ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Nel caso Italgomme pneumatici s.r.l. e altri contro Italia, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha evidenziato che in tema di accesso, ispezioni e verifiche fiscali il quadro normativo interno viola l’articolo 8 della CEDU, avendo conferito alle autorità nazionali un margine di discrezionalità illimitato, senza fornire, di contro, adeguate garanzie procedurali, giurisdizionali o giustiziali al contribuente.
La sentenza è dirompente non solo per i principi espressi, ma per le modalità in cui questi sono resi. Spogliandosi della veste di giudice delle controversie individuali, la Corte di Strasburgo esprime un chiaro monito al legislatore nazionale, indicando la strada da perseguire nella riformulazione della legge. Si tenterà di evidenziare che, in attesa di una idonea novella legislativa, il rimedio può essere fornito sin da subito in sede giurisdizionale, interpretando la normativa vigente in chiave convenzionalmente orientata.
Sommario: 1. Premessa – 2. L’articolo 8 della Convenzione EDU e l’interpretazione della Corte di Strasburgo – 3. Il monito della Corte Edu al legislatore italiano e gli strumenti a disposizione del giudice nazionale.
1. Premessa
Con la sentenza Italgomme pneumatici s.r.l. e altri contro Italia la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha evidenziato la contrarietà all’articolo 8 della CEDU dell’intero impianto di disciplina degli accessi, ispezioni e verifiche fiscali previsto dalla disciplina interna.
Muovendo dalla nozione di diritto rilevante sul piano convenzionale, da intendersi in senso sostanziale non solo quale legge in senso formale, ma comprensiva degli atti normativi di rango inferiore, degli atti interpretativi e della relativa giurisprudenza, la Corte di Strasburgo evidenzia che in tema di verifiche fiscali eseguite nei locali destinati ad attività commerciale né la legge in senso formale, né la prassi amministrativa né tanto meno l’interpretazione giurisprudenziale sono state in grado di individuare chiaramente i limiti al potere intrusivo attribuito all’autorità pubblica.
Ne risulta un rapporto totalmente asimmetrico, in cui il contribuente attinto da una verifica fiscale appare propriamente in balia di un potere autoritativo discrezionale e illimitato, privo di strumenti idonei a garantirgli un’adeguata tutela, né in fase procedimentale, né in fase successiva.
Il contesto normativo relativo agli aspetti procedurali dell’attività di controllo ai fini dell’Imposta del valore aggiunto e delle Imposte dirette è costruito dal combinato disposto degli articoli 33 del D.P.R. 600/1973 e 52 del D.P.R. 633/72.
L’articolo 33 del D.P.R. 600/73 prevede i controlli ai fini delle imposte dirette con espresso rinvio all’articolo 52 del D.P.R. 633/72 che regolamenta gli aspetti procedurali per l’esecuzione di accessi, ispezioni e verifiche ai fini dell’imposta del valore aggiunto, così disciplinando i poteri degli uffici.
Rubricata “Accessi, ispezioni e verifiche”, la norma prevede che gli uffici possono disporre l’accesso di impiegati dell’Amministrazione finanziaria per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni, ricerche e ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e la repressione dell’evasione.
Nel dettaglio, è previsto che “Gli uffici possono disporre l'accesso di impiegati dell'Amministrazione finanziaria nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, nonché in quelli utilizzati dagli enti non commerciali e da quelli che godono dei benefici di cui al decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l'accertamento dell'imposta e per la repressione dell'evasione e delle altre violazioni. Gli impiegati che eseguono l'accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell'ufficio da cui dipendono. Tuttavia, per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione è necessaria anche l'autorizzazione del procuratore della Repubblica. In ogni caso, l'accesso nei locali destinati all'esercizio di arti e professioni dovrà essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato.
L'accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma può essere eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni.
È in ogni caso necessaria l'autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell'autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l'accesso a perquisizioni personali e all'apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l'esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all'articolo 103 del codice di procedura penale”.
Le disposizioni richiamate sono da leggere in combinato disposto con l’articolo 12 della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (d’ora in avanti “Statuto del Contribuente”) che, significativamente rubricato “diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali”, al primo periodo del primo comma dispone che “tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo”.
Il comma 2 dello stesso articolo 12, per quanto qui di interesse, prosegue statuendo che “quando viene iniziata la verifica, il contribuente ha diritto informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda”.
Se allora è vero che l’articolo 52 del D.P.R. 633/72 pare distinguere l’accesso ai locali adibiti (esclusivamente o anche) ad abitazione privata rispetto ai locali adibiti alle attività commerciali genericamente intese, richiedendo solo nel primo caso che alla necessaria autorizzazione del capo ufficio si aggiunga l’autorizzazione del procuratore della Repubblica, è pur vero che i diritti e le garanzie del contribuente vanno individuate altrove.
L’articolo 12 dello Statuto del contribuente non distingue le attività ispettive in base al luogo in cui si realizza l’accesso, richiedendo, al comma 1, in ogni caso che le attività ispettive siano “effettuate sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo” e delineando, al comma 2, il diritto del contribuente ad essere ad essere informato, ad inizio dell’attività di verifica, delle ragioni che abbiano giustificato la verifica e dell’oggetto della stessa.
È evidente che il diritto ad essere informati delle ragioni che giustificano l’attività di verifica, anche in relazione al comma 1 dell’articolo 12, richiede che tali ragioni siano espresse e portate a conoscenza del contribuente, in conformità con la ratio della disposizione normativa che è prevista a tutela di quest’ultimo.
In assenza di una espressa sanzione prevista per la violazione del dovere di cui sopra, puntum dolens è stato comprendere la valenza delle prescrizioni contenute nello Statuto e quali siano gli effetti della eventuale inosservanza degli obblighi previsti a carico dell’amministrazione finanziaria.
In questo senso, sembra che le garanzie e i diritti riconosciuti all’articolo 12 dello Statuto non abbiano trovato adeguata declinazione nei chiarimenti interpretativi, né in sede di documenti di prassi, né in sede giurisprudenziale.
Dalla apparente minor tutela riconosciuta all’articolo 52 all’accesso in locali commerciali, rispetto all’accesso ai locali adibiti al domicilio si è fatta erroneamente discendere una minore tutela anche in punto di garanzie e diritti del contribuente attinto dalle misure.
La giurisprudenza nazionale[1] ha affermato che non è necessario motivare l’autorizzazione che consenta l’accesso ai locali commerciali e ai locali adibiti ad attività professionali che non siano residenze private, ritenendo l’autorizzazione “mero requisito procedurale”, mentre si è ritenuta necessaria la motivazione dell’autorizzazione rilasciata dal pubblico ministero per l’accesso alle abitazioni private.
La Corte di Cassazione[2] ha inoltre affermato che gli agenti della Guardia di Finanza, in qualità di appartenenti alle forze dell’ordine, avevano facoltà di accedere ai locali commerciali e ai locali adibiti ad attività professionale senza autorizzazione scritta.
Si è così delineato un doppio statuto delle garanzie del contribuente, orientato dalla natura del locale adibito all’accesso, già evidentemente in contrasto con l’articolo 12 dello Statuto.
In queste considerazioni si pone in senso dirompente la sentenza Italgomme pneumatici s.r.l. e altri contro Italia, del 6 febbraio 2025, con cui la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha nettamente tracciato la strada da seguire non solo al legislatore, ma anche all’autorità amministrativa e ai giudici nazionali.
2. L’articolo 8 della Convenzione EDU e l’interpretazione della Corte di Strasburgo
Ai sensi dell’articolo 8 della CEDU “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”.
Il paragrafo 2 dello stesso articolo chiarisce che “non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha precisato che “sebbene l’articolo 8 della Convenzione non contenga requisiti procedurali espliciti, il processo decisionale che conduce alle misure di ingerenza deve essere equo e tale da rispettare gli interessi tutelati al singolo dall'articolo 8 (v. M.S. v. Ucraina, n. 2091/13, § 70, 11 luglio 2017, e Veres v. Spagna, n. 57906/18, § 53, 8 novembre 2022).
La premessa da cui muove la sentenza della Corte di Strasburgo è la conferma del principio già espresso in casi precedenti secondo cui anche in caso di perquisizione di locali commerciali vi è un'interferenza con "il diritto al rispetto del domicilio" e alla "corrispondenza" (cfr. Bernh Larsen Holding AS e altri c. Norvegia, n. 24117/08, § 105, 14 marzo 2013 e ulteriori riferimenti ivi contenuti).
In sintesi, ai sensi dell’articolo 8 CEDU non vi è alcuna distinzione in punto di “domicilio” del contribuente tra abitazione o sede dell’attività lavorativa[3].
Più chiaramente, è ribadito che l’articolo 8 deve essere interpretato nel senso che include il diritto al rispetto della sede legale, delle succursali o di altri locali commerciali di una società, nonché il diritto al rispetto dei locali adibiti all'attività professionale.
Muovendo da questi presupposti i giudici di Strasburgo si occupano di valutare se, nel caso sottoposto, l’ingerenza nel domicilio (inteso come sopra) trovi fondamento in una legge, come richiesto dal paragrafo 2 dell’articolo 8.
Al tal fine, è ribadito il principio ormai consolidato per cui la conformità a legge è rispettata ove vi sia una base legale nel diritto interno che sia accessibile all’interessato e le cui conseguenze derivanti dalla violazione siano prevedibili[4].
La legge è da intendersi, come detto, in senso sostanziale, comprensiva non solo della legge formale (i.e. legge scritta), ma anche degli gli atti normativi di rango inferiore e della relativa giurisprudenza.
Pertanto, nel valutare la liceità dell’ingerenza e, in particolare, la prevedibilità del diritto interno, si tiene conto sia del testo della legge sia del modo in cui esso è applicato e interpretato dalle autorità nazionali.
Per rispettare l’accessibilità, la prevedibilità e la prevenibilità, la Corte Edu chiarisce che è necessario che la norma interna offra una protezione giuridica contro le interferenze arbitrarie delle autorità pubbliche con i diritti garantiti dalla Convenzione. A tal fine, la legge deve indicare con sufficiente chiarezza la portata di tale potere discrezionale conferito alle autorità competenti e le modalità del suo esercizio.
Significativamente, si afferma che, sebbene gli Stati possano ritenere necessario ricorrere a tali misure al fine di ottenere prove pertinenti, i poteri relativamente ampi nelle fasi iniziali dei procedimenti fiscali non possono essere interpretati nel senso di conferire all'amministrazione finanziaria un potere discrezionale illimitato.
È necessario che il diritto interno offra garanzie procedurali idonee a proteggere i soggetti passivi delle verifiche fiscali da qualsiasi abuso o arbitrarietà, anche considerando se eventuali carenze procedimentali possano essere compensate da altri strumenti idonei, ex post, a garantire adeguata tutela.
Tirando le fila, muovendo dalla nozione di domicilio inteso in senso ampio, comprensivo dei locali commerciali, la Corte Edu evidenzia che, affinché sia rispettato il paragrafo 2 dell’articolo 8 della Convenzione, è necessario che la norma interna sia in grado di delimitare il potere di ingerenza conferito all’Amministrazione offrendo idonei strumenti di garanzia in fase procedimentale (i.e. ex ante) o comunque in sede giurisdizionale (i.e. ex post), dovendosi ritenere violativo dell’articolo 8 CEDU il conferimento di un potere discrezionale e illimitato.
Tanto chiarito, la Corte di Strasburgo esamina la compatibilità del diritto interno sia con riguardo alla presenza di garanzie in fase procedimentale, sia con riguardo alla presenza di eventuali strumenti di garanzia successivi.
Individuata la base legale nel diritto interno, quanto alla fase procedimentale la Corte ritiene che la base giuridica nel diritto interno non sia idonea a delimitare la portata del potere discrezionale conferito alle autorità nazionali.
Considerata la legge in senso sostanziale, la Corte Europea dei diritti dell’uomo evidenzia, infatti, che le disposizioni nazionali, anche integrate dagli orientamenti amministrativi pertinenti, non impongono alle autorità di giustificare l'esercizio dei loro poteri.
In tal senso, ai sensi dell'articolo 35 della legge n. 4/1929, gli agenti e gli agenti della Guardia di Finanza sono autorizzati ad accedere "in qualsiasi momento" ai locali adibiti a scopi commerciali e industriali per lo svolgimento di "verifiche" e "indagini" al loro interno. Lo stesso potere è attribuito ai funzionari dell'Agenzia delle Entrate dagli articoli 51 e 52 del decreto n. 633/1972, in modo che possano "accedere [ai locali]" ed effettuare "ispezioni". Ai sensi di queste ultime disposizioni, l'autorizzazione all'amministrazione finanziaria per l'accesso ai locali commerciali e commerciali può essere rilasciata ai fini di "un accertamento fiscale e per combattere l'evasione fiscale e altre violazioni fiscali".
Tra i documenti di indirizzo finalizzati a finalità di politica fiscale pubblicati dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, il comma 2 degli Orientamenti 2016-2018, del 22 dicembre 2015, prevedeva che, nell'ambito delle attività volte a contrastare l'evasione e l'elusione fiscali, l'amministrazione finanziaria dovesse "ridurre i controlli intrusivi" attraverso "l'ulteriore sviluppo dell'analisi dei rischi rilevanti", anche attraverso l'utilizzo di strumenti automatizzati, quali le banche dati.
La lettera f) dei criteri generali degli orientamenti 2018-2020, del 5 dicembre 2017, fissava il seguente obiettivo: l'ulteriore implementazione di sistemi informatizzati e automatizzati che migliorassero l'efficacia dei controlli attraverso l'uso efficiente di banche dati la cui capacità di funzionare efficacemente con altri sistemi sarebbe migliorata.
Nondimeno, la Corte rileva che non è possibile alcun controllo sulla base dei soli criteri di selezione sopra menzionati e in assenza di informazioni pubbliche trasparenti su quali locali commerciali sono ispezionati nel tempo e quali no, e non si può escludere la possibilità che gli agenti fiscali esercitino un margine di discrezionalità illimitato dietro l'apparente rispetto di tali criteri.
Nello stesso senso, come sopra anticipato, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione non è necessario motivare l'autorizzazione rilasciata da un responsabile dell'Agenzia delle Entrate o da un pubblico ministero che consenta l'accesso ai locali commerciali e ai locali adibiti ad attività professionali che non siano residenze private, in quanto le disposizioni di legge in materia non richiedono condizioni specifiche per il rilascio di tale autorizzazione, e pertanto l'autorizzazione è un "mero requisito procedurale".
Inoltre, nei casi di cui sopra, se l'autorizzazione è illegittima per motivi formali o sostanziali, si è ritenuto che ciò non pregiudichi la validità dell'avviso di accertamento definitivo o l'utilizzo di documenti e prove acquisiti con i provvedimenti impugnati con il consenso del contribuente (cfr. Corte di cassazione, sentenze n. 8344 del 19 giugno 2001, n. 27149 del 16 dicembre 2011, n. 4066 del 27 febbraio 2015 e n. 8547 del 29 aprile 2016).
Tirando le fila, né la legge formale di disciplina delle misure, né i documenti di prassi amministrativa, né le sentenze della Corte di Cassazione (i.e. legge in senso sostanziale) appaiono idonee ad offrire al contribuente sufficienti strumenti di garanzia in sede procedimentale. In tal senso, la Corte ritiene che la base giuridica delle misure impugnate non sia in grado di delimitare in modo sufficiente l'ambito di discrezionalità conferito alle autorità nazionali e, di conseguenza, non soddisfi il requisito di "qualità del diritto" di cui all'articolo 8 della Convenzione.
Così concluso, la Corte di Strasburgo si preoccupa poi di verificare se ex post vi siano strumenti idonei a colmare il deficit di tutela evidenziato in fase procedimentale.
Quanto alla possibilità del contribuente di agire con reclamo al tribunale tributario, ai sensi dell'articolo 19, comma 2 del D.Lgs. n. 546/1992, le autorizzazioni di accesso non sono atti autonomamente impugnabili dinanzi al giudice tributario.
La giurisprudenza interna, ritenendo l’autorizzazione atto endoprocedimentale non autonomamente impugnabile, ha ritenuto che ove le verifiche sfocino in un avviso di accertamento, il contribuente sia legittimato a contestare anche l’autorizzazione, unitamente all’avviso.
Nondimeno, la Corte di Strasburgo considera tale possibilità inidonea ad offrire un adeguato strumento di controllo dell’autorizzazione in sede giurisdizionale, tenuto conto che per la giurisprudenza interna la liceità dell'autorizzazione non pregiudica la validità dell'avviso di accertamento definitivo né la possibilità di utilizzare come prova e l’impossibilità di ritenere il rimedio della doppia impugnazione sufficientemente tempestivo.
Quanto alla prospettazione di un ricorso dinanzi ai giudici civili, secondo la Corte Edu l’affermazione giurisprudenziale per cui il contribuente, in assenza di un avviso di accertamento, possa ricorrere dinanzi al giudice civile, competente in materia di accesso illecito, è astratta e di difficile attuazione considerando che, in assenza di disposizioni che richiedano espressamente una condizione o motivazione prima dell'attuazione delle misure impugnate, il giudice civile difficilmente potrebbe esercitare un controllo significativo di tali misure.
Infine, quanto allo strumento del reclamo al Garante del Contribuente, ai sensi dell'articolo 13 della Legge n. 212/2000 la Corte rileva che tale autorità non emette decisioni vincolanti, ma semplici raccomandazioni all'amministrazione tributaria non idonee, quindi, ad essere considerate un rimedio effettivo ai fini delle garanzie contro l'arbitrarietà richieste dall'articolo 8 della Convenzione.
Tirando le fila, non si rivengono idonei strumenti di garanzia del contribuente, capaci di evitare un potere arbitrario e illimitato dell’autorità amministrativa, né in sede procedimentale né in sede giurisdizionale o comunque ex post.
3. Il monito della Corte Edu al legislatore italiano e gli strumenti a disposizione del giudice nazionale
A questo punto, la Corte Europea dei diritti dell’uomo sembra abbandonare la propria natura di giudice delle petizioni individuali spingendosi di fatto - contrariamente a quanto da essa stessa affermato al paragrafo 102 della sentenza in esame[5] - a valutare la compatibilità della disciplina normativa interna con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, fornendo indicazioni al legislatore italiano.
La Corte ritiene fondamentale che lo Stato convenuto adotti le misure generali appropriate al fine di allineare la sua legislazione e la sua prassi alle conclusioni tutte sopra esposte.
La sentenza individua le questioni che dovranno essere chiaramente disciplinate nel quadro giuridico interno.
Preliminarmente, si evidenzia la bontà degli articoli 12 e 13 della legge n. 212/2000, considerati idonei a garantire la maggior parte delle misure necessarie.
Ancora, sul piano delle legge intesa in senso sostanziale, la Corte ritiene che, anche mediante indicazioni di prassi amministrativa, la normativa dovrebbe indicare chiaramente le circostanze e le condizioni in cui le autorità nazionali sono autorizzate ad accedere ai locali e a effettuare verifiche in loco e controlli fiscali sui locali commerciali e sui locali adibiti ad attività professionali, pur tenendo conto che, nell'ambito fiscale, considerazioni di efficienza potrebbero giustificare poteri relativamente ampi nelle fasi iniziali dei procedimenti tributari.
A detta della Corte di Strasburgo, la normativa interna dovrebbe imporre alle autorità nazionali l'obbligo di fornire una motivazione e di giustificare di conseguenza la misura in questione alla luce di tali criteri, dovendosi stabilire garanzie per evitare l'accesso indiscriminato o almeno la conservazione e l'uso di documenti e oggetti non connessi con l'obiettivo della misura in questione, fatto salvo l'esercizio del potere delle autorità di avviare procedimenti amministrativi separati o, se del caso, procedimenti penali.
In secondo luogo, il quadro giuridico interno dovrebbe garantire un controllo giurisdizionale effettivo, considerando l’attività di verifica immediatamente lesiva. In sintesi, è necessario garantire al contribuente che ritenga il controllo non conforme a legge uno strumento idoneo di tutela intermedio, da utilizzare prima che il controllo sia realizzato.
Il monito al legislatore italiano reso dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, seppur non usuale, si ritiene possa avere ricadute rilevanti ed immediate nell’ordinamento interno, anche sui giudizi in corso.
Lo scollamento dalla posizione individuale delle parti attribuisce alla decisione sicuramente un’ampia portata, le cui conclusioni sono di fatto comunque già supportate dall’articolo 12 dello Statuto del contribuente che, al primo comma, richiede che tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine che, evidentemente, devono risultare espresse nell’atto che le autorizza.
In tal senso, un’autorizzazione priva di adeguata motivazione appare già in violazione di legge, in quanto contraria all’articolo 12 citato.
È allora il caso di evidenziare che, in sede di recente riforma fiscale, il legislatore delegato ha introdotto nello Statuo del contribuente l’articolo 7-quinquies che, riprendendo il divieto d’uso delle acquisizioni probatorie effettuate senza il rispetto delle previsioni normati, già noto al processo penale (il riferimento è all’articolo 191 c.p.p. di discussa applicazione al procedimento tributario), per quanto qui di interesse, precisa che non sono utilizzabili ai fini dell'accertamento amministrativo o giudiziale del tributo gli elementi di prova acquisiti in violazione di legge.
A rafforzamento della rilevanza della novella, si evidenzia che la volontà del legislatore è ancor più chiara ad un confronto con il citato articolo 191 c.p.p. secondo cui “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”. Se la norma processual-penalistica statuisce l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazioni di divieti normativi, l’articolo 7-quinquies dello Statuto del contribuente, in conformità alla ratio dello Statuto stesso, ha invece previsto un rimedio generalizzato, applicabile a tutte le acquisizioni probatorie realizzate in violazione di una legge.
Per tutto quanto evidenziato, nell’attesa di un intervento legislativo risolutore, è auspicabile che la giurisprudenza sin da ora, prendendo atto del monito della Corte di Strasburgo, provveda ad interpretare le norme interne appena richiamate in senso conforme alla Convenzione.
[1] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 16424 del 21 novembre 2002; cfr. anche Corte di Cassazione, sentenze n. 26829 del 18 dicembre 2014, e n. 28563 del 6 novembre 2019.
[2] Corte di Cassazione, sentenze n. 16017 dell'8 luglio 2009, 10137 del 28 aprile 2010, 17525 e 17526 del 28 giugno 2019.
[3] G. Melis, “Manuale di diritto tributario”, Giappichelli, 2024, pag. 333
[4] Cfr. De Tommaso v. Italia [CG], n. 43395/09, § 107, 23 febbraio 2017
[5] Testualmente “102. La Corte ribadisce che, nei casi derivanti da petizioni individuali, il suo compito non è solitamente quello di riesaminare la legislazione pertinente o una pratica contestata in astratto. Al contrario, essa deve limitarsi, per quanto possibile, senza perdere di vista il contesto generale, ad esaminare le questioni sollevate dalla controversia di cui è investito (v. Naumenko e SIA Rix Shipping, sopra citata, § 57). Pertanto, in questo caso, il compito della Corte non è quello di controllare, in abstracto, la compatibilità con la Convenzione della normativa nazionale che disciplina l'accesso ai locali commerciali e commerciali e i locali adibiti ad attività professionali e il loro controllo nella versione vigente all'epoca dei fatti, ma per determinare, in concreto, l'effetto dell'ingerenza nei diritti dei richiedenti ai sensi dell'articolo 8 della convenzione.”
La decisione commentata si può consultare qui.
Sommario: 1. La vicenda di fatto – 2. La pronuncia del TAR – 3. Considerazioni sulla pronuncia – 4. Spunto di riflessione.
1. La vicenda di fatto[1]
Il pomeriggio del 28 marzo 2025 si sarebbe dovuto tenere, in un’aula dell’Università di Torino, un evento accademico regolarmente autorizzato, intitolato “Storia e legalità internazionale del conflitto Russia-Ucraina” e organizzato da un docente di diritto civile di quella Università, con la proiezione di un documentario della tv “Russia Today” seguita da un dibattito con due docenti provenienti da altri Atenei, inteso ad analizzare il filmato per verificarne la natura propagandistica e/o informativa.
A seguito di proteste di Radicali locali, che invocavano la normativa europea che vieta la diffusione di prodotti della propaganda russa, il 18 marzo il Rettore dell’Università di Torino revocava la disponibilità dell’aula universitaria già concessa.
Il docente organizzatore dell’evento impugnava davanti al giudice amministrativo il provvedimento di revoca e gli atti presupposti, chiedendone l’immediata sospensione.
2. La pronuncia del TAR
Con il decreto che si commenta, emesso in forma monocratica inaudita altera parte, il TAR del Piemonte ha respinto la richiesta di sospensiva e fissato la trattazione del merito a data successiva a quella dell’evento accademico non consentito, escludendo il pericolo nel ritardo e dubitando dell’interesse ad agire del ricorrente perché non vi sarebbe evidenza: 1) di lesione della libertà di insegnamento del ricorrente, docente di diritto civile, trattandosi di documentario estraneo a insegnamenti giuridici; 2) di pregiudizio per gli studenti, stabilendo la normativa europea che la Federazione russa ricorre in modo sistematico alla manipolazione dei media e alla distorsione dei fatti per destabilizzare i Paesi confinanti e della UE.
3. Considerazioni sulla pronuncia
La motivazione del giudice amministrativo, pur assumendo di escludere il pericolo nel ritardo, riguarda evidentemente il solo fumus boni iuris. Nessuna persona di buon senso potrebbe infatti ritenere non urgente, a prescindere dalla sua fondatezza o meno, la richiesta di consentire lo svolgimento di un evento autorizzato per il 28 marzo, e vietato solo il 18 marzo. Al di là di questa sorprendente confusione terminologica, è il contenuto intrinseco del decreto a suscitare serie perplessità.
Risulta anzitutto singolare l’idea che la proiezione e analisi collettiva di un documento relativo a un conflitto che è oggetto di valutazioni per il diritto internazionale e non (si pensi solo all’incidenza sulle libertà di impresa e di commercio delle sanzioni applicate alla Russia) non riguardi la libertà di insegnamento di un docente di diritto civile, e sia perfino estranea a insegnamenti giuridici, sì da far venir meno l’interesse ad agire di quel docente.
L’idea di libera comunità di docenti e studenti interessati alla conoscenza, a tutta la conoscenza svincolata da finalità immediate, che sta all’origine dell’istituzione universitaria, non è mai venuta meno nel corso della sua complessa evoluzione storica[2]. Se così non fosse, del resto, non si spiegherebbe l’originaria autorizzazione data dall’Ateneo torinese.
Di fatto, l’argomento in esame finisce per risolversi, più che nella vetusta prescrizione “Qui non si fa politica”, in una più attuale prescrizione “Qui si fa solo diritto” (oppure solo matematica, o solo filosofia, o solo scienza della comunicazione, ecc.). Dove la definizione vincolante dell’oggetto di studio “diritto” (o matematica, filosofia, scienza della comunicazione, ecc.), di cui gli ex-libertari Radicali invocano l’accezione restrittiva, è data dalla magistratura.
Ancora più sconcertante, se possibile, è l’idea che esaminare criticamente un prodotto comunicativo, russo o meno che sia, significhi ratificarne l’eventuale portata manipolativa anziché imparare a difendersene. L’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, caratteristica secondo Kant dell’illuminismo, non potrebbe quindi maturare neppure nello spazio universitario, i cui utenti andrebbero tutelati attraverso la soave censura preventiva eurofila.
Peraltro, l’idea che tutto quanto è russo sia propaganda e manipolazione era molto presente durante i primi mesi dell’occupazione dell’Ucraina, quando si cercava di censurare anche le opere musicali o letterarie dei secoli scorsi. Oggi sarebbe possibile un atteggiamento più maturo, perché l’affermazione eurounitaria “la Federazione russa attua una sistematica campagna internazionale di manipolazione dei media e di distorsione dei fatti” ha carattere descrittivo e non normativo (altrimenti vi sarebbe la scienza della comunicazione di Stato, o meglio eurounitaria), e non riguarda necessariamente ogni aspetto della realtà, senza possibilità di verifica e controprova. Verifica e controprova che interessano quegli uomini e quelle donne che sono così desiderosi di uscire da ogni stato di minorità, da iscriversi ad un’Università.
4. Spunto di riflessione
La vicenda esaminata induce a chiedersi dove sia mai possibile esaminare e discutere i prodotti della ipotizzata disinformazione russa, se neppure l’Università sarebbe una sede adatta. Qualcuno da qualche parte lo dovrà fare: quanto meno per batterlo, un nemico bisogna pur conoscerlo. Magari si può fare solo con le agenzie che oggi è di moda chiamare di intelligence – parola straniera rassicurante, rispetto alla declinante intelligenza naturale e alla debordante intelligenza artificiale. Quelle agenzie che però sempre servizi segreti sono. Almeno i servizi, loro sì che i documenti dei nemici li devono analizzare.
Non è questa una risposta solo ironica, visto che l’art. 31 del disegno di legge “sicurezza” discusso nei mesi scorsi in Parlamento prevedeva, per le pubbliche amministrazioni e altri soggetti, l’obbligo di prestare ai servizi “la collaborazione e l'assistenza richieste, anche di tipo tecnico e logistico, necessarie per la tutela della sicurezza nazionale”, anche stipulando apposite convenzioni che potevano prevedere “la comunicazione di informazioni ai predetti organismi anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza”.
Disegno di legge che, a causa delle difficoltà incontrate nella sua approvazione, dovrebbe essere sostituito da un decreto-legge che, recependo alcuni rilievi di Mattarella, prevederebbe tra l’altro la facoltà e non l’obbligo di collaborazione delle pubbliche amministrazioni con i servizi, e senza deroga alle normative sulla privacy. La modifica non può fugare le perplessità, perché prevedere espressamente la possibilità di collaborazioni con i servizi che non erano mai state vietate in precedenza significa di fatto incentivarle: quale delle nostre Università sottofinanziate (quasi tutte, e non solo al Sud) potrà mai rinunciare ai benefici economici e di prestigio derivanti dalle sinergie prospettate dal mondo dei servizi e dai suoi referenti politico-economici? E chi potrà fare affidamento sull’effettivo rispetto della privacy (ad es. sulla mancata schedatura di studenti e professori che protestino contro lo sterminio dei palestinesi in Terra Santa), se solo considera che con il decreto legge si vogliono esentare da pena gli agenti dei servizi che (non si limitino a infiltrarsi ma) partecipino ad associazioni terroristiche? Una volta giustificato il terrorismo di Stato in nome della sicurezza, sarebbe difficile non giustificare, quanto meno di fatto, anche la schedatura di Stato.
Conclusione – Può darsi che, in un eventuale futuro, un documentario russo come quello oggi vietato dal Rettore torinese possa essere liberamente proiettato e analizzato, purché in adempimento di qualche convenzione, facoltativa ma tanto “consigliata”, tra Università e servizi segreti. Magari alla presenza di barbe finte e di politici post-pannelliani. Se questa è libertà di insegnamento.
[1] Le informazioni essenziali sono tratte da https://www.torinoggi.it/2025/03/20/leggi-notizia/argomenti/politica-11/articolo/cancellata-la-proiezione-del-documentario-russo-il-professor-ugo-mattei-la-censura-non-riguarda-l.html
[2] Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/universita_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/
Qui la decisione commentata TARPiemonteN
Sommario: 1. Premessa e contesto di riferimento - 2. Contenuti della proposta di riforma della Corte dei conti - 2.1 Interventi sulla responsabilità erariale- 2.2. Interventi sulla funzione di controllo - 2.3 I profili organizzativi – 3. Conseguenze della riforma sull’intero sistema delle garanzie.
1. Premessa e contesto di riferimento
Dopo un letargo durato quasi un anno la riforma della Corte dei conti si è risvegliata e punta a completare l’iter approvativo alla Camera dei Deputati con il dibattito in Aula il 7 aprile. prossimo. Obiettivo di Governo e maggioranza è ottenere un primo via libera a Montecitorio entro aprile, perché alla fine di aprile scade l'ennesima proroga dello scudo erariale, norma che impedisce alle procure contabili di perseguire i danni erariali per «colpa grave ( disposizione varata nel periodo pandemico con l’art 21 del DL 76/2020,e più di recente prorogata ancora nel decreto mille proroghe DL 27/12/24, n 202»), una riforma approdata al secondo ramo del Parlamento darebbe un argomento forte per superare possibili obiezioni costituzionali sull'ennesima proroga.
Il «Ddl Foti», presentato il 19 dicembre 2023 dall’attuale ministro per il Pnrr quando era capogruppo di Fratelli d´Italia, atto Camera n. 1621, è tornato alla ribalta all’inizio di quest’anno anche per una riformulazione del testo con emendamenti a cura dei due nuovi relatori, che, nello stravolgere il testo originario, hanno anche proposto con l’emendamento 2.07. (art 2bis.) una delega con diversi punti di intervento volti a ridefinire in modo massiccio le attribuzioni e l’organizzazione della Corte dei conti.
La Corte dei conti è un giudice garante imparziale degli equilibri economico finanziari del settore pubblico e della corretta gestione delle risorse, al servizio della collettività, così è stata definita, in diverse sentenze, dalla Corte costituzionale, in attuazione dell’art 100 Cost e, ai sensi dell’art 103 Cost, ha giurisdizione nelle materie di Contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.
Da molti mesi quindi un organo di garanzia, vitale negli snodi del sistema democratico, è posto sotto scacco dalla minaccia di un radicale cambiamento delle proprie funzioni. La causa scatenante di tale riforma non è l’esigenza di migliorare il sistema delle funzioni ma “è la paura della firma del funzionario pubblico che affligge il funzionamento della pubblica amministrazione italiana”, questo è indicato nella relazione che accompagna il disegno di legge.
Sotto tale profilo è illuminante l’intervista rilasciata sull’argomento dal procuratore di Napoli Gratteri il 27 marzo scorso a Piazza Pulita “La riforma della Corte dei conti è un colpo di spugna (…) Si parla molto poco di questa riforma (…) i pubblici amministratori possono fare quello che vogliono senza dare conto a nessuno e senza avere un minimo di responsabilità. Nell’attuale sistema essi rispondono solo per colpa grave (…) essi risponderanno solo se fanno un danno con dolo (…) nessuno pagherà più. Pagheranno solo gli italiani (…) A vantaggio di chi? (…) Si sentono perseguitati la paura della firma, come anche sull’abuso d’ufficio che è stato abrogato, si narrano favole, il sindaco non firma nulla è il funzionario che firma e non il sindaco, comunque se il sindaco ha un dubbio può chiarirsi chiedendo al segretario comunale, alle prefetture, specialisti in diritto amministrativo”.
Sostanzialmente le modifiche proposte sulle due funzioni rispondono alla logica di creare esimenti relative alla responsabilità erariale a cui sono tenuti i funzionari pubblici che causano un danno alle risorse pubbliche, in caso di colpa grave e non hanno quindi l’obiettivo di migliorare le funzioni.
Il quadro che emerge non lascia dubbi in ordine alla possibilità di favorire l’impunità per i politici coinvolti in cattiva gestione dei fondi pubblici. Inoltre la riforma che va emergendo potrebbe indebolire il sistema dei controlli sulle risorse pubbliche, riducendo la possibilità di chiedere conto agli amministratori degli eventuali danni erariali causati. Il rischio è che si possa consentire agli amministratori pubblici di sfuggire alle proprie responsabilità senza dover risarcire adeguatamente i danni causati alla collettività dalla propria azione gravemente colposa.
Fin dalla presentazione del DDLL vanno registrate delle anomalie, non solo la disponibilità del testo si è avuta solo dopo due mesi dalla sua presentazione, ma lo stesso è stato interessato anche da varie riscritture del testo base per interventi radicali dei relatori. Inoltre, nonostante le diverse audizioni dei vertici della Corte (Presidente, Procuratore Generale) e dell’Associazione magistrati e la consegna di documenti fra cui un parere reso dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti n 3/2024, che ha fornito con completezza profili di criticità, nessun elemento fra quelli proposti è stato recepito. L’impressione è che l’attività parlamentare abbia un peso relativo rispetto a decisioni assunte altrove. Tale conclusione la si trae anche seguendo il dibattito nelle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei Deputati, presso le quali si esamina il DDLL. Infatti, se si analizza l’iter dei lavori e l’approvazione degli emendamenti presentati, prevalentemente, dalle opposizione, si assiste al rigetto sistematico degli stessi da parte della maggioranza senza o con limitato dibattito, ed invece all’approvazione di quelli, limitati nel numero ma molto insidiosi, presentati dalla maggioranza, anche se assolutamente improponibili (si segnala su tutti il recente sub emendamento 1.23- definito un salvacondotto per i politici), attraverso un copione scontato e prevedibile.
Nel completare preliminarmente il contesto di riferimento, è necessario segnalare anche la recente sentenza della Corte costituzionale n 132/2024 con cui la Corte, nel dichiarare inammissibili le questioni sollevate sulla reiterazione dello “scudo erariale”, ha formulato, in modo inusitato, vere e proprie linee direttive al legislatore riprendendo in più punti il disegno di legge richiamato.
Dai lavori parlamentari emerge che sono già stati esaminati la metà degli emendamenti e sub emendamenti presentati (n 240).
2. Contenuti della proposta di riforma della Corte dei conti.
Con l’obiettivo di modificare il sistema di responsabilità amministrativa e rendere più efficienti i controlli sulla gestione della cosa pubblica, la riforma interviene su tre linee di azione: responsabilità erariale (giurisdizione e procure), controllo e organizzazione.
2.1 Interventi sulla responsabilità erariale
Sono numerose le criticità nel testo della riforma.
- La quantificazione del danno erariale addebitabile e risarcibile. Il risarcimento non potrà superare il 30% del danno accertato e non potrà eccedere il doppio della retribuzione annua del responsabile, fissando quindi un tetto massimo per le condanne (emendamento 1.58). In caso di danni di notevole entità, la misura del risarcimento risulterà assolutamente irrilevante. Si rammenta che nella disciplina attuale la responsabilità erariale è assistita da particolari condizioni rispetto al sistema di risarcimento civilistico, non solo per il livello della colpa, (colpa grave)ma anche rispetto all’entità del danno da risarcire, visto che il giudice ha la possibilità di applicare il potere riduttivo sull’entità del danno accertato.
- L´indeterminatezza nella scriminante dell´atto vistato (si veda oltre sul controllo)
- L´avvenuto spontaneo adempimento del pagamento di ogni importo indicato nella sentenza definitiva di condanna determina la cessazione di ogni altro effetto della condanna medesima. Quindi ai sensi di questa norma, approvata con l’emendamento 1.60, qualora l’agente provveda spontaneamente al pagamento degli importi indicati nella sentenza definitiva non si avranno ulteriori ricadute in termini disciplinari o con riguardo ad altre sanzioni accessorie (Ad esempio, se il funzionario pubblico colpevole paga quanto previsto ed estingue il debito indicato, non operano le incompatibilità, potrà partecipare a concorsi pubblici).
- Il decorso del termine per la prescrizione Con un altro emendamento dei relatori approvato dalle Commissioni è stato modificato in modo rilevante il regime della prescrizione. Si prevede che il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso "indipendentemente dal momento in cui l’amministrazione o la Corte dei conti ne siano venuti a conoscenza". In caso di occultamento doloso del danno, "realizzato con una condotta attiva", precisa l´emendamento, (1.61), “la prescrizione di cinque anni si considera dalla data della sua scoperta”. Il concetto di “condotta attiva” dell'interessato è tutto da costruire sul piano della giurisprudenza. Nei casi più comuni in cui l’amministrazione omette la segnalazione che aveva l’obbligo di effettuare è evidente che la fattispecie di danno è interamente ascrivibile all’inerzia ed all’incuria del titolare dell’obbligo. Pertanto l’approvazione di questa norma costituisce un ulteriore colpo alla possibilità di ottenere un risarcimento del danno erariale visto che aumenteranno i casi di prescrizione dell’azione.
- L’introduzione di uno scudo per i politici “la buona fede dei titolari degli organi politici si presume, fino a prova contraria, fatti salvi i casi di dolo, quando gli atti adottati dai medesimi titolari nell’esercizio delle proprie competenze, sono proposti, vistati o sottoscritti dai responsabili degli uffici tecnici o amministrativi in assenza di pareri formali interni o esterni di contrario avviso”. Con tale norma gli amministratori (membri del governo, sindaci, responsabili di organi regionali e provinciali), in virtù di una singolare presunzione di buona fede, non saranno più responsabili per danno erariale, qualora gli atti amministrativi siano stati approvati sulla base di pareri tecnici o amministrativi. In pratica, poiché vi sono sempre alla base come presupposti dei pareri tecnici e/o amministrativi (del segretario comunale, del responsabile finanziario, dell’ufficio tecnico) i politici saranno esenti da responsabilità per colpa grave. Saranno condannati solo nel caso venga dimostrato il dolo, ovvero l’intenzione fraudolenta. L’emendamento presentato dalla maggioranza e approvato rafforza quanto previsto dalla legge 20/1994, che già dispone, nel caso di atti rientranti nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi, che la responsabilità non si estenda “ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione”. Nell’attuale disciplina la buona fede deve essere documentata, invece con la recente norma non dovrà più essere provata ma sarà presunta fino a prova contraria, invertendo, pertanto, l’onere della prova, che viene posto a carico del giudice contabile. ll provvedimento estende quindi il perimetro dell’irresponsabilità contabile in modo irragionevole, in violazione dei princìpi costituzionali e dello Stato di diritto, ipotizzando una sostanziale impunità. È evidente che tale modifica indebolisce il sistema dei controlli di legalità sulla spesa pubblica, riducendo e sostanzialmente vanificando la possibilità di chiedere conto agli amministratori per eventuali danni causati all’erario e crea un vulnus all’intero sistema della finanza pubblica. È evidente che l’indebolimento dei controlli sulle risorse pubbliche consentirà agli amministratori pubblici di sfuggire alle proprie responsabilità riducendo l’effetto di deterrenza e favorendo l’elusione del principio di prudenza e precauzione che ha sempre caratterizzato la gestione della cosa pubblica, con grave tenuta del sistema democratico, in un momento in cui, l’utilizzazione delle consistenti risorse europee legate al PNRR imporrebbe l’accentuazione di tali cautele, come richiesto dall’art 22 del REG EU 241/2021, che impone agli SM di prevenire, con adeguati controlli, le frodi, le irregolarità, i conflitti d’interessi, i doppi finanziamenti, la corruzione. Dalla disciplina approvata emerge, senza ombra di dubbio, che nel caso di violazioni l’Italia risponderà, con riguardo ai comportamenti negligenti dei propri funzionari, sacrificando solo risorse del proprio erario e quindi di tutti i cittadini. Siamo molto lontani dal principio etico di chi ritiene che ad un grande potere corrisponda una grande responsabilità, si tratta invece di considerare, che a maggiori poteri corrisponda l’insindacabilità. Seguendo tale linea di intenti è possibile leggere la recente norma dell’art 8, comma 7 del DL 25/2025, che ha previsto,per i politici che si siano resi responsabili del dissesto di un ente, la candidabilità, modificando il precedente regime addirittura attraverso l’utilizzo di uno strumento d’urgenza quale è il decreto legge.
- La riorganizzazione degli uffici di procura e del loro ruolo e la gerarchizzazione delle Procure territoriali rispetto alla Procura Generale. L’emendamento 2.07, ha aggiunto l’art 2 bis, prevedendo una delega in materia di organizzazione ed efficienza della Corte dei conti, che, fra i principi ed i criteri direttivi ha indicato, al c 2, lett d,) ed e ), la riorganizzazione delle funzioni requirenti. Attualmente seguendo il codice di giustizia contabile si individua un Procuratore generale e un procuratore Regionale con vice procuratori generali e sostituti procuratori generali addetti all’ufficio per ogni Regione, con competenza esclusiva a promuovere le azioni di responsabilità nel territorio di competenza. La norma di riforma, ancora nella fase della proposta, fa riferimento alla Procura generale ed a procure territoriali (non più regionali) rette da un procuratore preposto all’ufficio (non più un procuratore regionale) sotto il coordinamento del Procuratore generale; a quest’ultimo sarebbero riconosciuti generali poteri di indirizzo e coordinamento, poteri di avocazione delle istruttorie in caso di violazione degli indirizzi ed ancora l’obbligo del PG di sottoscrivere, a pena di nullità, gli atti più rilevanti, congiuntamente al procuratore territoriale. È evidente che l’assetto indicato, qualora approvato, creerebbe un’ampia gerarchizzazione che mal si concilia con l’autonomia di cui sono dotati i magistrati, che, secondo la Costituzione, si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni (art 107, c. 3, Cost). L’assetto proposto segna un ritorno alla situazione antecedente agli anni 1991 /93 in cui la funzione requirente era accentrata, in prevalenza, presso gli uffici del Procuratore Generale a Roma. Ma è evidente, anche con riguardo alla giurisprudenza del Giudice delle leggi ed in linea con l’esperienza più che trentennale, che le Procure Regionali, nell’interesse delle medesime amministrazioni presenti sul territorio, non possono essere ridotte a involucri vuoti, ma devono continuare ad essere veri presidi di legalità sul territorio, efficaci e tempestivi non solo nella repressione ma anche nella prevenzione del danno erariale, svolgendo un fondamentale ruolo di deterrenza.
2.2 Interventi sulla funzione di controllo
La Corte dei conti svolge diversi controlli sia in sede centrale che nelle sedi regionali, la riforma si occupa del potenziamento del controllo preventivo su atti, perché direttamente collegato all’effetto esimente della responsabilità del funzionario/-agente. Ma la modifica proposta investe l’intero sistema dei controlli visto che, soprattutto in sede regionale, per la mole di atti presumibilmente in arrivo e la scarsità di risorse umane disponibili, sarebbero difficilmente eseguibili gli altri controlli.
I profili più rilevanti delle modifiche in itinere sono i seguenti.
-Si stabilisce che qualora un atto della PA superi il controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti, non sia più possibile sottoporre a giudizio per responsabilità erariale gli amministratori che lo abbiano adottato, qualora dalla sua attuazione derivino danni all’erario. È evidente che tale norma è indirizzata a definire un’esimente automatica, a prescindere dalle azioni che ne conseguono e dal comportamento del funzionario/amministratore.
-Si segnala poi l’emendamento 1.56, che modifica l'articolo 1 della legge n.20/1994, prevedendo l'esclusione della gravità della colpa, quando il fatto dannoso tragga origine, non solo dall'emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, ma anche dagli atti richiamati e allegati che costituiscono il presupposto logico e giuridico dell'atto sottoposto a controllo. Con tale disposizione le condotte gravemente colpose e dannose saranno intangibili, indiscriminatamente, a condizione che derivino dall'atto vistato o da quelli allegati e richiamati nello stesso È evidente che c’è anche il rischio di un rallentamento dell'azione amministrativa, non in linea con la conclamata esigenza di semplificazione. E ’infatti immaginabile che possa essere necessario ampliare l'istruttoria del controllo, spinti dalla necessità di svolgere anche un ulteriore controllo sugli atti richiamati.
-Altra norma ha previsto che, trascorsi i trenta giorni indicati dal procedimento di controllo, in assenza di deliberazione da parte della Sezione, l’atto si intende registrato, anche ai fini dell’esclusione della responsabilità. Con una sorta di silenzio assenso, si considererà eseguito il controllo della Corte dei conti senza che nessun vaglio di legittimità sia stato svolto dai magistrati, estendendo il medesimo regime di esenzione previsto in caso di vaglio preventivo di legittimità. Un'estensione pericolosa, come è stato evidenziato dal parere sulla proposta di legge Foti, reso dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti (n.3/2024), che ha osservato come "sul piano sostanziale, l'esclusione dalla colpa grave in caso di silenzio determina l'apodittico discarico da responsabilità rispetto ad atti per i quali non vi è stata alcuna valutazione di legittimità”. Il silenzio assenso sarà equivalente alla registrazione degli atti sottoposti a controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti, indipendentemente dal fatto che il magistrato contabile si pronunci o meno. Si tratta di una norma che "crea evidenti profili di incertezza su dove estendere questa sorta di scudo tombale perché alla base non vi è neppure un atto di registrazione ufficiale del magistrato, ciò impedirà di procedere nei confronti dei dirigenti pubblici per colpa grave, quindi per grave negligenza, incuria, imperizia ed il relativo, eventuale danno sarà a carico dei cittadini. Tale modalità potrà essere oggetto di censure davanti alla Corte Costituzionale".
La riforma DDL 1621 del 2024 introduce, poi, in materia di PNRR e Piano nazionale di Investimenti Complementari (PNC)) un controllo preventivo eventuale su atti di aggiudicazione di appalti lavori e forniture o su atti conclusivi di affidamento a richiesta degli enti locali o delle Regioni, attraverso un macchinoso procedimento. Il controllo positivo o il mancato controllo per scadenza del termine produce l’effetto esimente della responsabilità del funzionario che ha sottoscritto l’atto, qualora derivino danni all’erario. È poi prevista un’incongruente estensione a tutti i soggetti pubblici che gestiscono il PNRR ed il Piano nazionale di Investimenti Complementari (PNC), che com’è noto sono i più disparati ed in notevole numero.
È un pericoloso ritorno al passato, a prima del gennaio 1994, quando la legge n. 20/1994 ha drasticamente ridotto i controlli preventivi della Corte dei conti a favore dei controlli sulla gestione come previsto negli altri Paesi UE e per il bilancio UE. Con riguardo alle Regioni ed agli enti locali, enti dotati di autonomia costituzionalmente garantita, possono essere poi sollevati delicati problemi di costituzionalità dopo la riforma del Titolo V (legge n 3/2001). Va poi evidenziato che l’anticipazione del controllo preventivo, al momento dell’aggiudicazione dell’appalto allontana i controlli della Corte dalle fasi dell’esecuzione, nelle quali si annidano inerzie, inefficienze ed altre irregolarità gestionali foriere spesso di gravi ritardi. Inoltre sottrae risorse preziose ai controlli finanziari svolti dalle Sezioni di controllo regionali sui bilanci degli enti locali e sui bilanci delle Regioni, controlli indispensabili per tenere sotto controllo gli equilibri degli enti territoriali (art. 81 Cost) e scongiurare disavanzi eccessivi. Il ruolo di ausilio tecnico dei controlli della Corte dei conti è volto in questi casi ad evidenziare, con tempestività, le criticità finanziarie della gestione, che possono emergere per indebitamenti eccessivi ed incontrollati e che necessitano di misure tempestive di risanamento stabili per evitare di compromettere il futuro degli enti e quindi i servizi ai cittadini. È infatti evidente che un indebitamento eccessivo e fuori controllo condurrà l’ente all’impossibilità di onorare i propri debiti verso i creditori, con forti rischi di dissesto degli enti medesimi.
Viene quindi in rilievo l’esigenza di assicurare la buona gestione dei conti pubblici, anche in relazione ai vincoli che derivano all’Italia dall’appartenenza all’UE, assicurando, con un controllo costante sui bilanci e sui rendiconti degli enti territoriali, che siano preservati gli equilibri delle relative finanze, per evitare disavanzi eccessivi. Si rammenta, infatti, che il Piano strutturale di bilancio di medio termine, presentato dal Governo in attuazione del nuovo Patto di stabilità individua un percorso prestabilito per la finanza pubblica (per i prossimi 4 anni estesi a 7 anni), al fine di raggiungere una riduzione del rapporto debito PIL ed una diminuzione del debito pubblico, che va garantita anche dalle amministrazioni locali che impegnano 1/3 della spesa delle Amministrazioni Pubbliche. Ciò va assicurato favorendo ed incentivando il debito buono, a sostegno della crescita e degli investimenti, rispetto a quello cattivo (indebitamento per spesa corrente), è imprescindibile l’esigenza di una rigorosa azione della Corte dei conti sotto il doppio profilo della lotta agli sprechi e della correzione dei disavanzi. Ma tale problematica sembra estranea al legislatore del DDLL 1621.
2.3 I profili organizzativi
L’emendamento 2.7, nel prevedere la legge delega, non fa cenno ad una Commissione deputata allo studio e redazione delle norme con componenti dotati di quei requisiti di tecnicità e competenza necessari per l’elaborazione di una disciplina così complessa.
La delega nelle linee direttive oltre alle funzioni di procura, in precedenza menzionale, richiama anche altri profili organizzativi relativamente alle funzioni di controllo, consultive e giurisdizionali (art 2 bis, c 2, lett a) ); il criterio proposto fa riferimento a livello centrale a Sezioni “abilitate a svolgere unitariamente funzioni di controllo, consultive, referenti e giurisdizionali ordinate in collegi con provvedimenti del Presidente della Corte (senza fare riferimento a criteri oggettivi e predeterminati, come sarebbe stato preferibile), mentre sul territorio, distingue in modo chiaro la previsione di una sezioni con funzioni consultive, di controllo e referenti e di una sezione con funzioni giurisdizionali ( art 2 bis, c 2lett c), n1.)
La differenza fra le sezioni centrali e quelle del territorio non ha motivo di esistere e può forse spiegarsi con una svista… Infatti la diversa tipologia delle funzioni giustifica la struttura territoriale indicata nelle due sezioni. Sotto tale aspetto le posizioni non sembrano ancora particolarmente chiare e denotano da parte del legislatore una scarsa conoscenza dell’Istituto su cui opera la riforma e delle relative funzioni.
Viene poi affermata, sotto il profilo delle risorse umane e strumentali, l’esigenza di rafforzare il sostegno alle funzioni consultiva e di controllo, rispondendo alla logica che anima l’intera riforma che vorrebbe attribuire alla Corte dei conti un ruolo consulenziale preventivo (si parla infatti di rilasciare pareri non più su fattispecie astratte, ma bensì su fattispecie concrete), volto ad influenzare la gestione delle Amministrazioni pubbliche, a servizio dello Stato apparato, più che valorizzare, nel ruolo indipendente e neutrale, il ruolo di garanzia della correttezza finanziaria, in ausilio allo Stato Comunità e quindi al servizio dei cittadini, come in più sentenze ha sottolineato la Corte costituzionale.
3. Le conseguenze della riforma sull’assetto dell’intero sistema
Emerge dal quadro descritto un radicale ridimensionamento delle funzioni dell’Istituto, che diventa più simile ad un’autorità amministrativa indipendente (Autority), perdendo le caratteristiche di un potere giudiziario non accentrato e gerarchizzato, ma diffuso e orizzontale.
La perdita di effettività della giurisdizione e l’indubbia limitata incidenza dell’azione di responsabilità erariale da parte delle procure contribuirebbero a marginalizzare i giudici contabili rispetto alle altre Magistrature.
È evidente che il ruolo della magistratura contabile ne esce profondamente snaturato con gravi conseguenze sui beni e sui valori che in base alla Costituzione la Corte dei conti è chiamata a difendere. Non ultimo gli equilibri di bilancio e la lotta agli sprechi, che, in un momento di risorse limitate come quello attuale, comprometterebbe, in misura sensibile, la tutela dei cittadini nella difesa dei diritti fondamentali, soprattutto a danno delle fasce più deboli della popolazione, a cui sarà sempre più difficile assicurare servizi essenziali, con la conseguenza della violazione di un principio fondamentale dello Stato di diritto, il principio di uguaglianza, previsto dall’art 3 della Costituzione, favorendo pochi a danno di molti.
Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Prima puntata: Mitiga
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Terza puntata: Io sono questo
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Quarta puntata: Toccata e... volo in Europa
Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Prosegue il racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Quinta puntata: balbettare sul diritto internazionale
Sommario: 1. Un arresto che viene da lontano - 2. Un controverso resoconto - 3. Procura internazionale contro Governo italiano - 4. Cosa resta dello scandalo.
1. Un arresto che viene da lontano
Secondo la Corte penale internazionale, l’arresto di Osama Elmasry/Almasri Njeem si è reso necessario, ai sensi dell’art. 58 del Trattato istitutivo[1], perché a suo giudizio, una volta esaminati la richiesta e le prove del Procuratore, sussistono fondati motivi di ritenere che abbia commesso un crimine nella giurisdizione della Corte (comma 1.a) e che il suo arresto possa garantirne la comparizione personale al processo (comma 1.b.i). Il mandato era diretto, più che a privare la libertà, ad assicurare la presenza dell’incolpato davanti alla CPI.
Il 26 febbraio 2011 Consiglio di sicurezza dell’ONU aveva segnalato al Procuratore presso la Corte la situazione perdurante in Libia dal giorno 15, con commissione di crimini di guerra e contro l’umanità; in questo modo era maturata la condizione per l’esercizio della giurisdizione della CPI stessa (art. 13.b)[2].
Dal 2017 il Procuratore riferisce due volte l’anno al Consiglio di sicurezza dei numerosi crimini contro l’umanità commessi in danno dei migranti. Secondo quell’ufficio, da allora al 2 ottobre 2024 più di 120.000 bambini, donne e uomini adulti “sono stati catturati, rapiti e trasferiti con la forza dal Mediterraneo alla Libia e poi detenuti in campi atroci, dove sono stati sottoposti ai delitti di prigionia, omicidio, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, sparizioni forzate e altri atti inumani”[3].
L’arresto nei confronti di Njeem – così Almasri è chiamato nel mandato della CPI – è stato giustificato dall’attribuzione personale a lui di crimini di guerra (oltraggio alla dignità personale, trattamento crudele, tortura, violenza sessuale, omicidio e stupro) e crimini contro l’umanità (detenzione abusiva, tortura, violenza sessuale, stupro, omicidio e persecuzione), consumati all’interno della prigione di Mitiga dal 15 febbraio 2015 al 2 ottobre 2024. Tra le vittime, vi sarebbero 34 persone uccise e un bimbo di cinque anni violentato.
La prigione di Mitiga è stata costruita, dopo la caduta di Gheddafi e l’ascesa del Governo di accordo nazionale (GNA) fedele a Fayaez al-Serraj, nell’area aeroportuale omonima –scalo civile di diverse compagnie di bandiera tra cui, da gennaio 2025, di ITA-Airways – e affidata al controllo di Njeem, che ha ai propri ordini le guardie carcerarie di questa e di altre prigioni della Libia occidentale oltre ad almeno due brigate di combattenti.
Il collegio che ha emesso il mandato nei suoi confronti è costituito nella camera preliminare, la quale, per Statuto della CPI, esercita le funzioni decisionali durante l’inchiesta ed è competente ad emettere mandati di arresto e ordini di comparizione (artt. 56-58). Era presieduto da Iulia Antoanella Motoc (Romania) e composto da Reine Alapini-Gansou (Benin) e Socorro Flores Liera (Messico). Quest’ultima ha espresso un’opinione dissenziente sull’emissione del mandato nei confronti di Njeem. L’atto è stato dunque adottato a maggioranza non per un contrasto sul merito della misura, bensì per dissenso sulla giurisdizione della CPI in relazione alla correlazione tra i crimini contestati e quelli che avevano reso inizialmente procedibile l’azione del Procuratore.
2. Un resoconto controverso
Sabato 18 gennaio 2025 la camera preliminare della Corte emette la misura nella pienezza dei poteri. Dopo la sua esecuzione da parte della Digos di Torino domenica 19, la liberazione e il rimpatrio di Njeem, avvenuti nelle controverse e frenetiche ore comprese tra le 11 e le 19.51 di martedì 21 gennaio, scatenano polemiche politiche, reazioni disparate nella stampa e nell’opinione pubblica, sconcerto da parte delle istituzioni europee.
Dopo quella degli antefatti, ecco un’altra cronaca da raccontare.
22 gennaio. Njeem è atterrato da poche ore a Mitiga col Falcon messogli a disposizione dal ministero dell’interno. La CPI emette un comunicato stampa che precisa come essa abbia “continuato a impegnarsi con le autorità italiane per garantire l’effettiva esecuzione di tutte le misure richieste dallo Statuto di Roma per l’attuazione della richiesta della Corte. In tale contesto, la Cancelleria ha anche ricordato alle autorità italiane che qualora esse individuassero problemi che possano ostacolare o impedire l'esecuzione della presente richiesta di collaborazione, dovrebbero consultare senza indugio la Corte al fine di risolvere la questione”.
Fatta questa premessa, il comunicato stampa della CPI conclude: “Il 21 gennaio 2025, senza preavviso o consultazione con la Corte, Osama Elmasry Njeem sarebbe stato rilasciato dalla custodia e rimpatriato in Libia. La Corte sta cercando, e deve ancora ottenere, una verifica dalle autorità sulle misure che sarebbero state prese. La Corte ricorda il dovere di tutti gli Stati parti di cooperare pienamente con la Corte nelle sue indagini e nei procedimenti giudiziari per i crimini commessi”.
La CPI, dunque, non è ancora stata messa al corrente dall’Italia dell’accaduto.
23 gennaio. Il governo finalmente fa sentire la propria voce. Nel question time al Senato il ministro dell’interno Matteo Piantedosi offre una prima spiegazione dell’accaduto: una volta scarcerato dalla corte d’appello, Njeem, che allo stato “era a piede libero in Italia”, è stato “rimpatriato a Tripoli, per urgenti ragioni di sicurezza, con mio provvedimento di espulsione, vista la pericolosità del soggetto”[4].
Si contesta anche la tempistica riguardante la richiesta, l’emissione e l’esecuzione del mandato di cattura internazionale. La presidente del Consiglio nota che il provvedimento è scattato dodici giorni dopo l’inizio del viaggio di Njeem in giro per l’Europa, quando il libico aveva già attraversato Regno Unito, Belgio e Germania, superando i controlli, e dopo che, nei mesi scorsi, era già stato, a quanto le risulta, anche in Francia, Olanda e Svizzera.
Il ministro degli esteri Tajani, a sua volta, mette in discussione i vincoli dell’Italia contratti col Trattato istitutivo della Corte internazionale: “L’Aja non è il verbo. Siamo tra i fondatori della Carta di Roma, ma non è che chi governa l’Aja è la bocca della verità”[5].
28 gennaio. La presidente Meloni si reca da Mattarella per comunicargli di essere stata iscritta nel registro degli indagati e subito dopo, in un messaggio sui social, annuncia di avere ricevuto un avviso di garanzia dal procuratore della Repubblica Francesco Lo Voi (“lo stesso del fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona”) “per i reati di favoreggiamento e peculato in relazione alla vicenda del rimpatrio del cittadino Almasri, avviso inviato anche ai ministri Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano, presumo al seguito di una denuncia che è stata presentata dall'avvocato Luigi Ligotti .. conosciuto per avere difeso pentiti del calibro di Buscetta, Brusca e altri mafiosi ”. Trova “curioso” che la CPI abbia emesso il mandato mentre Njeem si trovava in Italia dopo avere “serenamente” soggiornato per dodici giorni in altri tre Stati europei[6].
29 gennaio. Salta la prevista informativa dei ministri Nordio e Piantedosi sul “caso Almasri”. Su richiesta delle opposizioni, i lavori in aula alla Camera e al Senato vengono sospesi in attesa i ministri si presentino a riferire.
31 gennaio. Rispondendo alla domanda di un giornalista, un portavoce della Commissione UE risponde: “non spetta alla Commissione europea fare rispettare i mandati di arresto della Corte penale internazionale, ma ricordiamo che nel 2023 il Consiglio europeo ha invitato tutti gli Stati membri a garantire la piena cooperazione con la Corte, compresa la tempestiva esecuzione dei mandati di arresto.
2 febbraio. Lam Magok Biel Ruei, cittadino sudanese del Darfur con status di rifugiato in Francia, deposita presso la CPI un esposto contro Meloni, Piantedosi e Nordio per il reimpatrio di Njeem, dopo le torture che questi gli ha inflitto e che aveva denunciato[7].
3 febbraio. Palazzo Chigi comunica che a riferire al Parlamento saranno i ministri Nordio e Piantedosi e non, come chiesto dalle opposizioni, la presidente Meloni [8].
5 febbraio. Dopo sei giorni di sospensione dei lavori parlamentari, i ministri arrivano a riferire. Le informative sono dense e dettagliate nella difesa dell’azione del governo. Si ascoltano critiche alla CPI, “che ha fatto un pasticcio frettoloso”, e a “certi magistrati", perché intervenuti “in modo sciatto”. I due interventi vengono spesso interrotti da proteste, da scambi di accuse urlate fra maggioranza e opposizione, a volte anche verso e dai banchi dell’Esecutivo[9].
5 febbraio. L’ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale – in base alla denuncia del cittadino sudanese – chiede di avviare un procedimento nei confronti di Meloni, Nordio e Piantedosi.
3. Procura internazionale contro Governo italiano
Il Procuratore avanza la richiesta in applicazione dell’art. 70 dello Statuto della CPI. In particolare fa riferimento alla condotta di “ostacolare... la presenza o la deposizione di un testimone .. distruggere, manomettere o interferire con la raccolta di prove” (art. 70.1.c).
Lascia un senso di intimo sconcerto leggere un atto dove un’autorità internazionale qualifica le massime cariche del governo italiano come “indagati”, per avere abusato dei loro poteri al fine di interferire e vanificare i procedimenti legali ed evitare le responsabilità, in ordine sia allo scandalo del contrabbando di Al-Masri sia ai crimini di cui Al-Masri è accusato sia all’imputazione penale di loro stessi per crimini contro i migranti[10].
Già perché, secondo il Procuratore, è dal 2017 che le autorità italiane si sono rese indisponibili a perseguire i cittadini italiani o stranieri per “indiscussi crimini contro l’umanità in danno dei migranti”. Il “caso Al-Masri” dimostrerebbe ora un salto di qualità nelle violazioni dell’Italia: “il governo e la magistratura italiani non sono nemmeno in grado di collaborare con la CPI quando quest’ultima cercherà finalmente di perseguire e giudicare in modo indipendente questi crimini”[11].
L’incapacità della magistratura è derivata da quella governativa. Gli “indagati”, infatti, non si sono resi responsabili di un’omissione, ma hanno agito in maniera attiva “per fare fallire e vanificare i procedimenti penali e internazionali”; una volta che è stato reso pubblico il loro “piano per contrabbandare un fuggitivo nel suo Paese di origine”, essi si sono mossi per attaccare la CPI, la polizia italiana “e persino per attaccare i giudici italiani, sostenendo falsamente che il Ministro della Giustizia non era stato informato e che la magistratura italiana è parziale, non indipendente e politicamente motivata”. In questo modo Meloni, Nordio e Piantedosi avrebbero cercato di eludere le indagini sulle proprie condotte a favore di Njeem e sulle proprie “complicità nei crimini contro l’umanità commessi contro i migranti nella rotta del Mediterraneo centrale”[12].
È un j’accuse implacabile, che riconducendo al 2017 l’inizio della politica italiana complice con i criminali libici fa riferimento, evidentemente, al Memorandum firmato il 2 febbraio 2017 dal presidente del consiglio, Paolo Gentiloni, e dal presidente al-Serraj. L’Italia vi si è impegnata a fornire risorse al GNA per arginare in più modi “i flussi di migranti illegali” e individuare i “metodi più adeguati per affrontare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani”.
Da allora le risorse italiane sono state impiegate nel rafforzare i mezzi e le operazioni della guardia costiera locale per ricondurre in Libia i migranti diretti nel Mediterraneo verso nord e nel consolidare centri di restrizione come Mitiga. La politica del Governo Meloni avrebbe intensificato i crimini contro l’umanità favoriti da quell’accordo[13].
Nella motivazione delle proprie accuse l’ufficio del Procuratore istituito dall’ONU presso la CPI scardina la ricostruzione della vicenda fornita dall’esecutivo italiano: al ministro dell’interno che aveva giustificato l’immediatezza del reimpatrio con la pericolosità del soggetto, replica che Njeem era già stato in Italia il 6 gennaio e vi si trovava di nuovo dal giorno 18 e che comunque il suo collega guardasigilli non aveva ritenuto che tale pericolosità meritasse una rapida presentazione alla corte d’appello di Roma di un’autonoma richiesta di esecuzione dell’arresto; alla presidente del Consiglio contesta che l’asserita irritualità della comunicazione al ministro della giustizia del mandato d’arresto da parte della CPI è stata smentita dal ministro della giustizia stesso, che nella sua informativa ha motivato la propria inerzia in tutt’altro modo; a quest’ultimo addebita l’illegittimità delle sue omissioni, motivate con dichiarazioni sorprendenti (la richiesta “è arrivata in inglese senza essere tradotta”; abbiamo ricevuto “un’email informale di poche righe dell’Interpol tre ore dopo l’arresto”; “è stato fatto un immenso pasticcio”; il ministro “non è un passacarte”) e dirette a minare – insieme con le accuse di politicizzazione mosse dalla presidente Meloni – l’integrità della del sistema giudiziario internazionale e interno, quest’ultimo reo di “avere semplicemente cercato di rispettare la legge italiana”[14].
Secondo l’ufficio del Procuratore, gli indagati avevano chiesto di non rendere pubblico l’arresto di Njeem. Ciò andrebbe letto insieme con la predisposizione del Falcon 900 – che lo ha rimpatriato in serata – già all’alba del 21 gennaio, ben prima cioè che la Corte decidesse il rilascio, e con l’inattività del guardasigilli, che pure ben sapeva di essere l’unica autorità che avrebbe dovuto procedere entro 48 ore, per evitare la scadenza dell’arresto provvisorio. La decisione di non darvi esecuzione e di riportare Njeem in Libia è dipesa, dunque, “non da ragioni legali, ma politiche e criminali”.
4. Cosa resta dello scandalo
Il Trattato istitutivo (o Statuto) pone un obbligo generale di “cooperare pienamente con la Corte nelle inchieste e azioni giudiziarie” in capo agli Stati parti (art. 86). In particolare, lo Stato parte che riceva una richiesta di fermo o di arresto o di consegna “prende immediatamente provvedimenti per fare arrestare la persona”, secondo la propria legislazione e le disposizioni dello Statuto stesso (art. 59.1 St.). Solo la presenza nella legislazione interna di un divieto alla specifica richiesta di assistenza ammette la mancanza di cooperazione, ma ciò comporta l’avvio di una consultazione urgente con la Corte (art. 97e 99 St.).
Le norme dello Statuto precludono dunque al Ministro della giustizia qualsiasi sindacato politico o di legalità – quasi che, in questa seconda ipotesi, fosse egli stesso una corte di legittimità[15] – sul mandato di arresto. È vero, come egli ha dichiarato in Parlamento, che l’art. 2 della l. n. 237/2012, per l’adeguamento del nostro ordinamento allo Statuto, gli attribuisce la facoltà di concordare la propria azione con altre autorità interne, ma ciò è in funzione delle modalità di esecuzione della richiesta ricevuta, in particolare di quelle di assistenza previste dall’art. 93 St., non sulla possibilità o meno di cooperare con la Corte.
Nei confronti di Njeem non vi era una procedura di estradizione, che investe una relazione tra Stati. C’era invece una procedura giurisdizionale riconosciuta dall’Italia come vincolante mediante l’adesione al Trattato, con cui essa ha ceduto una parte di sovranità.
In relazione alla vicenda di Njeem, l’11 febbraio il Parlamento europeo ha avviato una discussione sulla “protezione del sistema di giustizia internazionale e le sue istituzioni, in particolare la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia”. Nel frattempo, però, il presidente USA Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per sanzionare la CPI, per avere intrapreso “azioni illegali contro gli Stati Uniti e il nostro stretto alleato Israele”. Tra le sanzioni, il divieto d’ingresso negli Stati Uniti a funzionari e impiegati coinvolti nel lavoro investigativo della Corte, oltre che ai loro familiari più stretti, e il blocco dei loro beni[16].
Il dibattito dei parlamentari europei, incentrato inevitabilmente su questo nuovo evento, non ha mancato di toccare la corresponsabilità dell’Italia nella delegittimazione degli organi giudiziari sovranazionali. Nella parte conclusiva, la necessità di difendere la CPI e il diritto internazionale in un momento in cui le dinamiche di risoluzione dei conflitti e le tendenze politiche nel mondo sembrano ignorarli è stata affermata solennemente[17].
Ma forse, a ricordarci la funzione della giurisdizione nella lotta contro l’impunità locale o globale, valgono più di ogni dibattito le parole di chi ha ancora sul proprio corpo e nel proprio animo le ferite delle violenze subite da Njeem: “molte persone che lo hanno denunciato, ora hanno paura di parlare, stiamo perdendo fiducia nelle autorità. Sono stato in quella prigione, non posso accettare che lo abbiano lasciato andare. Significa che tornerà a uccidere e torturare altre persone in Libia. Non lo posso accettare”[18].
[1] Il Trattato, o Statuto, fu firmato a Roma il 17 luglio 1998, durante la conferenza diplomatica convocata dall’assemblea generale dell’ONU nella sua cinquantaduesima sessione. La conferenza, riunita dal 15 giugno, era presieduta da Giovanni Conso ed ebbe uno svolgimento molto travagliato, con l’opposizione della gran parte delle rappresentanze partecipanti e il culmine di una conseguente mobilitazione di organizzazioni non governative nella fiaccolata che dal Campidoglio giunse al Circo Massimo in cui Romano Prodi, prossimo presidente della Commissione europea, che tanto aveva sostenuto l’evento, consegnò al rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite, Hans Corell, la petizione per l’istituzione della Corte. La conferenza, riunita nel vicino palazzo della FAO, pervenne infine, nella notte del 17 luglio, all’approvazione con 120 voti favorevoli su 147. Lo Statuto è efficace dall’1 luglio 2002. Alle iniziali 72 firme, apposte in Capidoglio, si sono aggiunte nel tempo quelle di altri 139 Paesi. Tra gli aderenti vi sono tutti gli Stati dell’Unione Europea, non invece, tra gli altri, USA, Russia, Cina, India, Israele, Iran, Egitto, Arabia Saudita e Turchia.
[2] Consiglio di sicurezza ONU, risoluzione 1970, 26 febbraio 2011, S/RES/1970(2011).
[3] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, documento pubblico del 5 febbraio 2025, richiesta di avviare un procedimento ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma contro la signora Giorgia Meloni, il signor Carlo Nordio e il signor Matteo Piantedosi.
[4] Question time al Senato sul caso Almasri, 23 gennaio 2025, in YouTube, consultato il 9 marzo 2025.
[5]Almasri, Tajani: “La Corte dell’Aja non è la bocca della verità”, in YouTube, consultato l’8 marzo 2025.
[6] Giorgia Meloni indagata: “Non mi faccio intimidire”, 28 gennaio 2025 in YouTube, consultato l’8 marzo 2025.
[7] Accusa Meloni e i ministri Nordio e Piantedosi di favoreggiamento. “Mi hanno tolto la possibilità di avere giustizia”, A. Candito, in La Repubblica, 3 febbraio 2025.
[8] Scontro su Meloni i Aula, arrivano Nordio e Piantedosi, 3 febbraio 2025, in ansa.it, consultato il 9 marzo 2025.
[9] Informativa di Nordio e Piantedosi su caso Almasri, 5 febbraio 2025, YouTube, consultato il 9 marzo 2025. Il testo integrale del resoconto stenografico dei due interventi si trova in sistemapenale.it, YouTube, consultato il 16 marzo 2025. Piantedosi ha affermato, tra l’altro: “dopo la mancata convalida dell’arresto mi è apparso chiaro che si prospettava la possibilità che Almasri permanesse a piede libero sul territorio nazionale per un periodo indeterminato, che ritenevo non compatibile con il suo profilo di pericolosità sociale. Per tali motivi, il 21 gennaio ho adottato un provvedimento di espulsione per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato, ai sensi dell’art. 13, comma 1, del testo unico in materia di immigrazione, e ricordo che, dall’insediamento del Governo, sono stati ben 190 i provvedimenti di espulsione per motivi di sicurezza, dei quali 24 adottati ai sensi proprio dello stesso articolo 13, comma 1. In precedenza, Nordio, dopo avere asserito che il mandato di arresto presentava delle “contraddizioni”, tanto da avere suscitato il dissenso della giudice messicana, ha riferito di avere dovuto ponderare la posizione da assumere nei confronti della richiesta della CPI. E, invocando l’art. 2 dello Statuto, ha dichiarato che il ministro della giustizia “non è un passacarte, è un organo politico che deve meditare il contenuto di queste richieste in funzione di un eventuale contatto con altri ministeri, con le altre istituzioni e con gli altri organi dello Stato”.
[10] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 59.
[11] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 55.
[12] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 55 e 58.
[13] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 45.
[14] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 37.
[15]Così A. Nappi, Caso Almasri: il Governo in Parlamento, in sistemapenale.it, 7 febbraio 2025. L’autore commenta conclusivamente: “L’opposizione ha sostenuto in Parlamento che il Ministro Nordio ha parlato come difensore di Almasri. Non è così. Il Ministro ha inscenato una requisitoria contro la Corte penale internazionale, per dissimulare la realtà di un’autodifesa rispetto a quell’ipotesi di accusa della cui esistenza ha egli stesso informato il Parlamento”.
[16]Stati Uniti, Trump impone sanzioni alla Corte penale internazionale per le indagini su Israele, in it.euronews.com, 7 febbraio 2025, consultato il 13 febbraio 2025.
[17] Così M. Mc Grath, intervenuto per la Commissione UE: “Noi nell'Unione Europea riconosciamo assolutamente l'urgenza di fornire supporto alla corte, sia finanziariamente che diplomaticamente, e continueremo a utilizzare gli strumenti a nostra disposizione per proteggere la CPI. La Commissione sta esplorando tutte le possibili vie d'azione per sostenere la Corte... perché dobbiamo vincere la lotta contro l'impunità globale. Il dibattito di questa sera mostra anche l'importanza e la complessità di garantire la protezione del diritto internazionale e del sistema giudiziario internazionale. Dobbiamo assicurarci che i nostri valori fondamentali non siano minacciati dai tentativi di minare i principi chiave del nostro ordine internazionale basato sulle regole su cui si basano le nostre relazioni internazionali, la nostra sicurezza e, in ultima analisi, il nostro futuro. Alla luce dei molteplici conflitti in corso, insieme alla tendenza allarmante a ignorare il diritto internazionale, è essenziale restare impegnati nell'ordine internazionale basato sulle regole, sostenendo fermamente le Nazioni Unite e i principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite”.
[18] A. Camilli, Quello che non torna del caso Almasri, in internazionale.it, 29 gennaio 2025.
Riforma Foti amministratori pubblici esonerati, i cittadini pagano il conto.
Di fronte agli sprechi di risorse pubbliche la risposta alla domanda del cittadino “Adesso chi paga ?” è chiara: “Il cittadino stesso”.
Sommario: 1. Premessa – 2. Consistente limitazione del quantum del danno erariale risarcibile – 2.1. Limite al quantum risarcibile – 2.2. Ulteriore riduzione del limite massimo risarcibile – 2.3. Si sono salvati anche i concessionari di servizi pubblici – 3. Ma non finisce qui – 4. E ancora non finisce qui: dallo scudo alla immunità per gli amministratori pubblici: l’eldorado della componente politica – 4.1. Funzionari e/o dirigenti pubblici: Dalla “paura della firma” alla “paura degli amministratori” [1] - 4.2. Mani legate alle procure… non più tali!
1. Premessa
Prima di addentrarmi nella descrizione di quanto sta accadendo rispetto ai progetti di riforma della magistratura contabile (la Corte dei conti) che procede con iter spedito verso la sua approvazione definitiva, vorrei provare a spiegare anche a chi non è esperto del settore giuridico di cosa si sta parlando, in quanto le modifiche proposte incideranno pesantemente sulla vita quotidiana di tutti i cittadini ed anche degli stessi dirigenti e funzionari pubblici, in modo nettamente peggiorativo.
Per questo proverò a ricorrere ad una similitudine, utilizzando, il meno possibile, termini tecnici.
Tutti o quasi tutti noi cittadini viviamo la esperienza dei “condomini”, con la conseguente necessità di amministrare le parti comuni, affidando la relativa gestione ad un amministratore cui versiamo, a tal fine, una quota di denaro, il cd. onere condominiale.
Laddove l’amministratore gestisca con gravissimo disinteresse, menefreghismo ed ignoranza le risorse finanziarie che ciascun condomino mensilmente versa, sprecando le stesse senza fare eseguire correttamente gli eventuali lavori di cura e manutenzione, sarà possibile agire, da parte dei condomini, contro quell’amministratore per fare valere la sua responsabilità. È di tutta evidenza che quell’amministratore sapendo di “rischiare” anche con il proprio patrimonio personale (ove sia chiamato a risarcire un danno arrecato con negligenza al palazzo), starà attento a che ciò non accada.
Ebbene, medesimo ragionamento, sebbene con riferimento a numeri immensamente più rilevanti rispetto agli importi degli oneri condominiali, va fatto anche per la gestione della pubblica amministrazione affidata a ministeri, comuni, province, regioni, società partecipate da enti pubblici. Anche in tali casi, infatti, i cittadini, pagando le tasse, affidano ad amministratori, dirigenti e funzionari pubblici immense risorse economiche per gestire i servizi pubblici.
Anche in tale caso, allora, ci si aspetterebbe, da parte del cittadino, di potere controllare come quelle risorse finanziarie vengono gestite, di avere la possibilità di far valere la responsabilità risarcitoria dell’amministratore e/o dirigente o funzionario pubblico che, per menefreghismo, negligenza, gravissima ignoranza, spreca quelle risorse, danneggia la collettività consentendo la costruzione di opere inutili oppure di ponti pericolanti oppure non adempia correttamente ai propri doveri verso il cittadino non lavorando o lavorando male con conseguenze quali ad esempio infinite liste di attesa nella sanita, trasporti pubblici inefficienti, strade non curate e piene di buche ecc…
Fino ad oggi, la possibilità di fare valere questo tipo di responsabilità, la responsabilità, cioè, di amministratori e dipendenti pubblici per non avere gestito in modo corretto le finanze della collettività, per avere sprecato le risorse pubbliche, esiste, con la presenza di un pubblico ministero della magistratura contabile (cioè della Corte dei conti) obbligato ad avviare indagini nei confronti di chiunque sprechi le risorse pubbliche e chiamarlo a risarcire i danni arrecati. Il pubblico ministero, in pratica, sostituisce i cittadini nel controllare ed indagare l’operato degli amministratori e funzionari pubblici.
Come per l’amministratore di condominio, dunque, anche per l’amministratore pubblico, rispetto a risorse finanziarie immensamente più grandi (si pensi ai bilanci di comuni come Napoli, Milano, Roma o ministeri vari) può valere, innanzitutto, l’effetto conformativo indotto dalla paura di essere chiamato dal pubblico ministero contabile a rispondere di condotte gravemente inefficienti e disinteressate, dalla paura di rischiare, quindi, il proprio patrimonio personale, così impegnandosi a meglio operare. Laddove, poi, nonostante il pericolo della responsabilità, si operi ugualmente con menefreghismo, disinteresse e scorretta gestione delle risorse pubbliche, entra in gioco l’azione effettiva del pubblico ministero contabile, terzo ed imparziale, che ha l’obbligo, come si diceva, di intervenire a tutela dei cittadini per fare eventualmente condannare chi ha prodotto danni, sprecando le risorse pubbliche, a risarcirli alla collettività danneggiata.
Con la riforma “Foti” che si sta portando avanti, ove definitivamente approvata, non ci sarà più alcuno strumento per tutelare il cittadino dalla gestione negligente e disinteressata delle risorse pubbliche, dallo spreco delle stesse, con un esonero pressoché totale dei “politici” da ogni responsabilità e la conseguente possibilità per gli stessi di gestire a proprio piacimento funzionari e dirigenti pubblici, in violazione del principio della separazione tra indirizzo e gestione.
Come spiegherò meglio più avanti, la riforma in atto mira semplicemente a lasciare mani libere alla componente politica, prevedendo per gli amministratori una “scudo” rinforzato dalla presunzione che agiscano sempre e comunque bene (presunzione della buona fede).
2. Consistente limitazione del quantum del danno erariale risarcibile
Una prima incisiva modifica, come si diceva, è la fortissima riduzione del danno risarcibile da parte di politici, funzionari e dirigenti pubblici, anche nelle ipotesi nelle quali il danno sia il frutto di condotte gravemente negligenti, viziate da gravissima ignoranza, disinteresse e menefreghismo.
Come noto, la pubblica amministrazione è chiamata a gestire risorse finanziare elevate, rappresentate, nella quasi totalità, dalle tasse pagate dai cittadini e, da ultimo, dai finanziamenti straordinari provenienti dalla Unione Europea (il cd PNRR).
Senza dubbio si tratta di una gestione complessa che richiede da un lato, professionalità, preparazione, attenzione e dedizione al lavoro, ma che, dall’altro, induce anche un “timore” in chi opera, proprio in ragione delle elevatissime somme di denaro gestite e delle possibili altrettanto elevate conseguenze in termini di responsabilità che rischia.
Per questo motivo il legislatore, come indicato anche dalla Corte costituzionale, deve individuare un giusto punto di “equilibrio” che riduca la quantità di rischio dell’attività che grava sull’agente pubblico, in modo che il regime della responsabilità, nel suo complesso, non funga da disincentivo all’azione.
Più banalmente, occorre individuare fino a che punto può ritenersi che l’errore ed il conseguente spreco delle risorse pubbliche da parte dei politici e dei funzionari e dirigenti pubblici possa essere “giustificato” e, dunque, non risarcito rimanendo a carico della collettività. Si tratta, cioè, di individuare il punto fino al quale i danni e gli sprechi (somme spese male ed inutilmente) derivanti da negligenza ed errore, ad esempio, nel costruire un ‘opera oppure nel gestire un ospedale o nell’erogare un servizio sanitario inefficiente con ritardi e liste di attesa infinite, possano non essere risarcite dai responsabili rimanendo a carico dei cittadini.
Ebbene, fino ad oggi, il limite oltre il quale si è ritenuto che non sia più scusabile l’errore e che, quindi, chi rompe deve pagare, deve, cioè, restituire ai cittadini le somme pagate inutilmente, le somme sprecate, è stato individuato nel caso in cui il danno sia conseguenza di un errore che sia gravissimo, frutto di disinteresse, grave ignoranza, grave negligenza, menefreghismo.
Pertanto, l’errore che non sia grave, ma che sia giustificato dalla indubbia complessità della gestione e che non derivi da disinteresse, menefreghismo, assenza sul lavoro, ma da oggettiva difficoltà della materia gestita, non comporta la responsabilità del politico o pubblico funzionario ed il danno che ne sarà derivato sarà pagato dai cittadini.
Viceversa, Il politico e/o pubblico funzionario o dirigente che, per gravissimo errore, disinteresse e menefreghismo, utilizza male le risorse che la collettività gli ha affidato per gestire un ospedale e/o un ufficio pubblico e/o un servizio pubblico (raccolta rifiuti, pulizia delle strade ecc..), dovrà risarcire il danno che ne sarà derivato, restituendo ai cittadini le risorse sprecate.
Il punto di equilibrio così definito ha retto per anni, fin dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371/1998.
Con la riforma in corso di approvazione, si mira a rompere questo equilibrio in funzione di una ricomposizione dello stesso in differente formulazione, con spiccata tendenza alla deresponsabilizzazione.
2.1. Limite al quantum risarcibile
Innanzitutto, si introduce una drastica limitazione alla risarcibilità del danno derivante da condotte gravemente negligenti e frutto di disinteresse e menefreghismo nella gestione dei servizi e funzioni pubbliche.
L’autore del danno non potrà risarcire, infatti, più del 30% del danno accertato ed i cittadini dovranno pagare il restante 70%.
Per meglio comprendere, se un amministratore pubblico (sindaco, assessore, presidente, consigliere) e/o funzionario o dirigente pubblico, per gravissimo ed inescusabile errore, dovuto, cioè, a gravissima ignoranza, disattenzione e menefreghismo, decide, ad esempio, di pagare milioni di euro non dovuti oppure costruisce un’opera inutile oppure si “disinteressa” di riscuotere i canoni della locazione degli immobili di proprietà dell’ente pubblico (e quindi di tutti noi cittadini), risponderà, nonostante la gravissima e colpevole negligenza, di non più del 30% di quel danno arrecato. Immaginando, pertanto, uno spreco, di 500.000 euro (ad es, si “regala” la gestione di una bellissima abitazione di proprietà dell’ente pubblico a soggetti “amici” impedendo alla collettività di guadagnare il prezzo di una vendita nel libero mercato), l’amministratore e dirigente e/o funzionario colpevole potrà essere condannato a restituire una somma non superiore a 150.000 euro.
Si badi, il 30% è la quantificazione massima, potendo, pertanto, essere condannati a restituire anche una somma inferiore al predetto limite massimo del 30%, ponendo la restante parte del danno (nel nostro caso euro 350 mila ove si giunga a condannare a risarcire la misura piena del 30% del danno) a carico di noi cittadini che in buona fede abbiamo affidato nelle mani di quell’amministratore e/o funzionario pubblico la gestione delle risorse pubbliche versate attraverso il pagamento delle tasse.
2.2. Ulteriore riduzione del limite massimo risarcibile
Il risarcimento potrebbe, poi, essere anche ulteriormente ridotto, laddove quel famoso 30% dovesse essere, comunque, superiore, al doppio della retribuzione di un anno del funzionario o dirigente colpevole oppure superiore al doppio della indennità fruita dall’amministratore pubblico colpevole della spesa.
In tal ultimo caso, infatti, il massimo risarcibile sarà parametrato all’importo della retribuzione lorda annuale (goduta al momento dell’illecito) e non oltre![2]
Nel nostro esempio, dunque, laddove il funzionario o amministratore colpevole fruiscano, rispettivamente, al momento dell’illecito di una retribuzione lorda annuale oppure di una indennità annuale, pari a 100.00 euro, inferiore quindi ad euro 150.000, pari al limite massimo del 30% del danno di cui all’esempio, saranno condannati a pagare un risarcimento non superiore ad euro 100.000/00 (centomila) a fronte id un danno causato pari a complessivi euro 350.000/00!
Con l’ulteriore seguente beffa per il cittadino: la norma proposta fa riferimento “alla retribuzione lorda conseguita nell'anno di inizio della condotta lesiva causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo”.
Ciò significa che, se quel funzionario o amministratore che ha sprecato soldi pubblici con disinteresse, successivamente alla data in cui ha commesso gli sprechi, ottiene anche un aumento della retribuzione annuale e/o della indennità, il limite al risarcimento non verrà proporzionalmente aggiornato allo stipendio o indennità più alti successivamente conseguiti! Rimarrà fermo, infatti, come parametro del limite del risarcimento massimo imputabile all’autore del danno, l’importo inferiore della retribuzione goduta al momento della commissione dell’illecito.
Dunque, non solo godrà del limite posto in linea generale al quantum del danno risarcibile, ma, nello specifico caso appena sopra descritto, sarà anche parametrato ad una retribuzione inferiore rispetto a quella effettivamente goduta al momento della condanna![3]
2.3. Si sono salvati anche i concessionari di servizi pubblici
La cosa è resa, poi, ancora più grave dal fatto che il grave limite al quantum di danno risarcibile non riguarda solo i politici ed i funzionari e dirigenti pubblici, ma potrebbe intendersi esteso a ricomprendere anche i concessionari e/o controparti contrattuali della pubblica amministrazione.
La norma proposta, infatti, nel quantificare il limite risarcitorio in questione precisa che non può comunque superare il “il doppio della retribuzione lorda conseguita nell'anno di inizio della condotta lesiva causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, ovvero non superiore al doppio del corrispettivo o dell'indennità percepiti per il servizio reso all'amministrazione o per la funzione o l'ufficio svolti, che hanno causato il pregiudizio”.
Il riferimento al “corrispettivo” per il servizio, funzione o ufficio svolti, consente di comprendere tra i destinatari del limite in questione anche i concessionari di servizi pubblici della pubblica amministrazione, anch’essi, infatti, soggetti alla possibile azione del pubblico ministero contabile ove sprechino le risorse pubbliche di cui sono, appunto, affidatari (cioè, concessionari).
Si pensi ai concessionari del servizio di gestione del patrimonio immobiliare di un ente pubblico o del servizio di raccolta dei rifiuti.
Ebbene, anche in questo caso, quel concessionario, pur essendo un privato che fruisce di beni e risorse pubbliche, non potrà essere condannato a risarcire un danno che sia superiore al doppio del corrispettivo contrattuale che fruisce per erogare quel servizio pubblico, anche se il danno arrecato alla collettività sarà molto più alto!
3. Ma non finisce qui
Responsabilità a geometria variabile: casi di esonero totale da responsabilità, nei quali il funzionario e/o il politico non è proprio chiamato a risarcire il danno pur se commesso con gravissima negligenza… (caso della ADER -agenzia entrate riscossione;
- del funzionario che conclude accertamenti con adesione, di accordi di mediazione, di conciliazioni giudiziali e di transazioni fiscali in materia tributaria;
- della Rai;
- dell’esonero dal danno per mancata copertura dei servizi minimi;
- dell’esonero da responsabilità per dissesto degli enti locali)
Vi sono casi, introdotti con la riforma in corso, nei quali il funzionario non può essere chiamato a risarcire il danno derivante da spreco inutile di risorse pubbliche, anche se lo ha commesso con una condotta inammissibilmente negligente e menefreghista del pubblico interesse.
Insomma, una responsabilità per danno all’erario a “geometria variabile” con spiccata tendenza all’esonero.
Tra i casi in questione, acquisisce notevole interesse per il cittadino, innanzitutto quello, contenuto nella riforma in esame, relativo alla ipotesi in cui il funzionario e/o dirigente pubblico concluda “procedimenti di accertamento con adesione, di accordi di mediazione, di conciliazioni giudiziali e di transazioni fiscali in materia tributaria” che si rivelino dannosi per la collettività. Si tratta della materia relativa alla gestione delle “tasse” e, più in particolare, dei casi nei quali il funzionario pubblico sbagli, per gravissimo errore, nella gestione del tributo o imposta o tassa a carico di un contribuente, ad es. avvantaggiando indebitamente il contribuente destinatario di quei provvedimenti (si pensi ad una transazione fiscale dannosa per la collettività ma indebitamente vantaggiosa per i contribuente con cui è conclusa), con disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri cittadini-contribuenti!
Già esistono, poi, norme, ad oggi in vigore, che prevedono ulteriori casi di vantaggi e forme di irresponsabilità in favore di alcune categorie di dipendenti pubblici: si pensi alla agenzia entrate riscossione (ADER): sono ben noti ai contribuenti i fastidi e le conseguenze in termini di danni patrimoniali che possono derivare da una esecuzione coattiva per cartelle esattoriali illegittime o comunque indebite. Ebbene, con il d.lgs. 110/24 recante “Disposizioni in materia di riordino del sistema nazionale della riscossione”, disciplinante, nello specifico, l’attività della sola agenzia entrate riscossione, si è escluso che si possa agire dinanzi alla magistratura contabile per far condannare ADER 8 ed i relativi funzionari) al risarcimento per i danni arrecati alle casse pubbliche (e quindi alle tasche dei cittadini) a seguito di omissioni, irregolarità e i vizi verificatisi nello svolgimento dell'attività di riscossione, salvo limitate ipotesi elencate tassativamente dalla norma[4]. In pratica se la ADER, agenzia entrate riscossione, pone in essere una esecuzione forzata indebita a danno di un cittadino/contribuente arrecandogli, oltre a gravi fastidi, anche danni patrimoniali, nessun dirigente o funzionario della ADER medesima risponderà davanti alla corte dei conti per quella condotta, anche se gravemente negligente e disinteressata.
Laddove, infatti, il cittadino/contribuente vessato riuscirà ad ottenere il risarcimento del danno che ha patito per quelle esecuzioni fiscali illegittime, quel danno sarà pagato con soldi pubblici e quindi a carico dei cittadini che pagano le tasse, senza che il pubblico ministero contabile possa chiamare in giudizio il funzionario ADER autore della condotta illecita e gravemente negligente per ottenere che restituisca ai cittadini quelle somme!
Si pensi alla Rai: Ai sensi dell’art 64 del d.lgs. 208/2021[5] L'amministratore delegato e i componenti degli organi di amministrazione e controllo della Rai-Radiotelevisione italiana S.p.a non possono rispondere del danno erariale, cioè non possono essere chiamati dal pubblico ministero contabile per essere condannati a risarcire i danni derivanti dallo spreco dele risorse pubbliche che i cittadini versano mediante pagamento del canone Rai! Eventuali spese “pazze”, di ogni genere, sostenute dalla RAI, saranno a carico esclusivo dei cittadini e delle stesse non risponderanno i vertici della RAI.
Si pensi ai politici per i quali:
1) Dl 543/96 art 3 comma 2 ter prevede l’esonero degli amministratori dal danno derivante dalla mancata copertura dei servizi minimi: L'azione di responsabilità per danno erariale non si esercita nei confronti degli amministratori locali per la mancata copertura minima del costo dei servizi[6];
2) Dl 25/2025, nel modificare l’art 248 dlgs 267/00[7], con riferimento alla responsabilità per dissesto dell’ente locale ed alla conseguente ineleggibilità ed incandidabilità decennale comminata ai politici che abbiano causato quel dissesto, ha introdotto una drastica limitazione di siffatta responsabilità, precisando che, ove anche risulti avere causato o concausato il dissesto dell’ente locale, con colpa grave e cioè per condotte gravemente negligenti e disinteressate, con evidente spreco delle risorse dei propri cittadini, non potrà essere condannato alla ineleggibilità ed incandidabilità e, dunque, non risponderà del dissesto, se avrà adottato un piano di riequilibrio finanziario pluriennale approvato dalla Corte dei conti, ai sensi dell'articolo 243-bis, entro due anni dall'insediamento del primo mandato e a seguito di delibera della Corte dei conti ai sensi dell'articolo 148-bis, comma 3, di accertamento di gravi irregolarità o criticità relative agli esercizi precedenti l'elezione. In definitiva, ove anche gli amministratori pongano in essere azioni gravemente negligenti e buttino letteralmente i soldi dei contribuenti dalla finestra causando il dissesto dell’ente locale, potranno comunque andare esenti da ogni responsabilità erariale semplicemente adottando e facendo approvare dalla corte dei conti un piano di riequilibrio, nel rispetto dei tempi normativamente previsti.
Piano di riequilibrio, con il quale, tra l’altro, le tasse, a carico dei cittadini, vengono alzate fino alle aliquote massime.
In questo modo i cittadini sono beffati due volte: non solo l’amministratore in questione avrà sprecato le risorse del bilancio dell’ente provocandone il dissesto (fallimento), senza rispondere di alcunché, ma le tasse, a causa di questa condotta che rimarrà impunita, verranno portate alla aliquota massima, aumentando il peso fiscale sui cittadini medesimi.
A testimoniare quanto la predetta norma sia “parziale” e finalizzata a consolidare la irresponsabilità della sola componente politica, rileva il fatto che analogo esonero da responsabilità non è stato, invece, previsto per i revisori dei conti, per i quali, ove concorrenti al dissesto, permangono, invece, le sanzioni già previste con la norma di cui al comma 5 bis del medesimo art. 248 d.lgs. 267/00.[8]
In un simile contesto normativo, la generale limitazione del quantum del danno risarcibile, unitamente ad ulteriori situazioni particolari nelle quali, viceversa, i funzionari e dirigenti sono totalmente esentati da ogni responsabilità, non vi sarà più alcun incentivo ad agire con diligenza, non vi sarà più il deterrente, rappresentato dalla possibile responsabilità patrimoniale personale, utile ad indurre, chi gestisce le ingenti risorse provenienti dalle tasse pagate dai cittadini, ad agire in modo diligente, in quanto ormai a pagare tutte le conseguenze delle condotte illecite sarà solo “Pantalone”, cioè i cittadini medesimi!
4. E ancora non finisce qui: dallo scudo alla immunità per gli amministratori pubblici: l’eldorado della componente politica
Con recente emendamento il progetto di legge Foti ha anche rafforzato la esenzione della componente politica da ogni responsabilità per lo spreco delle risorse pubbliche, prevedendo in loro favore una presunzione normativa di buona fede.
Si prevede, infatti, che nel caso di deliberazioni di organi collegiali aventi ad oggetto atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi, la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione: a tal proposito si precisa che la buona fede è presunta per legge!
Viene in tal modo “scudata” la posizione della sola componente politica, rispetto a quella di funzionari e dirigenti pubblici, ritenendoli esenti da ogni responsabilità, in quanto si presume la relativa buona fede!
Con una inversione dell’onere della prova normativamente imposto, sarà eventualmente compito del pubblico ministero dimostrare che, nella realtà dei fatti, quella buona fede non esisteva. Ove non si riesca a fornire in giudizio siffatta prova, quel politico non risponderà dello spreco di risorse pubbliche causato! Ne risponderà il solo dirigente o funzionario che ha dato parere favorevole, ma con il limite risarcitorio sopra richiamato, anche se la condotta dello stesso è stata viziata da gravissima negligenza, disinteresse, ignoranza e menefreghismo verso la corretta gestione delle risorse dei cittadini!
Ove, poi, si riesca comunque a provare, da parte del PM contabile, la assenza della buona fede, l’eventuale condanna dell’amministratore pubblico al risarcimento del danno sconterà i limiti quantitativi più volte richiamati e che, nello specifico caso degli amministratori, corrispondono al 30% del danno accertato o, comunque, non superiore al doppio della “indennità” percepita per la funzione svolta.
Ove, infine, dalle condotte dissennate e di spreco ne scaturisca anche il dissesto, ad esempio, del comune, gli amministratori non sconteranno alcuna responsabilità se, prima della formale dichiarazione del dissesto stesso, avranno ottenuto la approvazione di un piano di riequilibrio con il quale, tra l’altro, le tasse verranno portate alle massime aliquote, con conseguente gravissimo aumento del peso fiscale a carico dei cittadini!
4.1. Funzionari e/o dirigenti pubblici: Dalla “paura della firma” alla “paura degli amministratori” [9]
L’ordito normativo, se da un lato tesse uno “scudo” ben attrezzato per la componente politica, dall’altro colloca i dirigenti e funzionari pubblici in uno stato di evidente prostrazione.
Pur prevedendo la più volte menzionata limitazione quantitativa del risarcimento del danno cui possono andare incontro, nel contempo prevede, però, per i soli funzionari e dirigenti pubblici e non anche per i politici che concorrano nello spreco delle risorse pubbliche, la possibilità che gli venga irrogata, per i soli casi più gravi, anche una sanzione interdittiva consistente nella sospensione dalla gestione di risorse pubbliche per un periodo compreso tra sei mesi e tre anni, con conseguente destinazione a funzioni di studio e ricerca ed avvio di un procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 21 d.lgs. 165/01[10].
Ne deriva, dal quadro normativo oggetto di proposta, che la posizione di dirigenti e funzionari, al cospetto della componente politica ben scudata da ogni possibile responsabilità risarcitoria e(o sanzionatoria per gli sprechi causati, sarà di evidente debolezza, con la conseguente disapplicazione del principio di separazione tra potere di indirizzo e gestione di cui al d.lgs. 165/01.
La ratio di fondo, dunque, della riforma in commento non è certo quella dichiarata del maggiore efficientamento della corte dei conti, bensì quella di un mal celato obiettivo di deresponsabilizzazione, in primis della componente politica, in favore della quale, non solo si è previsto un sistema ben strutturato di esonero e/o drastica limitazione della responsabilità erariale, senza previsione, nei loro confronti, di eventuali sanzioni interdittive previste, invece, nei confronti di funzionari e dirigenti pubblici autori di ingenti danni erariali, ma sono state, nel contempo, anche gravemente ridotte le conseguenze sanzionatorie originariamente previste per le condotte di spreco causative del dissesto degli enti locali!
V’è da dire, a tal ultimo proposito, che la previsione delle sanzioni interdittive, consistenti, in pratica, nella temporanea sospensione dalla gestione di un certo settore di coloro per i quali sia stata accertata con sentenza una condotta gravemente negligente, rappresenta una misura che, a mio modo di vedere, può giustamente compensare la previsione di un tetto massimo alla risarcibilità, da parte dei dipendenti medesimi, del danno patrimoniale accertato.
Rappresenta, infatti, misura ragionevole il destinare ad altro incarico coloro che diano prova di inefficienza e grave negligenza in un determinato settore di gestione. Si tratta, peraltro, di misura che, se da un lato non incide in modo devastatane sul patrimonio personale, come nel caso di condanne a risarcire danni milionari, dall’altro consente, comunque, di sanzionare chi opera con gravissima negligenza, così da mantenere inalterata la funzione deterrente della responsabilità per danno all’erario, prospettandosi, in caso di condanna per gravissima negligenza, sia il risarcimento di una quota minima del danno (come ampiamente illustrato sopra), ma anche l’eventuale spostamento ad altro incarico, con il rischio di perdere parte del trattamento retributivo accessorio.
Peraltro, la declinazione di siffatta misura interdittiva ben si inquadrerebbe nell’attuale sistema della responsabilità, connotato da un evidente spostamento della attenzione del legislatore dalla posizione del danneggiato, cui va prioritariamente assicurato l’integrale risarcimento del danno patito, alla posizione del danneggiante, rispetto al quale va tenuto in debita considerazione, sotto lo specifico profilo del limite delle conseguenze patrimonialmente rilevanti della responsabilità, il rapporto proporzionale tra l’assunzione delle responsabilità e l’ammontare della retribuzione erogatagli per l’assunzione di quelle medesime responsabilità.
Tuttavia, che la richiamata previsione sanzionatoria accessoria, di cui al DDL Foti, sia relativa ai soli dirigenti e funzionari pubblici e non sia estesa anche ai “politici”, adattandola ovviamente allo specifico ruolo dagli stessi ricoperto, rende il tutto estremamente asimmetrico, costruendo un sistema di immunità per la sola componente politica finalizzato a ricondurre il pallino, non solo dell’indirizzo ma anche della gestione delle risorse pubbliche nelle loro mani.
Il problema principale, però, è che, ormai, rarissimamente si discuterà di risarcimenti di danni erariali, peraltro molto contenuti nel quantum o di sanzioni accessorie interdittive comminate, in quanto, la riforma in commento si spinge fino alla definitiva riduzione al silenzio delle procure contabili!
4.2. Mani legate alle procure… non più tali!
La riforma, infatti, va molto oltre, incuneandosi nel DNA della magistratura contabile per mutarlo definitivamente in qualcosa di diverso, contrario alla nostra stessa amata Costituzione!
Fermi restando tutti i paletti, limiti e scudi previsti alla possibile responsabilità per danno all’erario, si è prevista, mediante un progetto di legge delega, sempre integrato nel Foti, la riorganizzazione della magistratura contabile, con l’evidente fine ultimo di limitare drasticamente, fino alla eliminazione sostanziale, la possibilità di azioni giurisdizionali per responsabilità derivante da sprechi di risorse pubbliche.
Se da un lato, infatti, si ampliano le funzioni di controllo e consultive, definite espressamente prioritarie in sede di delega legislativa, con la conseguenza che gli atti sui quali si interviene in tale specifica funzione saranno totalmente scudati da responsabilità per danno all’erario; dall’altro si verticalizzano le procure erariali, con poteri di accentramento e di avocazione dei fascicoli, di accesso agli atti e addirittura di “cofirma” degli atti di chiamata in giudizio da parte del procuratore generale!
Viene letteralmente stracciata con un semplice tratto di penna la caratteristica fondante di una magistratura che sia davvero tale, la indipendenza, cioè, l’autonomia e terzietà dei magistrati medesimi, subordinando i pubblici ministeri ad un vero e proprio potere di ingerenza dell’unico procuratore generale.
Ove anche i cittadini dovessero denunciare imbrogli e sprechi delle risorse pubbliche da parte di amministratori, dirigenti e funzionari, il pubblico ministero sarà pur sempre soggetto al parere, al controllo, alla valutazione e decisione di un unico soggetto, il procuratore generale, con gravissime ricadute sotto il profilo della assenza di autonomia, terzietà ed indipendenza!
Si giunge, in questo modo, ad impedire la libera ed autonoma azione tipica di una magistratura e del suo potere inquirente, in pratica si trasforma la magistratura contabile in qualcosa che non è più una “Magistratura”, sottraendo alla Repubblica un baluardo, previsto in Costituzione, a difesa del corretto uso delle risorse pubbliche, sostituendolo con una sorta di “amministrazione” e violando di netto gli art. 25 e 107 Cost. Il tutto con una semplice legge ordinaria!
Per ironia della sorte, nel progetto di legge in esame, nel trattare della riforma delle procure, si fa ricorso al termine “procura della Repubblica presso la Corte dei conti”, nonostante si stia trasformando le stesse in qualcosa d’altro, di certo non più “procura della Repubblica”!
Si tratta, forse, di un errore freudiano di chi ha compilato questo incredibile “pastrocchio” a danno di tutti i cittadini della Repubblica, quasi a testimoniare un intimo sussulto della coscienza rispetto alla consapevolezza di avviarsi, in questo modo, ad eliminare il vero baluardo contro gli sprechi delle risorse pubbliche in una nazione, come la nostra, divorata dal debito pubblico!!!
C’è da domandarsi se, una volta ben compreso in cosa effettivamente consista questa riforma della Corte dei conti e le conseguenze concrete cui dà luogo in termini di drastica limitazione della responsabilità per lo spreco delle risorse della collettività, sia ciò che davvero vuole il popolo italiano!
Senza dubbio, al momento, una riforma siffatta fornisce una risposta chiara e netta alla domanda e adesso chi pagherà? che il cittadino si pone, sgomento, di fronte ad intollerabili sprechi di denaro pubblico: Pantalone, cioè gli stessi cittadini, cioè tutti noi!
[1] Si consenta il rinvio a: FERRUCCIO CAPALBO, “Riforma della Corte dei conti: che paghi la collettività i danni causati dai funzionari incapaci - dalla "paura della firma" alla paura che i dirigenti firmino” in LEXITALIA – ottobre 2024.
[2] La proposta normativa è la seguente: 1-octies. Salvi i casi di danno cagionato con dolo o di illecito arricchimento, la Corte dei conti esercita il potere di riduzione ponendo a carico del responsabile, in quanto conseguenza immediata e diretta della sua condotta, : il danno o il valore perduto per un importo non superiore al 30 per cento del pregiudizio accertato e, comunque, non superiore al doppio della retribuzione lorda conseguita nell'anno di inizio della condotta lesiva causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, ovvero non superiore al doppio del corrispettivo o dell'indennità percepiti per il servizio reso all'amministrazione o per la funzione o l'ufficio svolti, che hanno causato il pregiudizio.
[3] Vi è, inoltre, una evidente asimmetria con altri settori dell’ordinamento, come quello delle società commerciali. In tale ultimo ambito, infatti, con la recente legge 35/2025, nel modificare l’art 2407 cc, ha posto un tetto al danno dai medesimi risarcibile ove commesso con negligenza. Tuttavia, in questo specifico caso si è fatto ricorso ad un multiplo della indennità percepita molto più alto di quello previsto per i politici ed i funzionari e dirigenti pubblici dal ddl FOTI (pari al doppio della retribuzione o indennità annuale) in quanto va DA UNA MISURA PARI DA QUINDI A DIECI VOLTE IL COMPENSO“…i sindaci che violano i propri doveri sono responsabili per i danni cagionati alla società che ha conferito l'incarico, ai suoi soci, ai creditori e ai terzi nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni: per i compensi fino a 10.000 euro, quindici volte il compenso; per i compensi da 10.000 a 50.000 euro, dodici volte il compenso; per i compensi maggiori di 50.000 euro, dieci volte il compenso”
[4] La norma di cui all’art. 6 comma 10 e 11 reca:
Le omissioni, le irregolarità e i vizi verificatisi nello svolgimento dell'attività di riscossione non comportano l'avvio di giudizi di responsabilità previsti dal codice della giustizia contabile, di cui all'allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, salvo che in presenza di dolo e con l'eccezione, altresì, dei casi in cui dal mancato rispetto, per colpa grave, delle previsioni:
a) dell'articolo 2, comma 1, lettere a) e b), sia derivata la decadenza o la prescrizione del diritto di credito, per le quote affidate a decorrere dal 1° gennaio 2025;
b) dell'articolo 2, comma 1, lettera b), sia derivata, relativamente agli adempimenti posti in essere a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, la prescrizione del diritto di credito, per le quote affidate fino al 31 dicembre 2024.
11. Le disposizioni del comma 10 si applicano anche nei casi di riaffidamento ai sensi dell'articolo 5, commi 1, lettera c), e 5.
[5] Art. 64. Responsabilità dei componenti degli organi della RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a.
In vigore dal 25 dicembre 2021
1. L'amministratore delegato e i componenti degli organi di amministrazione e controllo della RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a. sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali
[6] Dl 543/96 art 3 comma 2 ter prevede l’esonero degli amministratori dal danno derivante dalla mancata copertura dei servizi minimi: L'azione di responsabilità per danno erariale non si esercita nei confronti degli amministratori locali per la mancata copertura minima del costo dei servizi
[7] Art 248, dlgs 267/00 come modificato dall’art. 8, comma 7, D.L. 14 marzo 2025, n. 25: Fermo restando quanto previsto dall'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, gli amministratori che la Corte dei conti ha riconosciuto, anche in primo grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, sia omissive che commissive, al verificarsi del dissesto finanziario, non possono ricoprire, per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati. I sindaci e i presidenti di provincia ritenuti responsabili ai sensi del periodo precedente, inoltre, non sono candidabili, per un periodo di dieci anni, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo. Non possono altresì ricoprire per un periodo di tempo di dieci anni la carica di assessore comunale, provinciale o regionale nè alcuna carica in enti vigilati o partecipati da enti pubblici. Ai medesimi soggetti, ove riconosciuti responsabili, le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti irrogano una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione della violazione .Le disposizioni di cui al primo, secondo e terzo periodo del presente comma non si applicano agli amministratori che, nei soli casi in cui la responsabilità sia attribuita per colpa grave, abbiano adottato un piano di riequilibrio finanziario pluriennale approvato dalla Corte dei conti, ai sensi dell'articolo 243-bis, entro due anni dall'insediamento del loro primo mandato e a seguito di delibera della Corte dei conti ai sensi dell'articolo 148-bis, comma 3, di accertamento di gravi irregolarità o criticità relative agli esercizi precedenti l'elezione.
[8] 5-bis. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, qualora, a seguito della dichiarazione di dissesto, la Corte dei conti accerti gravi responsabilità nello svolgimento dell'attività del collegio dei revisori, o ritardata o mancata comunicazione, secondo le normative vigenti, delle informazioni, i componenti del collegio riconosciuti responsabili in sede di giudizio della predetta Corte non possono essere nominati nel collegio dei revisori degli enti locali e degli enti ed organismi agli stessi riconducibili fino a dieci anni, in funzione della gravità accertata. La Corte dei conti trasmette l'esito dell'accertamento anche all'ordine professionale di appartenenza dei revisori per valutazioni inerenti all'eventuale avvio di procedimenti disciplinari, nonché al Ministero dell'interno per la conseguente sospensione dall'elenco di cui all'articolo 16, comma 25, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148. Ai medesimi soggetti, ove ritenuti responsabili, le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti irrogano una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione delle violazioni.
[9] Si consenta il rinvio a: FERRUCCIO CAPALBO, “Riforma della Corte dei conti: che paghi la collettività i danni causati dai funzionari incapaci - dalla "paura della firma" alla paura che i dirigenti firmino” in LEXITALIA – ottobre 2024.
[10] 1-decies Nella sentenza di condanna la Corte dei conti può, nei casi più gravi, disporre a carico del dirigente o del funzionario condannato la sospensione dalla gestione di risorse pubbliche per un periodo compreso tra sei mesi e tre anni. L'amministrazione, conseguentemente, avvia immediatamente un procedimento ai sensi dell'articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, da concludere improrogabilmente entro il termine della sospensione disposta con il passaggio in giudicato della sentenza, e assegna il dirigente o il funzionario sospeso a funzioni di studio e ricerca.»
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