Tutti saprebbero fare un giornale se solo occorresse l’inchiostro tipografico. E invece ci vuole qualcos’altro. Non basta saper non pensare: per fare un giornale, bisogna anche saper esprimere l’assenza di pensiero. Il pensiero, caustico, di un giornalista e scrittore austriaco, è l’occasione per una critica di quelle frequenti letture massimaliste - già presenti e riaffermate con cadenza regolare all’interno e all’esterno della magistratura - che pretendono di spingere il dovere di imparzialità ancora oltre. Verso l’affermazione di un vuoto, radicale e pericoloso dovere di manifestare il non pensiero valoriale - apparire imparziali - tangibile espressione del dovere di astenersi dal pensiero valoriale - essere imparziali. Apparire imparziali, essere imparziali. Essere imparziali, apparire imparziali. Non troppo sullo sfondo c’è il tentativo, mediaticamente molto efficace, di riduzione partitica del discorso valoriale e la volontà di attribuire ad un pezzo delle istituzioni colpe non altrimenti attribuibili. Non avere un pensiero e saperlo esprimere, è questo un giudice?
Essere imparziali, apparire imparziali.
Imperativo ipotetico.
Riecheggia profonde dispute filosofiche sul rapporto apparenza/sostanza/fenomeno/essenza. Propende per la sintesi, afferma la coincidenza.
Richiama quel sentire per cui ciò che sappiamo sull’altro, e ciò che gli altri sanno di noi, si fonda su manifestazioni esteriori. Non c’è un accesso diretto al pensiero altrui e non c’è un obbligo di manifestazione del pensiero. È l’apparente paradosso per cui la profondità coincide con la superficie. È la constatazione per cui, nel rapportarsi, gli esseri umani non possono evitare di prendere le cose per come esse appaiono.
Imperativo ipotetico. Trasformato in martellante citazione, in immediata sensazione.
Al centro del dibattito in questi giorni, come in altri passati e in altri che verranno, mostra la sua natura stratificata e i pericoli che affiorano sulla sua superficie.
Il dovere di non manifestare il proprio pensiero.
Lo strato più profondo, nucleare e indiscusso dell’imperativo è quello per cui il magistrato ha il dovere di non manifestare il proprio pensiero, nel dibattito pubblico, in merito ai procedimenti e ai giudizi assegnati quale giudice naturale.
Il dovere di manifestare il proprio pensiero, nel dibattito pubblico, con equilibrio e misura.
Lo strato intermedio, mobile e dai confini incerti, è quello per cui il magistrato ha il diritto di manifestare, nel dibattito pubblico, il proprio pensiero e il dovere di farlo con equilibrio e misura.
È la forma-contesto della manifestazione (frequentazione partitica o associativa, articolo, convegno, cena, manifestazione di piazza, “like”, conflittualità, ecc…) al centro di un complesso dibattito, intriso di divisioni valoriali e politiche, di concetti inafferrabili e, a volte, di una velata ipocrisia, che in ogni caso ha il pregio di tentare una comprensione della realtà.
La Costituzione, in tal modo, mostra il proprio sfavore nei confronti di attività o comportamenti idonei a creare tra i magistrati e i soggetti politici legami di natura stabile, nonché manifesti all’opinione pubblica, con conseguente compromissione, oltre che dell’indipendenza e dell’imparzialità, anche della apparenza di queste ultime: sostanza e apparenza di principi posti alla base della fiducia di cui deve godere l’ordine giudiziario in una società democratica (…) Il cittadino-magistrato gode certamente dei diritti fondamentali di cui agli artt. 17, 18 e 21 Cost. L’esercizio di questi ultimi diritti gli consente di manifestare legittimamente le proprie idee, anche di natura politica, a condizione che ciò avvenga con l’equilibrio e la misura che non possono non caratterizzare ogni suo comportamento di rilevanza pubblica (Corte Costituzionale n. 170/2018).
«C'è un punto di etica professionale che va chiarito: un magistrato, per il suo specifico ruolo costituzionale, ha doveri più stringenti di un qualsiasi altro funzionario pubblico. Da qui il dovere di non partecipare a manifestazioni conflittuali che possano mettere in discussione la sua credibilità come soggetto imparziale. Si possono manifestare in modo corretto, non conflittuale, le proprie opinioni.» Come? «Con studi, articoli, interventi in sedi proprie; evitando sempre di essere e di apparire parte di un conflitto sociale o politico» (un ex magistrato e politico).
Il magistrato (…) può anche partecipare ai partiti politici purché in maniera “non sistematica né continuativa” (Sezioni Unite civili n. 8906/2020 così massimata: Ai fini della configurabilità dell'illecito disciplinare, mentre la condotta della iscrizione, per la sua valenza di atto formale, che rivela di per sé una stabile e continuativa adesione del magistrato a un determinato partito politico, lo integra indipendentemente dal ricorso di particolari circostanze, la condotta della partecipazione a partiti politici costituisce, invece, illecito solo quando sia qualificabile secondo i parametri di cui alle clausole generali della "sistematicità" e della "continuatività"; con riguardo a tale fattispecie, è pertanto escluso ogni automatismo sanzionatorio).
Ma la vera perversione è il potere. Qui non esistono la destra e la sinistra; esiste solo il centrotavola (un giornalista).
Complesso, fragile, calibrare il dovere di equilibrio e misura in ragione della forma. Complesso, insidioso, farlo in ragione del contenuto della manifestazione del pensiero. Una società realmente pluralista non può permettersi di pesare la libertà in base a delle semplici petizioni di principio o in ragione del solo contenuto o della sola forma del pensiero.
Le difficoltà più serie di un uomo cominciano quando egli è libero di fare ciò che vuole (un naturalista e filosofo)
È comunque il ruolo del magistrato nella società al centro effettivo di quel dibattito valoriale. L’esser magistrato impone di non partecipare al dibattito pubblico e quindi il dovere di non manifestare il proprio pensiero. Dicono alcuni. L’esser magistrato impone di partecipare al dibattito pubblico e quindi il dovere di manifestare il proprio pensiero. Dicono altri.
Nella vita sociale il magistrato si comporta con dignità, correttezza, sensibilità all'interesse pubblico (art. 1 Codice etico A.N.M.).
L’aderente al Gruppo si riconosce nei seguenti principi: (…) l’espressione del proprio pensiero con equilibrio e senso della misura (Statuto Unicost).
Riconosce il diritto del magistrato a partecipare alla discussione pubblica, in particolare sui temi inerenti la tutela dei diritti e le politiche giudiziarie. In nessun caso, tale partecipazione deve pregiudicare l'immagine di imparzialità del magistrato (Carta dei Valori Area DG).
Da sempre pensiamo che un magistrato debba parlare solo attraverso i suoi provvedimenti e proprio per questo chiediamo che la critica muova dal loro contenuto, sulla base di un confronto intellettualmente onesto, basato sul rifiuto del metodo dell'argumentum ad hominem (comunicato Magistratura Indipendente del 4 ottobre 2023).
L’appassionata partecipazione alla conoscenza e alla critica del mondo, l’impegno civile nella vita del Paese non rendono il magistrato meno imparziale: semmai, lo rendono meno misero e non lo espongono al rischio di cadere vittima del potere e del sapere della parte processualmente più forte. Crediamo non ci sia cittadino, di destra o di sinistra, a volere un giudice sulle nuvole, debole e ignaro. La vera imparzialità è equidistanza dalle parti in carne ed ossa del caso concreto, non è, invece, lontananza dalla realtà, indifferenza ai valori e dai principi della Costituzione e delle Convenzioni internazionali (comunicato Magistratura democratica del 7 ottobre 2023).
Il dovere di manifestare il non pensiero.
Lo strato superficiale, quasi gassoso, che si vuole attribuire all’imperativo è quello per cui il magistrato ha il dovere di manifestare il non pensiero, l’assenza di pensiero.
L’imperativo ipotetico essere imparziali, apparire imparziali è declinato così nella pretesa e manifesta neutralità del giudice e del suo pensiero. Declinazione che assume, quando esteso in eccesso, anche il dovere di manifestare il pensiero con equilibrio e misura.
Da ragazzo, in un paese più povero ma non infelice, conoscevo un magistrato, il padre di un amico di scuola divenuto insigne storico, che la sera stava sempre e rigorosamente a casa salvo eccezioni famigliari contenute, e ascoltava l'”Italiana” di Mendelssohn. Sbirciò cinque minuti di Italia-Germania 4 a 3, ma non di più, mentre noi incasinavamo di urla la stanza della televisione nel suo appartamento (un giornalista liberale su un giornale liberale).
La Costituzione prevede che la legge può stabilire il divieto di iscrizione a partiti politici per i magistrati. La neutralità comporta che vi sia un distacco dagli interessi dei partiti politici. Quindi sarebbe bene che i magistrati fossero imparziali e neutrali e che quindi non partecipassero a delle riunioni pubbliche (un ex giudice costituzionale intervenuto in una trasmissione televisiva).
Sono sempre stato un modesto e semplice soldato (...) Io non ho partecipato e non parteciperei mai ad una manifestazione di qualsiasi tipo. Non solo che abbia un connotato politico ma anche una semplice presa di posizione in un senso o nell'altro (…) Ribadisco che per me il magistrato non deve fare esternazioni sui temi che lambiscono l'esercizio delle sue funzioni (un ex magistrato in una intervista).
E qui arriviamo al terzo punto del problema, ovvero alla deriva, ci sia concesso, “eversiva” di un pezzo di magistratura convinta da anni di dover rispondere a una vocazione politica (editoriale di un giornale garantista).
Basta magistrati che interpretano le leggi in vigore. Il loro compito è applicarle (un giornalista ed ex politico).
È sollecitata l’immagine ideale di un magistrato giusto, imparziale poiché neutro. Grazie alla padronanza della tecnica. In ragione della distanza da tutto e tutti. Nell’asetticità della sua stanza chiusa la coscienza e la scienza permettono al magistrato di assumere una decisione che appare di diritto e di giustizia e che quindi è resa secondo diritto e secondo giustizia.
Condizione culturale e sociale, dal sapore pandemico, che garantisce, echeggiando profili di giuridica santità, l’imparzialità e la genuinità della tecnica per mezzo della castità politica ed etica.
E in tale ordine di pensiero si colloca il dovere di manifestare l’astensione dal pensiero.
Il giudice ideale è un puro della tecnica e si mostra quale puro della tecnica.
Il giudice ideale non ha-manifesta alcun convincimento che si collochi all’interno di uno dei grandi temi dell’umanità, della propria comunità e quindi del dibattito pubblico (questione economica, questione femminile, questione ambientale, questione del lavoro debole, questione migratoria, ecc..). La presenza di un pensiero trascina il magistrato nella polvere della politica, strappandolo dalle candide braccia della tecnica.
Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia (un umorista).
E lungo il sentiero di tale pensiero, comunque non indifferente alla realtà delle cose, viene poggiata la trappola logico-giuridica dell’astensione per opportunità, accompagnata dal ventaglio disciplinare. E un po’ più in qua c’è la trappola della incompatibilità ambientale e, un po’ più in là, quella della valutazione di professionalità.
Sappiamo infatti ora che la Giudice ha avuto modo di esprimere sui social - e addirittura in una manifestazione pubblica - idee molto precise e schierate in tema di immigrazione, in aperta polemica con la politica dell’attuale Governo e di suoi esponenti apicali; e così pure avrebbero fatto suoi stretti congiunti. Padronissima la Giudice di manifestare liberamente il proprio pensiero, ma ad una elementare condizione: che di tutto potrà poi occuparsi professionalmente, fuorché di quei temi (…) Esiste l’istituto dell’astensione, la categoria della opportunità, il dovere del Giudice non solo di essere - come dice la stessa Corte di Cassazione - ma ancor prima di apparire imparziale. Un sistema sano innanzitutto previene simili situazioni, ed eventualmente chiede conto della infrazione di queste basilari regole di civiltà giuridica. A meno che il famoso idiomatismo sulla moglie di Cesare valga per tutti, ma non per i magistrati e le loro mogli. (Un avvocato in un articolo apparso su un giornale riformista).
Essi tuttavia possono, anche senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, previo parere del Consiglio superiore della magistratura (…) quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialita' (Regio Decreto 31 maggio 1946, n. 511).
L’imparzialità consiste nell’esercizio della giurisdizione condotto in modo obiettivo ed equo rispetto alle parti (…) Il giudizio ‘negativo’ in ordine a tale profilo è determinato dalla gravità del fatto o dei fatti ascrivibili al magistrato. La gravità del fatto o dei fatti va valutata anche alla luce delle possibili ripercussioni negative nel tempo sulla credibilità dell’esercizio delle funzioni giudiziarie da parte del magistrato (Circolare C.S.M. sulle valutazioni di professionalità).
Essere imparziali, apparire imparziali.
Se sostanza e apparenza devono coincidere allora il dovere di manifestare l’assenza di pensiero è anche e prima di tutto dovere di assenza di pensiero in merito ai grandi temi valoriali che inevitabilmente arrivano, anche a causa di una legislazione assente o confusa, sulla scrivania del giudice.
In disparte l’artificiosa scissione tra tecnica, valori, diritto, politica, la sollecitazione dell’immagine di un giudice, tecnico neutro - assente dal pensiero pubblico e assente nel pensiero, indifferente ai grandi temi etici - contribuisce ad un inganno culturale collettivo, ad un processo e ad un rischio.
Dicono una cosa che sanno che non è vera nella speranza che, se continueranno a dirla a lungo, sarà vera (un drammaturgo inglese)
Il processo, ormai da tempo in corso, è quello della degradazione culturale e valoriale della funzione giurisdizionale e del magistrato. Degradazione che conduce ad un giudice statistico-tecnocrate dotato di una cultura artificiosa, di una intelligenza artificiale e di una spiccata sensibilità numerica - fragile stampella della democrazia pluralista - il cui unico compito è scrivere sentenze “a palate” senza doversi occupare di quel che accade poco fuori la sua stanza, figuriamoci oltre.
Non è l’intelligenza artificiale che ha imparato a pensare come noi, siamo noi che abbiamo smesso di pensare (un professore di filosofia teoretica).
Al di là di tali circostanze, occorre evitare che un’eccessiva e impropria dilatazione del requisito dell’imparzialità porti ad una mortificazione assoluta della libertà di manifestazione del pensiero del magistrato, sul quale incombe sia il dovere di salvaguardare il prestigio della funzione giudiziaria, sia quello di contribuire alla crescita culturale della propria comunità (un magistrato).
L’inganno culturale collettivo è l’affermazione di tre assiomi che sfuggono alla discussione e alla critica: la possibilità di un pensiero neutro, con la conseguenza di nascondere la centralità della realtà e del discorso valoriale; l’applicazione della dialettica schmittiana amico-nemico come unico canone di interpretazione del politico e della discussione politico-valoriale; la coincidenza di quest’ultima con la discussione partitica, con la conseguenza di strattonare la magistratura nella lotta partitica ogni volta in cui è chiamata a pronunciarsi su temi di discussione politica e valoriale.
È pura illusione immaginare la loro indifferenza ai valori, come la loro neutralità culturale (Sezioni Unite civili n. 8906/2020)
È pura illusione pensare che anche la stessa intelligenza artificiale sia neutra posto che apprende e manipola un insieme di dati, che sono espressione di una società, riflettendone gli equilibri e gli squilibri.
Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio (magistrato proclamato beato il 9 maggio 2021).
Il rischio finale è quello che intravide una filosofa politica (che amava definirsi pensatrice) nell’ascoltare la deposizione processuale di un “burocrate” genocida: trovarsi di fronte a un uomo né diabolico, né stupido né malvagio, ma di fronte a un uomo ordinario, contrassegnato dalla “mancanza di pensiero” che si manifestava attraverso una cieca adesione a “codici d’espressione e di condotta convenzionali e standardizzati”.
Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente collegata a un’incapacità di pensare (…) Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva (ipotesi che fino alla fine tenne in dubbio i giudici), ma perché le parole e la presenza degli altri, quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano.
È possibile fare il male (le colpe di omissione alla stessa stregua di quelle commesse) in mancanza non solo di “moventi abietti” (come li chiama la legge), ma di moventi tout court, di uno stimolo particolare dell’interesse o della volizione? Si può credere che la malvagità, comunque la si definisca, questa “determinazione a mostrarsi scellerati”, non sia una condizione necessaria per compiere il male? Il problema del bene e del male, la nostra facoltà di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato sarebbe forse connesso con la nostra facoltà di pensiero? (…) Potrebbe l’attività del pensare come tale, l’abitudine di esaminare tutto ciò a cui accade di verificarsi o di attirare l’attenzione, indipendentemente dai risultati e dal contenuto specifico, potrebbe quest’attività rientrare tra le condizioni che inducono gli uomini ad astenersi dal fare il male, o perfino li “dispongono” contro di esso?
Quando tutti si lasciano trasportare senza riflettere da ciò che gli altri credono e fanno, coloro che pensano sono tratti fuori dal loro nascondiglio perché il loro rifiuto a unirsi alla maggioranza è appariscente, e si converte perciò stesso in una sorta di azione. In simili situazioni la componente catartica del pensiero (la maieutica di Socrate, che porta allo scoperto le implicazioni delle opinioni irriflesse e non esaminate, e con ciò le distrugge - si tratti di valori, di dottrine, di teorie, persino di convinzioni) si rivela implicitamente politica. Tale distruzione, infatti, ha un effetto liberatorio su un’altra facoltà, la facoltà di giudizio, che non senza ragione si potrebbe definire la più politica fra le attitudini spirituali dell’uomo. (…) La facoltà di giudicare ciò che è particolare (così come scoperta da Kant), l’attitudine a dire “questo è sbagliato”, “questo è bello” e così via, non è la stessa cosa dell’attività di pensare. Il pensiero ha a che fare con l’invisibile, con le rappresentazioni di cose che sono assenti; il giudicare concerne sempre particolari nelle vicinanze e cose a portata di mano. Nondimeno l’uno è in relazione con l’altro, allo stesso modo dell’essere coscienti e della coscienza morale.
Non avere un pensiero e saperlo esprimere, è questo un giudice?