ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
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Il saluto “romano” e la “chiamata del presente”. La sentenza del Tribunale di Milano n. 12111/23 e la sentenza di Cass. Sez. Un. n. 16153/2024
di Piergiorgio Ponticelli
Sommario: 1. Il caso e alcune necessarie premesse - 2. La sintesi della discussione delle parti nel processo innanzi al Tribunale di Milano - 3. La sentenza del Tribunale di Milano, in sintesi - 4. La sentenza delle Sezioni Unite, in sintesi
1. Il caso e alcune necessarie premesse
Con la sentenza n. 12111 del 13 Luglio 2023, depositata il 27 Ottobre 2023, il Tribunale di Milano ha dichiarato colpevoli del delitto previsto e punito dagli artt. 110 c.p. e 5 della legge n. 645/1952, in esso assorbito quello previsto dall’art. 2 del d.l. 122/93 convertito con modificazioni dalla legge n. 205/1993, tredici soggetti imputati ex artt. 110, 112 n. 1 c.p., 2 d.l. 122/1993 e 5 L. 645/1952 perché, in concorso tra loro e con altri non identificati, ciascuno con specifici ruoli ben dettagliati nella seconda parte dell’imputazione, partecipando a Milano il 29 aprile 2018 a una pubblica manifestazione (non autorizzata) commemorativa di tre defunti – uno militante della Repubblica Sociale italiana ucciso in Piazzale Susa il 29 aprile 1945 da membri del Comitato di Liberazione Nazionale, l’altro militante del Fronte della gioventù ucciso il 29 aprile 1975 a Milano in Via Paladini da militanti di sinistra legati ad Avanguardia Operaia e il terzo un consigliere provinciale del MSI ucciso a colpi di pistola il 29 aprile 1976 a Milano, in Viale Lombardia, da un commando di Prima Linea - iniziativa promossa da due partiti politici e da un’associazione politica di estrema destra - compivano manifestazioni usuali del partito fascista e comunque di gruppi aventi tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, quali la "chiamata del presente" e il cosiddetto "saluto romano".
Il caso oggetto del giudizio si segnala sia perché la sua trattazione e la sua risoluzione hanno imposto di affrontare temi di particolare interesse quali sono la qualificazione giuridica da attribuire alla condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla "chiamata del presente" e nel cosiddetto "saluto romano", il rapporto – se di specialità oppure di concorso di reati - tra la fattispecie di reato prevista dall’art. 5 della legge 645/1952 e quella prevista dall’art. 2, comma 1, del d.l. 122/1993, l’individuazione dei beni giuridici rispettivamente tutelati e la natura del pericolo – concreto oppure presunto (o astratto) – che le caratterizza, sia perché nelle more del deposito della sentenza del Tribunale di Milano, come si vedrà nel prosieguo, alcune di queste questioni, d’indubbia rilevanza anche sotto il profilo dei principi generali in materia di diritto penale, sono state rimesse al vaglio delle Sezioni Unite siccome controverse.
È necessario e opportuno rammentare, infatti:
che l’art. 5 della legge 645/52 (c.d. legge Scelba) incrimina e punisce con le pene della reclusione e della multa chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste;
che l’art. 1 della medesima legge, come modificato dall’art. 7 della legge 152/1975, prevede che “Ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”;
che l’art. 2, comma 1, del d.l. 122/93, convertito con modificazioni dalla legge 205/1993 (c.d. legge Mancino), incrimina e punisce con le pene della reclusione e della multa chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654;
che l’art. 3 della legge n. 654/1975 è stato abrogato, a far data dal 6 aprile 2018, dall’art. 7 del d.lgs. n. 21/2018 e che l’art. 8, comma 1, dello stesso decreto legislativo prevede che “Dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i richiami alle disposizioni abrogate dall'articolo 7, ovunque presenti, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del codice penale come indicato dalla tabella A allegata al presente decreto”;
che a far data dal 6 aprile 2018, dunque, il rinvio all’art. 3 della legge 654/75 deve intendersi effettuato all’art. 604 bis del codice penale e, di conseguenza, a “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” (come del resto già prevedeva l’art. 3 stesso, essendosi trattato di un caso di abrogatio sine abolitione);
che prima del deposito della sentenza del Tribunale di Milano ma dopo la sua pronuncia, come esplicitamente segnalato nella motivazione della sentenza stessa, la prima sezione penale della Corte di cassazione, con ordinanza n. 38686 del 6 settembre 2023, depositata il 22 settembre 2023, Clemente e altri, aveva rimesso alle Sezioni Unite le seguenti questioni controverse: «Se la condotta consistente nel protendere in avanti il braccio nel "saluto fascista", evocativa della gestualità tipica del disciolto partito fascista, tenuta nel corso di una manifestazione pubblica, senza la preventiva identificazione dei partecipanti quali esponenti di un'associazione esistente che propugni gli ideali del predetto partito, integri la fattispecie di reato di cui all'art. 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ovvero quella prevista dall'art. 5 legge 30 giugno 1952, n. 645; se entrambe le disposizioni configurino un reato di pericolo concreto o di pericolo astratto e se le stesse siano tra loro in rapporto di specialità oppure possano concorrere»;
che con la sentenza n. 16153 del 18 gennaio 2024, depositata il 17 aprile 2024, Clemente e altri, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno risolto le questioni controverse fissando il seguente principio di diritto: «La condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla "chiamata del presente" e nel cosiddetto "saluto romano" integra il delitto previsto dall'art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. fin. Cost., potendo altresì integrare il delitto, di pericolo presunto, previsto dall'art. 2, comma 1, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del complessivo contesto fattuale, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654)».
La sentenza del Tribunale di Milano ha dapprima proceduto alla ricostruzione del fatto, dipoi “alla disamina della questione della sussunzione di esso in una o entrambe le fattispecie contestate, illustrando l'opzione dell'assorbimento per il principio di specialità adottata dal Tribunale, dando, tuttavia, atto che, nelle more della pendenza dei termini per il deposito della presente motivazione, la questione del rapporto tra le due fattispecie è stata rimessa alle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione in ragione del contrasto formatosi nella Prima sezione penale della Corte di legittimità” e, infine, ha vagliato “la fondatezza dell'accusa in relazione all'opzione ermeneutica indicata”.
2. La sintesi della discussione delle parti nel processo innanzi al Tribunale di Milano
La discussione delle parti, dopo avere dato atto che la materialità dei fatti era incontroversa ad eccezione che per uno degli imputati, il cui difensore aveva posto in dubbio l'esatta attribuibilità del gesto contestato al suo assistito argomentando con la non nitidezza di una delle fotografie acquisite al processo, è stata sintetizzata nel modo che segue:
“ la discussione si è incentrata, da un lato, sulla configurabilità a titolo di concorso di reati di tutt'e due le fattispecie contestate, - in senso favorevole l'accusa pubblica, mentre in senso nettamente contrario, la parte civile e le difese degli imputati -; dall'altro, sulla fondatezza dell'accusa, ossia sulla sussistenza del reato o dei reati, in ragione della riconosciuta, per l'accusa pubblica e privata, ovvero del tutto disconosciuta, per le difese degli imputati, sussistenza del pericolo in concreto postulato.
In particolare, il P.M. ha rievocato i tratti specifici della composita manifestazione, riduttivamente relegata a mera commemorazione di defunti. Del resto, proprie le tre formazioni di estrema destra organizzatrici si sono sempre segnalate per una programmatica politica discriminatoria contro le diversità individuali, sociali ed etniche, oltre che per rievocare simbologie rituali del disciolto partito fascista, come, nella specie, la chiamata del presente. Inoltre, proprio la metamorfosi di tali commemorazioni celebrative in vere e proprie manifestazioni politiche, con conseguente aumento di tensione per l'ordine pubblico, indusse da diversi anni la Questura a negare le autorizzazioni di cortei, proprio come quella richiesta estemporaneamente senza preavviso dopo la fine della funzione religiosa il 29.4.20 18. Indi, il P.M. ha propugnato la configurabilità di entrambe le fattispecie, in ragione della specialità reciproca di esse, quanto al bene-interesse tutelato: da un lato, l'ordine democratico costituzionale, la legge Scelba; dall'altro, l'uguaglianza, la legge Mancino, vero e proprio crimine contro l'uguaglianza. Ancora, il P.M. ha richiamato la giurisprudenza anche recentissima e sempre concernente la medesima manifestazione, ma di altri anni, come quella recentissima avente ad oggetto l'evento del 29 aprile 2016, soprattutto in punto di riconoscimento del pericolo concreto. Tutte le descritte modalità della manifestazione, culminata con la rappresentazione tipica del disciolto partito fascista, quale il rito della chiamata del presente in quel peculiare contesto e ambiente, senz'altro integrarono il pericolo concreto di proselitismo postulato dalla giurisprudenza di legittimità e della Corte costituzionale. Infine, quanto al dolo, il P.M. ha richiamato il recentissimo arresto della Suprema Corte proprio relativo alla medesima manifestazione, ma di un altro anno, allorché non era stata riconosciuta la buona fede dell'imputato, a tanto non valendo il contrasto giurisprudenziale. La natura illecita della condotta e il contrasto giurisprudenziale non avrebbero mai potuto giustificare il dubbio, esimente della punibilità. Al contrario, l'assunzione consapevole e deliberata del rischio contrasta insanabilmente con l'invocato art. 5 del codice penale.
La parte civile, condivisi i rilievi del P.M., si è soffermata sulla trasfigurazione della commemorazione del 29 aprile, da molti anni, oramai, nient'affatto più tale, perché trasmodata in vera e propria manifestazione politica, come vera e propria prova di forza politica, di voluto e conseguito grosso impatto mediatico e sociale, quindi, ben oltre l'intento di mero ricordo pietistico laico. Anzi, intervenuti i divieti del corteo, il quale notoriamente si snodava per intere frazioni del quartiere città studi, gli organizzatori ricorsero ad astuti e subdoli stratagemmi per aggirare l'ostacolo, salvo preservare gli scopi propagandistico-politici; reale essenza della manifestazione. In particolare, gli organizzatori escogitarono di separare i punti di adunata delle tre formazioni estremistiche, salvo poi farle sfilare compatte e a schiera nell'affluire alla chiesa, sortendo il medesimo effetto identitario e propagandistico corrispondente a quello perseguito con il corteo inizialmente autorizzato da Piazzale Susa per tutta viale Argonne e fino alla Via Paladini n. 15. Inoltre, gli stessi inserirono artificiosamente nel programma la funzione religiosa, invece per tanti anni mai prevista, siccome sempre sbandierando trattarsi di una preghiera laica. Ancora, gli stessi ricorsero all’inopinata richiesta - senza preavviso né obiettiva ragion pratica- di sfilare in corteo tutt'attorno l'imponente complesso della Chiesa di Santi Nereo e Achilleo, in fondo a viale Argonne. Poi, pur in difetto di alcuna autorizzazione di ogni forma di corteo, dovendo dirigere verso il punto culminante di via Paladini n. 15, articolati in ben oltre un migliaio di persone inquadrate e irreggimentate per appartenenza, muovendosi con cadenza compatta e rituale, i partecipanti di fatto realizzarono un corteo, ponendo la DIGOS di fronte al fatto compiuto, di certo inibendo ad essa di intervenire per tema di disordini. Il tutto risolvendosi in un rito nient'affatto commemorativo di defunti, ma, in realtà, politico e, quindi, nient'affatto religioso. Rito in ogni fase organizzato e studiato per esaltare un messaggio politico del tutto esorbitante rispetto a quello simulato pietistico commemorativo. Del resto, il successivo passaggio a Piazzale Loreto fu evocativo della valenza propagandistica volta al proselitismo, esaltando il fascismo. Infine, la parte civile ha richiamato le considerazioni svolte dal P.M. in punto di dolo, senz'altro ravvisabile, nonostante talune oscillazioni giurisprudenziali, come tali non valevoli per escludere l'elemento psicologico.
Le difese degli imputati hanno, innanzitutto, contestato la configurabilità del concorso delle due fattispecie ascritte, invece, da ritenere in rapporto di specialità. Peraltro, l’art. 2 della legge Mancino rileverebbe in un contesto razzistico discriminatorio, nella presente sede, invece, per nulla apprezzabile. Le manifestazioni del 29 aprile furono da decenni autorizzate, sicché alcuna violazione specifica del TULPS, come l'art. 18, nemmeno nella presente vicenda fu contestata. Il reato speciale, ossia l'art. 5 della legge Scelba, in astratto configurabile, non ricorrerebbe nella specie per difetto del pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista. Del resto, paradossalmente, se in tanti anni il pericolo non si integrò, non registrandosi alcuna ricostituzione, significa che quel pericolo concreto non è mai esistito. La simbologia della chiamata del presente vale solo a titolo identitaria, ma sempre pietistico, fermo restando che l'atto si esaurisce in poche decine di secondi, sì da non poter rappresentare alcun pericolo. Né i partecipanti facevano riferimento a formazioni politiche illegali, tant'è che due di esse poterono partecipare alle elezioni politiche. Anzi, le stesse formazioni sono attive nel volontariato e perseguono scopi solidaristici nell'ambito della destra sociale. In ultima analisi, si è sempre trattato di una commemorazione pietistica per nulla proiettata politicamente. Le difese hanno richiamato le pronunce della Suprema Corte proprio relative alla medesima manifestazione, ma di altri anni, disconoscenti alcun pericolo concreto. Infine, le difese degli imputati, proprio valorizzando il contrasto giurisprudenziale, hanno invocato, nel dubbio, la buona fede dei propri assistiti”.
3. La sentenza del Tribunale di Milano, in sintesi
In sintesi, la sentenza del Tribunale di Milano:
ha seguito l'orientamento che ritiene il rito della chiamata del presente una manifestazione tipica del disciolto partito fascista nella fattispecie della legge Scelba (legge 645/52), considerandola speciale rispetto alla fattispecie della legge Mancino (art. 2, comma 1, d.l. 122/93);
ha ritenuto che nel caso di specie fosse stata senz'altro integrata la condotta tipica ex art. 5 della legge Scelba della manifestazione fascista, realizzata in pubblica riunione, sulla pubblica via e in luogo affollato, con lo svolgimento di un rituale annunciato e tipico di una manifestazioni di tale natura e con frasi preparatorie “finalizzate tutte a quel preciso epilogo proprio sotto la targa del caduto, in modo da attrarre, non solo, i passanti, ma anche, come ogni anno, i media, amplificando a dismisura la risonanza dell'evento, sia nel complesso che nel suo epilogo funzionale”;
ha evidenziato che la chiamata del presente scandita dall’appello dei camerati caduti << consiste nella risposta degli astanti in coro con l'affermazione simultanea ''presente" e il saluto romano o fascista, ossia in modo scattante, levando il braccio e la mano destra, con il palmo verso il basso, protesi verso l'alto, inclinati a 45°, in modo simultaneo. Quindi, la risposta corale e simultanea con il presente e il saluto fascista o romano rispetto all'appello intonato dall’officiante fu l 'articolazione ordinaria; anzi quella proprio rituale. Peraltro, il rito dell’appello o del presente per commemorare i caduti fu notoriamente emblematico nella simbologia liturgica fascista, tant'è che fu appositamente disciplinato alla voce "Appello fascista" del Dizionario di politica edito dal Partito Nazionale Fascista nel 1940, voluto espressamente da MUSSOLINI >>; e che << in conclusione, il rito della chiamata del presente, contraddistinto dall'appello e dalla risposta gridata ''presente" e dal gesto della levata del saluto fascista, fu quello tipico del disciolto partito fascista >>;
ha ritenuto che nel caso di specie sussistesse il necessario pericolo concreto, in relazione al contesto e all'ambiente della manifestazione pubblica in questione, << declinato secondo l'accezione della Corte costituzionale e della costante giurisprudenza di legittimità, valorizzanti il momento e l’ambiente: Corte cost. sentenze n. 74 del 6.12.1958 e n. 15 del 27.2.1973; Cass., Sez. 1^ n. 12049, 17.2.2023, Polacchi, non massimata; Cass., Sez. 1^ n. 3806, 19.11.2021 , Buzzi, Rv 282500; Cass., Sez. 5^, n. 36162, 18.4.2019, Alberga, Rv 277526-01; Cass., Sez. 1^ n. 37577, 25.3.2014, Bonazza, Rv 259826; Cass. Sez. 1^ n. 3826, 18.1.1972, Libanore, Rv 121163. Del resto, come ribadito dal più recente arresto (Cass., Sez. 1^ n. 12049, 17.2.2023, Polacchi), "la giurisprudenza di legittimità che si è occupata dell'art. 5 della legge Scelba ha sempre affermato che il delitto di cui all'art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645 (come modificato dall'art. 11 della legge 22 maggio 1975, n. 152) è reato di pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell'ideologia fascista in sé, attese le libertà garantite dall'art. 21 Cast., ma soltanto ove le stesse possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all'ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell'ordine democratico e dei valori ad esso sottesi» (cfr Cass., Sez. 1^, n. 11038, 02.03 .2016, Goglio, Rv. 269753) >>;
ha ritenuto che non sia la manifestazione esteriore come tale a essere incriminata ma il suo realizzarsi «in condizioni di pubblicità tali da rappresentare un concreto tentativo di raccogliere adesioni a un progetto di ricostituzione del partito fascista, al riguardo da intendersi, non in senso eminentemente storico, ma anche attualizzato in continuità ideale, riproponendone i tratti distintivi della supremazia razziale e sociale, della discriminazione personale, sociale, etnica, sessuale e religiosa, nonché, talora, pure della violenza come metodo di lotta politica;
dunque, si è consapevolmente discostata dall’orientamento seguito, invece, da Cass. Sez. 1^ n. 7904 del 12 ottobre 2021, depositata il 4 marzo 2022, Rv 282914, Scordo (così massimata: Non sussiste rapporto di specialità fra il reato di cui all'art. 2 del d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni nella legge 25 giugno 1993, n. 205, che incrimina le manifestazioni esteriori, suscettibili di concreta diffusione, di simboli e rituali dei gruppi o associazioni che propugnano nell'attualità idee discriminatorie o razziste, e quello di cui all'art. 5 della legge 26 giugno 1952, n. 645, come modificato dall'art. 11 della legge 22 maggio 1975, n. 152, che sanziona il compimento, in pubbliche riunioni, di manifestazioni simboliche usuali o di gesti evocativi del disciolto partito fascista, non sussistendo un rapporto di necessaria continenza tra le due fattispecie, caratterizzate da un diverso ambito applicativo), che nella motivazione aveva ritenuto, fra l’altro: 1) che per applicare la disposizione incriminatrice dell’art. 2 d.l. 122/93 << in punto di simbologia, il nesso di correlazione contenuto nel testo della legge impone che si tratti non già di una organizzazione “storica” ma di una organizzazione (movimento, gruppo) esistente ed operante nel momento in cui viene posta in essere la condotta penalmente rilevante. Non vi è altra interpretazione possibile, dato che le disposizioni della legge n. 654 del 1975 non mirano ad inibire la rievocazione di gruppi storici ma a punire condotte di tipo associativo (con ampio reticolato normativa) esistenti nell'attualità, con primaria necessità di identificazione del 'gruppo' cui le condotte di proselitismo accedono. Ed è appena il caso di rilevare che le disposizioni già contenute nella legge del 1975 in tema di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa sono state trasfuse, con il d.lgs. n. 21 del 1° marzo 2018, nel testo del codice penale (artt. 604-bis e 604-ter cod. pen.), sicché la integrazione della fattispecie relativa all'art. 2 del d.l. n.122 del 1993 va oggi realizzata in riferimento a quanto previsto dal comma 2 dell'art. 604-bis cod. pen. (ove è espresso il divieto di costituire o partecipare ad organizzazioni, gruppi, associazioni o movimenti aventi tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi). Ciò non toglie che, in via di fatto: a) il gruppo attualmente esistente si richiami ad ideologie passate che hanno coltivato analoghi disvalori in punto di discriminazione o violenza per motivi razziali, tra cui l'ideologia fascista o nazista; b) il gruppo possa, in concreto, fare uso di simboli di 'quelle' organizzazioni storiche a fini di identificazione della matrice ideologica. Ma ciò che caratterizza la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 2 del d.l. n.122 del1993 è proprio il nesso funzionale con organizzazioni o gruppi esistenti oggi, il che inevitabilmente ricade sul fronte della connotazione di pericolosità. Qui il reato può ritenersi di pericolo presunto essenzialmente in ragione della indefettibile correlazione con il 'gruppo' che attraverso quel particolare simbolo fa, oggi, una reale attività di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali >>; 2) che di conseguenza, per le considerazioni che precedono, fosse impropria l'adozione, nel caso al suo vaglio, della categoria dogmatica della specialità di cui all'art. 15 cod. pen.; 3) che soltanto << la esistenza di un rapporto di continenza - derivante dal confronto strutturale tra le fattispecie - nel cui ambito si individui in una delle due disposizioni un elemento specializzante impone dunque di applicare esclusivamente la disposizione “speciale” (e non di scegliere se applicare la disposizione generale o quella speciale) salvo che sia altrimenti stabilito >>; 4) che << Negli altri casi la quaestio iuris va risolta applicando il generale principio di tipicità/tassatività dell'illecito e le norme in tema di concorso di reati (art. 81 con la deroga di cui all'art. 84 cod. pen.) >> ; 5) che << In realtà le due disposizioni incriminatrici hanno possibili aspetti di convergenza fattuale ma non possono essere ritenute collocabili nella dimensione della specialità. L'art. 5 della legge Scelba inquadra una condotta di rievocazione storica del «disciolto» partito fascista attraverso un determinato comportamento simbolico. L'art. 2 del d.l. n. 122 del 1993 incrimina a determinate condizioni l'utilizzo di emblemi o simboli 'propri o usuali' di organizzazioni o gruppi che, all'attualità, incitino alla discriminazione o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi >>; 6) che << Dunque se da un lato vi è un aspetto di possibile interferenza (il fascismo ha promosso storicamente discriminazione e violenza anche per motivi razziali, fermi restando altri concorrenti disvalori), dall'altro nel confronto tra le fattispecie astratte non vi è continenza, sia in ragione della maggiore ampiezza delle connotazioni ideologiche negative del fascismo, sia per l'essenziale diversità di ambito applicativo rappresentata dalla correlazione tra l'uso dei simboli e la identificazione di un gruppo/movimento /associazione oggi esistente (secondo la legge del 1975) che persegua il particolare finalismo discriminatorio >>; 7) di andare in espresso e consapevole dissenso rispetto all’orientamento di Cass, sez. I n. 21409 del 27.3.2019, rv 275894-01, Leccisi (così massimata << Il cd. "saluto romano" o "saluto fascista", nella specie accompagnato dall'espressione "presenti e ne siamo fieri", è una manifestazione esteriore propria od usuale di organizzazioni o gruppi indicati nel decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205 (recante misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), ed inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall'art. 2 del citato decreto-legge>>) poiché in quella decisione << non viene esaminato il profilo - da ritenersi ineludibile - della inerenza delle manifestazioni o gestualità ad associazioni o gruppi attivi e presenti nella realtà fenomenica attuale, cui si riferisce la disposizione incriminatrice in modo espresso ( ... propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, di cui all'art. 3 l. n. 654 del 1975) gruppi che vanno previamente identificati, allo scopo di comprendere se si stratti di aggregazioni umane che hanno tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Ciò in aderenza ai principi di tassatività delle norme incriminatrici e necessaria corrispondenza tra fatto concreto e fattispecie astratta >>;
la sentenza del Tribunale di Milano, sul punto, ha affermato che << Al contrario, l'ambito applicativo della legge Scelba è sì circoscritto alle manifestazioni tipiche del disciolto partito fascista - come nel caso di specie per il rito della chiamata del presente con correlato saluto fascista - , mentre il pericolo di ricostituzione del partito fascista è semanticamente riferito a una formazione che ne perpetui e richiami i postulati fondamentali, ma senza replicarli in modo pedissequo, esattamente come avvenne per la formazione estremistica Ordine Nuovo, sciolta d'imperio negli anni '70, proprio perché ricostitutiva del partito fascista, ma senza duplicarne tutte le caratteristiche anche formali e denominative. Di qui, la ribadita legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge Scelba per la perdurante attualità dell'esigenza di tutela delle istituzioni democratiche, atta a legittimare limitazioni alla libertà di espressione, secondo quanto previsto anche dall'art. 10 e dall’art. 17 della Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo >>;
ha ritenuto - dopo avere ribadito “l’inveramento del pericolo concreto” per le ragioni dette e per quelle che si diranno nel prosieguo - di dovere valutare, quale elemento normativo della fattispecie dell’art. 2 del d.l. 122/93 (che punisce chi in pubbliche riunioni compia manifestazioni esteriori o ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi fondati sul razzismo e la discriminazione), se il fascismo rientri in siffatte organizzazioni etc, razziste e discriminatorie;
si è ampiamente diffusa sui motivi, anche sociali e storici, per cui ha ritenuto che il fascismo, “senza particolari periodizzazioni artatamente involutive”, “fu essenzialmente razzista sin dalle origini e, quindi, può essere sussunto nelle organizzazioni razziste di cui all'art. 2 della legge Mancino”;
ha ritenuto che << Ulteriore corollario è che le manifestazioni esteriori, i simboli o emblemi propri di tali congreghe o organizzazioni, quindi anche se relative al fascismo, sono punite dalla legge Mancino, qualora fossero ostentati in pubbliche riunioni. Tanto vale per l'ostentazione pubblica di vessilli con fasci littori, celtiche, ma anche svastiche etc. Alla luce di tali rilievi, dunque, nell'ipotesi del rito della chiamata del presente, come disciplinato dalla specifica liturgia fascista passata in rassegna, si verte di un elemento specializzante rispetto a tutti quelli delle innominate formazioni, organizzazioni etc razziste. Elemento specializzante che assorbe la fattispecie della legge Mancino, rendendo speciale la legge Scelba senza configurare alcun concorso di norme. Né vale enucleare una sostanziale divergenza del bene interesse tutelato: l'ordine pubblico costituzionale, la legge Scelba; l 'uguaglianza, la legge Mancino. Ed invero, a ben osservare, l'uguaglianza costituisce uno dei fondamenti dell'ordine pubblico costituzionale. Parimenti, la natura del pericolo non vale a rendere reciprocamente specifiche le fattispecie. Se è vero che la legge Scelba postula il pericolo in concreto, declinato secondo il momento e l'ambiente; è anche vero che è controversa la ricorrenza dell'analogo tipo di pericolo per la legge Mancino, laddove, anche fosse configurato in termini di pericolo astratto, per essere costituzionalmente orientato, presuppone il rinvenimento nella fattispecie di elementi che consentano di ritenere dotate di attitudine offensiva le condotte illecite (cfr Corte cost. n. 225 del 1974) >>;
ha vagliato (con esito positivo) se della fattispecie prevista e punita dalla legge Scelba (n. 645/52), art. 5, ricorresse effettivamente nel caso di specie anche il pericolo concreto come sopra declinato, tenendo conto, tra le altre, anche delle sentenze n. 74/1958 e n. 1/1957 della Corte costituzionale e pure con riferimento specifico alla “pubblica riunione”, individuando segnatamente il carattere e l’essenza del pericolo concreto non già nella diretta e immediata ricostituzione del partito nazionale fascista o del partito fascista della Repubblica Sociale Italiana bensì nell’esistenza di atti preparatori e prodromici causalmente diretti a quella ricostituzione, in quel determinato momento e in quel determinato ambiente e quindi con adeguata contestualizzazione e perciò adeguatamente contestualizzati, che come tali trascendono da ogni intento o movente celebrativo, commemorativo, pietistico, oblativo o di suffragio << per veicolare, invece, in modo strumentale, un messaggio propagandistico politico volto a riscuotere consensi su quei progetti politici, incentrati sul coacervo di valori di intolleranza, razzismo, discriminazione e rigetto del metodo democratico per la lotta politica. La stessa pubblica riunione va interpretata secondo il medesimo parametro, essendo sì necessaria, ma non ancora sufficiente di per sé, proprio perché occorre ancora verificare, con approfondita disamina fattuale, l'effetto e la natura di quel carattere pubblico ai fini dell'apprezzamento del pericolo concreto nel senso chiarito >>;
ha concluso, sulla base della ricostruzione probatoria effettuata, che << Esaminando con attenzione tutta la manifestazione, è, dunque, dato cogliere quanto l’elemento pietistico e di asserito raccoglimento, fosse stato oltremodo trasfigurato in un potente e amplissimo messaggio propagandistico volto a raccogliere consensi attorno a una precisa ideologia e a impressionare le folle. Né vale, sempre secondo l'approccio difensivo selettivo e minimalistico, descrivere tutta la complessa manifestazione come di semplice e anodina affermazione identitaria. Di contro, la manifestazione si risolse in una manifestazione politica di propaganda volta a raccogliere consensi, compiendo una vera e propria prova di forza politica, come condivisibilmente argomentato dalla difesa di parte civile. La commemorazione mossa dalla pietas e volta all'omaggio in suffragio ai caduti volutamente esorbitò, in modo eclatante e, soprattutto, gratuito, in una manifestazione fascista di propaganda volta al proselitismo, impressionando le folle. I descritti mezzi impiegati furono idonei ed efficaci. La manifestazione non fu, dunque, commemorativa nel senso minimalista e meramente rivolto al lontano passato, con forme pittoresche e innocue. La manifestazione fascista della celebrazione pubblica per cui è causa fu, dunque, pericolosa in concreto in relazione al momento e all’ambiente. Ne consegue che fu, senz'altro, integrato il pericolo concreto postulato dalla fattispecie, come declinato dalla univoca e costante giurisprudenza di legittimità sulla scorta delle due note pronunce della Corte costituzionale >>;
infine, ha esaminato e disatteso la questione della pretesa buona fede, fatta valere dai difensori degli imputati, richiamandosi alla sentenza (non massimata) di Cass. I n. 12049 del 17 febbraio 2023, depositata il 22 marzo 2023, Polacchi, e facendo propri i principi ivi affermati: << la necessaria concretezza del pericolo, in relazione al momento ed all'ambiente in cui sono compiute le manifestazioni esteriori, e dell'attentato alla tenuta dell'ordine democratico e dei valori ad esso sottesi caratterizzato dal pericolo di ricostituzione dell'ideologia fascista, costituiscono dei punti fermi nell'evoluzione giurisprudenziale di legittimità. La giurisprudenza di legittimità è, del resto, pienamente aderente all'insegnamento della Corte costituzionale, la quale ha chiarito che è la «intenzione de/legislatore, il quale, dichiarando espressamente di voler impedire la riorganizzazione del disciolto partito fascista, ha inteso vietare e punire non già una qualunque manifestazione del pensiero, tutelata dall'art. 21 della Costituzione, bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che, come si è detto prima, possono determinare il pericolo che si è voluto evitare . ... La ratio della norma non è concepibile altrimenti, nel sistema di una legge dichiaratamente diretta ad attuare la disposizione XII della Costituzione. !!legislatore ha compreso che la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle; ed ha voluto colpire le manifestazioni stesse, precisamente in quanto idonee a costituire il pericolo di tale ricostituzione» (Corte costituzionale, sentenza n. 7 4 del l 958). Con questa interpretazione, coerente a quella che la Corte costituzionale ha dato nella sentenza n. l del1957 in merito all'art. 4 della legge Scelba, l'art. 5 l. n. 645 del l 952 si inquadra perfettamente nel sistema delle sanzioni dirette a garantire il divieto posto dalla XII disposizione transitoria, né contravviene al principio dell'art. 21, primo comma, della Costituzione. Le manifestazioni di carattere simbolico e apologetico devono essere sostenute, per ciò che concerne il rapporto di causalità fisica e psichica, dai due elementi della idoneità ed efficacia dei mezzi rispetto al pericolo della ricostituzione del partito fascista, sicché quando questi requisiti sussistono, l'ipotesi di cui all'art. 5 legge citata è costituzionalmente legittima. Questo principio è, d'altra parte, fondato sulla stessa ratio legis che è quella di evitare, attraverso l'apologia e le manifestazioni proprie del disciolto partito, il ritorno a qualsiasi forma di regime in contrasto con i principi e l'assetto dello Stato: tale ratio informa di sé ogni singola disposizione di cui si compone la legge 20 giugno l 952, n. 645. Necessario corollario di tale costante interpretazione giurisprudenziale è, in effetti, l'irrilevanza della questione dell'errore sul precetto ex art. 5 cod. pen. La giurisprudenza ha da tempo chiarito che «l'esclusione di colpevolezza per errore di diritto dipendente da ignoranza inevitabile della legge penale può essere giustificata da un complessivo e pacifico orientamento giurisprudenziale che abbia indotto nell'agente la ragionevole conclusione della correttezza della propria interpretazione del disposto normativa. Ne consegue che in caso di giurisprudenza non conforme o di oscurità del dettato normativa sulla regola di condotta da seguire non è possibile invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, atteso che, in caso di dubbio, si determina un obbligo di astensione dall'intervento, con l'espletamento di qualsiasi utile accertamento volto a conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia > (Sez. 6, n. 6991 del 2510112011, Sirignano, Rv. 249451). Del resto, è proprio la Carta costituzionale che, alla XII disposizione transitoria e finale, vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista e stigmatizza, perciò, la condotta posta in essere dagli imputati, sicché non è neppure in astratto ipotizzabile l'errore sul precetto >>.
4. La sentenza delle Sezioni Unite, in sintesi
Si è detto che nelle more del deposito della sentenza del Tribunale di Milano la questione controversa è stata rimessa alle Sezioni Unite, che l’hanno risolta affermando il principio di diritto che si è già menzionato.
Le ragioni del contrasto erano date dall’esistenza di due contrapposti orientamenti. Il primo riteneva che il saluto fascista integrasse il reato di cui all'art. 2 d.l. n. 122 del 1993, << trattandosi di una manifestazione esteriore che costituisce rappresentazione tipica delle organizzazioni o dei gruppi inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico >> (così, in motivazione, la sentenza delle Sezioni Unite Clemente). Nell’ordinanza di rimessione la prima sezione penale aveva richiamato a tale riguardo le sentenze di Cass. Sez. l, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894 – 02, Sez. l, n. 25184 del 04/03/2009, Saccardi, Rv. 243792 – 01, Sez. 3, n. 37390 del 10/07/2007, Sposato, Rv. 237311 - 01). Il secondo orientamento, invece, ravvisava << nel "saluto romano", gesto evocativo del disciolto partito fascista, la violazione dell'art. 5, legge n. 645 del 1952, a condizione che, trattandosi di reato di pericolo concreto, la condotta sia idonea a determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste in relazione al momento e all'ambiente in cui è compiuta >> (così, in motivazione, la sentenza delle Sezioni Unite Clemente). Nell’ordinanza di rimessione, al riguardo, erano state richiamate le sentenze di Cass. Sez. 5, n. 36162 del 18/04/2019, Alberga, Rv. 277526-01, Sez. 1, n. 11038 del 02/03/2016, Goglio, Rv. 269753-01, Sez. 1, n. 37577 del 25/03/2014, Bonazza, Rv. 259826- 01. L’ordinanza di rimessione, tuttavia, come evidenziato dalle Sezioni Unite nella sentenza Clemente, aveva anche segnalato <<due ulteriori profili di criticità interpretativa. Un primo aspetto attiene all'inquadramento delle condotte in esame nell'ambito della categoria dogmatica dei reati di pericolo concreto ovvero di pericolo astratto. Infatti, secondo la ricognizione della giurisprudenza effettuata dall'ordinanza di rimessione, la violazione dell'art. 5 legge n. 645 del 1952 darebbe luogo ad un reato di pericolo concreto (espressive di tali sentenze sarebbero Sez. 5, n. 36162 del 18/04/2019, Alberga, Rv. 277526 - 01; :Sez. l, n. 1103B del 02/03/2016, Goglio, Rv. 269753 - 01; Sez. l, n. 37577 del 25/03/2014, Bonazza, Rv. 259826 - 01), mentre la violazione dell'art. 2, d.l. n. 122 del 1993 sarebbe riconducibile alla categoria dei reati di pericolo astratto (Sez. l, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894 -02), atteso che la condotta, rievocando l'ideologia fascista e i valori della discriminazione razziale e dell'intolleranza, farebbe assumere alla norma una funzione di tutela preventiva del bene giuridico protetto. In riferimento alla categoria dei reati di pericolo astratto, la Sezione rimettente rammenta altresì l'elaborazione compiuta sul tema dalla giurisprudenza costituzionale (di cui si citano Corte cost., sent. n. 225 del 2008 e sent. n. 286 del 1974) la quale, nel ritenerne la compatibilità con il precetto costituzionale, ha precisato che all'interprete è demandato di accertare se la condotta illecita, nel caso concreto, sia comunque connotata da offensività, secondo una valutazione ex ante e fondata sulle relative circostanze di tempo e di luogo in cui l'azione si è sviluppata. Un secondo profilo attiene poi alla natura del rapporto - di specialità ovvero di concorso apparente di norme - tra le due fattispecie oggetto di esame: in particolare, mentre, alla stregua di Sez. l, n. 3806 del 19/11/2021, Buzzi, Rv. 282500- 01, tra le stesse sarebbe dato rinvenire un rapporto di specialità, secondo invece Sez. l, n. 7904 del 12/10/2021, dep. 2022, Scordo, Rv. 282914- 02, tale rapporto dovrebbe escludersi, posto che i due reati sarebbero caratterizzati da un diverso ambito applicativo>>.
Nelle proprie articolate note di udienza la Procura Generale aveva così concluso:
<< …Dunque – e con riserva di ulteriore argomentazione in sede di discussione – ai plurimi quesiti posti nell’ordinanza di rimessione, possono fornirsi le seguenti soluzioni:
- La condotta consistente nel protendere in avanti il braccio nel “saluto fascista”, evocativa della gestualità tipica del disciolto partito fascista, tenuta nel corso di una pubblica riunione, senza la preventiva identificazione dei partecipanti quali esponenti di un’associazione esistente che propugni gli ideali del predetto partito, integra la fattispecie di reato di cui all’art. 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, qualora, nella situazione data, tali condotte comportino, secondo il rigoroso accertamento di fatto, un pericolo concreto ed attuale per la pacifica convivenza, in quanto possibile fonte di disordine materiale incontrollato e di reazioni violente;
- la fattispecie di cui all’art. 2, d.l. 26 aprile 1993, n. 122 configura, al pari di quella prevista dall’art. 5 legge 30 giugno 1952, n. 645 un reato di pericolo concreto;
- non sussiste un rapporto di specialità tra le due predette fattispecie…>>.
Le Sezioni Unite hanno risolto le questioni controverse, come detto, ritenendo che la condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla "chiamata del presente" e nel cosiddetto "saluto romano" integri il delitto previsto dall'art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. fin. Cost., e che la stessa condotta possa altresì integrare il delitto, di pericolo presunto, previsto dall'art. 2, comma 1, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del complessivo contesto fattuale, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'art. 604-bis, secondo comma, cod. pen., già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654.
La sentenza delle Sezioni Unite, dopo avere ricostruito nel dettaglio i termini del contrasto giurisprudenziale:
-si sofferma sui tratti distintivi delle due norme e sui rapporti tra esse intercorrenti, dapprima osservando che << ad un nucleo comune, rappresentato, appunto, dal compimento di manifestazioni durante pubbliche riunioni, si affianca un elemento di sicura differenziazione dato dalle diverse entità cui rapportare le esibizioni tenute >>, di poi rilevando la diversità del bene giuridico tutelato, individuato nell’ordine pubblico democratico o costituzionale (non nell’ “ordine pubblico materiale”) quanto alla fattispecie di pericolo concreto di cui all’art. 5 della legge 645/52 (<< In definitiva, è la stessa funzione "ancillare" della norma dell'art. 5 cit. rispetto ad una precisa disposizione costituzionale che rivela l'oggetto del pericolo che si vuole contrastare - ovvero la ricostituzione del disciolto partito fascista - e, allo stesso tempo, per conseguente necessità di considerare i limiti intrinseci del bilanciamento con altri valori costituzionali, la natura non astratta bensì concreta dello stesso. In altre parole, la necessità per il giudice di “appurare se, alla luce delle specifiche circostanze, sussista una seria probabilità di verificazione del danno” (così, testualmente, Corte cost., sent. n. 139 del 2023, quanto ai reati di pericolo concreto) non può non discendere dalla necessaria considerazione di un tale bilanciamento >>) e nei beni costituzionalmente protetti dagli artt. 2 e 3 Cost. della solidarietà, della dignità e dell’uguaglianza della persona quanto alla fattispecie prevista dall’art. 2 del d.l. 122/1993 (<< In realtà, i "valori in gioco" sono, nella specie, di entità sensibilmente più ampia rispetto al solo aspetto di "ordine pubblico": al di là della "costruzione" della norma, fondata sulla già ricordata "mediazione normativa" data dal richiamo all'art. 3 cit., è la necessaria coniugazione delle pubbliche manifestazioni con il contenuto delle stesse, evocante ideologie di tipo discriminatorio specificamente emergenti dalla norma e proprie od usuali di entità collettive, a dare vita ad un bene giuridico di tipo, a ben vedere, "composito". È questa dunque la ragione per cui, come osservato anche da parte della dottrina, a venire in rilievo non può che essere la necessità di scongiurare il pericolo della lesione ai beni fondamentali, costituzionalmente protetti dagli art. 2 e 3 Cost., della dignità ed eguaglianza della persona… In definitiva, alla pari di quanto già detto con riguardo al reato di cui all'art. 5 cit., la individuazione del bene tutelato non può che avvenire, anche in tal caso, mediante il ricorso al "filtro" del piano costituzionale, punto costante di riferimento in una chiave interpretativa che, non può dimenticarsi, sempre deve conformarsi al principio di offensività; e in un quadro di comune sfondo, derivante dai connotati democratici della Repubblica italiana, se, nel caso dell'art. 5 cit., rileva la necessità di preservare l'ordinamento da condotte che ne pongano precipuamente in pericolo i fondamenti anche istituzionali, nel caso dell'art. 2 cit. emerge la necessità di evitare la disgregazione dei valori di solidarietà, dignità ed eguaglianza di tutti i consociati >>);
-si diffonde sulle ragioni che portano a concludere che il delitto dell’art. 2 d.l. 122/93 è reato di pericolo presunto, valorizzando in tal senso la rubricazione della norma (“Disposizioni di prevenzione”) che tale è rimasta anche dopo le modifiche apportate all’originaria disposizione, la natura stessa dei beni giuridici da esso protetti (quelli garantiti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione) e la loro dimensione, il diverso contenuto evocativo – rispetto alla fattispecie dell’art. 5 della legge Scelba – delle manifestazioni tenute in pubbliche riunioni, il collegamento con le «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi» di cui all'art. 3 legge n. 654 del 1975 e, quindi, << il grado di pericolosità da attribuire alla condotta, la cui capacità di "contagio" o diffusione delle idee contrastanti con i valori sanciti dagli artt. 2 e 3 Cost. assume una consistenza proporzionalmente collegata all'esistenza attuale di detti agglomerati >>. Prosegue, dipoi, affermando che << Da ciò dunque deriva che, in tal caso, la valutazione del pericolo, che si esaurisce all'interno della fattispecie astratta, risulta già fatta, a priori, dal legislatore, spettando invece al giudice, secondo il "meccanismo" di funzionamento proprio della presunzione, il compito di verificare, nell'analisi della fattispecie, elementi di fatto capaci di dimostrarne, in concreto, l'assenza>>;
-sottolinea la compatibilità di una tale conclusione con i principi costituzionali e, in specie, con quello di offensività, richiamando le sentenze della Corte costituzionale n. 139/2023 e n. 225/2008 : <<Dirimenti sul punto appaiono le affermazioni rese, nella sentenza n. 139 del 2023, dalla Corte costituzionale chiamata a giudicare della legittimità costituzionale della norma in materia di porto senza giustificato motivo di strumenti da punta o taglio atti ad offendere et similia (art. 4, legge n. 110 del 1975) laddove la stessa non richiede la sussistenza di circostanze di tempo e di luogo dimostrative del pericolo di offesa alla persona. È, in particolare, significativo che in tale decisione la Corte costituzionale, pur dopo avere ribadito la persistente legittimità della distinzione tra reati di pericolo presunto (nei quali il giudice deve escludere la ·punibilità del fatto sia pure corrispondente alla formulazione della norma incriminatrice quando, alla luce delle circostanze concrete, manchi ogni ragionevole possibilità di produzione del danno) e reati di pericolo concreto (nei quali incombe invece al giudice il compito di appurare la seria probabilità della verificazione del danno), abbia aggiunto che il principio di offensività in concreto può, ed anzi deve, operare anche in rapporto alla figura del pericolo presunto. E, se è vero che nei reati di pericolo presunto è il legislatore a dovere enucleare i fatti che, nella loro astratta configurazione, esprimono un contenuto offensivo di beni o interessi meritevoli di protezione, è parimenti innegabile, come sempre precisato dalla Corte costituzionale, che resta affidato al giudice, nell'esercizio del proprio potere ermeneutico «il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa» (Corte cost., sent. n.225 del 2008). Da tali considerazioni discende che, quanto meno ai fini della presente decisione, la distinzione tra un "pericolo concreto" ed un "pericolo astratto o presunto" finisca, a ben vedere, per divenire, nei fatti, evanescente una volta che si prenda contestualmente atto di come, per quanto appena detto, anche le previsioni contrassegnate da un pericolo presunto debbano coniugarsi con il principio di offensività. Non pare dubbio, allora, che, considerando la dimensione del bene giuridico tutelato, già indicata sopra, la natura pur solo presuntiva del pericolo preso in considerazione dall'art. 2 cit. mantenga una precisa ed innegabile giustificazione >>;
-analizza il principio di cui all’art. 15 c.p. ed esclude – data la struttura delle due norme incriminatrici in questione – che esse possano essere tra loro poste in rapporto di specialità. Sul tema della specialità ripercorre i diversi approdi giurisprudenziali di legittimità e richiama le principali sentenze - anche delle Sezioni Unite - che lo hanno affrontato sia sotto il profilo contenutistico e consustanziale, sia sotto il profilo dei criteri utilizzati nel tempo per eseguire l’operazione di raffronto tra le norme, sia, quindi, sotto il profilo del corretto approccio interpretativo-metodologico che consente di individuare o di escludere la specialità medesima;
-cita perciò, per esempio, Cass. Sez. Un. n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864-01, secondo cui, come uniformemente riconosciuto, è norma speciale «quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, che hanno appunto funzione specializzante, sicché l'ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell'ambito operativo della norma generale», e Cass. Sez. Un. n. 9568 del 21/04/1995, La Spina, Rv. 202011-01, che invece ha valorizzato il criterio identificativo dell’identità del bene giuridico tutelato;
-considera però ormai stabilizzato che il criterio di specialità vada inteso in senso logico-formale (“il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola relativa alla individuazione della disposizione prevalente, può ritenersi integrato «solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse» - Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, cit.; Sez. 5, n. 2121 del 17/11/2023, Sioli, Rv. 285843- 01; Sez. l, n. 12340 del 15/11/2022, dep. 2023, Baldassarre, Rv. 284504- 01”);
-conviene con Cass. Sez. Un. n. 1963/2011, Di Lorenzo, sul fatto che debba escludersi la correttezza del criterio della specialità in concreto (“non avendo senso far dipendere da un fatto concreto l'instaurarsi di un rapporto di genere a specie tra due norme sicché non rileva né la omogeneità dei beni giuridici tutelati dalle diverse fattispecie incriminatrici né il loro contingente convergere sul medesimo avvenimento concreto» (da ultimo, Sez. 5, n. 35591 del 20/06/2017, Fagioli, non mass. sul punto); la specialità, cioè, «è una relazione tra norme astratte non già tra fatti concreti e norme e dunque o esiste giù in astratto o non esiste neppure in concreto» (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, De Lorenzo, non mass. sul punto)”);
-richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 97/1987 sul criterio della continenza (“…affermando che l'applicazione del principio di specialità ex art. 15 cod. pen. implica la «convergenza su di uno stesso fatto di più disposizioni, delle quali una sola è effettivamente applicabile, a causa delle relazioni intercorrenti tra le disposizioni stesse», dovendosi confrontare «le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente unico» (Corte cost., sent. n. 97 del 1987)” e l’ordinanza della stessa Corte n. 174/1994 (“La Corte ha poi aggiunto che «per aversi rapporto di specialità ex art. 15 cod. pen. è indispensabile che tra le fattispecie raffrontate vi siano elementi fondamentali comuni, ma una di esse abbia qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all'altra» (Corte cost., ord. n. 174 del 1994)”;
-ribadisce come principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello per cui l’art. 15 c.p. si riferisce alla sola specialità unilaterale e non anche, invece, alla specialità reciproca o bilaterale: “La giurisprudenza di questa Corte converge inoltre, ormai, nel ritenere che l'art. 15 cod. pen. si riferisca alla sola "specialità unilaterale", giacché le altre tipologie di relazioni tra norme, quali la "specialità reciproca" o "bilaterale", non evidenziano alcun rapporto di genus ad speciem (tra le tante, Sez. 4, n. 21522 del 02/03/2021, Bossi, non mass. sul punto; Sez. 5, n. 27949 del lB/09/2020, Di Gisi, non mass. sul punto; Sez. 4, n. 29920 del 17'/01/2019, Padricelli, Rv. 276583 - 01, tutte fondamentalmente debitrici dell'insegnamento di Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, non mass. sul punto)”;
-ribadisce l’eccentricità dei criteri di sussidiarietà, assorbimento e consunzione: << Sempre le Sezioni Unite, dopo iniziali apparenti affermazioni di segno contrario, hanno sottolineato la eccentricità dei criteri di "sussidiarietà", "assorbimento" e "consunzione", «suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti», e la loro estraneità all'unico criterio legale previsto, ovvero quello di specialità positivizzato dall'art. 15 cod. pen. (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, non mass. sul punto; Sez. l, n. 12340 del 15/11/2022, dep. 2023, Baldassarre, cit.) >>;
-nella fattispecie concreta al suo vaglio, quindi, per tali motivi, esclude che una delle due norme incriminatrici possa essere unilateralmente speciale rispetto all’altra, perché “Al nucleo comune di "manifestazioni tenute in pubbliche riunioni", si aggiunge, in ognuna di esse, l'elemento differenziante del loro contenuto, rilevante già sul piano astratto giacché, se nell'art. 5 cit. le manifestazioni devono essere quelle «usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste», nell'art. 2 cit. le manifestazioni sono quelle esteriori, proprie ed usuali «delle organizzazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654». Sicché, atteso l'inequivocabile diverso significato di tali manifestazioni, discendente dalla stessa "diversità genetica" degli enti, appare, semmai, ricorrere tra le norme in oggetto un rapporto di "specialità bilaterale" che, tuttavia, per quanto già osservato, deve ritenersi estraneo alla previsione dell'art. 15 cod. pen., unicamente espressivo della specialità "unilaterale". Significativo è poi che, solo con riguardo al reato di propaganda per motivi di discriminazione razziale di cui all'art. 604-bis cod. pen., già contemplato dall'art. 3, legge n. 654 del 1975, il legislatore abbia espressamente posto un rapporto di "sussidiarietà espressa" rappresentato dalla clausola di riserva («salvo che il fatto costituisca più grave reato») posta nell'incipit della disposizione”;
-afferma l’estraneità del criterio selettivo basato sulla concretezza del pericolo – sposato, invece, da Cass. I n. 3806, 19.11.2021, Buzzi - al corretto metodo di raffronto tra fattispecie astratte, perché da questo deve essere escluso il profilo della punibilità;
-tenuto conto del loro significato, inquadra il rituale del saluto romano e della chiamata del presente innanzitutto nella fattispecie dell’art. 5 della legge Scelba e valorizza a tale proposito anche gli artt. 3 e 9 del regolamento del partito nazionale fascista: << L'assenza di un rapporto di specialità, che "svincola" pertanto l'interprete da quella che sarebbe, altrimenti, l'automatica conseguenza di fare capo sempre e solo alla norma "speciale", comporta che debba dunque guardarsi al significato del rituale del "saluto romano" al fine di configurarne l'inquadramento giuridico nelle "manifestazioni" di cui all'art. 5 cit. ovvero in quelle dell'art. 2 cit., o, eventualmente, e a determinate condizioni, in entrambe. Ciò posto, non può sussistere dubbio circa la "fisiologica" riconducibilità del rituale della "chiamata del presente" e del "saluto romano" (ovvero il protendere il braccio destro tenendolo teso e con il palmo rivolto verso il basso) all'interno, anzitutto, della fattispecie di reato dell'art. 5 cit.: pare sufficiente, sul punto, fare riferimento a quanto era previsto dagli artt. 3 e 9 del regolamento del partito nazionale fascista per desumerne l'inequivocabile significato di evocazione e celebrazione dell'ideologia del partito fascista e del regime conseguentemente instaurato. Se tale rituale è, in altri termini, immediatamente e notoriamente idoneo ad evocare, anzitutto, la "liturgia" delle adunanze fasciste, è la consumazione del reato di cui all'art. 5 cit. ad essere innanzitutto realizzata…Deve dunque concludersi nel senso che la "naturale" identificazione tra saluto romano da una parte e disciolto partito fascista dall'altro, per le ragioni già illustrate, è da sola sufficiente ad integrare sul piano oggettivo, sempre e comunque, il reato di cui all'art. 5 >>;
-indica esemplificativamente alcuni elementi di fatto << idonei a dare concretezza al pericolo di "emulazione" insito nel reato secondo i principi enunciati dalla Corte costituzionale >>, quali, <<tra gli altri, il contesto ambientale, la eventuale valenza simbolica del luogo di verificazione, il grado di immediata, o meno, ricollegabilità dello stesso contesto al periodo storico in oggetto e alla sua simbologia, il numero dei partecipanti, la ripetizione insistita dei gesti, ecc. >>;
-esclude il rilievo della caratteristica “commemorativa” della riunione ai fini della eventuale non configurabilità del reato, a cagione dell’irrilevanza dei motivi della condotta e per il dolo generico che connota il reato (<< Va peraltro escluso che, di contro, come sostenuto dalle difese dei ricorrenti, la caratteristica "commemorativa" della riunione possa rappresentare fattore di neutralizzazione degli altri elementi e, quindi, di "automatica" insussistenza del reato, attesi il dolo generico caratterizzante la fattispecie e la irrilevanza dei motivi della condotta >>);
-afferma e non esclude, invece, la possibilità del concorso tra i due reati per la possibilità che il rituale che connota la condotta in argomento - principalmente alla luce del dato testuale dell’art. 1 della legge Scelba («si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista [ ... ] svolgendo propaganda razzista») - sia evocativo << anche di ideologie discriminatorie e razziali >>. L’evocazione di queste ideologie realizzata con tale rituale, tuttavia, non è sufficiente di per sé stessa a integrare la fattispecie delittuosa dell’art. 2 del d.l. 122/93, poiché questa “sanziona non le manifestazioni di tipo razziale o discriminatorio tout court, bensì le manifestazioni proprie od usuali delle «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi dell'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654». Appare, in altri termini, innegabile come il legislatore non abbia sanzionato direttamente le manifestazioni esteriori espressive di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi esigendo, invece, che tali manifestazioni siano quelle proprie od usuali dei gruppi che tale incitamento pongono in essere”;
con riguardo all’art. 3 della legge 654/75 (ora art. 604 bis c.p.), dopo avere evidenziato che le organizzazioni, le associazioni, i gruppi e i movimenti debbono inevitabilmente essere operanti nell’attualità - << in quanto necessariamente espressivi della stessa ragione della natura presunta del pericolo >> - valorizza la distinzione normativa tra enti più strutturati (le «organizzazioni» e «associazioni») e agglomerati “più fluidi” (i «gruppi» e i «movimenti») per concludere che “non appare necessaria, sulla base dello stesso dato normativo, una dimostrazione dei tempi e dei modi della costituzione di tali agglomerati, del resto incompatibile con la ratio della norma e la natura presunta del pericolo che caratterizza, come detto, il reato…gli scopi de «l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», richiesti dall'art. 3 cit., ben potrebbero, infatti, emergere dallo stesso contenuto della manifestazione di cui all'art. 2 cit., concretamente rappresentativa di essi”;
rileva la necessità - ai fini del concorso di reati e, quindi, della integrazione anche del delitto previsto dalla legge Mancino mediante il rituale in argomento - dell’individuazione di elementi relativi al contesto complessivo in cui è esso avvenuto che siano idonei non soltanto a renderlo evocativo del disciolto partito fascista e concretamente pericoloso (art. 5 della legge Scelba), ma anche tali da attribuirgli, secondo il contesto materiale o l’ambito della manifestazione, << il significato discriminatorio tipizzante il reato di cui all'art. 2 cit. Sotto tale profilo, dunque, altro sarebbe che il gesto sia effettuato nello stretto ambito di un contesto chiaramente connotato (per le modalità e le finalità della riunione nonché per i simboli impiegati) dal riferimento a fatti direttamente o indirettamente ricollegabili all'ideologia fascista, altro, invece, sarebbe il medesimo gesto ove tenuto in ambiti di tipo diverso, nei quali il ricorso a tale rituale costituisca "lo strumento simbolico" di espressione delle idee di intolleranza e discriminazione proprie, nell'attualità, degli agglomerati considerati dall'art. 3 legge n. 654 del 1975. In definitiva, mentre nel primo caso il rituale esibito sarebbe finalizzato ad esternare unicamente l'ideologia propria del disciolto partito fascista, nel secondo avrebbe anche la valenza, implicita, ma chiara, di esternazione delle ideologie di cui alle entità individuate dall'art. 3 cit., nel segno di una contrapposizione ispirata ad idee chiaramente incompatibili con i principi costituzionali. Sicché, ben può ritenersi che, in tali limiti, e in tali casi, il rituale del saluto romano possa integrare non il solo reato di cui all'art. 5 legge cit., bensì anche quello dell'art. 2 legge cit., ove di entrambe le fattispecie, naturalmente, ricorrano i rispettivi e differenti requisiti di pericolo già illustrati sopra >>;
esclude la rilevanza, da ultimo, del contrasto giurisprudenziale ai fini dell’invocazione dell’art. 5 del codice penale, ricordando che la sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988 << ha sottolineato il nesso indissolubile intercorrente tra "rimproverabilità" della condotta, da una parte, e chiarezza e riconoscibilità dei contenuti delle norme penali, dall'altra >> e “ha indicato la mancanza di conoscibilità della disposizione normativa per assoluta oscurità del testo legislativo nonché, per il «gravemente caotico [ ... ] atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari»” come << parametri sulla cui base stabilire l'inevitabilità dell'ignoranza della legge penale >>. Il contrasto giurisprudenziale al più ingenera un mero dubbio e << il dubbio sulla liceità o meno deve indurre il soggetto ad un atteggiamento più attento, che giunga sino all'astensione dall'azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga tale incertezza, proprio perché il dubbio, non equiparabile allo stato d'inevitabile ed invincibile ignoranza, è ontologicamente inidoneo ad escludere la consapevolezza dell'illiceità (Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, Incardona, Rv. 269074 - 01; Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi, Rv. 252197 - 01; Sez. 6, n. 6991 del 25/01/2011, Sirignano, Rv. 249451 - 01) >>
Immagine: René de Saint-Marceaux, Statua di Jean Sylvain Bailly, XIX secolo, Musée du Jeu de Paume, Paris.
Nelle gare pubbliche per servizi di ingegneria e architettura il compenso deve sempre essere equo (nota a T.A.R. Veneto, sez. III, 03 aprile 2024, n. 632 e T.A.R. Lazio, Roma, sez. V ter, 30 aprile 2024, n. 8580)
di Giuseppe La Rosa
Sommario: 1. Breve inquadramento del tema. – 2. La legge n. 49/2023: l’equo compenso da principio a norma cogente. – 3. I rapporti con il d.lgs. n. 36/2023 e le gare pubbliche. – 4. I rilievi del TAR Veneto e del TAR Roma: osservazioni di dettaglio. – 5. (Segue) sulla compatibilità dell’equo compenso con il diritto eurounitario. – 6. Riflessioni conclusive: l’equo compenso nella convergenza di interessi.
1. Breve inquadramento del tema.
Le pronunce oggetto del presente scritto[1] offrono un utile spunto per la trattazione del rapporto tra la l. n. 49/2023 sul c.d. “equo compenso”[2] e il d.lgs. n. 36/2023, recante il (nuovo) Codice dei Contratti Pubblici; ciò non solo con uno sguardo rivolto ai principi che regolano la materia (si pensi alla concorrenza, di cui meglio si dirà nel seguito), ma anche con riferimento alle regole procedurali che devono necessariamente presiedere allo svolgimento dei procedimenti ad evidenza pubblica (nel dettaglio, gli affidamenti dei servizi di ingegneria e architettura). Proprio con riferimento a questi temi, i giudici amministrativi hanno ritenuto - a valle di un articolato ragionamento giuridico - che la disciplina dell’equo compenso è da ritenere applicabile alla materia dei contratti pubblici, non sussistendo alcuna antinomia[3] con la disciplina di cui al d.lgs. n. 36/2023[4] (o d.lgs. n. 50/2016, nella fattispecie al vaglio del TAR Veneto[5]), comportando anzi una etero-integrazione della lex specialis, dal momento che la disciplina dell’equo compenso sarebbe sottratta alla disponibilità della stazione appaltante e, quindi, non sarebbe dalle stesse mai derogabile.
Ma non solo. L’analisi pretoria si è concentrata pure su ulteriori aspetti di dettaglio che immediatamente discendono dalla dichiarata compatibilità tra le due richiamate discipline, ossia: da un lato, il ricorso al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa in ragione del rapporto qualità/prezzo pure in presenza di condizioni economiche (quelle di cui all’equo compenso) apparentemente “fisse” nel senso di “non ribassabili”, in quanto un importo inferiore rispetto alla somma equivalente all’equo compenso costituirebbe una violazione di un norma imperativa; dall’altro, la compatibilità della l. n. 49/2023 con la normativa europea e con la Costituzione.
2. La legge n. 49/2023: l’equo compenso da principio a norma cogente.
Con l’approvazione della legge 21 aprile 2023, n. 49, pubblicata sulla G.U. del 05 maggio 2023, n. 104 (ed entrata in vigore in data 20 maggio 2023), il Legislatore ha riscritto – in modo organico e sistematico - le regole in materia di compenso per le prestazioni professionali, con il chiaro obiettivo di garantire che ogni[6] prestazione professionale possa godere di un corrispettivo equo, specie laddove i prestatori d’opera professionale si trovino in rapporto con committenti “forti”[7]; sono considerati tali le imprese bancarie e assicurative, le imprese che nell'anno precedente al conferimento dell'incarico hanno occupato alle proprie dipendenze più di cinquanta lavoratori o hanno presentato ricavi annui superiori a 10 milioni di euro, le pubbliche amministrazioni, nonché le società da queste controllate o partecipate (art. 2)[8]. La novella normativa, che trova applicazione ai rapporti professionali fondati sulla prestazione d’opera intellettuale ex art. 2230 c.c., ha previsto (art. 1), che per compenso equo deve intendersi la corresponsione di un corrispettivo proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, nonché conforme ai criteri previsti rispettivamente: (a) per gli avvocati, dal decreto del Ministro della giustizia emanato ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247; (b) per i professionisti iscritti agli ordini e collegi, dai decreti ministeriali adottati ai sensi dell’articolo 9 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27); (c) per i professionisti di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 2013, n. 4, dal decreto del Ministro delle imprese e del Made in Italy. In altre parole, con la legge n. 49, il professionista riceve una consistente rete di protezione al fine di evitare che il rapporto fisiologicamente impari con clienti “forti” si traduca in una ingiustificabile contrazione del compenso rispetto alla quantità e qualità della prestazione professionale richiesta. Esso, in sostanza, viene equiparato, sebbene con specifico riferimento a tale profilo economico, al lavoratore dipendente, tant’è che riecheggia nella definizione di equo compenso proprio la formulazione letterale dell’art. 36 Cost., a tenore del quale «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa».
Il Legislatore ha, quindi, previsto una serie coordinata di conseguenze nel caso in cui fossero conclusi accordi in violazione della richiamata disciplina, accettando, quindi, compensi non rispettosi dei parametri normativi: alla nullità delle relative pattuizioni, con richiesta di rideterminazione del compenso, che può essere fatta valere dal professionista innanzi al tribunale competente ove egli ha la residenza o il domicilio, al fine di far valere la nullità della pattuizione (art. 3)[9], si affianca la previsione di un indennizzo a cui il giudice può altresì condannare il cliente in favore del professionista fino al doppio della differenza tra quanto pagato e quanto effettivamente dovuto, fatto salvo il risarcimento dell'eventuale maggiore danno (art. 4); laddove siano accettati compensi inferiori alla soglia normativamente stabilita, è prevista altresì l’irrogazione di sanzioni disciplinari, la cui determinazione è rimessa ai competenti ordini professionali (art. 5, comma 5), con specificazione che la prescrizione della relativa azione di responsabilità professionale decorre dalla data di compimento della prestazione (art. 8); la dimensione ultra-individuale della disciplina, infine, viene consacrata grazie alla possibile esperibilità dell’azione di classe, ai sensi del titolo VIII-bis del libro quarto del codice di procedura civile, esperibile dal Consiglio nazionale dell'ordine al quale sono iscritti i professionisti interessati o dalle associazioni maggiormente rappresentative (art. 9).
Dal quadro sopra delineato, quindi, risulta chiaro come l’equo compenso non sia trattato alla mercé di principio generale, ma assurge piuttosto a regola imperativa e cogente, al cui rispetto concorrono in modo coordinato una pluralità di presidi, il cui minimo comun denominatore è rappresentato dall’obiettivo di assicurare al professionista un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale.
3. I rapporti con il d.lgs. n. 36/2023 e le diverse posizioni espresse.
Focalizzando l’attenzione sui rapporti tra equo compenso e contratti pubblici non può farsi a meno di rilevare come, prima della l. 49, la giurisprudenza amministrativa abbia assunto posizioni non sempre univoche, contribuendo a determinare un quadro interpretativo assai frammentato, fino a disancorare la pubblica amministrazione dal rispetto del principio in parola[10]. In particolare, seppur con qualche voce contraria[11], la giurisprudenza amministrativa ha confermato la legittimità di bandi che prevedono quale base d’asta compensi meramente simbolici[12], giungendo finanche a riconoscere che «la normativa sull’equo compenso sta a significare soltanto che, laddove il compenso sia previsto, lo stesso debba necessariamente essere equo, mentre non può ricavarsi dalla disposizione l’ulteriore (e assai diverso corollario) che lo stesso debba essere sempre previsto (a meno di non sostenere, anche in questo caso, che non vi possa essere alcuno spazio per la prestazione di attività gratuite o liberali da parte dei liberi professionisti)»[13] e che l’equo compenso «esprime l’attenzione del legislatore ordinario per le libere professioni quando l’attività è esercitata al di fuori dei rapporti di lavoro dipendente, che di per sé ricadono sotto la copertura costituzionale dell’art. 36 Cost., in relazione alla necessità della congruità del compenso, qualora un compenso sia previsto, ferma rimanendo la possibilità che la prestazione sia resa anche gratuitamente»[14]. Sul versante del grado di vincolatività dei criteri di determinazione dell’equo compenso rispetto alla definizione del corrispettivo dell’affidamento pubblico, ad eccezione di qualche isolata pronuncia che ne ha valorizzato la imprescindibile inderogabilità[15], la giurisprudenza amministrativa ha piuttosto adottato un approccio elastico: quanto al profilo oggettivo, è stato osservato che il regime dell’equo compenso troverebbe applicazione unicamente laddove la pubblica amministrazione definisca unilateralmente la misura del compenso spettante al professionista, non trovando, invece, ragionevole applicazione ove la clausola contrattuale relativa al compenso per la prestazione professionale sia oggetto di trattativa tra le parti o, nella fattispecie di formazione della volontà dell’Amministrazione secondo i principi dell'evidenza pubblica, «ove l'Amministrazione non imponga al professionista il compenso per la prestazione dei servizi legali da affidare»[16]; in ordine ai profili quantitativi, si è largamente diffusa una applicazione “morbida” dei criteri di determinazione del compenso, dichiarandone il carattere meramente indicativo e non cogente, a tal fine valorizzando, vuoi le esigenze di contenimento della spesa pubblica, vuoi la eterogeneità delle prestazioni da rendere a favore delle pubbliche amministrazioni[17].
Il quadro normativo di riferimento è però profondamente mutato, nel 2023, allorquando si è assistito all’entrata in vigore, pure in tempi ravvicinatissimi, della l. n. 49/2023 (05 maggio 2023) e del d.lgs. n. 36/2023 (01 aprile 2023, ma con efficacia da 01 luglio 2023), rinverdendo, da un lato, l’interesse per la materia e ponendo, dall’altro, importanti interrogativi in termini di compatibilità, intersezioni e interferenze tra le due discipline, da cui è scaturita, sin da subito, una certa varietà di posizioni[18]. Con specifico riferimento alle gare pubbliche per l’affidamento dei servizi di architettura e ingegneria, la ridetta questione di compatibilità è stata resa più complessa dalla sistematica lettura delle disposizioni poste dall’art. 41, comma 15, e 108, comma 2, del Codice: infatti, mentre l’art. 41, comma 15, dispone che «nell'allegato I.13 sono stabilite le modalità di determinazione dei corrispettivi [e che] i predetti corrispettivi sono utilizzati dalle stazioni appaltanti e dagli enti concedenti ai fini dell'individuazione dell'importo da porre a base di gara dell'affidamento», l’art. 108, comma 2, stabilisce che «sono aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo: […] b) i contratti relativi all'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura e degli altri servizi di natura tecnica e intellettuale di importo pari o superiore a 140.000 euro». A tutta prima, sembrerebbe dunque che i criteri ministeriali sarebbero da utilizzare ai fini della individuazione della base d’asta, salva l’applicabilità (obbligatoria per le gare con importo superiore a 140.000 euro) del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa che determinerebbe, quindi, la formulazione di offerte a ribasso e, quindi, al di sotto della soglia posta dalla legge 49.
Partendo da tali difficoltà interpretative[19], l’ANAC, in sede di predisposizione dello schema di Bando tipo n. 2/2023 (“Procedura aperta per l’affidamento di contratti pubblici di servizi di architettura e ingegneria di importo pari o superiore alle soglie di rilevanza europea con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo”, in consultazione), ha individuato possibili tre soluzioni interpretative: (i) necessità di svolgere gare a prezzo fisso, sulla base della inderogabilità del compenso individuato dalle tabelle ministeriali[20]; (ii) possibile ribasso limitato alle “spese generali”, quale parte del corrispettivo a base d’asta che esula dal compenso professionale tout court[21]; (iii) non applicabilità della disciplina dell’equo compenso alle procedure di evidenza pubblica, in quanto in contrasto con il principio di concorrenzialità sancito a livello di normativa comunitaria[22]. Tale ultima opzione applicativa, peraltro, è legata a doppio filo alla questione di compatibilità della disciplina posta dalla l. n. 49/2023 con le disposizioni eurounitarie a tutela della concorrenza, che la Corte di Giustizia[23], ancora recentemente[24], ha richiamato quali parametri per ritenere illegittima, in violazione dell’art. 101 T.F.U.E.[25], la determinazione “orizzontale” (per il tramite, cioè, di “accordi” infra categoria, resi vincolanti dalle norme locali) dei prezzi fissati direttamente dal Consiglio forense bulgaro in quanto determina un grado sufficiente di dannosità nei confronti della concorrenza[26] (a prescindere quindi dal livello a cui è fissato il prezzo minimo)[27].
4. I rilievi del TAR Veneto e del TAR Roma: osservazioni di dettaglio.
Con una evidente armonia di vedute, le pronunce oggetto di interesse hanno rilevato che non vi è alcuna antinomia tra la l. n. 49/2023 e la disciplina del codice dei contratti pubblici[28], ma, anzi, è proprio l’interpretazione “letterale e teleologica” della l. n. 49/2023 a deporre in maniera inequivoco per la sua applicabilità alla materia dei contratti pubblici. Evidenziano i giudici amministrativi che il Legislatore - al dichiarato intento di tutelare i professionisti intellettuali nei rapporti contrattuali con “contraenti forti” - ha «espressamente previsto l’applicazione della legge anche nei confronti della Pubblica Amministrazione e ha riconosciuto la legittimazione del professionista all’impugnazione del contratto, dell’esito della gara, dell’affidamento qualora sia stato determinato un corrispettivo qualificabile come iniquo ai sensi della stessa legge». Da tale angolo visuale, non a caso l’art. 8 del d.lgs. n. 36/2023 oggi prevede che le pubbliche amministrazioni - salvo che in ipotesi eccezionali di prestazioni rese gratuitamente - devono garantire comunque l’applicazione del principio dell’equo compenso nei confronti dei prestatori d’opera intellettuale. Sul piano letterale e teleologico, quindi, a seguire il ragionamento del giudice amministrativo, gli elementi sopra evidenziati deporrebbero in maniera chiara per l’applicabilità delle previsioni della l. n. 49/2023 anche alla disciplina contenuta nel d.lgs. n. 36/2023; ciò a maggior ragione laddove si consideri che, diversamente opinando, «l’intervento normativo in questione risulterebbe privo di reale efficacia sul mercato delle prestazioni d’opera intellettuale qualora il legislatore avesse inteso escludere i rapporti contrattuali tra i professionisti e la Pubblica Amministrazione che, nel mercato del lavoro attuale, rappresentano una percentuale preponderante del totale dei rapporti contrattuali conclusi per la prestazione di tale tipologia»[29]. Del resto, pare appena il caso di rilevare che la l. n. 49/2023, oltre a perseguire obiettivi di protezione del professionista, mediante l’imposizione di un’adeguata remunerazione per le prestazioni da questi rese, contribuisce, tra l’altro, analogamente al richiamato giudizio di anomalia dell’offerta, a evitare che il libero confronto competitivo comprometta gli standard professionali e la qualità dei servizi da rendere a favore della pubblica amministrazione.
In aggiunta a quanto appena rilevato in punto di piena compatibilità tra la legge 49 e il Codice dei Contratti Pubblici, i giudici amministrativi si sono soffermati, in particolare, sull’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura. Partendo dall’assunto che, rispetto a tali affidamenti, il compenso del professionista costituisce una delle componenti del “prezzo” oggetto di offerta economica, al quale si affiancano altre voci, relative in particolare alle “spese ed oneri accessori”, viene ritenuto che la Stazione appaltante è chiamata a quantificare la base d’asta in applicazione del d.m. 17 giugno 2016, con la precisazione che, mentre la quota di compenso non può essere oggetto di ribasso, pena la violazione della disciplina sull’equo compenso, è invece possibile ribassare le ulteriori voci che concorrono a formare il prezzo, tra cui, come detto, le spese e gli oneri accessori.
Questa lettura, secondo quanto espressamente statuito nelle sentenze in commento, «oltre ad assicurare la coerente e coordinata applicazione dei due testi normativi, consente di escludere che la legge n. 49/2023 produca di per sé effetti anticoncorrenziali o in contrasto con la disciplina dell’Unione Europea». Sul punto, si osserva, in effetti, che escludere la proposizione di offerte economiche al ribasso sulla componente del prezzo rappresentata dai “compensi” non costituirebbe un ostacolo alla concorrenza o alla libertà di circolazione e di stabilimento degli operatori economici, ma al contrario rappresenta una sorta di tutela per questi ultimi, a prescindere dalla loro nazionalità, in quanto permette loro di conseguire un corrispettivo equo e proporzionato anche da un contraente forte qual è la Pubblica Amministrazione e anche in misura superiore a quella che sarebbero stati disposti ad accettare per conseguire l’appalto. Inoltre, si consideri pure che l’operatore economico che, in virtù della sua organizzazione d’impresa[30], dovesse ritenere di poter ribassare componenti accessori del prezzo (ad esempio, le spese generali), può avvantaggiarsi di tale capacità nell’ambito del confronto competitivo con gli altri partecipanti alla gara, fermo restando il dovere della Stazione appaltante di sottoporre a controllo di anomalia quelle offerte non serie o che, per la consistenza del ribasso offerto su componenti accessorie del prezzo, possano in qualche modo apparire volte a ottenere un vantaggio indebito traslando su voci accessorie il ribasso economico che, in mancanza della l. n. 49/2023, sarebbe stato offerto sui compensi.
Viene, altresì, confermato come la l. n. 49/2023 trovi applicazione a qualsiasi procedura di gara, a prescindere dal fatto che la lex specialis richiami o meno le disposizioni ivi recate: in particolare, viene affermato che la disciplina di gara, in assenza di richiami espliciti alla normativa sull’equo compenso, «deve ritenersi essere stata eterointegrata dalla legge n. 49/2023»; ciò dal momento che, vista la natura di norma imperativa della stessa e in virtù dei principi di imparzialità e buon andamento, «sarebbe irragionevolmente discriminatorio se i limiti imposti dalla normativa in esame non fossero rispettati, in modo particolarmente cogente, proprio dalla P.A. nell’ambito delle gare, laddove vengono in gioco anche interessi generali ulteriori correlati alla tutela della concorrenza e della par condicio dei concorrenti in gara». Infatti, a ben vedere, la norma in questione è di portata generale, ed è chiaramente pensata, in particolare, in funzione della già avvenuta stipula del contratto con il professionista, nell’ambito, quindi, del rapporto contrattuale con lo stesso instaurato. D’altronde, pur non contenendo la normativa in esame una previsione puntuale in ordine alle conseguenze derivanti dalla violazione in esame nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica, è evidente che, in considerazione delle finalità di carattere generale sopra evidenziate, non può ammettersi un’aggiudicazione in palese violazione di una norma imperativa[31].
5. (Segue) sulla compatibilità dell’equo compenso con il diritto eurounitario.
Con riferimento alla piena compatibilità della disciplina dell’equo compenso con il diritto eurounitario (e in particolare con la libertà di stabilimento e di prestazione di servizi di cui agli artt. 49 e 101 TFUE), i giudici amministrativi hanno preliminarmente evidenziato come la disciplina in questione «non sia in grado di pregiudicare l'accesso, in condizioni di concorrenza normali ed efficaci, al mercato italiano da parte di operatori economici di altri Stati dell'Unione Europea», dal momento che si tratterebbe di «un rafforzamento delle tutele e dell’interesse alla partecipazione alle gare pubbliche, rispetto alle quali l'operatore economico, sia esso grande, piccolo, italiano o di provenienza UE, è consapevole del fatto che la competizione si sposterà eventualmente su profili accessori del corrispettivo globalmente inteso e, ancor di più sul profilo qualitativo e tecnico dell'offerta formulata», di guisa che il meccanismo derivante dall’applicazione della legge n. 49/2023 è tale da garantire sia margini di flessibilità e di competizione anche sotto il profilo economico, sia la valorizzazione del profilo qualitativo, in piena coerenza con il dettato normativo nazionale e unionale[32]. Né, del resto, potrebbe giungersi a conclusioni diverse in forza del richiamo alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e, in particolare, alla sentenza 04 luglio 2019, nella causa C-377/17 - pronuncia che non afferma, invero, la sussistenza di preclusioni assolute, riconoscendo, viceversa, in capo agli Stati Membri il potere di introdurre tariffe minime per le prestazioni professionali che siano non discriminatorie, necessarie e proporzionate alla realizzazione di un motivo imperativo di interesse generale ex art. 15, par. 3, della direttiva 2006/123/CE - o, ancora, alla recente sentenza 25 gennaio 2024, nella causa C-438/22, che ha affermato l’obbligo di rifiutare l'applicazione di una normativa che fissi importi minimi degli onorari degli avvocati. Va, infatti, sottolineato che nel caso oggetto di quest’ultima pronuncia gli importi erano stati determinati dal Consiglio superiore dell'Ordine forense della Bulgaria «in assenza di qualsiasi controllo da parte delle autorità pubbliche e di disposizioni idonee a garantire che esso si comporti quale emanazione della pubblica autorità»: la Corte ha, cioè, ritenuto come tale organismo agisse alla stregua di un'associazione di imprese, ai sensi dell'articolo 101 TFUE (par. 44, sentenza cit.), nel perseguimento di un proprio interesse specifico e settoriale (realizzando un'ipotesi di determinazione orizzontale di tariffe minime imposte, vietata dall'art. 101, paragrafo 1, TFUE), in un contesto, quindi, del tutto diverso da quello italiano, in cui rilevano norme di carattere generale (la l. n. 49/2023 e gli inerenti decreti ministeriali) adottate da autorità pubbliche e, per questo, non sussumibili nell’ambito - soggettivo e oggettivo - di applicazione dell'art. 101 TFUE (rivolto a vietare «tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato interno»).
Va da sé, quindi, come la previsione dell’inderogabilità al ribasso della voce compensi, oltre a trovare applicazione omogenea nei confronti di ogni operatore economico, non appare in grado di ostacolare la partecipazione alle gare pubbliche; ciò anche in considerazione degli effetti pro-concorrenziali in favore del piccolo operatore economico, che sarà incentivato a partecipare alle pubbliche gare nella consapevolezza che non si troverà più a competere sulla voce compensi con gli operatori di grandi dimensioni, che per loro stessa natura possono essere maggiormente in grado di formulare ribassi su tale voce, mantenendo comunque un margine di utile rilevante.
6. Riflessioni conclusive: l’equo compenso nella convergenza di interessi.
In modo del tutto condivisibile, le sentenze qui analizzate concludono per la piena compatibilità tra la legge n. 49/2023 e il d.lgs. n. 36/2023. Aldilà delle ragioni testuali e teleologiche, ben evidenziate nelle pronunce in commento, la compatibilità tra i due plessi normativi sembra trovare ulteriore e definitiva conferma in una lettura sistematica degli interessi, solo apparentemente discordanti, ad essi sottesi. L’interesse del prestatore d’opera intellettuale (inteso sia nella sua dimensione atomistica, che quale componente di una categoria professionale), di cui evidentemente la legge n. 49/2023 si fa carico, non solo non si pone in contrasto con gli interessi (pubblici) sottesi al d.lgs. n. 36/2023, ma anzi nei principi su cui esso si poggia trova stabile dimora. Il riferimento non è solo, né tanto, all’art. 8, che nell’affermare che «la pubblica amministrazione garantisce comunque l’applicazione del principio dell’equo compenso» potrebbe addirittura giustificare una lettura dell’equo compenso nei rapporti con la pubblica amministrazione solo quale principio cui l’attività amministrativa deve tendenzialmente tendere, svuotandone, dunque, la portata precettiva, quanto, piuttosto, all’art. 1 e al sotteso principio del risultato. Tale principio assegna alle Stazioni appaltanti l’obiettivo di perseguire l’affidamento del contratto, non solo in modo tempestivo, ma in modo tale che sia garantito il «migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo». Ebbene, laddove la prestazione abbia natura professionale, il principio del risultato, nella richiamata prospettiva anche qualitativa, sembra trovare un necessario aggancio nella legge n. 49/2023: essa, come visto, da un lato, prevede che il compenso deve essere equo, intendendosi tale solo laddove esso sia proporzionato alla «quantità e alla qualità del lavoro» (art. 1) e, dall’altro, con presunzione assoluta, stabilisce che il compenso non è equo se «inferiore agli importi stabiliti dai parametri per la liquidazione dei compensi dei professionisti iscritti agli ordini o ai collegi professionali» (art. 3). Ora, la necessaria puntuale applicazione del principio del risultato - sulla cui base, peraltro, l’intero impianto della disciplina codicistica deve essere interpretato (ex art. 4) -, in altre parole, comporta che, nelle gare per l’affidamento dei servizi professionali, la discrezionalità della Stazione appaltante nell’individuazione della base d’asta trova un invalicabile limite (minimo) proprio nella legge n. 49/2023. Ed è proprio il rispetto dei criteri minimi di cui alla l. 49, cit., che consente di applicare il principio del risultato, nella sua richiamata declinazione qualitativa, consentendo l’individuazione dell’operatore economico chiamato a rendere la prestazione il cui livello qualitativo trova corrispondenza nell’adeguatezza del compenso. Diversamente opinando, la possibilità di prevedere per una certa prestazione un compenso che – in base alla presunzione assoluta derivante dalla legge 49 – non sia equo, non frustrerebbe soltanto l’interesse (privato) del professionista, ma conclamerebbe la compromissione del principio di risultato, determinando recidendo il rapporto biunivoco sussistente tra equità del compenso e qualità della prestazione, non potendo rilevare, in senso opposto, la necessità di tutelare la concorrenza[33], la cui assolutezza viene attenuata dal confronto comparativo con altri valori di pari rango, tra cui appunto il ridetto principio del risultato[34].
[1] Trattasi di T.A.R. Veneto, sez. III, 03 aprile 2024, n. 632 e T.A.R. Lazio, Roma, sez. V ter, 30 aprile 2024, n. 8580, in giustizia-amministrativa.it.
[2] In generale, sul tema dell’equo compenso, si veda. G. Manfredi, Appunti sull'affidamento degli incarichi legali nelle pubbliche amministrazioni: competenza, procedimento, forma, in Urb. e app., 2013, 8-9, p. 877 ss.; R. Danovi, L'onorario dell'avvocato tra parametri ed equo compenso, in Corr. giur., 2018, 5, p. 589 ss.; A. Grieco, Accordi amministrativi e contratti della pubblica amministrazione tra suggestione e necessità di sistema, Dir. Amm., 2002, p. 423 ss.; G. Impellizzieri, Sulla controversa questione della legittimità del lavoro gratuito per la Pubblica amministrazione, in Il Lavoro nella Giurisprudenza, 2022, 3, pp. 294-299; G. Alpa, L'equo compenso per le prestazioni professionali forensi, in Nuova giur. civ. comm., 2018; A. Carosi, L'economicità dell'azione amministrativa con particolare riguardo alla gestione dei contratti passivi, in Riv. Corte conti, 2006, p. 318 ss.; G. Cogliandro, Appunti sulla nozione di economicità delle Pubbliche Amministrazioni, in Riv. Corte conti, 2000, p. 177 ss.; B. De Mozzi, Le tariffe professionali: cosa rimane?, in Lav. dir. Eur., 2021, 4; S. Monticelli, L’equo compenso dei professionisti fiduciari: fondamento e limiti di una disciplina a vocazione rimediale dell’abuso nell’esercizio dell’autonomia privata, in Nuove leggi civ. comm., 2018, p. 299 ss.
[3] Si deve ricordare, in via generale, che un’antinomia può configurarsi “in concreto” allorché - in sede di applicazione - due norme connettono conseguenze giuridiche incompatibili ad una medesima fattispecie concreta. Ciò accade ogniqualvolta quest’ultima sia contemporaneamente sussumibile in due ipotesi normative diverse, l’applicazione delle quali, comporti, in conformità a quanto previsto dall’ordinamento giuridico, conseguenze giuridiche incompatibili tra loro. In tale ipotesi, l’interprete è chiamato ad effettuare una interpretazione letterale, teleologica e adeguatrice delle norme in apparente contrasto, al fine di determinarne il significato che è loro proprio, coordinandole anche in un più ampio sistema di norme, rappresentato dall’ordinamento giuridico.
[4] In punto di fatto, la questione al vaglio del TAR Roma può essere così riassunta. L'Agenzia del demanio - Direzione Roma Capitale indiceva una procedura aperta, ai sensi dell'art. 71 d.lgs. n. 36/2023, da espletarsi tramite piattaforma in modalità ASP di Consip s.p.a., per l'affidamento del servizio di verifica della vulnerabilità sismica, diagnosi energetica e rilievi da restituire in modalità BIM per taluni beni immobili di proprietà dello Stato siti in Roma, mediante il sistema informatico nella disponibilità di Consip s.p.a. Il disciplinare indicava altresì che l'importo a base di gara era stato calcolato ai sensi del decreto del Ministro della giustizia di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti 17 giugno 2016 - recante “Approvazione delle Tabelle dei corrispettivi commisurati a livello qualitativo delle prestazioni di progettazione adottato ai sensi dell'art. 24, comma 8, del decreto legislativo n. 50 del 2026” - e che sulla base delle disposizioni dell'art. 41, comma 15, e dell'all. I.13 del d.lgs. n. 36/2023 e della l. n. 49/2023, in linea con la delibera dell'ANAC n. 343 del 20 luglio 2023, i compensi stabiliti per le prestazioni d'opera intellettuale attinenti ai servizi di ingegneria e architettura, determinati in base agli artt. 2 e ss. del suddetto d.m., avrebbero dovuto considerarsi inderogabili e non ribassabili. Accade che le offerte classificatesi al primo, secondo e terzo posto in graduatoria risultavano anomale; sicché, superata la fase dell'esame della documentazione amministrativa, il RUP chiedeva alla ricorrente di produrre i giustificativi ai sensi dell'art. 110 del d.lgs. n. 36/2023. Vista la relazione giustificativa della concorrente, la stazione appaltante ne disponeva l'esclusione perché avrebbe «operato di fatto un ribasso anche sui compensi determinati sulla base degli artt. 2 e ss. del DM 17 giugno 2016 in violazione della lex specialis che li ha qualificati come 'inderogabili e non ribassabili' ai sensi delle disposizioni in tema di equo compenso di cui al citato art. 41, comma 15 e dell’All. I.13 del d.lgs. 36/2023 e della l. n. 49/2023 in linea con la Delibera dell'ANAC n. 343 del 20 luglio 2023».
[5] Con riferimento alla sentenza del TAR Veneto in commento, infatti, diversamente dalla pronuncia del TAR Lazio, oggetto del contendere era la legittimità della procedura di gara per l’affidamento di un appalto, sottoposto al regime di cui al previgente d.lgs. n. 50/2016, avente ad oggetto l’affidamento dell’incarico di progettazione definitiva, con opzione della progettazione esecutiva e del coordinamento della sicurezza in fase progettuale inerente ai lavori di “Adeguamento alla normativa di prevenzione incendi e antisismica dei PP.OO. di San Donà di Piave e Portoguaro” da parte della AULSS n.4 “Veneto Orientale”, in base al criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa. La stazione appaltante, da un lato, aveva stabilito, negli atti di gara, che l’importo a base di gara era stato calcolato ai sensi del DM 17 giugno 2016 e che l’onorario ed il rimborso delle spese per l’esecuzione delle prestazioni erano stati determinati, «nel rispetto della dignità della professione in relazione all’art.2233 del Codice civile», tenendo conto delle previsioni della legge sull’equo compenso e vincolando così l’Amministrazione a tutelare gli operatori economici partecipanti, secondo le modalità ed i criteri previsti dalla legge n.49/2023. Dall’altro lato, però, l’Azienda sanitaria non era stata coerente con questa premessa, dato che aveva aggiudicato l’appalto ad un raggruppamento che (come tutti gli altri operatori economici partecipanti alla gara, fatta eccezione per il ricorrente) aveva formulato un’offerta economica con un ribasso sui compensi, in violazione delle disposizioni della legge sull’equo compenso. Di qui l’impugnazione degli esiti della gara, con richiesta di annullamento dell’aggiudicazione e di condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno, da parte del concorrente non vittorioso che aveva presentato un’offerta con un ribasso rispettoso dei parametri fissati dalla legge n. 49/2023.
[6] Si ricordi che l’art. 19 quaterdecies d.l. 148/2017 ha introdotto l’art. 13 bis alla legge 31 dicembre 2012, n. 247, prevedendo che il compenso si intende equo, con riferimento al settore legale, se è «proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale».
[7] Cfr. A. Buratti, A. Zoppo, L’equo compenso delle prestazioni professionali tra diritto soggettivo e interesse di categoria, in federalismi.it, 2024, 2, pp. 19-44; B. Armeli, Equo compenso: facciamo il punto, in App. e contr., 2023, 11, p. 33 ss.; M. Mangano, L'equo compenso degli avvocati tra decoro, qualità delle prestazioni e concorrenza nel mercato legale, in Urb. e app., 2023, 5, p. 591 ss.; G. Musolino, La prescrizione della responsabilità professionale dopo la legge n. 49/2023, in Resp. civ. e prev., 2023, 5, pp. 1694-1716.
[8] Si veda, sul punto, M. Gazzara, La nuova disciplina sull’equo compenso delle prestazioni professionali, con particolare riguardo ai servizi legali, in Le nuove leggi civili commentate, 2023, 3, p. 556 ss.; P. Ichino, La nozione di giusta retribuzione nell’art. 36 Cost., in Riv. it. dir. lav., 2010, p. 719 ss.
[9] Sul punto, si veda anche L. Carbone, La disciplina dell’equo compenso delle prestazioni professionali, in Foro it., 2023, 5, p. 181 ss.; F. Valerini, La legge sull'equo compenso delle prestazioni professionali, in Proc. civ., 2023, 3, p. 949 ss.; A.C. Fusco, Equo compenso e professionisti, in Arch. Giur. ass., 2023, 3, 209 ss.
[10] Si veda, sul tema dell’equo compenso nei rapporti con la P.A., A. Biagiotti, La pubblica amministrazione deve sempre garantire un equo compenso per le prestazioni rese dai professionisti?, in Arg. dir. lav., 2022, 2, p. 295 ss.; A.E. Basilico, Equo compenso degli avvocati e Pubblica Amministrazione, in Urb. e app., 2021, 4, p. 536 ss.; G. Musolino, L'equo compenso quale applicazione del principio di decoro professionale, in Riv. notar., 2020, 6, p. 1203 ss.
[11] Ad esempio, si v. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 2 agosto 2018, n. 1507, secondo cui «è illegittimo il bando del Comune con il quale si intende affidare la redazione del piano regolatore senza alcun compenso al professionista ma soltanto il rimborso spese, atteso che la configurabilità di un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito si pone in disarmonia rispetto al quadro di riferimento normativo, tenuto conto che non ogni servizio prestato reca con se vantaggi curricolari e di immagine tali da garantire, sia pure indirettamente, vantaggi economici tali da soddisfare il diritto a un equo compenso».
[12] Cons. Stato, 3 ottobre 2017, n. 4614.
[13] Cons. Stato, 09 novembre 2021, n. 7442.
[14] Cons. Stato, 28 febbraio 2023, n. 2084.
[15] Si v. TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 14 novembre 2022, n. 7037, secondo cui «la circostanza che il singolo professionista resti libero di valutare la convenienza dell'incarico e di rifiutarlo nel caso in cui ritenga non equo il compenso non esclude la violazione dell'art. 19-quaterdecies, comma 3, d.l. n. 148/2017, cioè la violazione dell'obbligo dell'Amministrazione di garantire un compenso equo. In altri termini, la disposizione violata impone all'Amministrazione di prevedere compensi equi e non consente la previsione di compensi non equi, anche se, ovviamente, il singolo professionista non è certo obbligato, ove inserito nell'elenco, ad accettare l'incarico e quindi di beneficiare di un compenso non equo».
[16] TAR Campania, Napoli, Sez. I, 18 febbraio 2022, n. 1114. In termini, T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 20 dicembre 2021, n. 1088.
[17] Ex multis, cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 14 marzo 2023, n. 815; TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 17 novembre 2022, n. 919; TAR Liguria, Genova, Sez. I, 17 febbraio 2022, n. 137.
[18] In via di prassi, si v. il Consiglio Nazionale degli Ingegneri, che con circolare n. 76 cit., ha rilevato la piena vigenza della l. 49 anche alle gare pubbliche; in questo senso, anche la circolare n. 100 del 17.11.2023 del Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori, nella quale si invitano le stazioni appaltanti a non richiedere alcun ribasso all’operatore economico, in quanto «i corrispettivi - in ottemperanza alla legge sull’equo compenso e al nuovo Codice dei contratti - devono essere quelli fissati dal decreto Parametri». In senso opposto, si v, F. Botteon, L’equo compenso nei servizi tecnici affidati dalla pubblica amministrazione e l’individuazione del diritto vigente: entrata in vigore o efficacia del codice?, in LexItalia, 2023, che milita, con lettura poco condivisibile, per l’abrogazione tacita della l. 49 a opera del d.lgs. 36, per il fatto che quest’ultimo sia entrato in vigore successivamente alla prima.
[19] Cfr. nota ANAC del 07 luglio 2023, avente ad oggetto “Criticità attinenti al coordinamento tra la disciplina del c.d. equo compenso e il decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36”, ove l’Autorità, ritenuto che «non può fornire indicazioni sulla percentuale legittima di ribasso, in quanto sussiste il rischio di individuazione di una nuova soglia minima per i compensi diversa da quella per i compensi fissati dai decreti ministeriali per i professionisti iscritti agli ordini e collegi, con l’ulteriore possibile effetto di trasformare la gara in una gara a prezzo fisso», ha segnalato la questione rimettendola alla competente Cabina di Regia presso la Presidenza del Consiglio, al fine di evitare pareri difformi e contenzioso, restando comunque a disposizione per ogni eventuale ulteriore approfondimento in un’ottica di collaborazione istituzionale.
[20] C.d. “Opzione 1: Necessità di svolgere gare a prezzo fisso”. Si prevede che «sulla base del dato normativo, potrebbe sostenersi che il compenso professionale individuato sulla base delle tabelle ministeriali da porre a base di gara sia in ogni caso inderogabile e, pertanto, non possa essere assoggetto al ribasso in sede di offerta. Conseguentemente le gare che hanno ad oggetto esclusivamente prestazioni professionali devono essere aggiudicate a prezzo fisso, in applicazione delle indicazioni fornite dall’articolo 108, comma 5, del codice dei contratti pubblici. La competizione tra i concorrenti, quindi, potrà essere soltanto di tipo qualitativo ed avere ad oggetto specifiche caratteristiche del servizio, ferma restando la possibilità di premiare l’offerta di un tempo di esecuzione inferiore rispetto a quello previsto nel bando di gara».
[21] C.d. “Opzione 2: Possibile ribasso limitato alle spese generali”. Si prevede che «fermo restando il divieto di sottoporre a ribasso il compenso professionale individuato sulla base delle tabelle ministeriali, si potrebbe mantenere ferma la possibilità di effettuare una gara con valutazione dell’offerta economica limitatamente alla parte di costo che esula dal compenso professionale e, pertanto, sostanzialmente, limitata alle spese generali. Con riferimento a tale possibilità, si evidenzia che consentendo il ribasso su una quota di tali spese, potrebbe verificarsi che i concorrenti più strutturati offrano il massimo ribasso sostenibile, attestandosi tutti su una quota fissa. In sostanza, ci sarebbe il rischio di attivare, anche in questo caso, ad una gara a prezzo fisso. Inoltre, si verificherebbe l’aspetto negativo che i professionisti singoli o le società di piccole dimensioni potrebbero essere costretti ad offrire un ribasso inferiore, non riuscendo ad abbattere nella stessa misura i costi. Quindi, sostanzialmente, la competizione verrà svolta sulle dimensioni dell’operatore economico o sulla capacità organizzativa e non sulla qualità del servizio».
[22] C.d. “Opzione 3: Non applicabilità della disciplina dell’equo compenso alle procedure di evidenza pubblica”. Si precisa che «i sostenitori di tale tesi affermano che la previsione di tariffe minime si pone in netto contrasto con il principio di concorrenzialità, con evidenti dubbi di compatibilità anche a livello di normativa comunitaria. Inoltre, occorre considerare che l'articolo 2, comma 1 della legge 49/2023 definisce il proprio ambito di applicazione in relazione ai rapporti professionali aventi ad oggetto prestazioni d'opera intellettuale di cui all'articolo 2230 del Codice civile. Ciò significa che la relativa disciplina è circoscritta alle ipotesi in cui la prestazione professionale trova fondamento in un contratto d'opera caratterizzato dall'elemento personale, in cui il singolo professionista assicura lo svolgimento della relativa attività principalmente con il proprio lavoro autonomo. Resterebbero, quindi, escluse dall’applicazione della disciplina sull’equo compenso le ipotesi in cui la prestazione professionale viene resa nell’ambito di un appalto di servizi, attraverso una articolata organizzazione di mezzi e risorse e con assunzione del relativo rischio imprenditoriale. Altro argomento portato a favore di tale ricostruzione è l’espressa applicazione della normativa sull’equo compenso alle ‘convenzioni’ che sarebbero identificabili in particolari rapporti contrattuali caratterizzati da una posizione dominante del committente, con conseguente necessità di ristabilire gli equilibri contrattuali proprio attraverso l’introduzione di tariffe minime. Tale situazione non ricorrerebbe nell’ambito delle procedure di gara caratterizzate dalla presentazione di offerte libere e adeguatamente ponderate da parte degli offerenti e dalla previsione di adeguati meccanismi atti proprio ad evitare la presentazione di offerte eccessivamente basse e quindi non sostenibili (anomalia dell’offerta). Ulteriori considerazioni muovono dall’esigenza di interpretare le disposizioni appartenenti a diversi ordinamenti in modo sistematico, tenendo conto del contesto ordinamentale complessivo in cui si inseriscono, pena l’annullamento dei principi di concorrenzialità e di evidenza pubblica che governano l'affidamento dei contratti pubblici».
[23] Secondo C.G.U.E., sez. IV, 04 luglio 2019, C- 377/17, le tariffe minime e massime in materia di prestazioni professionali (in specie di progettazione fornite da architetti e ingegneri), rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 15, paragrafo 2, lettera g), della direttiva 2006/123 se soddisfano le seguenti condizioni: (i) non essere discriminatorie e (ii) essere necessarie e proporzionate alla realizzazione di un motivo imperativo di interesse generale. Cfr. F. Casolari, La Corte di giustizia torna a pronunciarsi sugli onorari (minimi) previsti per l’esercizio della professione forense e sulla loro compatibilità col diritto UE antitrust: un passo avanti e due indietro?, in Giur. comm., 2018, 3, p. 406 ss.
[24] Si tratta di C.G.U.E., sez. IV, 25 gennaio 2024, C-438/22, ove è stato rilevato che «l’articolo 101, paragrafo 1, TFUE , in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, dev’essere interpretato nel senso che, nell’ipotesi in cui un giudice nazionale constati che un regolamento che fissa gli importi minimi degli onorari degli avvocati, reso obbligatorio da una normativa nazionale, è contrario a detto articolo 101, paragrafo 1, esso è tenuto a rifiutare di applicare tale normativa nazionale nei confronti della parte condannata a pagare le spese corrispondenti agli onorari d’avvocato, anche qualora tale parte non abbia sottoscritto alcun contratto di servizi d’avvocato e di onorari d’avvocato».
[25] Art. 101 T.F.U.E.: «Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato interno».
[26] Si veda, G. Scassellati Sforzolini, A. Cardarelli, Tariffs in the Legal Professions and Article 101 TFEU: Cases C-128/21 Lietuvos notarų rūmai and C-438/22 Em Akaunt, in Journal of European Competition, 2024, 2; Aa.Vv., ECJ judgment on reference from Bulgarian court on compatibility with Article 101 of national regulation setting minimum remuneration for lawyers, in Practical Law, 2024.
[27] In generale, sull’argomento, si veda anche C. Garbuio, Proposta di direttiva sul salario minimo ed equo compenso: il caso del lavoro autonomo professionale, le tariffe professionali e regole della concorrenza, in Dir. Rel. Ind., 2021, 4, pp. 1101 ss.; M. Casiello, Note a caldo sugli Orientamenti della Commissione UE sull’applicazione del diritto della concorrenza dell’Unione agli accordi collettivi dei lavoratori autonomi individuali, in Lavoro Diritti Europa, 2022, 3; A. Zoppo, Alcune considerazioni in ordine sparso in tema di equo compenso, salario minimo, tariffe orarie e politiche sulle libere professioni, in Bollettino ADAPT, 2022, n. 23.
[28] La tesi dell’antinomia è stata prospettata, con maggior precisione, dall’Amministrazione resistente, la quale ha osservato che l’art. 95, d.lgs.50/2016 (così come oggi l’art. 108, comma 1, d.lgs. 36/2023) ha previsto tre diversi criteri di aggiudicazione: 1) affidamento sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo; 2) affidamento sulla base dell’elemento prezzo; 3)affidamento sulla base del costo, seguendo un criterio di comparazione costo/efficacia quale il costo del ciclo di vita, con competizione limitata ai profili qualitativi. Ora, poiché il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa è fondato sul miglior rapporto qualità/prezzo, a seguito dell’entrata in vigore della legge sull’equo compenso, le gare per servizi di architettura o di ingegneria dovrebbero essere strutturate e aggiudicate sulla base di un “prezzo fisso” non ribassabile, individuato dalla stessa P.A. come corrispettivo posto a base di gara, con competizione limitata alla sola componente tecnica dell’offerta.
[29] Si ricorda, a titolo esemplificativo, che, con riferimento al 2021, l’ANAC, in un periodo ancora condizionato dall’emergenza pandemica, ha stimato in circa 70 miliardi di euro il valore totale degli appalti di servizi aggiudicati dalle Pubbliche Amministrazioni.
[30] Sul punto, la sentenza dei giudici romani specifica che «la scelta di applicare la disciplina sull'equo compenso esclusivamente alle prestazioni di natura intellettuale rese in favore della P.A. dal singolo professionista, che non necessiti (o comunque non si avvalga) di un'organizzazione di mezzi e risorse, sarebbe difficilmente giustificabile dal punto di vista logico, considerata l'ontologica corrispondenza tra le prestazioni rese dal singolo e quelle rese nell'ambito di una società/impresa».
[31] Ancorché nell’ambito del rapporto contrattuale “a valle”, la nullità del contratto possa essere dedotta solo dal professionista. Diversamente, infatti, si rischierebbe, proprio nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica, una pericolosa eterogenesi dei fini: il professionista concorrente potrebbe essere “tentato” di abusare della nullità di protezione in questione, volutamente presentando un’offerta “inferiore” ai minimi, per così ottenere l’aggiudicazione e, una volta stipulato il contratto far valere la nullità parziale al fine di attivare il “meccanismo” di cui al comma 6 dell’art. 3, l. n. 49/2023, ai sensi del quale il tribunale procede alla rideterminazione secondo i parametri previsti dai decreti ministeriali di cui al comma 1 relativi alle attività svolte dal professionista, tenendo conto dell'opera effettivamente prestata. È evidente, d’altronde, che ciò porterebbe ad un aggiramento del principio di tendenziale immutabilità dell’offerta anche in sede di esecuzione del contratto pubblico.
[32] In particolare, si ricorda che, sin dalle direttive del 2014, il legislatore dell’UE ha voluto superare il criterio del minor prezzo quale strumento predominante di aggiudicazione delle pubbliche gare, favorendo il ricorso al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che consente alla Stazione appaltante di strutturare l’aggiudicazione valorizzando la qualità dell’offerta tecnica, ma anche considerazioni ambientali, aspetti sociali o innovativi, pur tenendo conto del prezzo e dei costi. Cfr. CGUE, C-377/17 del 13.04.2028).
[33] Sulla concorrenza la dottrina è copiosa. Recentemente, con riferimento al d.lgs. n. 36/2023, alla concorrenza e ai suoi principi, si veda F. Vetrò, G. Lombardo, M. Petrachi, L’avvio del nuovo Codice tra concorrenza, legalità e istanze di semplificazione: l’equilibrio instabile dei contratti pubblici, in Dir. econ., 2023, 1, p. 31 ss.; A.M. Chiariello, Una nuova cornice di principi per i contratti pubblici, in Dir. econ., 2023, 1, 141 ss.; F. Cintioli, Il principio del risultato nel nuovo codice dei contratti pubblici, in giustizia-amministrativa.it, 2023; F. Saitta, I principi generali del nuovo codice dei contratti pubblici, in Giustizia Insieme, 2023; L.R. Perfetti, Sul nuovo Codice dei contratti pubblici. In principio, in Urb. e app., 2023; G. Napolitano, Committenza pubblica e principio del risultato, in Astrid, 2023; S. Perongini, Il principio del risultato e il principio di concorrenza nello schema definitivo del codice dei contratti pubblici, in L’Amministrativista, 2023; G. Tulumello, Il diritto dei contratti pubblici fra regole di validità e regole di responsabilità: affidamento, buona fede, risultato, in giustizia-amministrativa.it, 2023; M.A. Sandulli, Prime considerazioni sullo Schema del nuovo Codice dei contratti pubblici, in Giustizia Insieme, 2022. Sulla rilevanza dell’esecuzione del contratto anche in tema di concorrenza, cfr. R. Cavallo Perin, G. Racca, La concorrenza nell’esecuzione dei contratti pubblici, in Dir. amm., 2010, p. 325 ss.
[34] Prendendo le mosse dall’art. 1 del d.lgs. n. 36/2023, per come illustrato nella Relazione di accompagnamento al Codice, si evince come la concorrenza sia «funzionale a conseguire il miglior risultato possibile nell’affidare ed eseguire i contratti». Si collega così il risultato, inteso come fine, alla concorrenza, intesa come metodo (sulla scorta di quanto avviene per l’art. 97 Cost., in cui il buon andamento è legato all’imparzialità, al punto da essere stati considerati per lungo tempo una vera e propria endiadi). Il nesso tra “risultato” e “concorrenza”, la seconda in funzione del primo, è già rafforzato dalla dizione del comma 1, dove si specifica che non si persegue “un risultato purché sia”, ma un risultato “virtuoso”, che accresca la qualità, diminuisca i costi, aumenti la produttività.
“Il codice rosso” di Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto
Recensione di Costantino De Robbio
Essere “esperti di Codice Rosso” è ormai da tempo per tutti i giuristi – magistrati, avvocati, operatori del settore – non più una scelta di campo ma una necessità imprescindibile.
I numeri dei procedimenti penali e dei processi celebrati per questo tipo di reati sono impressionanti e il fenomeno ha ormai le caratteristiche di una vera e propria emergenza che chiama ognuno di noi ad una risposta giudiziaria consapevole e informata.
Non si tratta più di materia riservata agli specialisti, ma del lavoro quotidiano di pubblici ministeri, giudici, avvocati e polizia giudiziaria: qualunque sia il settore del diritto penale di cui ci si occupa, si faranno i conti quotidianamente con denunce, segnalazioni, arresti e processi per atti persecutori, maltrattamenti in famiglia, violenze sessuali, tanto che in molti uffici di Procura è stato stabilito in via permanente, accanto al “turno esterno” un “turno violenze”: oltre al Pubblico Ministero che, a rotazione e per 24 ore, è addetto alle emergenze conseguenti ad arresti e fermi, ve n’è uno che si occupa in via esclusiva, per lo stesso periodo, delle sole misure precautelari per i reati di violenza di genere, che in sostanza pareggiano ormai per numero quelle per tutti gli altri reati.
Una sorta di “pandemia” delittuosa che sembra avere colpito gli uffici giudiziari di tutto il Paese, o forse semplicemente la tardiva presa d’atto di un fenomeno da sempre esistente e tragicamente sottovalutato.
Questa nuova consapevolezza ha richiesto una nuova risposta giudiziaria, articolata in tre livelli: repressione delle condotte di reato (attraverso una maggiore attenzione e consapevolezza nell’affrontare denunce e procedimenti), modifiche legislative per adeguare l’impianto codicistico alla mutata realtà e un lavoro di formazione di tutti gli operatori del settore.
L’opera di Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto, giunta alla seconda edizione, risponde a tutte e tre le esigenze ed offre una risposta completa e per certi versi inedita al fenomeno, dedicando tra l’altro un’ampia sezione alla necessità della formazione tecnica, raramente presa in considerazione dalla manualistica giuridica e dimostrando così di saper coniugare, accanto ad una minuziosa ricostruzione della normativa e della giurisprudenza sul tema, la capacità di alzare la testa dalla quotidianità imposta dall’emergenza per sottolineare l’importanza di un investimento di medio e lungo periodo che parta dai corsi di preparazione delle forze dell’ordine e della magistratura.
Non stupisce che siano proprio i due autori di questa monografia a proporre un vero e proprio salto di qualità nel modo di affrontare il tema.
Si tratta infatti di colleghi che hanno fatto della violenza di genere, da lungo tempo, il centro della loro attività scientifica e lavorativa.
Paola rappresenta un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia affrontare la materia, sia all’interno della magistratura che all’esterno ed ha maturato dapprima nella giurisdizione di merito e poi in quella di legittimità un’esperienza probabilmente senza pari, mettendo a frutto una passione che l’accompagna da tutta la vita.
Francesco, tra i magistrati più attenti delle fenomenologie delittuose del nostro Paese, ha da tempo affiancato la sua nota competenza in materia di aggressione ai patrimoni illeciti e di studioso delle misure di prevenzione ad un approfondimento del tema della violenza di genere, operando una sinergia virtuosa ed inedita tra i due settori che ha dato frutti sorprendenti sia a livello giurisprudenziale che legislativo.
La comunanza, umana e professionale, tra i due ha prodotto una monografia armonica e completa.
Il punto di partenza - e anche questo costituisce una sorta di inedito nella manualistica penale – è dato dall’analisi delle fonti sovranazionali, e non a caso.
Non è infatti possibile ignorare che molte delle leggi italiane e dei passi in avanti faticosamente compiuti dalla giurisprudenza in materia sono frutto delle “tirate d’orecchie” ricevute dagli organismi sovranazionali, che hanno dolorosamente evidenziato l’arretratezza culturale dell’impianto normativo nazionale e dell’approccio culturale di parte della magistratura, soprattutto giudicante.
Da questa analisi iniziale si passa dunque all’approfondimento degli stereotipi e dei bias cognitivi che troppo spesso affliggono gli scritti degli operatori del settore e ne condizionano gli esiti, e in questa parte non si può non vedere un’eco delle precedenti opere di Paola Di Nicola Travaglini, che a questo tema ha dedicato tempo e passione, di cui sono testimonianza i due precedenti scritti (uno dei quali recensito su questa rivista[1]).
Segue una parte più istituzionale, dedicata alle fattispecie del codice penale e del codice di rito e alle novità legislative che si sono susseguite, tumultuosamente, negli ultimi anni, dalle modifiche ai reati tradizionali (maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale) alle nuove fattispecie di reato di recente e recentissima creazione (atti persecutori, femminicidio, revenge porn, sfregio del volto); per quanto attiene alle modifiche del codice di procedura penale, sono dedicati approfondimenti alle misure cautelari previste dagli artt. 282 bis e ter del codice di procedura penale (ed alla nuova fattispecie di reato conseguente alla violazione delle medesime), al nuovissimo obbligo di applicazione del braccialetto elettronico ed al potenziamento delle indagini preliminari, con un interessante sguardo al fenomeno della vittimizzazione secondaria ed ai suoi riflessi processuali.
Dopo il prezioso approfondimento della formazione (il terzo livello di consapevolezza di cui si è detto), il testo si dedica all’analisi delle misure di prevenzione introdotte recentemente per questo tipo di reati, e qui non si può non scorgere la mano di Francesco, pioniere dell’idea poi fatta propria dal legislatore di mutuare per i reati di genere gli strumenti che tanta prova di sé hanno dato nella lotta alla criminalità organizzata.
Ciascuna delle parti di cui è composta l’opera contribuisce ad un tassello di questa consapevolezza multilivello che è richiesta per affrontare questo tipo di reati, proprio come la diversità culturale e per così dire ontologica di Paola e Francesco riesce a fondersi in uno sguardo armonico: da questa composizione di sguardi diversi che guardano verso la stessa direzione, nasce la ricchezza di questo scritto.
Nella prefazione i due autori sottolineano con orgoglio di essere una donna e un uomo e una donna, una giudice e un pubblico ministero.
La scelta di questa chiave di lettura, che loro stessi offrono al lettore, è un modo intelligente di superare le perplessità e la chiusura mostrata spesso in passato verso questo tipo di reati, che una visione miope voleva limitare all’approfondimento scientifico delle sole magistrate, avvocatesse e operatrici donne.
In realtà un approccio solo femminile alla materia, come la stessa Paola Di Nicola Travaglini ha in più occasioni sottolineato, non funziona, perché confina lo sguardo in un limite autoimposto.
È stato dunque naturale per Paola e Francesco comprendere tra i primi che il vero salto di qualità è possibile solo quando la lotta per uscire dagli stereotipi diventa lotta di tutti, anzi soprattutto del genere che dell’arretratezza culturale da sempre si avvantaggia, più o meno consapevolmente, cioè gli uomini.
In questo senso la composizione dei diversi punti di vista in una nuova prospettiva armoniosa e più matura è il punto finale del percorso, che i nostri Paola e Francesco ci consegnano con questo volume.
[1] “La giudice” di Paola Di Nicola Travaglini. Recensione di Costantino De Robbio.
La privazione della libertà: il proprio nome, il proprio tempo[1]
di Mauro Palma
Il nome
Non bisogna andare a tragiche memorie del passato per riconoscere che la prima e più rilevante riduzione di una persona a “cosa” – o forse anche a un “fascicolo” da evadere e archiviare – è la sua identificazione in base a un numero e non a un nome.
Più volte nei racconti di chi ha subito tale umiliazione si ripercorre l’eco dell’impossibilità di riconoscersi all’interno del simbolo numerico, riassunto incongruo delle proprie vicende e della propria individualità. Un tragico passato, è vero. Eppure, in periodi più recenti, la stessa riduzione de-umanizzata si è resa evidente nelle sepolture di persone venute dal mare e mai giunte ai lidi delle loro speranze, così come, per chi è approdato ma non accolto, nella sistemazione in strutture destinate anche nella loro denominazione al suo respingimento.
Ci sono luoghi del nostro presente che sono densi di questa anonimia: sono spesso vicini a quelle spiagge che mantengono l’ambiguità dell’essere luogo della vastità che il mare sempre propone e della piccolezza del suo rivelarsi muro invalicabile. Ma non sono questi gli unici luoghi dell’anonimia. Anche in altre realtà la persona è soltanto un “caso”, il suo nome viene dimenticato o comunque non considerato e sostituito non più dal numero, ma dalla presunta nazionalità di origine o da qualche tratto somatico più evidente. Mutuando un linguaggio foucaultiano possiamo definirli gli spazi delle eterotopie escludenti[2], marginali rispetto a quelli della quotidianità e resi invisibili da muri, sbarre o cancelli. Sono luoghi dove non esiste la possibilità di autodeterminare la gestione del proprio tempo e neppure del proprio muoversi perché in essi la libertà è ristretta, limitata o del tutto privata. Luoghi dove spesso la densità numerica e la molteplicità tipologica dei presenti confluiscono, per trasformarsi nella spersonalizzazione di chi vi è ospitato, ricoverato, trattenuto o detenuto.
Nei luoghi di privazione della libertà, qualunque siano la loro specificità e le motivazioni per cui le persone sono in essi ristrette, l’anonimia è quasi una costante. Si presenta in una varietà di forme soprattutto nei confronti delle persone straniere o comunque di persone non direttamente inquadrabili in un presunto concetto di “normalità” la cui semantica sfocia nel luogo comune denso di paura, di difesa individualistica, di convenzionalismo: il nome è spesso sostituito da un aggettivo sostantivato che dovrebbe permettere di distinguere il soggetto in base a una sua rilevante caratteristica. In carcere questo avviene frequentemente.
Il diritto al nome non è codificato, non appartiene alla lista dei diritti fondamentali riconosciuti esplicitamente dal diritto positivo. Ma questa assenza è indicativa di una necessità ancor più forte perché è connaturata al non riconoscimento dell’individuo come persona e, nel nostro orizzonte costituzionale, della sua realtà interagente e comunicante con le altre. L’essere persona acquista una fisionomia soggettiva attraverso tale relazionalità che è intrisa della propria storia e del proprio mondo: per questo ha bisogno del riconoscimento di un nome. Ma, come più volte mi è capitato di ricordare, la negazione del diritto al nome si configura anche in una varietà di forme; per esempio, nella realtà penitenziaria, nell’anonimia di trasferimenti scollegati da qualsiasi connessione territoriale. Così come, soprattutto in questo periodo, si configura nella indicazione di ipotesi per affrontare il tema del sovraffollamento penitenziario senza alcuna preventiva considerazione della pienezza soggettiva delle persone destinatarie di taluni provvedimenti.
Mi riferisco, in particolare, alla possibilità avanzata dal versante ministeriale nell’attuale dibattito[3] di trasferire in una caserma, presuntamente disponibile in un comune del centro dell’Italia, un numero consistente di persone detenute per scontare condanne molto brevi o ridotti residui di condanne maggiori; il tutto indipendentemente da considerazioni relative alla loro individuale connessione con quel territorio. Al di là dell’effettività della proposta – rispetto alla quale è lecito avere dubbi, anche in relazione ai tempi rispetto all’urgenza attuale del sovraffollamento penitenziario – la formulazione in sé di un possibile spostamento di persone in un contesto qualsiasi, scelto sulla base di disponibilità del demanio e di accordi con esso raggiunti e del tutto irrelato alle loro soggettività, è indicativa di una perseguita anonimia delle persone affidate e rispetto alle quali, occorre ricordare, chi amministra la privazione della libertà ha una funzione di tutela e di garanzia dei diritti, nonché di finalizzazione del proprio intervento nel solco che la Costituzione delinea.
Ecco perché la questione del nome è decisiva quando si tratta di giudizio, di sanzione e della sua esecuzione, soprattutto quando questa comporta la privazione della libertà e, quindi il rischio di una segregazione spersonalizzante.
Del resto, sappiamo bene come il sistema penale italiano abbia faticato – e tuttora fatichi – a dare il nome alle cose; sono dovuti passare più di trenta anni dalla ratifica della Convenzione Onu contro la tortura perché il nome stesso tortura entrasse nel codice penale – ben di più erano passati dall’imperativo dell’ultimo comma dell’articolo 13 della Costituzione, nonostante che questo desse una indicazione esplicita di punizione di ogni violenza fisica o mentale nei confronti delle persone sottoposte a restrizioni di libertà. Vale la pena, proprio in questo contesto di conclusione di un’attività tra giustizia e letteratura, ricordare l’affermazione di Albert Camus che scrisse nei suoi quaderni preparatori de La Peste: «quando si cominciano a nominare bene le cose diminuisce il disordine e diminuisce la sofferenza che c’è nel mondo».
Il tempo
Quindi, l’anonimia come primo indice della disattenzione ai diritti intrinseci con la persona. Ma c’è un altro diritto che pone forti questioni quando si parla di privazione della libertà e, quindi, anche di carcere: il diritto al significato del proprio tempo. Anche su questo mi è capitato di soffermarmi più volte, spesso in occasione del mio rivolgermi annualmente al Parlamento, nella funzione di Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.
Nella privazione della libertà la questione del tempo si pone sotto diversi aspetti, a partire dal principio che il tempo non può essere privo di significato. Perché in tal caso i vuoti del tempo, anch’essi necessari per l’intimità e la riflessione, non sono pause, ma il niente; oppure sono un contenitore da riempire con qualcosa che richiama l’intrattenimento e non la progettazione – e purtroppo questo termine, intrattenimento, è stato più volte utilizzato in circolari varie. Un tempo inutile, al più riempito di qualcosa è quello che quasi sempre scorre nelle istituzioni chiuse: un tempo che richiama ciò che, come segnalava Erving Goffman più di cinquant’anni fa, diviene denso di «attività di rimozione». Cioè attività non adulte, bensì infantilizzanti, sostanzialmente finalizzate a sé stesse, volte a far dimenticare provvisoriamente la situazione in cui vive. «Se dunque si può dire – scriveva Goffman – che nelle istituzioni totali le attività normali torturano il tempo, queste attività lo uccidono pietosamente»[4].
Il carcere non è esterno a questa concezione del tempo: sono innanzitutto i numeri a evidenziare questa fisionomia. Alla data odierna (maggio 2024) ci sono 1502 persone in carcere per scontare una pena – non un residuo di pena maggiore – inferiore a un anno, altri circa 3000 una pena tra uno e due anni. È evidente che in periodi così brevi non sia possibile costruire alcun percorso che dia significato a quanto la nostra Carta prescrive come finalità tendenziale per ogni pena, troppo complessa essendo l’organizzazione carceraria. La presenza in carcere per periodi così brevi, è innanzitutto destrutturante sul piano della consapevolezza del valore delle norme: nel luogo della ricostruzione della legalità si vive, infatti, un’esperienza che dà alla norma un valore meramente enunciativo e non fattuale, addirittura a una norma di rango costituzionale. Inoltre, tale presenza è indicativa della selettività dell’azione penale, perché, ovviamente, le persone che, pur in presenza di molte modalità alternative per pene così brevi, sono in carcere rappresentano quella minorità sociale che è fatta di assenza di una rete di supporto, assenza a volte di un domicilio che possa essere preso in considerazione dal magistrato che dovrebbe applicare la misura, nonché assenza di conoscenza delle possibilità che l’ordinamento prevede e ancor più di comprensione del dove si è e del proprio presente. È una realtà che interroga tutti noi: pone domande ineludibili al territorio che non ha più presidi intermedi che possano intercettare queste vite difficili e fornire loro strumenti di supporto e di controllo che diminuiscano l’esposizione al rischio della commissione di reati e affida invece al penale ciò che non si è risolto nel sociale.
Questi segmenti di vita interrotta sono destinati a riproporsi perché la persona uscirà dal carcere nelle condizioni con cui è entrata e con lo stigma della detenzione. Sono frantumazioni del tempo della vita, tratti vuoti, sottrazioni del significato stesso del proprio tempo: negazioni di quel diritto troppo spesso violato non solo in carcere, ma anche negli altri luoghi di privazione della libertà personale.
Ho parlato di segmenti di vuoto: non sono pause né sono quei silenzi che aprono alla riflessione, bensì i vuoti che ricordano l’interruzione – c’è differenza tra il silenzio di John Cage[5] e l’interruzione di corrente, da riempire con qualche rassicurante attività.
Il tempo interrotto nella sua continuità, in molte situazioni in carcere ha la caratteristica della sospensione, dell’interruzione e non certamente dello spazio per il sé. Per questo il tempo rappresenta una variabile esplicativa della difficoltà del presente nella risposta penale. Non lo è, tuttavia, solo sotto questo aspetto perché è descrittivo e determinate anche relativamente ad altri due profili. Il primo riguarda la non sincronia tra la ciclicità del tempo interno alla detenzione, che sostanzialmente riproduce sempre sé stesso, quasi rappresentabile con un moto circolare e la linearità del tempo esterno: inizialmente i due diversi tempi hanno un punto di contatto, la retta del tempo esterno è tangente alla circonferenza del tempo detentivo, ma subito poco la loro distanza rischia di accentuarsi. A ogni incontro con una persona esterna, a ogni incontro con i propri affetti, ma anche a ogni momento di confronto con l’Istituzione che regola e legittima il procedere dell’assenza di libertà, circonferenza e tangente sono di nuovo insieme in un singolo punto, cioè in un singolo momento: per un attimo sembrano avere lo stesso orologio, poi inevitabilmente si discostano, l’una torna a ripiegarsi nella logica dell’internamento, l’altra a seguire la direzione degli eventi.
Si riesce a far sincronizzare il più possibile i due tempi, pur nella loro intrinseca differenza? La via da percorrere è quella dell’accentuare la loro possibile e parziale similarità, a partire da quel principio che è posto tra le premesse delle Regole penitenziarie europee – adottate dal Consiglio d’Europa – che indica che «la vita in carcere deve essere il più possibile simile agli aspetti positivi della vita all’esterno». Qui la «positività» va interpretata nel senso di evoluzione, di adesione, quindi, alla mutevolezza crescente del tempo esterno. Ne emerge una carenza attuale del nostro sistema detentivo che richiede urgentemente di essere considerata: la carenza di attenzione positiva all’evoluzione tecnologica, tuttora vista dalla nostra Amministrazione non come opportunità per una detenzione più calibrata sul ritorno al contesto sociale, bensì come rischio di riduzione della sicurezza interna ed esterna.
Vale la pena ricordare che i dati ci dicono che delle 61200 persone attualmente detenute, coloro che hanno oggi un residuo di pena superiore ai cinque anni sono meno di 12600; tra un numero molto ridotto di anni, quasi 49mila persone ristrette rientreranno nella società; la maggiore connessione possibile tra il tempo interno e il tempo esterno è un elemento decisivo per il loro positivo reintegro in termini di una maggiore sicurezza della collettività, oltre che del loro personale percorso personale.
Il tempo è comunque una variabile significativa anche per un altro aspetto, che qui accenno soltanto: nelle scienze fisiche, in quelle sociali e anche nello sviluppo del sapere psicoanalitico il tempo non è mai una grandezza costante perché è sempre soggetto a dilatazioni e contrazioni. La misura del tempo della penalità, nella sua definizione edittale è invece costante: definita anni fa, resta tale. Eppure la quantità di esperienze e mutamenti racchiusa in un anno di privazione della libertà nel momento della definizione edittale è ben diversa da quella che un anno del presente racchiude. Questo comporta che il mutamento ha un ritmo diverso e che, conseguentemente, la distanza tra quel tempo che ho definito come interno e quello esterne tende ad accentuarsi, soprattutto data la rapidità di mutamento delle tecnologie e dei mutamenti sociali e contestuali che esso determina.
Questa consapevolezza manca alla riflessione sul presente della detenzione e tale mancanza si riflette sulla sottovalutazione di alcuni aspetti. Per esempio, quello della centralità assoluta della interconnessione per persone molto giovani, spesso accusate, anche a ragione, di vivere in un mondo virtuale a cui assegnano maggiore rilevanza rispetto al mondo delle relazioni materiali. In realtà proprio l’interruzione di tale connessione ha effetti dirompenti, nel senso di isolamento, in una persona che entra in carcere, ben superiore a quella che si determinava e si determina nell’interruzione dei rapporti familiari: Peralto, si tratta peraltro una disconnessione definitiva – non si avrà più lo smartphone – che potrà essere sanata neppure dal magro conforto degli incontri che l’ordinamento penitenziario prevede. Sono convinto che questa decisiva e definitiva disconnessione sia un co-fattore della disperazione e forse anche dei suoi nefasti esiti.
Il tempo della detenzione deve conservare la dimensione relazionale affinché si mantenga un equilibrio tra ciò che si è commesso e la sanzione penale corrispondente, con il suo quantum di sofferenza inevitabile.
Teatralità penale
L’incapacità di mantenere tale connessione svela l’ambiguità insita nella pena detentiva che si è storicamente affermata quasi come misura neutrale, oggettiva, in grado di opporsi alla teatralità della pena suppliziante. Nel suo discostarsi dal tempo vitale e nella sua esecuzione in condizioni di degrado finisce però per configurarsi come una sua semplice variante perché la segregazione, nel vuoto del nome e del significato del proprio tempo, anche laddove non vi è violenza fisica o psichica, esprime la stessa logica.
Scrisse Gabriel Bonnot De Mably nel periodo dell’Illuminismo e del passaggio dalla pena corporale alla detenzione: «Che il castigo, se così posso dire, colpisca l’anima, non il corpo»[6]. La teatralità insita in una detenzione soltanto centrata sulla sottrazione di tempo vitale e sull’esibizione frequente di tale sottrazione di tempo in funzione della costruzione di consenso finisce col concedere molto al residuo di vendetta – e il linguaggio spesso ne è sintomo e conferma. Così mostrando che una idea corporea della pena permane nella nostra contemporaneità, anche se avvolta dall’incorporeo di una penalità centrata sull’astratta neutralità del tempo sottratto come misura del castigo. È in questa corporeità residua rimane il nucleo della sanzione punitiva come sofferenza.
Nome e significato del tempo, quindi, sono due pilastri dello stesso concetto di dignità quale intrinseco bene di ogni persona, la cui tutela assoluta pone la parola pena meno riassumibile nell’afflizione che inevitabilmente essa porta con sé.
La tutela del diritto al riconoscimento della dignità di ogni persona è il primo compito di chi deve controllare che la ragione e le modalità esecutive della privazione della libertà. In ambito penitenziario, talune vicende in cui persone responsabili di particolari reati sono state sottoposte a umiliazioni specifiche da parte di chi le aveva in custodia ci dicono che c’è ancora molta strada da percorrere in questa direzione. Anche perché accanto al diritto al riconoscimento della propria dignità, vi è l’altro assoluto diritto al rispetto della propria integrità fisica e psichica.
Sembra strano, ma è necessario richiamare qualcosa già inciso nella nostra Carta e nella Convenzione europea per la tutela dei diritti umani, il cui articolo 3 – che vieta, appunto, tortura e trattamenti o pene inumani o degradanti – è uno dei soli quattro articoli mai derogabili. Una inderogabilità che ha resistito a più attacchi nei primi decenni di questo secolo nel contesto di una presunta efficacia di strumenti di lotta la terrorismo internazionale centrata sulla possibile inflizione di sofferenza aggiuntiva sulla base di una più generale tutela, così recuperando schemi obsoleti e scivolosi della disponibilità del corpo della persona ristretta – un Presidente degli Stati Uniti, quindi, di un Paese cioè che è parte della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, è giunto ad affermare che il waterboarding è una tecnica di interrogatorio.
Per chi ha avuto per anni il compito di vigilare sulla privazione della libertà personale, nelle sue diverse motivazioni, finalità, forme e nei diversi luoghi dove essa si attua, lo schema dei diritti da garantire e delle raccomandazioni da formulare a chi ha responsabilità di tali provvedimenti e delle relative strutture discende da questi principi[7]. Sempre con una funzione preventiva. Sempre avendo chiaro che la necessità, la finalità e la valutazione di proporzionalità che permettono di violare quel bene essenziale costituito dalla libertà individuale, non sono dei meri parametri enunciati quale generico indirizzo dell’azione di chi è responsabile della cosa pubblica. Essi indicano invece sia il limite del possibile esercizio di tale potere coercitivo, sia la sua misura, sia, infine la sua direzione. È così che, nel caso del carcere, la tendenziale finalità rieducativa non è una semplice enunciazione di principio né una indicazione di politica penale e penitenziaria, ma l’asse dell’azione su cui modulare la privazione della libertà. Quindi, il diritto soggettivo della persona ristretta a che tale finalità sia realmente perseguita.
Sempre ricordando che «si va in carcere perché si è puniti e non per essere puniti».
[1] Il testo è stato presentato al Convegno Responsabilità, giudizio, riparazione, pena. Intrecci, analogie, differenze, organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore a conclusione del XIV Ciclo seminariale “Giustizia e Letteratura”, 11 – 12 aprile 2024. Gli atti del Convegno sono in corso di pubblicazione.
[2] M. Foucault, Les hétérotopies. Le corps utopique, 1966; trad. it Utopie Eterotopie (A. Moscati, a cura di), Cronopio, Napoli, 2006.
[3] Intervento del Ministro della Giustizia Carlo Nordio all’iniziativa di dibattito dal titolo Senza dignità organizzata da Radio Radicale e tenutasi al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre il 23 aprile 2024 (videoregistrazione disponibile sulla pagina web di Radio Radicale).
[4] E. Goffman, Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates, 1961; trad.it Asylums. Le istituzioni totali (introduzione di Franco e Franca Basaglia), Einaudi, Torino, 1968.
[5] J. Cage, Silenzio, volume e musica, 1961, trad.it (G. Carlotti, a cura di), Il Saggiatore, Milano, 2019.
[6] G. Bonnot de Mably, De la législation ou Principes de lois (1776) in Œuvres complètes, Amst ed., Lausanne., tomo IX.
[7] Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (febbraio 2016 – gennaio 2024), Presentazioni da parte del Presidente della Relazione annuale al Parlamento. Le presentazioni sono editabili dal sito del Garante nazionale: https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/pages/it/homepage/pub_rel_par/.
Immagine: Héctor Zamora, Lattice Detour, 2020. Credits: The Metropolitan Museum of Art. Photo Anna-Marie Kellen.
Il rinvio pregiudiziale, l’art. 1284 c.c. e il rapporto tra cognizione ed esecuzione: alcune riflessioni a margine di due recenti pronunce delle Sezioni Unite
Con due sentenze rese nello scorso mese di maggio, le Sezioni Unite della Suprema Corte tornano a confrontarsi con la giurisprudenza di merito, col nuovo strumento processuale del rinvio pregiudiziale ex art. 363bis c.p.c., su temi di rilevante portata nelle aule di Giustizia, quello degli interessi: nelle sentenze nn. 12449, resa il 7 maggio, e 12974, del 13 maggio, la questione sottoposta dai giudici remittenti (rispettivamente, Tribunale di Milano e Tribunale di Parma) riguarda la disciplina dei cd. ‘super-interessi’ di cui all’art. 1284 c.c.
Nei due procedimenti, la questione di diritto che viene in rilievo è sovrapponibile, tanto che con la seconda sentenza (n. 12974) la Suprema Corte ha rilevato la “inammissibilità sopravvenuta al decreto presidenziale di assegnazione del rinvio pregiudiziale” espressamente richiamando il principio di diritto enunciato con la sentenza n. 12449; inammissibilità che però più che a sanzione processuale per una qualche violazione di regole (come i processualisti considerano sovente la figura appunto della inammissibilità) induce a pensare a una specie di ‘ne bis in idem’ sorte per effetto della sottoposizione contemporanea di identica questione alla Corte, e che potrebbe indurre a riflettere sulla possibilità di una soluzione differente.
Tornando al primo giudizio (sentenza del 7 maggio), qui la questione posta al centro del rinvio pregiudiziale “è se la mera previsione degli «interessi legali» nella pronuncia di condanna da parte del giudice della cognizione, possa essere interpretata, per la parte di interessi decorrenti dopo il momento della proposizione della domanda giudiziale, nei termini del saggio di interessi previsto dal comma quarto dell’art. 1284 cod. civ., oppure se, per l’assenza di specificazioni nella decisione, il saggio degli interessi debba restare limitato a quello previsto dal primo comma della medesima disposizione.” La Corte esamina i diversi propri indirizzi emersi sin qui, a riprova della fondatezza del rinvio disposto dal Tribunale remittente (difatti il 1° comma dell’art. 363 bis, comma 1, prevede quale condizione di ammissibilità del rinvio, fra l’altro, che la questione non sia stata ancora «risolta» dalla Corte di Cassazione: il primo, in ragione del quale il mero richiamo a ‘interessi legali’ nel corpo della pronuncia di merito consente il collegamento al solo 1° comma dell’art. 1284 c.c., stante la portata generale della norma; un secondo, sorto in particolare nel settore giuslavoristico, che invece considera come predeterminata per legge nella misura del 4° comma dell’art. 1284 c.c. ogni indicazione di interessi legali che emerga in qualsivoglia giudizio, anche arbitrale.
Sullo sfondo delle sentenze della Cassazione e prima ancora del provvedimento di rimessione [1], vi è il dibattito giurisprudenziale, del quale lo stesso Tribunale rimettente da atto, sorto dopo l’introduzione della novella del 2014 (art. 17 comma 1 del D.L. 12 settembre 2014 n. 132 che appunto ha aggiunto i commi 4° e 5° dell’art. 1284 c.c.) con alcuni arresti della Suprema Corte si segno diverso. Ad esempio, in Cassazione civile Sez. II 7 novembre 2018 n. 28409 del si legge che “Il saggio d’interesse previsto dall’art. 1284, comma 4, c.c. si applica esclusivamente in caso di inadempimento di obbligazioni di fonte contrattuale, dal momento che, qualora tali obbligazioni derivino, invece, da fatto illecito o dalla legge, non è ipotizzabile nemmeno in astratto un accordo delle parti nella determinazione del saggio, accordo la cui mancanza costituisce presupposto indefettibile di operatività della disposizione”. A medesime conclusioni perviene Cassazione civile sez. II 25 marzo 2019 n. 8289, che ha inteso il quarto comma dell’art. 1284 c.c. come applicabile in correlazione a obbligazione pecuniaria che trova fonte in un contratto e anche se afferente ad obbligo restitutorio; in entrambe le statuizioni, veniva in rilievo il tema dell’equa riparazione per eccessiva durata del processo. Di diverso avviso la successiva ordinanza Sez. III del 3 gennaio 2023, secondo cui il quarto comma dell’art. 1284 c.c. si applica a qualsiasi obbligazione sia di origine contrattuale sia di altra natura, ivi comprese quelle da responsabilità extracontrattuale, e ciò al fine di impedire che l’eccessiva durata del processo sia di vantaggio per il debitore; qui la Suprema Corte, in un giudizio avente a oggetto domanda di ripetizione di indebito proposta dal correntista per la restituzione delle somme illegittimamente trattenute dalla banca, in forza delle clausole di un contratto di conto corrente dichiarate nulle, dopo aver evidenziato la differenza tra l’art. 1224 c.c. e art. 1284 comma 4 stesso codice, col primo che prevede il tasso di mora nelle obbligazioni pecuniarie, mentre “l’art. 1284 c.c., comma 4, riguarda invece solo il tasso degli interessi di mora per il periodo successivo all'inizio del processo: le due disposizioni hanno, quindi, un campo di applicazione differente.”, sottolinea l’esigenza, perseguita dal legislatore, di “scoraggiare l’inadempimento e rendere svantaggioso il ricorso ad inutile litigiosità, scopo che prescinde dalla natura dell'obbligazione dedotta in giudizio e che si pone in identici termini per le obbligazioni derivanti da rapporti contrattuali come per tutte le altre.”, e perciò che non è “possibile affermare, in generale, che l'art. 1284 c.c., comma 4, abbia di per sé un campo di applicazione limitato alle sole obbligazioni nascenti da rapporti negoziali.”, potendosi quindi ritenere estendibile, in via generale e astratta, ma anche a quelle nascenti da fatto illecito o da altro fatto o atto idoneo a produrle, valendo la clausola di salvezza iniziale (che rimette alle parti la possibilità di determinarne la misura) ad escludere il carattere imperativo e inderogabile della disposizione e non già a delimitarne il campo d'applicazione.
Ora, in questo quadro si muove la sentenza delle Sezioni Unite n. 12449, che ovviamente, dato il ‘tipo’ di procedimento per il quale è chiamata a intervenire, non prende posizione sul tema dei confini di applicabilità dei cd. ‘super-interessi’ (così definiti quelli di cui al 4° comma dell’art. 1284 c.c.) in senso sostanziale, ma si sofferma sul rapporto tra giudice dell’esecuzione e titolo esecutivo laddove quest’ultimo non specifichi a quali interessi debba farsi riferimento. Precisa invece la Corte il perimento entro il quale deve muoversi il giudice dell’esecuzione, al cospetto del titolo esecutivo giudiziale, il quale, pur nell’ambito attività di interpretazione (lato sensu, perché svolta in sede esecutiva), non ha poteri di cognizione, ma “deve limitarsi a dare attuazione al comando contenuto nel titolo esecutivo medesimo, mediante un’attività che ha, sul punto, natura rigorosamente esecutiva.”. E così esclude che l’attività interpretativa possa spingersi sino a identificare nella mera locuzione ‘interessi legali’ (o simile) contenuta nel titolo il riferimento all’uno (I comma dell’art. 1284 c.c.) o all’altro interesse (IV comma della stessa norma): ciò in quanto, precisa la Corte, “il quarto comma dell’art. 1284 non integra un mero effetto legale della fattispecie costitutiva degli interessi (cui la legge collega la relativa misura), ma rinvia ad una fattispecie, i cui elementi sono per una parte certamente rinvenibili in quelli cui la legge in generale collega l’effetto della spettanza degli interessi legali, ma per l’altra è integrata da ulteriori presupposti, suscettibili di autonoma valutazione rispetto al mero apprezzamento della spettanza degli interessi nella misura legale. Entro tali limiti, viene a stabilirsi una soluzione di continuità fra la fattispecie costitutiva dell’effetto della spettanza degli interessi legali in generale e quella degli interessi legali contemplati dal quarto comma dell’art. 1284. La relativa autonomia della fattispecie produttiva dei c.d. super-interessi (relativa perché contenente ulteriori elementi di specificazione), rispetto a quella produttiva degli ordinari effetti legali, fa sì che uno dei diversi profili oggetto di accertamento giurisdizionale, a seguito della introduzione della controversia con la deduzione in giudizio di un determinato rapporto giuridico, sia anche quello della ricorrenza dei presupposti applicativi dell’art. 1284, comma 4.”: dunque, da accertare in sede di cognizione, in relazione alle varie ipotesi che possano presentarsi (e che la Corte stessa cerca di individuare, in relazione ai presupposti applicativi) in ciascun caso concreto.
Perciò, precisa la Corte, “se il titolo esecutivo è silente, il creditore non può conseguire in sede di esecuzione forzata il pagamento degli interessi maggiorati, stante il divieto per il giudice dell’esecuzione di integrare il titolo, ma deve affidarsi al rimedio impugnatorio.”; e conclude affermando il seguente principio di diritto: “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
Queste le coordinate all’interno delle quali si dovrà muovere il giudice rimettente: ma che, ovviamente, saranno tenute in attenta considerazione in ogni caso analogo, considerando che più che sulla disciplina dell’art. 1284 c.c., la statuizione, seppur resa in caso di rinvio pregiudiziale, offre spunti di notevole interesse nel costante dibattito tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione, a prescindere dal ‘tipo’ di obbligazione che viene in rilievo. E che, ancora una volta, lascia trasparire l’esigenza, nella cognizione, di una motivazione completa in ogni sua parte, anche nella puntuale individuazione delle norme di legge da applicare alla fattispecie.
[1] Si tratta del decreto del giudice dell’esecuzione del Tribunale di Milano reso il 25 luglio 2023, con il quale è stata sottoposta alla Suprema Corte la seguente questione: “se in tema di esecuzione forzata – anche solo minacciata - fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore, limitandosi alla loro generica qualificazione in termini di "interessi legali" o "di legge" ed eventualmente indicandone la decorrenza da data anteriore alla proposizione della domanda, si debbano ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all'art. 1284 primo comma c.c. o - a partire dalla data di proposizione della domanda - possano ritenersi liquidati quelli di cui al quarto comma del predetto articolo”.
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