legittimazione ad adottare criteri di priorità.
Non trovo convincente la tesi per cui questi ultimi rafforzerebbero la posizione gerarchica del dirigente e ridurrebbero l’autonomia funzionale interna dei singoli magistrati, mentre mi pare maggiormente condivisibile che nella indicazione di criteri di priorità possono operare strumenti di tutela della autonomia dei magistrati del p.m. e di una loro partecipazione alle scelte ed alla formazione dei progetti organizzativi.
La legge Cartabia (art. 13) ha previsto che nella predisposizione del progetto organizzativo dell’ufficio, il procuratore della repubblica indichi criteri di priorità finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto “del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili”. Ciò “nell’ambito dei criteri generali indicati dal parlamento con legge”; al Csm è inoltre attribuito il compito di indicare “i principi generali” in conformità dei quali dovrà essere predisposto il progetto organizzativo della procura.
La legge 71/2022 viene quindi ad offrire una copertura normativa ai criteri di priorità adottati dagli uffici requirenti, mantenendo intatta la loro identità di strumento di mera organizzazione dell’attività giudiziaria.
La realizzazione di quanto previsto vede pertanto il coinvolgimento del parlamento, del Csm e del procuratore della repubblica, con ruoli e modi di operare diversi e mentre il parlamento lo farà ovviamente in astratto, i procuratori sono chiamati ad operare sul piano concreto delle esigenze territoriali.
Il primo stabilirà i criteri generali sulla base di criteri valoriali, frutto di elaborazione politica, per cui i criteri di priorità da strumento di organizzazione dell’attività interna agli uffici requirenti diventano una modalità di orientare la funzione giurisdizionale verso il perseguimento di specifici obiettivi di politica criminale.
Per questo la necessità che lo strumento permanga uno strumento duttile, da adattarsi ai casi concreti, anche se il procuratore non potrà discostarsi dall’indirizzo del parlamento, specie se i criteri da questo prescelti dovessero rivelarsi inadeguati per la situazione del suo ufficio, con il rischio che vada a perdersi il vantaggio della introduzione nell’ordinamento dell’obbligo di adozione, da parte dei dirigenti, dei criteri di trattazione prioritaria degli affari.
11. La indipendenza del giudice da sé medesimo: la fiducia nella giustizia e l’“apparenza di imparzialità”. I casi Apostolico e Toti e la necessità di un bilanciamento tra i diversi valori.
Concludo con qualche breve riflessione in ordine al tema che possiamo indicare come quello della indipendenza del magistrato da sé medesimo, il quale parrebbe in qualche misura richiamare la celebre vignetta di Altan raffigurante due Cipputi identici in cui l’uno si rivolge all’altro dicendo: “talvolta mi vengono in mente idee che non condivido”.
La garanzia di indipendenza in parola trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 101 Cost., secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge, la cui finalità, come noto, è quella di rendere il giudice libero da qualsiasi pressione esterna o interna nel momento della decisione. Concetto che si esprime meglio attraverso la nozione di imparzialità e terzietà del giudice.
Questo aspetto con l’entrata in vigore della Costituzione ed il diverso ruolo da questa assegnato alla magistratura ha assunto una importanza ed un rilievo più percepibile e quindi lo ha reso oggetto di maggiore attenzione.
Ormai superato – se mai è esistito – il giudice bocca della legge, meccanico applicatore della volontà del legislatore, si è da tempo preso atto della esistenza, accanto al diritto politico, di un diritto giurisprudenziale e del fatto che anche il giudice “crea” diritto.
Non è certo questa la sede per parlare di un tema così vasto e controverso, mi limito a precisare che, seguendo la terminologia di Luigi Ferrajoli, il riferimento alla creazione del diritto viene fatto non “in senso forte” (creare un diritto che non c’è), ma “in senso debole” (a sottolineare il crescente spazio di discrezionalità che viene riconosciuto, per molte ragioni, al giudice nella sua attività di interpretazione, che sempre e comunque precede quella di applicazione della legge).
È certo che il giudice non è paragonabile ad un legislatore, in considerazione della indubbia differenza di metodo, di limiti e di legittimazione nel sistema costituzionale, nella “creazione” del diritto.
La innegabile valorizzazione del diritto giurisprudenziale, cui abbiamo assistito dall’entrata in vigore della Costituzione ad oggi, sia a livello nazionale che sovranazionale, giustifica la maggiore attenzione al rispetto dei valori della indipendenza ed imparzialità anche sotto il profilo della indipendenza da sé stessi. Ciò in quanto, come già detto, la legittimazione dell’attività del giudice trova fondamento principalmente nella fiducia che i destinatari delle decisioni ripongono nella magistratura.
Una legge, ancorché non condivisa, si rispetta in quanto approvata dai nostri rappresentanti seguendo il procedimento e le maggioranze costituzionalmente previsti, mentre una sentenza, ancorchè non condivisa, si rispetta in quanto pronunciata da un giudice indipendente, imparziale e professionalmente preparato.
Su questa base trova giustificazione l’affermazione, ripetuta un’infinità di volte e in moltissime diverse occasioni, secondo la quale il giudice deve non solamente essere imparziale, ma altresì apparire come tale.
Se non si può non concordare sull’importanza di apparire imparziali (quale fondamento della fiducia), appare altrettanto evidente come la relativa nozione risulta nei suoi contorni assai sfuggente ed il richiamo alla stessa, se non meglio precisata, può risultare pericolosa per i diritti fondamentali del magistrato ed in fondo per la sua stessa serenità di giudizio.
Il d. leg. 109/2006 prevedeva espressamente due ipotesi di illecito disciplinare collegate con la “apparenza di imparzialità”. La prima stabiliva infatti che “il magistrato, anche fuori dall’esercizio delle proprie funzioni, non deve tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio della istituzione giudiziaria” (art. 1.2), la seconda sanzionava, tra gli illeciti commessi fuori dell’esercizio delle funzioni, “ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza” (art. 3). (corsivo aggiunto)
Entrambe queste disposizioni sono state espressamente abrogate, con la chiara finalità di non far rientrare queste ipotesi tra quelle tassative per le quali soltanto è possibile sottoporre un magistrato a procedimento disciplinare (manca infatti, volutamente, una clausola finale di chiusura).
Esclusa la possibilità di ricondurre l’apparenza di imparzialità ad una figura tipica di illecito disciplinare, per dare alla stessa un rilievo ed un significato resta da chiederci quale sia il soggetto più idoneo ad accertarne la violazione, con quali strumenti (controllo di professionalità; codice deontologico) e con quali sanzioni.
Certamente esso non è il governo o per lui il ministro della giustizia, i quali dovrebbero assolutamente astenersi dall’esprimere giudizi, salvo farsi promotori di provvedimenti normativi, qualora ritenuti necessari.
Al proposito vado a terminare ricordando in proposito due casi recenti, uno addirittura proprio di questi giorni (agosto 2024): il caso Apostolico e quello del presidente della regione Liguria Toti.
Il primo caso, assai pubblicizzato, riguarda un provvedimento pronunciato da un magistrato di Catania con cui non veniva convalidato, in quanto ritenuto in contrasto con il diritto dell’Unione europea e con la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo (puntualmente citata), il provvedimento con cui era stato disposto il trattenimento di quattro migranti emesso da questore di Ragusa.
Senza alcun cenno al contenuto della decisione ed alla sua motivazione, la pronuncia viene giudicata “incredibile” (in quanto disapplica una legge dello Stato!) dalla presidente del consiglio dei ministri in carica e la magistrata viene definita da politici aventi anche responsabilità istituzionali, come “scafista in toga”, “nemica della sicurezza sociale” o con un epiteto più classico “toga rossa”.
Tutto ciò quale conseguenza di un video, risalente a cinque anni prima, che ritraeva la partecipazione della magistrata ad una pacifica manifestazione nella quale si chiedeva al governo di far approdare una nave e permettere ai passeggeri, tra i quali minori e donne, di scendere a terra ed essere soccorsi, in quanto alcuni versavano in condizioni di salute precaria,.
Il ministro Nordio ha sostenuto che “la magistrata poteva andare alla manifestazione, ma non doveva” (comportamento quindi legittimo, ma inopportuno?), mentre il ministro Salvini ha scritto che la vicenda mostra chiaramente la necessità ed urgenza di una riforma della giustizia e di una separazione delle carriere (sic!).
Della vicenda si sono occupati in quei giorni giornali e mezzi di comunicazione, dando tutta una serie di notizie, tra le quali quella per cui sulla vicenda il Csm si sarebbe spaccato.
In realtà devo dire, quale componente del Consiglio, di aver firmato una richiesta di pratica a tutela della dottoressa Apostolico, priva al momento di qualsiasi seguito, mentre ho difficoltà a capire su che cosa il Consiglio si sia spaccato, dal momento che né in plenum, né nelle commissioni alle quali partecipo, mai si è aperto un dibattito sulla vicenda. Evidentemente i giornalisti sono più informati.
In questi giorni molta attenzione è rivolta al caso Toti ed al relativo giudizio.
A parte ogni valutazione sulle diverse posizioni assunte in ordine ai rapporti tra giustizia e politica che esula dai limiti di questo intervento, vorrei richiamare il caso solo per sottolineare come i giudici competenti a giudicare sono stati pubblicamente segnalati per violazione della condizione richiesta alla moglie di Cesare. Quello che ha firmato gli arresti e respinto la domanda di revoca, in quanto figlio di un ex consigliere comunale della Margherita e poi del Pd, nonché quello facente parte del collegio giudicante (composto da tre magistrati, ritenuti dal giornalista “al di sopra di ogni sospetto e professionalmente solidi”), in quanto fratello di un già onorevole del M5S, poi uscito e fondatore di un nuovo partito (NOI). (Senaldi, Libero, 6 agosto 2024).
Per il caso della “apparenza di imparzialità” credo sia utile rileggersi quanto affermato dalla Corte costituzionale in una decisione ormai risalente (100/1981), nella quale ebbe a sottolineare come: “deve riconoscersi - e non sono possibili dubbi in proposito - che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino ma deve del pari ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica da essi rivestita non sono indifferenti e prive di effetto per l'ordinamento costituzionale”, aggiungendo che “i magistrati, per dettato costituzionale, debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità: nell'adempimento del loro compito”.
In quella occasione la Corte fece espressamente riferimento alla necessità di operare un bilanciamento tra i differenti interessi in gioco. Questo, come noto, deve condurre alla individuazione dell’interesse prevalente per poi ridurre al minimo i riflessi negativi sull’altro interesse in gioco, pure espressivo di valori costituzionali e deve necessariamente essere sempre condotto non in astratto una volta per tutte, bensì in concreto, ponendo a confronto le specifiche fattispecie.
Il risultato pertanto può essere che, sulla base delle particolarità di queste ultime, in un caso si ritenga debba prevalere l’uno (l’apparenza di imparzialità), mentre in altro caso il diverso interesse (il diritto fondamentale del magistrato).
Immagine: scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a. C. da un sarcofago.