ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Questo contributo costituisce il terzo di una serie di approfondimenti sul "d.d.l. Nordio" di questa Rivista. Si veda D.d.l. Nordio in materia di intercettazioni: l'ennesima ombra gettata sull'operato del pubblico ministero (e l'ennesimo passo verso la separazione delle carriere) di Andrea Apollonio, D.d.l. Nordio: l’interrogatorio prima della misura cautelare e l’elefante nella stanza di Costantino De Robbio.
Sommario: 1. Le novità in materia di impugnazione - 2. La brevissima vita dell’obbligo di depositare, insieme con l’atto di impugnazione, la dichiarazione o elezione di domicilio: l’approccio sistematico, questo sconosciuto - 3. Le curiose ricorrenza e sorte dello specifico mandato ad impugnare - 4. Addio all’appello del pubblico ministero (e la parte civile?) avverso i proscioglimenti per i reati a citazione diretta.
1. Le novità in materia di impugnazione.
Tre sono le novità in materia di impugnazione introdotte dal disegno di legge C.1718 (era il S.808), approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati lo scorso 10 luglio, contenute rispettivamente nelle lettere o) e p) dell’art. 2.
Le prime due sono eccentriche al testo e al disegno di legge originario. Accolgono in concreto sollecitazioni asistematiche dell’Avvocatura penale, sono state introdotte dalla Commissione giustizia del Senato [[1]] e, in concreto, confermano che il legislatore se e quando vuole intervenire tempestivamente trova la strada opportuna [[2]].
La prima (lettera ‘o’ prima parte) riguarda la pronta abrogazione del comma 1-ter dell’art. 581 cod.proc.pen. che dispone(va) a pena di inammissibilità il deposito, insieme con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori, della dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizi.
La seconda (lettera ‘o’ seconda parte) riguarda l’altrettanto pronta abrogazione di parte del comma 1-quater del medesimo art. 581, limitatamente all’obbligo, quando si è proceduto in assenza e il difensore ha nomina fiduciaria, di depositare con l’atto di impugnazione del difensore anche uno specifico mandato ad impugnare rilasciato al medesimo dopo la pronuncia della sentenza. L’obbligo pertanto permane solo nel caso di difesa d’ufficio.
Queste due norme sono state introdotte dall’art. 33 del d.lgs. n. 150/2022 e sono (erano) in vigore dal 30 dicembre 2022 per le sole impugnazioni proposte a decorrere da tale data. Le censure di incostituzionalità loro rivolte sono state ritenute manifestamente infondate dalla giurisprudenza di legittimità (per tutte Sez.4, sent. 44630/2023).
La terza (lettera ‘p’) elimina l’appello del pubblico ministero (e notiamo subito apparentemente non anche della parte civile) avverso le sentenze di proscioglimento per i reati per i quali si procede con la citazione diretta a giudizio (550, commi 1 e 2).
2. La brevissima vita dell’obbligo di depositare, insieme con l’atto di impugnazione, la dichiarazione o elezione di domicilio: l’approccio sistematico, questo sconosciuto.
2.1. La previsione dell’obbligo di deposito della dichiarazione o elezione di domicilio insieme con il deposito dell’atto di impugnazione va vista nel contesto sistematico del nuovo giudizio di impugnazione introdotto dalla cd Riforma Cartabia pertinente il settore penale e processuale penale (legge 134/2021 e d.lgs. 150/2022), e finalmente operativo per le impugnazioni proposte dal 01/07/2024 (dopo diciotto mesi di incomprensibile rinvio) [[3]].
Essa è invero strettamente pertinente sia all’introduzione di termini stringenti per la trattazione dei giudizi di impugnazione, in particolare all’istituto (morituro ma tuttora vigente) della improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione disciplinato dall’art. 344-bis, che alla connessa rivisitazione dei tempi per l’avviso della fissazione del giudizio di appello.
Infatti a regime (per le impugnazioni proposte dopo il 31/12/2024) i termini di durata massima al cui superamento consegue la improcedibilità dell’azione penale in corso sono (di regola) di due anni per il giudizio di appello e di un anno per il giudizio di cassazione. Entrambi decorrono trascorsi novanta giorni dalla scadenza per il deposito della (motivazione della) sentenza, che il giudice ha determinato nel dispositivo [[4]].
Contestualmente, i termini per l’avviso della data fissata per il giudizio di appello si raddoppiano da venti a quaranta (601, comma 5), con un rilevante aumento che è connesso alla rivisitazione del sistema dei termini per: le richieste di giudizio in presenza (598-bis, comma 2), la proposizione del concordato anche con rinuncia ai motivi di appello (599-bis), la presentazione delle conclusioni e delle repliche per il giudizio in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti (598-bis, comma 1, seconda parte).
Con riferimento a tali termini risulta evidente che i due anni utili a disposizione del giudice di appello assorbono gli eventuali ritardi: nel deposito della sentenza oltre il termine assegnato, senza che si sia ricorsi alla proroga ex 154 disp. att. cod. proc. pen. (ovvero comunque con superamento dei novanta giorni consentiti per questa); nella trasmissione del fascicolo da parte della cancelleria del giudice che ha deliberato la sentenza; nella registrazione del fascicolo da parte della cancelleria del giudice dell’impugnazione; comunque dai quaranta giorni (anziché 20) per l’avviso della fissazione [[5]]. Tutti questi fatti procedimentali erodono pertanto (sul piano organizzativo quanto meno) il tempo utile a disposizione del giudice di appello. Che tale erosione possa avvenire anche da disfunzioni dell’Amministrazione (il raddoppio venti/quaranta è consapevole scelta sistematica del legislatore; ma i ritardi attengono a condotte) e, quindi, sia dato astrattamente non rilevante sul piano della disciplina dei principi sarebbe affermazione condivisibile se chi ha l’obbligo costituzionale di fornire le risorse per rispettare il senso e la finalità delle norme legislative non fosse lo stesso soggetto che formula le norme e non ti fornisce le risorse. In proposito, se è vero che l’art. 110 Cost. assegna al Ministro della giustizia la competenza per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, è pur vero da un lato che lo stesso agisce innanzitutto con i mezzi finanziari, e le norme, che il Parlamento gli mette a disposizione, dall’altro che le esperienze degli ultimi anni (e di più legislature e governi di diversa composizione) hanno sempre più assottigliato l’autonomia dei due momenti (e poteri) della legislazione e dell’esecuzione.
In questo contesto sistematico si inserisce (inseriva) la previsione ex art, 581, comma 1-ter, per la quale il deposito dell’atto di impugnazione deve (doveva essere) accompagnata dal deposito di una dichiarazione o elezione di domicilio specificamente servente il successivo avviso della data di fissazione del giudizio di appello: secondo questa previsione normativa, il giudizio di impugnazione si celebra dando avviso della trattazione all’imputato nel luogo o alla persona che egli ha specificamente indicato per quella trattazione di un nuovo e autonomo grado di giudizio che si svolge su sua richiesta. Tale accorgimento è l’unico che consente di avere tempi per l’avviso coerenti e congrui al complessivo sistema di termini che caratterizzano il nuovo giudizio di appello (in particolare a fronte di esperienze quotidiane di plurime modifiche delle dichiarazioni o delle elezioni di domicilio spesso pure presentate in contesti diversi dove agiscono soggetti differenti: polizia giudiziaria, pubblico ministero, giudice per le indagini preliminari, giudice del dibattimento e giudice dell’impugnazione). Non è pertanto palesemente illogica, gratuitamente asistematica o costituzionalmente problematica la previsione che l’inizio di un nuovo grado di giudizio sia caratterizzato dall’azzeramento delle a volte oggettivamente complesse vicende afferenti la regolarità delle notifiche nel grado precedente. Chi consapevolmente chiede procedersi a nuovo grado di giudizio è nelle condizioni di fornire un’indicazione da quel momento certa e unica per la notificazione dell’avviso della data di fissazione del processo che ha chiesto (anche eventualmente indicando consapevolmente il difensore nominatogli d’ufficio o scelto fiduciariamente, difensore con il quale ha onere di mantenere i rapporti. qualora la sua situazione di vita renda problematica l’indicazione specifica).
2.2 Questo richiamo sistematico al legame strettissimo tra nuova disciplina del giudizio di appello e onere di depositare insieme dichiarazione o elezione di domicilio “ai fini (spiega espressamente il comma 1-ter) della notificazione del decreto di citazione a giudizio” mantiene piena efficacia, è opportuno chiarirlo subito, anche nel caso in cui venisse completato l’iter normativo che intende abrogare l’istituto disciplinato dall’art. 344-bis per ripristinare l’applicazione dell’istituto della prescrizione nei giudizi di impugnazione (le proposte di legge unificate 893-745.1036.1380-A sono state già approvate dalla Camera dei deputati e sono ora all’esame del Senato).
La pregnanza dei tempi utili per la trattazione rimarrebbe infatti problematica di permanente piena rilevanza, anche con la “nuova” prescrizione.
Infatti, l’introducendo nuovo art. 159-bis cod. pen. prevede sì una sospensione biennale del corso della prescrizione dopo le sentenze di condanna (due anni per il giudizio di appello, un anno per il giudizio in Cassazione) ma dispone che la stessa ‘salti’ se il giudice dell’impugnazione non deposita la sentenza entro quegli stessi termini (due anni, appello, un anno, legittimità). Gli stessi, oltretutto, decorrerebbero già dalla scadenza del termine che il giudice dell’impugnazione ha indicato nel dispositivo per il deposito della sentenza. Il che significa, in concreto e per esempio, che comunque i mesi utili non sono per l’appello ventiquattro ma quantomeno ventidue e quindici giorni e per la Cassazione non dodici ma otto e quindici giorni. Entrambi i tempi infatti sono al lordo del tempo – normalmente quarantacinque giorni – che l’imputato condannato ha per impugnare) [[6]].
Ecco pertanto che l’intervento della legge in via di pubblicazione (che muove dal cd. d.d.l. Nordio) con l’abrogazione del comma 1-ter dell’art. 581 entra nel nuovo sistema dei giudizi di impugnazione con un approccio palesemente e oggettivamente atomistico.
Per quanto detto, infatti, rispetto al nuovo sistema che ha (aveva) un suo delicato equilibrio di termini e tempi, funzionale e attento ai diversi, e a volte confliggenti, aspetti rilevanti nella sempre complessa relazione tra diritto di difesa ed efficienza del sistema, interviene esclusivamente sul meccanismo dell’avviso di fissazione, astraendolo dalla logica del sistema e creando così le premesse per un’ulteriore erosione del tempo utile per la trattazione. Tale intervento pertanto, consapevolmente o meno, di fatto riduce la possibilità concreta di rispettare i termini di durata massima del giudizio di impugnazione evitando l’improcedibilità o mantenendo efficacia alla nuova sospensione della prescrizione (secondo la legge del giorno).
Opportuno richiamare le prevalenti ragioni di contestazione della norma del comma 1-ter, di spessore prevalentemente pratico.
Si è detto che: in realtà se si era andati a sentenza, in realtà si sapeva già dove trovare l’imputato; sarebbe difficile recuperare il provvisoriamente condannato per fargli fare la necessaria dichiarazione o elezione; il diritto di difesa dell’imputato non potrebbe mai soccombere alle esigenze organizzative/funzionali dell’Amministrazione.
Sono ragioni che paiono francamente deboli.
L’imputato condannato nel grado precedente è oggi un imputato necessariamente consapevole della pendenza di quel giudizio. Le censure e critiche sul tema significativamente non si sono mai confrontate con le conseguenze della nuova assai più rigida disciplina della citazione al giudizio di primo grado, orientata sulla conoscenza effettiva della pendenza e della trattazione della fase processuale. Basta richiamare: la nuova disciplina dell’assenza, con innanzitutto l’attuale contenuto dei primi tre commi dell’art. 420-bis, del comma 5 e del comma 7 (e 604, commi 5-ter e 5-quater per l’appello); la precedente e coerente sentenza 23948/2020 delle Sezioni Unite in materia di elezione di domicilio presso il difensore di ufficio, anche in relazione all’art. 162, comma 4-bis; gli avvisi che vanno dati alla persona sottoposta alle indagini sugli oneri che gli competono nel rapporto con il difensore (157, comma 8-ter; 161, comma 1, seconda parte). In definitiva, il primo giudizio non può essere celebrato con un imputato che sia incolpevolmente inconsapevole e incolpevolmente ignori chi sia il suo difensore.
Quanto al tempo disponibile per procurarsi la dichiarazione o elezione di domicilio, in realtà la parte, conoscendo da subito il dispositivo, ha, cumulativamente, il tempo che il giudice ha indicato per il deposito della sentenza, il termine ordinario per impugnare (normalmente ormai attestantesi su quello massimo di quarantacinque giorni), gli ulteriori quindici giorni assegnati all’imputato rimasto assente (585, comma 1-bis; sul delicato ma interessante e attualissimo tema dell’effettiva instaurazione di un rapporto professionale imputato/difensore sia consentito un ulteriore rinvio) [[7]].
È stato anche affermato che il fatto che sia l’imputato a chiedere il giudizio di impugnazione non potrebbe comportare alcun suo onere aggiuntivo rispetto alla mera richiesta, rimanendo pur sempre lo Stato a procedere contro di lui e quindi a doverselo cercare e pertanto apparendo la pretesa dell’indicazione di domicilio effettivamente utile alla trattazione del giudizio di impugnazione sarebbe in qualche modo pretesa di una ‘collaborazione’ che non compete all’imputato.
In realtà, con riferimento ai principi costituzionali (che danno rilievo anche alla ragionevole durata, all’efficienza ed all’efficacia del giudizio) ed alla nozione di diritto di difesa nell’insegnamento della Corte costituzionale e nella giurisprudenza delle Corti europee, la ‘pretesa’ statale che chi chiede un ulteriore grado di giudizio indichi dove vuole essere avvisato francamente non appare tale da essere sussunta in uno stravolgimento inaccettabile del diritto di difesa. Anche perché altrimenti occorrerebbe una seria riflessione sulla permanenza di una disciplina processuale che consenta alla persona citata a giudizio di non presentarsi davanti al giudice, piuttosto che obbligarne la presenza in prima udienza per aver certezza della consapevole contezza dell’accusa ed anche per tutte le informazioni necessarie, come le discipline processuali di diversi Stati europei prevedono.
Un cenno incidentale finale pare doveroso. Sarebbe utile approfondire le ragioni per le quali anche con una norma dal testo preciso e chiaro come l’art. 581 comma 1-ter (“con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori è depositata, a pena di inammissibilità, la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio”: deposito l’atto di impugnazione e “con” quello anche la dichiarazione o elezione di domicilio), la contestualità dei due depositi (eventualmente con unico atto per l’appello) sia stata messa in discussione con alternative oltretutto numerose e tali da rendere necessario il rinvio del tema alle Sezioni unite (Quinta sezione penale, ord. 19/06/2024). Probabilmente sono maturi i tempi per una riflessione serena sul ruolo attuale della Corte di cassazione, sul metodo con cui perviene alla nomofilachia che le compete, sullo stesso metodo di lavoro delle diverse Sezioni, perché il contesto appare forse ancora in cerca di un nuovo efficace equilibrio dopo la ‘decapitazione’ collettiva indotta nella giurisdizione di legittimità dalla perversa sinergia tra la riduzione dell’età di servizio a 70 anni e la necessità dei quattro anni per la legittimazione all’incarico semidirettivo di presidente di sezione.
Sul punto, vedremo ad esempio se e come l’applicazione del principio del tempus regit actum avrà efficacia operativa non contrastata nel rispondere al quesito sugli effetti dell’abrogazione del comma 1-ter in relazione agli appelli in cui l’atto è stato depositato nella vigenza della norma.
3. Le curiose ricorrenza e sorte dello specifico mandato ad impugnare.
L’intervento sul comma 1-quater dell’art. 581 ha scelto la soluzione intermedia di un’abrogazione parziale [[8]].
3.1. Nei processi in cui l’imputato è stato processato in assenza, solo per il difensore di fiducia (tale al momento del deposito dell’atto di impugnazione) non è più necessario lo specifico mandato ad impugnare.
Tale obbligo permane nel caso di difensore di ufficio. Quindi il difensore di ufficio dell’assente non può proporre impugnazione senza uno specifico mandato ad impugnare dell’assistito, mandato che deve essere rilasciato dopo la pronuncia della sentenza (da intendersi, quando la motivazione non sia contestuale, come pubblicazione del dispositivo, posto che è quello l’atto che determina e circoscrive la ‘pronuncia’/deliberazione che la successiva motivazione può solo spiegare ma non modificare).
Ciò vale anche per il giudizio di legittimità (per tutte Sez.6 sent. 2323/2024).
Sul tema peculiare dell’esigenza del mandato speciale anche per il difensore nominato sostituto del titolare della difesa ex art. 97, comma 4, e da alcuna giurisprudenza considerato legittimato all’autonoma proposizione dell’impugnazione, sia consentito un rinvio [[9]].
Pure in questo caso l’intervento è stato atomistico e asistematico.
Il nostro codice di rito consentiva e consente già al difensore di munirsi di una procura speciale ad impugnare, che può essere rilasciato dall’imputato anche prima della deliberazione della sentenza che chiude il grado: lo prevede l’art. 571, comma 1. Tale procura speciale, però, trasferisce il diritto all’impugnazione che, per il solo giudizio di appello, l’imputato può esercitare personalmente, con la relativa legittimazione. Ciò comporta che il difensore che depositi l’atto di impugnazione in ragione di una procura speciale rilasciata ai sensi dell’art. 571 ‘consuma’ il diritto e la legittimazione personali dell’imputato, con la conseguenza che quell’imputato non potrà più proporre autonomamente impugnazione anche quando in ipotesi in concreto non a conoscenza della trattazione del giudizio di appello (in tal caso accedendo direttamente ai rimedi propri della fase esecutiva)
Con il mandato specifico ad impugnare, ex art. 581, comma 1-quater, il difensore acquisisce invece una propria legittimazione, autonoma e distinta da quella personale dell’imputato.
Lo scopo del mandato speciale è infatti quello di assicurare “che il giudizio di impugnazione (appello o legittimità) si svolga nei confronti di un ‘assente consapevole’, così da limitare lo spazio di applicazione della rescissione del giudicato e dei rimedi restitutori (per tutte, Sez.6, 2323/2924 cit.)” ovvero di perseguire il “legittimo scopo di far sì che le impugnazioni vengano celebrate solo quando si abbia effettiva contezza della conoscenza della sentenza emessa da parte dell'imputato, per evitare la pendenza di regiudicande nei confronti di imputati non consapevoli del processo, oltre che far sì che l'impugnazione sia espressione del personale interesse dell'imputato medesimo e non si traduca invece in una sorta di automatismo difensivo (Sent. 44630/2023 cit.)”.
La differenza tra diritti/poteri e legittimazioni ex artt. 571 e 581-quater evidenzia l’autonomia del tema della consapevolezza e della conoscenza del giudizio da parte dell’imputato rispetto al tema del diritto/potere di impugnare. Ed è proprio questa netta distinzione, che viene in considerazione anche per il tema della cd consumazione del potere di impugnazione (tema che ha presentato un peculiare ‘scontro’ tra Sezioni unite della Corte di cassazione e Corte costituzionale) [[10]].
Anche per quanto attiene al mandato specifico per impugnare paiono quindi essere prevalse generiche ragioni di fattibilità, se non comodità, tralasciando le originarie esigenze sistematiche che avevano determinato l’introduzione della norma. In tal modo si è però, quanto ai difensori di fiducia, riaperta la possibilità di giudizi di impugnazione che si celebrino in contesti di obiettiva inconsapevolezza della fissazione del giudizio da parte dell’assistito, con le conseguenti necessità di rinnovazione dei processi dei gradi di impugnazione a quel punto inutilmente trattati con dispersione delle già non adeguate risorse di uomini e mezzi messe a disposizione della Giustizia. L’esperienza quotidiana di udienza presenta invero più volte il caso del difensore formalmente di fiducia ma che ha interrotto i rapporti con l’assistito e, per ragioni deontologiche per esempio, non intende ‘abbandonarlo’ contando su un successivo contatto, ovvero che ritiene di interpretare le intenzioni dell’assistito momentaneamente non reperibile.
In proposito si è già accennato alla necessità, alla luce della nuova più stringente disciplina dell’assenza, di approfondire due temi in genere non adeguatamente trattati: quello della relazione ruolo processuale/ruolo professionale/deontologia sul punto specifico del rapporto giudice/difensore/nuovi presupposti dell’assenza/imputato e quello degli eventuali limiti della tutela (anche ‘europea’) dell’imputato consapevole ma non diligente per scelta o oggettivo disinteresse [[11]].
3.2. L’intervento parzialmente abrogativo determina una situazione che curiosamente ricorda in buona parte quanto già vissuto dalla nostra legislazione processuale penale, a proposito del rapporto “diritto di difesa e giudizio contumaciale”.
Come in altra sede ricordato, nel testo originario il codice Vassalli prevedeva già, e, per entrambe le tipologie di difesa (fiduciaria e d’ufficio), proprio lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale [così recitava l’art. 571, comma 3, seconda parte: “Tuttavia, contro una sentenza contumaciale, il difensore può proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato, rilasciato con la nomina o anche successivamente nelle forme per questa previste].
E’ significativo che, quindi, la necessità del mandato specifico per l’impugnazione del contumace (l’odierno assente, questi assai più garantito) è stata esigenza già sentita e condivisa fin dall’impostazione di quello che avrebbe dovuto essere il nuovo avanzato processo di parti, il genuino processo accusatorio: proprio anche nell’originaria impostazione teorico-sistematica si era pertanto considerato pienamente coerente ai principi del processo accusatorio l’onere, per l’imputato rimasto contumace per sua scelta, di dover conferire il mandato speciale per l’impugnazione che apriva un nuovo grado del giudizio su sua richiesta.
Altrettanto significativo è che nella relazione accompagnatoria la ragione dell’introduzione del mandato speciale ad impugnare, per l’impugnazione proposta in favore dell’imputato contumace, era stata indicata nell’intento di evitare effetti preclusivi in danno dell’imputato per la sua volontà di impugnare autonomamente la sentenza (Commento al nuovo codice di procedura penale, Utet, 1991, sub 571, p.46).
Orbene, la necessità del mandato speciale venne esclusa dopo dieci anni, dall’art. 49 della legge 479/1999. È interessante rilevare che la ragione addotta nei lavori parlamentari dalla Relazione non fu un ripensamento della correttezza sistematica dell’istituto ma, solo, di voler consentire la possibilità dell’impugnazione della sentenza contumaciale anche al difensore d’ufficio, oltre che al difensore di fiducia, operando la soppressione dell’ultima parte del comma 3 dell’articolo 571 del codice di procedura penale, in base alla quale il difensore può proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale solo se munito di apposito mandato.
Quindi, da un lato non venne affatto messa in discussione la coerenza sistematica del principio originario che il difensore di fiducia per impugnare le sentenze contumaciali dovesse munirsi di un mandato speciale ma, si deve evincere, si ritenne che ciò finisse per discriminare potenzialmente i difensori di ufficio, per i quali l’acquisizione di un mandato speciale, sia pure limitato alla legittimazione ad uno specifico atto di impugnazione altrimenti inibito (mandato che, pertanto, per sé non modificava la natura ufficiosa dell’assistenza legale limitandosi a legittimare il difensore al singolo atto procedimentale), appariva almeno potenzialmente difficoltosa.
Da qui però l’eliminazione dell’esigenza del mandato per tutti i difensori, anche nominati di fiducia, per i quali invece pur non si ritenevano sussistere particolari problemi e difficoltà.
Dal 1999 molto è in effetti cambiato in tema di difesa d’ufficio, in tema di assenza/contumacia e presupposti dell’applicazione dell’istituto, in tema di costruzione del rito di appello penale. Sicché anche le ragioni uniche indicate per l’abbandono del principio accusatorio originario della necessità del mandato speciale per chi era stato processato oggi avrebbero dovuto essere rivisitate e comunque corroborate da ben altri e certo meno generici argomenti a sostegno.
Ed invece il Legislatore elimina l’obbligo del mandato speciale per l’impugnazione dell’assente e lo fa solo per il difensore d’ufficio, con una scelta che ‘ribalta’ la lettura del 1999, è obiettivamente atomistica ignorando tutto il nuovo sistema che pur lui stesso ha costruito in tema di assenza e che, quanto specificamente al rito di appello ed ai suoi presupposti introduttivi, dal 01/07/2024 è finalmente il nuovo rito in vigore (per le impugnazioni proposte da tale data e con esaurimento di migliaia di procedimenti che gli inutili rinvii hanno consegnato al rito ‘emergenziale’: un’ ‘emergenza’ che durerà così, processualmente, dal novembre 2020 ad alcuni anni ancora).
Solo a un feroce nemico si potrebbe suggerire di scommettere contro un non remoto ulteriore intervento atomistico per riportare tutto a come era dopo la legge del 1999 (appunto però, in tutt’altro contesto normativo), ignorando le esigenze sistematiche che, esse solo in significativa sintonia con l’originario testo del codice Vassalli, hanno condotto all’introduzione del comma 1-quater nel testo ora modificato.
3.3. È opportuno evidenziare un ulteriore specifico punto problematico che la disattenzione del Legislatore atomistico avrebbe potuto agevolmente risolvere ed evitare.
Il comma 1-ter è stato abrogato.
Nel comma 1-quater l’unica modifica letterale introdotta è l’inserimento della locuzione “di ufficio” dopo la locuzione “del difensore”.
Peccato che in questo modo il testo del comma 1-quater reciti ora: “Nel caso di imputato nei cui confronti si è proceduto in assenza, con l’atto d’impugnazione del difensore di ufficio è depositato, a pena di inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.”
Il riferimento alla dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato era nel testo originario del comma 1-quater. Quindi, per sé l’abrogazione secca del comma 1-ter non ha immediata conseguenza, perché il comma 1-ter si riferiva a tutti gli appelli, di imputati presenti e assenti e di difensori di fiducia o di ufficio.
Nel momento in cui il Legislatore ha ‘salvato’ il comma 1-quater in questo modo chirurgico, disciplinando la sorte dell’imputato assente assistito da difensore di ufficio in modo autonomo, ha legittimato anche l’interpretazione per cui l’obbligo per l’imputato assente e assistito dal difensore di ufficio di accompagnare il mandato specifico concorre con quello di depositare anche la dichiarazione o elezione di domicilio.
L’interpretazione alternativa dovrebbe valorizzare il termine “contenente” come solo descrittivo dell’esigenza di dettare modalità specifiche di adempimento dell’obbligo imposto dal comma 1-ter(l’unico atto contenente anche il conferimento del mandato specifico, quindi un mero richiamo applicativo) e non un’autonoma imposizione dell’onere di indicazione del domicilio per la notificazione del decreto di citazione a giudizio. Ma la lettera della norma, quando per sé suscettibile di lettura conservativa, si emancipa dalle idee confuse dell’autore (art. 12, primo comma, prima parte, ‘preleggi’).
4. Addio all’appello del pubblico ministero avverso i proscioglimenti per i reati a citazione diretta (p.s.: e la parte civile?).
4.1 Il pubblico ministero non può più appellare le sentenze di proscioglimento per i reati per i quali, ai sensi dei primi due commi dell’art. 550, si procede con citazione diretta a giudizio. Intuitivo l’apparente ragionamento che associa una minor rilevanza sociale del disvalore dei reati alla loro assegnazione della competenza al tribunale in composizione monocratica. Tale associazione, in astratto approccio sistematico sicuramente ineccepibile, è dopo la robusta integrazione di competenza determinata dall’art. 32, comma 1, lett. a), d. lgs. N. 150/2022 probabilmente più discutibile.
Si tratta pertanto di una ulteriore contrazione della possibilità di impugnare le sentenze di primo grado da parte del pubblico ministero, che allo stato lascia il potere di impugnazione per i reati diversi da quelli di cui all’art. 550, primi due commi. Una contrazione che qualitativamente diviene molto significativa, in particolare rispetto alle precedenti che hanno influito prevalentemente sulla contestabilità della qualificazione giuridica e del trattamento sanzionatorio e quindi su una sentenza di condanna e del proscioglimento limitatamente a due tipologia di reati contravvenzionali.
È noto l’indirizzo della Corte costituzionale sul tema delle impugnazioni del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento: sentenze n. 26 del 06/02/2007 e 85 del 04/04/2008 [[12]].
Il fatto che l’abolizione per il pubblico ministero del potere di impugnare le sentenze di proscioglimento non sia ‘tombale’, residuando per i reati ‘più gravi’, tali individuati in relazione al rito, probabilmente rende manifestamente infondata ogni questione di legittimità costituzionale, specialmente se si valorizza l’associazione art. 550=reati meno gravi. Certo sul piano sistematico l’equilibrio sarebbe stato ben più consistente se il Legislatore non avesse già cominciato a intaccare gli oneri imposti alle appellanti parti private dal d. lgs. 150/2022 (che pur ha anche ulteriormente diminuito i poteri della parte pubblica: si pensi alla nuova disciplina dell’appello incidentale).
4.2.1 Il tema dell’impugnazione da parte del pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento dovrebbe meritare però un approccio più tecnico e meno ideologico o di strumentalizzazione politica (per tutelare questo o quell’imputato ‘eccellente’ per risolvere sue contingenze processuali). È stato tema spesso brandito con argomenti di pancia più suggestivi che convincenti da chi propugna l’esclusione totale del potere e da chi lo vorrebbe più ampio (anche tornando all’impugnabilità piena originaria, pure, ad esempio, dei vari punti della decisione afferenti il trattamento sanzionatorio).
In realtà si dovrebbe iniziare a ragionare consapevolmente sui limiti strettissimi che anche l’appello avverso le sentenze di proscioglimento oggi ammissibile trova in esito alla giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione sull’applicazione del parametro/criterio/norma dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio” alla fattispecie della prima condanna in appello.
In sintesi estrema, l’appello della parte pubblica non potrà mai essere accolto se l’esito argomentativo dell’impugnazione sia solo quello di una ricostruzione alternativa, pur logica e convincente, che tuttavia consenta ancora ad alcuno di seguire il ragionamento e l’apprezzamento di merito diversi del giudice di primo grado che ha assolto. La più grande differenza del passaggio assoluzione-condanna rispetto alla tipologia di “rafforzamento” della motivazione propria del passaggio condanna-assoluzione si manifesta nelle modalità dell’applicazione della regola dell’al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel secondo caso il giudice d’appello può limitarsi a spiegare la ritenuta sussistenza di un tal dubbio. Nel primo caso deve spiegare perché, dopo la propria argomentazione, la lettura probatoria del primo giudice non è più ragionevolmente sostenibile: deve cioè spiegare perché il fatto che il primo giudice abbia assolto non è idoneo a mantenere nel processo un ragionevole dubbio ex art. 533, comma 1; ciò specialmente quando, ed è il caso certo più impegnativo e delicato, il materiale probatorio oggetto della valutazione rimane il medesimo.
Per questo (ed è aspetto autonomo rispetto al tema che stiamo trattando ma assai pertinente ed è opportuno richiamarlo) il mancato confronto dell’appello del pubblico ministero con quel criterio che il giudice di appello dovrà applicare (appunto, l’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”) in realtà dovrebbe determinare già l’inammissibilità per aspecificità dell’impugnazione della parte pubblica. Per l’appello che chiede la prima affermazione di responsabilità nel procedimento, deve infatti ritenersi sussistere un terzo tipo di genericità/aspecificità, che si affianca all’aspecificità intrinseca ed estrinseca, proprie di ogni atto di appello, ma è da loro del tutto diverso: è l’aspecificità che deriva dal non aver affrontato e spiegato anche il punto dell’applicazione della regola dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”: in particolare il non aver spiegato quali sono i vizi intrinseci, di logicità o violazione di legge o scostamento da materiale probatorio determinante che, una volta indicati dall’appellante e condivisi dal giudice, impediscono a chiunque di ripercorre il percorso argomentativo della decisione del precedente grado di giudizio.
In altri termini, l’impugnazione di appello del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento deve evidenziare dei vizi (logici, normativi, oggettivi) condivisi i quali nessuno può ripetere il ragionamento argomentativo logico/probatorio del primo giudice del merito. Perché, appunto, se lo può ripetere abbiamo due alternative e non quella unica, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, e la prima decisione, di proscioglimento, deve essere confermata anche se ‘meno convincente’. Quindi, non sussisterebbe spazio per una seconda pronuncia di merito di prima condanna, basata su una ricostruzione più convincente ma senza che la mancanza di vizi strutturali oggettivi impedisca di mantenere la possibilità della ricostruzione diversa del primo giudice.
4.2.2. Occorre quindi riflettere se, con l’attuale consolidata giurisprudenza di legittimità, vero e proprio ‘diritto vivente’, non sia effettivamente il ricorso per cassazione il più idoneo ed efficace mezzo di impugnazione di una decisione ‘viziata’ in modo tale da non poter essere ‘riproposta’ (conclusione che priverebbe di effettivo interesse il tema del se sia indispensabile o meno attribuire, o lasciare, al pubblico ministero l’appello quale mezzo di impugnazione di merito e legittimità).
L’indagine sul parametro che il giudice deve utilizzare per applicare correttamente al caso del passaggio assoluzione/condanna la regola di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio ex art. 533, comma 1, presenta qualche sorpresa.
La massimazione delle sentenze della Corte di cassazione, e alcune delle motivazioni di queste, fanno riferimento ai concetti di “maggiore persuasività”, “forza persuasiva superiore”.
Ma l’analisi delle massime e il confronto con la motivazione cui quelle massime si riferiscono può essere caso di scuola di una reiterazione della massimazione che, in qualche modo, vive di vita propria: ciò accade quando il testo della sentenza massimata manifesta spunti diversi e addirittura non sussumibili in quella ‘stanca’ massima che si rigenera [[13]]. E, del resto, se ci si astrae un momento da questa reiterazione del richiamo alla “persuasività”, basta pensare che un ricorso che deducesse di motivazione “non persuasiva” sarebbe destinato all’inammissibilità: perché la persuasività è concetto di merito, non riconducibile ad alcuno dei tre tassativi vizi della lettera E dell’art. 606 e tantomeno riconducibile a un vizio di violazione di legge, anche processuale.
Deve quindi chiedersi come si possa allora utilizzare il concetto di “persuasività” – che è merito – per salvare o no la prima condanna in appello. In realtà la lettura delle sentenze così massimate mostra per lo più una casistica procedimentale che consente di pervenire ad un diverso, più chiaro e adeguato criterio, che è stato individuato nelle prospettazioni: “se il medesimo materiale probatorio è valutato in modo diverso da due differenti Giudici del merito e la motivazione di uno dei due non è viziata da mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà su aspetti determinanti, non è possibile affermare la colpevolezza dell'imputato”; ovvero: “l'insostenibilità oggettiva della prima decisione, per vizi intrinseci della motivazione o per mutamento del quadro probatorio, dopo la motivazione d'appello” [[14]].
Concludendo, se in definitiva la condanna in appello è consentita solo quando la motivazione del giudice di primo grado presenta vizi che, evidenziati, attestano l’impossibilità di poter ripercorrerne il percorso argomentativo pervenendo quindi a due ricostruzioni alternative, davvero occorre prender atto che il ricorso per cassazione potrebbe essere mezzo di impugnazione idoneo ed efficace per la tutela dell’aspettativa, certo socialmente apprezzabile, che una sentenza realmente ‘errata’ possa essere rivisitata con un secondo giudizio di merito che muova dall’eliminazione di quei vizi (impregiudicato l’esito del rinnovato apprezzamento di merito). E ciò per ragioni tecniche, che nulla hanno a che fare con approcci ideologici o politici strumentali.
4.3. E la parte civile? Può, invece, appellare le sentenze di proscioglimento anche per reati a citazione diretta?
L’intervento normativo riguarda palesemente solo l’art. 593. La disciplina dell’impugnazione della parte civile è disciplinata dall’art. 576, immodificato: recita tuttora che la parte civile può proporre impugnazione, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio e, quando ha consentito al giudizio abbreviato, contro la sentenza deliberata ai sensi dell’art. 442.
L’inappellabilità oggettiva, che come tale riguarda tutte le parti, private e pubblica, è solo per i casi tassativamente indicati nell’art. 593, comma 3; per il resto, l’imputato impugna nei casi previsti dal 593, comma 1, il pubblico ministero nei casi previsti dal 593, comma 2 (quello solo modificato), la parte civile nei casi previsti dal 576. Il legislatore con l’articolo 6 della legge n. 46/2006 ha abrogato il principio che la parte civile possa impugnare “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” (in allora contenuto nel primo comma dell’art. 576).
Appare assolutamente singolare, e purtroppo significativo, che reintervenendosi nella stessa direzione seguita dalla legge 46/2006, quanto ai limiti dell’appello del pubblico ministero, venga ripetuta la medesima confusione sulla posizione della parte civile che aveva imposto l’intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sent. 27214/2007, in particolare par. 5 del considerato in diritto). Ma lì si trattava di confermare la possibilità di appellare della dimenticata parte civile. Occorrerà verificare se quell’insegnamento possa essere utile per percorrere la via inversa: la ‘restrizione’ del potere di impugnazione della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento per reati a citazione diretta. Altrimenti si aprirà un autonomo e diverso profilo di possibile incostituzionalità: non già, per quanto detto, la limitazione ulteriore del potere del pubblico ministero, ma la disparità di trattamento tra il pubblico ministero che non può impugnare il proscioglimento nei reati a citazione diretta e la parte civile che può farlo. Il che, in un processo penale, è “un po’ forte”. A proposito di asistematicità…
[1] Dai resoconti parlamentari, risulta che nella seduta del 09/10/24 la sen. Gelmini proposte l’emendamento 2.73contenente la sola integrale abrogazione del comma 1-quater; nella seduta 10/01/2024 il Governo propose la riformulazione nel testo attuale, condiviso anche dall’originaria proponente; nella seduta 11/01/2024 l’emendamento venne approvato nel testo rimodulato come proposto dal Governo.
[2] Entrambe non avrebbero potuto essere introdotte con il cd decreto legislativo delegato correttivo (n. 31/2024), perché incoerenti alle previsioni della parte di delega contenuta nella legge n. 134/2024.
[3] Chiarendo subito che in realtà per il giudizio di legittimità la problematica rileva solo per il ricorso del difensore iscritto all’albo ma nominato di ufficio (unico caso in cui va dato avviso della fissazione dell’udienza anche all’imputato nel cui interesse è proposto il ricorso: 613, comma 4, in relazione all’art. 613, comma 2; conforme da ultimo Sez.6 sent. 2323/2024); per questo sul tema i riferimenti nel testo saranno prevalentemente al giudizio di appello. Per quanto riguarda lo specifico mandato ad impugnare ex art. 581, comma 1-quater, invece le posizioni sono analoghe nei due gradi di giudizio (per tutte, da ultimo Sez.6 sent. 2323/2024 cit.).
[4] Per le sentenze di annullamento con rinvio della Corte di cassazione è aperta la problematica dell’applicazione dell’art. 617, comma 2 (il deposito deve avvenire entro trenta giorni) ovvero dell’art. 544.
[5] Significativamente le Sezioni unite hanno confermato che per gli appelli depositati prima del 01/07/2024 il termine a comparire è di venti giorni: il passaggio è tra due sistemi, non è possibile un inconsapevole (non voluto, senza ratio) sistema intermedio con norme sparse che vivono di vite autonome incoerenti tra loro: informazione provvisoria 09/2024 del 27/06/2024.
[6] Sul singolare intreccio operato dal Legislatore tra ‘sospensione Orlando’ (legge n. 103/2017), improcedibilità abrogata (344-bis), ripristino dell’applicazione dell’istituto della prescrizione (normativa già approvata alla Camera), sia permesso rinviare a https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-penale/3085-avanti-tutta-a-marcia-indietro-la-ragionevole-durata-del-giudizio-penale-di-appello-prescrizione-improcedibilita-notifiche .
In proposito appare utile richiamare la nota inviata da tutti i presidenti delle Corti di appello al Ministro della giustizia e ai Presidenti delle Commissioni giustizia della Camera e del Senato per rappresentare la necessità che ogni eventuale nuova disciplina venga accompagnata da una specifica disciplina transitoria:
[7] In questa Rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-ter-e-1-quater-cod-proc-pen-di-carlo-citterio , in particolare i paragrafi 4 e 5.
https://www.sistemapenale.it/it/documenti/morte-prematura-dellimprocedibilita-e-ritorno-della-prescrizione-in-appello-le-preoccupazioni-dei-presidenti-delle-corti-dappello-in-una-lettera-al-ministro-della-giustizia-e-alle-commissioni-parlamentari
[8] Come sopra ricordato alla nota n.1 quanto al comma 1-quater l’iniziativa è del Governo.
[9] https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2603-gli-approfondimenti-sulla-riforma-cartabia-3-pensieri-sparsi-sul-nuovo-giudizio-penale-di-appello-ex-d-lgs-150-2022 paragrafo 3.1.2
[10] V. https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-ter-e-1-quater-cod-proc-pen-di-carlo-citterio par. 3.3.
[11] https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-ter-e-1-quater-cod-proc-pen-di-carlo-citterio, in particolare il paragrafo 4.
[12] Sent. 26/2007: È costituzionalmente illegittimo l'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova è decisiva. Il principio di parità tra accusa e difesa ex art. 111, secondo comma, Cost., non comporta necessariamente l'identità dei poteri processuali del pubblico ministero e del difensore dell'imputato, stanti le differenze fisiologiche fra le due parti: tali dissimmetrie sono, così, ammissibili anche con riferimento alla disciplina delle impugnazioni, ma debbono trovare adeguata giustificazione ed essere contenute nei limiti della ragionevolezza. A tali requisiti non risponde la norma contestata, che introduce una dissimmetria radicale, privando in toto il pubblico ministero del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo veda soccombente, con la conseguenza che una sola delle parti, e non l'altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della pronuncia a sé completamente sfavorevole. Tale sperequazione non è attenuata dal fatto che l'appello è ammesso nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive, trattandosi di ipotesi assolutamente eccezionali, né dall'ampliamento dei motivi di ricorso in Cassazione, perché tale rimedio non attinge alla pienezza del riesame del merito. La rimozione del potere di appello del pubblico ministero - generalizzata, perché estesa indistintamente a tutti i processi, e unilaterale, ossia senza contropartita in particolari modalità di svolgimento del processo - non trova giustificazione neppure alla luce delle rationes che, secondo i lavori parlamentari, sono alla base della riforma, ed altera il rapporto paritario tra le parti con modalità tali da determinare anche un'intrinseca incoerenza del sistema, poiché il potere di appello viene sottratto al pubblico ministero totalmente soccombente in primo grado ma mantenuto nel caso di soccombenza solo parziale. Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura.
Sent. 85/2008: È costituzionalmente illegittimo l'art. 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l'appello proposto dall'imputato, prima dell'entrata in vigore della legge, contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa sia dichiarato inammissibile. L'art. 1 della stessa legge, privando l'imputato del potere di appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova è decisiva, è lesivo del principio di parità delle parti, in quanto non sorretto da alcuna razionale giustificazione, correlata al ruolo istituzionale del pubblico ministero o ad esigenze di corretta amministrazione della giustizia, dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, stante l'equiparazione fra sentenze di proscioglimento dagli esiti ampiamente diversificati, e del diritto di difesa, cui la facoltà di appello dell'imputato è collegata come strumento di esercizio. Sulla base di tali valutazioni, deve correlativamente considerarsi costituzionalmente illegittimo in parte qua anche l'art. 10, comma 2, della medesima legge.
[13] Come esempio di sentenze massimate secondo il concetto della plausibilità maggiore quando invece argomentano espressamente (e solo) in realtà di vizi della prima sentenza assolutoria, ribaltata <<la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza di condanna nell'ambito di processo celebrato con il rito abbreviato, nella quale il verdetto di colpevolezza era fondato su puntuali rilievi di contraddittorietà della motivazione assolutoria, ai quali la Corte di appello era pervenuta sulla base dello stesso materiale istruttorio acquisito in primo grado, ma ampliando la piattaforma valutativa presa in esame dal giudice di prima cura >> (sent. 12273/14); <<la Corte ha annullato la sentenza di condanna del giudice di appello che aveva riformato una sentenza di assoluzione in ordine al delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso limitandosi a valutare diversamente i medesimi dati probatori esaminati in prime cure>> (sent. 45203/13); <<la Corte ha confermato la sentenza di condanna del giudice di appello che, riformando una sentenza di assoluzione di primo grado per il delitto di truffa per l'incertezza sulla sussistenza del dolo, aveva valorizzato circostanze di fatto già esistenti, ma pretermesse dal primo giudice, idonee a dimostrare con certezza il carattere doloso della condotta>> (sent. 11883/13).
[14] Sia consentito il richiamo a Cass. Sez. 6, sentenze 44767/2015 e 8705/2013 per una più accurata esposizione; alla sentenza 8705/2013 ed al suo principio di diritto espressamente si richiama ad esempio Sez.5, sent. 54300/2017, che purtuttavia viene massimata sulla maggiore plausibilità: ma ciò consente, quantomeno, di affermare che il concetto di “maggiore plausibilità” o “forza persuasiva superiore” in realtà si risolve in una maggior doverosa rispondenza all’effettivo materiale probatorio ed alla logica del ragionamento, trascurati dal primo giudice, da parte del giudice di appello. Del resto, già S.U. sent. 33748/2005 avevano chiarito che “In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.” Nient’affatto “persuasività maggiore”, quindi, ma indicazioni puntuali di specifiche “incompletezze o incoerenze”.
Significativa e concordante anche, tra tutte, Sez.6 sent. 10130/2015, così massimata: “il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza e non può, invece, limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza di condanna in appello, per il reato di omissione di atti d'ufficio, di un medico di turno nel servizio di guardia medica, in relazione al mancato espletamento di una visita domiciliare sollecitata telefonicamente, osservando che il giudice di secondo grado non solo non aveva indicato alcun elemento specifico pretermesso o non adeguatamente valutato in primo grado, ma neppure aveva disposto una perizia medico legale al fine di disporre elementi di valutazione aggiuntivi).
Foto: Underwood&Underwood, Traveling by the Underwood Travel System - Stereographs, Guide-Books Patent Map System, stereo foto albumina, New York, 1908, Chicago Art Institute, Gift of Harold Allen.
Foreigners Everywhere, Stranieri Ovunque è il titolo della sessantesima Esposizione Internazionale di Arte in corso quest’anno a Venezia dal 20 aprile.
La sede si attaglia al titolo.
A Venezia gli stranieri sono ovunque, da sempre, dal lontano passato in cui la popolazione originaria era costituita da profughi provenienti dai centri urbani romani alla Repubblica veneziana, fulcro di scambi e commerci internazionali.
Venezia è la città che da sempre ha espresso curiosità e amore per la conoscenza[1] gli stessi sentimenti che spinsero Marco Polo – di cui proprio del 2024 si celebrano i settecento anni della scomparsa – a visitare e incontrare culture percepite come lontane e minacciose, integrandosi lui, come straniero, in quelle terre, in virtù di uno scambio umano e alla pari. Erano i tempi in cui il mercato di Rialto risuonava di lingue, etnie fogge e vitalità; e tanti paesi avevano a Venezia i Fondaghi – dei Turchi, dei Siriani, dei Tedeschi – depositi della loro manifattura e del loro ingegno. Fino ad arrivare ai tempi odierni, in cui la popolazione stanziale che conta meno di 50 mila unità, raggiunge, in certi periodi sempre più frequenti, picchi di 165 mila presenze di turisti anche in un solo giorno.
E dunque la città che per prima ideò, ben 129 anni fa, la prima Biennale, rinnova con i suoi padiglioni Nazionali, con le opere e i visitatori che vengono da tutto il mondo, questo suo destino di multiculturalismo che già mille anni fa le consentì, unica tra le città europee, di avere anche un nome arabo, Bunduqiyyah, diverso, meticcio, mescolanza di genti straniere.
A fronte delle migliaia di turisti che vivono Venezia, però, la Mostra celebra altri “stranieri”, meno privilegiati, più tormentati, ai margini, ciascuno a proprio modo, e, partendo dai criteri di identità, origine e migrazione, individua, fin dal titolo, tipologie di stranieri e di migranti che hanno arricchito la cultura del nostro tempo.
Il titolo è ripreso da una serie di lavori realizzati a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine nato a Parigi e ora con sede a Palermo. Le opere consistono in sculture al neon di diversi colori che riportano in un gran numero di lingue le parole Stranieri Ovunque, espressione a sua volta ripresa dal nome di un collettivo torinese che nei primi anni 2000 combatteva il razzismo e la xenofobia in Italia.
Foreigners everywhere, secondo la presentazione del suo direttore artistico Adriano Pedrosa ha vari significati: il primo è che ovunque si vada si incontrano sempre stranieri; inoltre che, a prescindere dalla propria ubicazione sulla terra, nel profondo si è sempre stranieri anche nel proprio mondo; infine esprime la consapevolezza, cruciale per l’Europa e per il Mediterraneo, che il numero dei migranti forzati non solo è all’apice[2] ma è destinato a crescere, cosicché occorre accettare l’idea che gli stranieri sono ovunque e che dobbiamo fare i conti in maniera umana, non rassegnata ma fattiva, con le nostre paure.
Straniero, in tutte le lingue, è etimologicamente collegato al concetto di “strano” e questo è il filo conduttore dell’Esposizione: l’artista da sempre viaggia e si sposta tra città, Paesi e continenti e dunque per sua natura si ribella alle restrizioni, oggi sempre crescenti, della dislocazione o dello spostamento degli individui.
L’artista è “strano”, perturbante, molto spesso perseguitato e messo al bando soprattutto perché talora narra scomode storie di sopraffazione e negazione contro cui combatte con lo strumenti dell’arte.
Così l’artista queer che si muove all’interno di diverse sessualità e generi ed è rifiutato perché sfugge all’idea di normalità; o l’artista outsider che si trova ai margini del mondo dell’arte, non apprezzato, non riconosciuto, spesso autodidatta e spesso costretto, in applicazione del principio nemo propheta in patria (così la bella installazione nazionale del Camerun) a tenersi lontano dal proprio mondo, a migrare per cercare spazio e ciò nonostante spesso compreso solo dopo la scomparsa.
O l’artista folk o popular molto rappresentato in questa Esposizione, a cominciare già dalla facciata d’ingresso della Biennale ai Giardini. Per la prima volta un collettivo di artisti indigeni dell’Amazzonia, il Mahku - Movimento degli artisti Huni-Kuin-, si prende la scena con un intervento monumentale sulla Facciata del Padiglione Centrale, con ben 700 mq di visioni sacre e racconti rituali. E a proseguire con le tante esposizioni dei bellissimi Arjilleristas cileni, opere artigianali costituite da manufatti tessili realizzati durante la dittatura di Pinochet (1973-1990) che con la tintura e la cucitura di immagini raccontano le lotte popolari per il cambiamento sociale e politico per il Paese.
O, infine, gli artisti indigeni, popoli primari originari di tante nazioni, spesso rifiutati e trattati come stranieri nella propria stessa loro terra di appartenenza.
Le produzioni di queste tipologie di artisti, sparse tra i Giardini e l’Arsenale, tra i Padiglioni Centrali e i Padiglioni Nazionali dell’uno e dell’altro sono il filo conduttore della Mostra e rappresentano l’idea e il complesso lavoro svolto dai curatori che hanno operato la scelta difficile di coniugare il messaggio all’opera che lo esprime. Una scelta che viene rimandata al visitatore che la farà secondo criteri propri (la bellezza dell’opera, il significato dato dall’autore o la lettura personale del messaggio fatta da chi guarda), troppo personali per essere condivisi da tutti, critici, appassionati di arte contemporanea, curiosi e visitatori casuali. Alla Biennale, ritengo più che in ogni altra esposizione, queste tipologie sono tutte rappresentate in modo forte e vivace; in particolare, oltre a critici e appassionati, tipologie d’ordinanza in ogni mostra, ci sono i curiosi – perché la Biennale è strana e desta curiosità per questa sua stranezza – e ci sono tanti visitatori casuali, attratti dalla bellezza dei luoghi dell’esposizione, dai profumi del verde dei giardini e dalle strutture monumentali del vecchio arsenale, ancora più belli perché arredati dalle luci e dai colori delle – inconsuete – opere esposte e dalle presenze umane, artisti, performers e anche semplici visitatori, altrettanto inconsueti.
Non sono un critico, sono forse un’appassionata di arte contemporanea, certamente sono una curiosa. E da tanti anni non mi faccio mai mancare una visita alla Biennale. In questa veste di curiosa propongo la mia scelta, del tutto personale, di alcune delle installazioni che più di altre mi hanno colpito, nel bene e anche nel male, in relazione ai temi trattati.
Le migrazioni. The Mapping Journey Project di Bouchra Khalili (Marocco) è stato elaborato nel corso di 3 anni attraverso le rotte migratorie mediterranee del Medio Oriente e dell’Asia meridionale raccogliendo le storie dei migranti che ha incontrato nelle stazioni ferroviarie locali e in altri spazi pubblici. Le 8 installazioni video di grandi dimensioni di cui è costituita l’opera riempiono l’enorme spazio di una delle sale centrali dell’Arsenale e documentano le storie dei migranti raccontate attraverso la loro stessa mano che, con una immaginaria matita luminosa, tracciano sulle mappe il loro viaggio tra mare e terra e lo raccontano, ciascuno con la propria voce: donne, uomini, giovani e vecchi che raccontano un cammino arduo e faticoso, estenuante fino al punto che talora qualcuno decide di tornare indietro, quando la realtà da cui è fuggito lo consente; percorsi di vita e spirituali che alla fine l’artista incrocia con le costellazioni celesti, a ricordare che sono sempre state le stelle, fin dai tempi antichi, a guidare i viaggi di ogni tipo di migrante.
L’esilio. Exile Is An Hard Job è il titolo di un’opera del poeta turco Nazim Hikmet che è riprodotto a caratteri cubitali di colore rosso, come fosse uno slogan politico, sull’installazione di Nil Yalter[3] dal titolo omonimo. L’opera riproduce una grandissima tenda della comunità nomade Bektik dell’Anatolia centrale, interamente tappezzata da video e fly poster che documentano la vita e le esperienze di immigrati ed esiliati, soprattutto di donne che con i loro volti, precocemente invecchiati, dimostrano appunto che l’esilio è un duro lavoro.
La migrante russa e la migrante ucraina. Nel suo padiglione nazionale l’Austria ha proposto il lavoro dell’artista concettuale Anna Jermolaewa, nata in Unione Sovietica ed esiliata in Austria, realizzata in collaborazione con la coreografa ucraina Oksana Serheieva. Nell’opera “In Rehearsal for Swan Lake”[4] si fa riferimento ad un ricordo legato all’adolescenza trascorsa in URSS quando, in tempi di disordini politici causati da un cambio della guardia al potere, ad esempio la morte di un capo di Stato, la televisione sovietica sostituiva le trasmissioni previste nel palinsesto con il Lago dei Cigni di Čajkovskij, mandato a ciclo continuo per giorni e giorni: cosicché nella memoria culturale collettiva sovietica il famoso belletto divenne il codice per un cambio di potere. Le due artiste quindi trasformano il balletto da strumento di svago e al tempo stesso di censura in una forma di protesta e di speranza per il futuro: le ballerine raffigurate nell’opera fanno le prove del balletto per il cambio di regime in Russia[5].
Gli artisti indigeni. Molti stati (USA, Canada, Australia, Brasile tanto per citarne alcuni) hanno molto da farsi perdonare dai loro popoli indigeni. E così ecco le opere di artisti di origine Navajo, dell’Amazzonia brasiliana e peruviana, e di aborigeni australiani.
L’Australia, in particolare, con l’opera Kith and Kin[6] (dell’artista di origini aborigene Archie Moore, ha vinto il Leone d’Oro di questa edizione, premio che la giuria internazionale assegna al Padiglione Nazionale più rappresentativo della Mostra. Un’opera in cui la grandezza espositiva, di grandissimo impatto, si coniuga al messaggio di denuncia e alla ricerca immane che c’è dietro. Le pareti del Padiglione australiano sono interamente ricoperte da lavagne di grafite nera e costituiscono un vasto murale dove l’artista ha riportato, in maniera certosina, con gesso bianco, i nomi di tutte le famiglie indigene che dai suoi studi e dalle ricerche storiche condotte presso archivi e musei, costituivano i nuclei delle famiglie aborigene australiane, segnando con un tratto di gesso i legami tra di loro, a dimostrare come fossero tutte collegate a costituire un’unica comunità familiare e sociale (Kith and Kin, appunto). Man mano che la mappa temporale scorre verso il basso i legami si assottigliano e il disegno mostra caselle vuote che segnalano l’estinzione della famiglia dovuta a invasioni coloniali, massacri, malattie, esodi ma anche alle carcerazioni di stato che hanno decimato gli indigeni, buttati in prigione perché indigeni. Al centro della sala un enorme tavolo bianco dove sono poste le pile, anch’esse bianche, dei documenti trovati dall’artista e che raccontano, attraverso i reperti dei medici legali, l’orrore delle deportazioni, delle uccisioni anche di donne e bambini e delle carcerazioni di stato verso gli aborigeni. Il grande tavolo è circondato di un apparente quadrato di marmo nero che in realtà è acqua buia nera e profonda a simboleggiare l’orrore ulteriore dell’oblio.
Gli artisti populisti. Già in altre edizioni la Biennale aveva esposte molte produzioni tessili, a simboleggiare il rinnovato interesse dell’Arte per questa forma artistica considerata di serie B, realizzata da artisti populisti, spesso autodidatti e addirittura sconosciuti. In questa edizione, oltre alle Arpilleristas di ignote artiste cilene (di cui si è detto), l’artista palestinese-saudita Dana Awartaniespone un rammendo su tela tinta con erbe e spezie, di grandissimo impatto visivo, dal titolo “Come, Let Me Heal Your Wounds, Let Me Mend Your Broken Bones[7]”. Nella presentazione dell’opera che affianca l’opera stessa è scritto che si tratta di un requiem dedicato ai siti storici e culturali distrutti dal terrorismo e dalle guerre e in particolare alla devastazione di Gaza e dei siti indiscriminatamente rasi al suolo da bombardamenti e bulldozer. L’artista crea dei buchi sui metri e metri di seta che compongono l’opera e che riempiono tutto l’ambiente, dove ogni stappo segna un sito. Poi rammenda ogni squarcio utilizzando una tecnica ormai quasi scomparsa, come una promessa di cura e di medicamento, come le erbe medicamentali della tradizione popolare locale con cui il tessuto viene tinto con colori allegri e forti.
Gli artisti outsider sono quelli fuori dagli schemi, quelli che stanno al di fuori della stessa arte, uomini e donne imprigionati da una vita che per qualche ragione li rende schiavi (detenuti, persone rinchiuse in ospedali psichiatrici, comunque emarginati) che hanno trovato nell’arte la loro via di fuga. La Biennale di quest’anno espone, tra gli altri artisti outsider, l’opera di Aloise Corbaz, che ha trascorso la vita confinata in un ospedale psichiatrico svizzero, la cui arte si ritiene una presenza chiave nell’opera di Dubuffet e forse fondante nella creazione della cosiddetta Art Brut in cui la follia è alla base della creatività. “Cloisonné de théâtre”[8] costituita di grandi pannelli uniti tra di loro e dipinti con materiali improbabili quali dentifricio, filo, estratti vegetali oltre che pastelli colorati, rappresenta figure di donne, circondate da bellissimi colori, che si abbracciano e testimoniano il desiderio dell’artista di uscire dalla buia realtà che la circonda.
Gli artisti queer. Puppies Puppies un’icona dell’arte queer ha presentato alla Biennale, tra le altre opere, Woman, una scultura di bronzo a grandezza naturale realizzata a partire da una scansione in 3D del suo corpo. Un bellissimo corpo di donna con attributi maschili, posta al centro di uno spazio verde, che si impone allo sguardo del visitatore a testimoniare un tributo a coloro che normalmente sono invisibili.
Le donne. Emarginate e considerate “strane” ogni qualvolta hanno tentato di non esserlo, le donne che hanno esposto alla Biennale di quest’anno sono veramente tantissime. E tanti gli artisti uomini che hanno raccontato le donne. Gli uni e gli altri hanno raccontato storie di pregiudizi e stereotipi (così “Le fanciulle laboriose” di Giulia Andreani, bambine che cuciono, a testa bassa ad esprimere la loro rassegnazione); o di combattiva violazione degli stessi stereotipi (così “Falce, Martello e Cartuccera” di Tina Modotti, operaia, migrante e esule, espulsa dal Messico nel 1930 per la sua attività di dissidente); o, anche, di liberazione sessuale, come rappresentato dalle belle opere pittoriche esposte dall’Albania, dove i corpi nudi di donne, talora in pose imbarazzanti, narrano della necessità di uscire dallo stereotipo della sessualità femminile limitata, perché anche per le donne “l’amore è come bere un bicchier d’acqua”. (“Love As A Glass Of Water” - Iva Lulashi); o ancora di speranza del cambiamento come nell’esposizione dell’Arabia Saudita in cui una imponente installazione scultorea costituita da un’immensa rosa del deserto fatta di seta stampata reca, serigrafate, frasi fatte e opinioni mediatiche stereotipate verso le donne saudite; entrando all’interno, però, si è raggiunti dalle voci di centinaia di donne che inneggiano al cambiamento e alla necessità di scrivere un nuovo capitolo della storia femminile nel Paese. (Shifting Sands: a Battle Song[9] - Manal AlDowayan).
Iran[10] e Iraq[11], invece, ripropongono le donne madri, con opere che le rappresentano come fonti della razza umana e come specchio della cultura del popolo e come simbolo della tradizione su cui è fondata la nazione. Nulla di nuovo sotto il sole.
L’Italia. Oltre al Padiglione italiano, alla fine del lungo corridoio delle Esposizioni Nazionali ai Giardini, che è un appuntamento immancabile per tutti gli italiani, la Mostra ha dedicato un’intera sezione - dal titolo Italiani Ovunque - alla diaspora degli artisti italiani. Tra gli altri, interessante l’opera di Alfredo Volpi, figlio di immigrati italiani a Brasilia, che, impressionato dagli affreschi di Giotto, sperimenta una pittura a base di albume di uovo, mescolando elementi dell’astrattismo con le tecniche della pittura brasiliana concretista[12].
La Santa Sede È un’esperienza a sé e persino definirla un Padiglione è riduttivo. La partecipazione della santa Sede a questa Biennale, inaugurata da Papa Francesco pochi giorni fa, il 28 aprile, è lontana da tutti gli schemi espositivi consueti, sia per la sede sia per l’esperienza che offre, altrettanto lontana dal consueto. La sede è la casa di reclusione femminile dell’isola della Giudecca. Accedere non è facile, l’entrata è consentita solo in alcuni giorni e solo a 50 visitatori, suddivisi in due gruppi, previamente accreditati su un apposito sito. Il titolo, “Con i miei occhi” riprende il frammento di una poesia elisabettiana e la unisce ad un versetto del Libro di Giobbe: «Non ti amo con i miei occhi… ma i miei occhi ti hanno veduto». E fa dello sguardo lo strumento per toccare e per abbracciare con l’occhio. Il progetto si articola in una grande scultura esterna, posta sulla facciata della Cappella del carcere: due enormi piedi uniti, piedi di “povero e di emarginato”, perché, com’è scritto, “i piedi, insieme al cuore, portano il peso della vita”. Il percorso prosegue all’interno del carcere dove sono esposte sia opere di artisti professionisti sia opere realizzate dalle stesse detenute (circa 80) che, in veste di guida e di attrici, accompagnano i visitatori negli spazi espositivi che non sono altro che i luoghi in cui si svolge la vita del carcere: la caffetteria, la lavanderia, l’orto, la sala colloqui. Durante il percorso le detenute si raccontano, attraverso le opere esposte, riconquistando una visibilità e una possibilità di esprimersi che l’esperienza del carcere nega e che l’esperienza dell’arte consente. Così il titolo si svela perché la vista e la percezione consentono a due mondi estranei e paralleli, quello del carcere e quello di fuori, di incontrarsi e di dialogare.
Un’ultima curiosità Alla Biennale di Venezia resta chiuso, per protesta, il padiglione di Israele, un gesto forte di artisti e curatori, già messo in atto per la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, per chiedere il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi.
Conclusione. I titoli della Biennale – e i temi trattati - sono importanti e vanno tenuti nella debita considerazione perché, secondo me, è come se, attraverso l’intitolazione della Mostra e i temi prescelti, si fiutassero accadimenti che erano già nelle cose, anche se ancora ben chiari e che poi fatalmente si verificano come onde di rinnovamento e cambiamento. Sembra quasi che titoli e temi preconizzino inarrestabili movimenti dell’umanità. Così fu con “All The World’s Futures”, che immaginò l’esistenza di mondi diversi, con maggiore attenzione a questioni quali il clima e la parità di genere, poi diventati temi di fondo della cultura mondiale. O con il “Latte dei Sogni” che, dedicando l’esposizione alle favole dei bambini e all’esoterismo, ha rivendicato la necessità per l’umanità di tornare ad essere soggetti spirituali, che lottano per realizzare i loro sogni senza farsi restringere in una realtà solo consumistica. L’esempio più straordinario di questo potere dei titoli è stato senz’altro quello della Biennale del 2019 “May You Have Interesting Times”, l’augurio di avere tempi interessanti, e cioè pieni di nuovi e fondanti interessi che ci risollevassero dal considerare la vita solo alla luce del futile e del consumo. Purtroppo, alla luce degli eventi successivi, fu letto come la traduzione di un antico proverbio cinese per il quale i tempi interessanti sono quelli duri e difficili da superare. Insomma come una sorta di maledizione come fu il Covid e il ritorno delle sciagure portate dalle guerre che sopraggiunsero. E certo sono stati e sono tutt’ora tempi duri ma anche interessanti, se è vero che hanno imposto a tutti una nuova e più profonda riflessione sulla fragilità delle nostre sicurezze e sull’incertezza che governa le nostre esistenze. E dunque, volendo dare un senso al titolo di quest’anno, potremmo dire che i temi della Biennale 2024 ci dicono che ci sono, da sempre nella storia, eventi globali rispetto ai quali barricarsi nella piccola stanza del nostro piccolo mondo dal quale escludere, con le nostre paure, chiunque immaginiamo sia “Strano” o “Straniero” non serve a nulla. Semplicemente perché non è possibile.
[1] Così Pietrangelo Buttafuoco, Presidente della Biennale, nella sua presentazione della Mostra.
[2] Nel 2022 l’Alto Commissariato per i Rifugiati conta 104,4 milioni di migranti, aumentati di quasi il 30% nel 2023 e destinati ad aumentare ulteriormente.
[3] Nil Yalter è un’artista turca nata al Cairo che nel 1965 si trasferisce a Parigi. È universalmente considerata una pioniera del movimento artistico femminista globale. Pur non avendo mai ricevuto un’istruzione formale nelle arti visive, ha prodotte opere innovative nel campo della pittura, del disegno, della scultura e delle video installazioni. Alla Biennale del 2024 ha presentato, oltre ad una riedizione della sua opera Topak EV, realizzata nel 1973 e dove già affrontava il tema delle migrazioni, l’opera Exile is a Hard Job, installata nella sala di apertura del Padiglione Centrale, ai Giardini. Le è stato conferito il Leone d’Oro alla carriera come riconoscimento del suo significativo contributo all’intersezione tra arti visive e migrazione.
[4] Prove del Lago dei Cigni.
[5] La Russia non è presente alla Biennale.
[6] Amici e parenti, ascendenti, discendenti e la comunità che li circonda, persone con legami.
[7] Vieni, lasciami guarire le tue ferite, lasciami riparare le tue ossa rotte.
[8] Letteralmente parete divisoria, tramezzo di un teatro. Potrebbe anche essere un richiamo alla tecnica cloisonné, tecnica della decorazione con fili, sottili nastri d’oro, argento o rame racchiusi in compartimenti (cloisons) da riempire dando l’effetto smalto.
[9] Sabbie che si smuovono: un canto di battaglia.
[10] L’Iran ha presentato l’opera, di artisti vari, dal titolo “Of One Essence Is The Human Race”: la razza umana è unitaria poiché fatta di un’unica essenza.
[11] Lorna Selim: il quadro, dal titolo “Unknown”, raffigura una madre con il figlio sulle spalle ed accanto la figlia, emblema della famiglia contadina irachena.
[12] Alfredo Volpi. L’opera esposta, “Fachada Marron” è realizzata con la tecnica delle Bandeirnhas, elemento tratto dalla tradizione popolare brasiliana, con bandierine collocate a ridosso della facciata di un edificio.
Immagine: Claire Fontaine, Stranieri ovunque, 2012.
Sull’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale in materia di ricognizione delle Amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT (nota a Corte dei conti, sez. riunite, 19 ottobre 2023, n.17).
di Stefania Florian
Sommario: 1. Il problema della limitazione della giurisdizione esclusiva delle Sezioni riunite della Corte dei conti, ad opera dell’art. 23 quater d.l. 137/2020, in materia di ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT. I contrapposti orientamenti sulla configurabilità di una doppia giurisdizione speciale prospettati dalla sentenza in commento. 2. Inquadramento della sentenza della Corte dei conti, 19 ottobre 2023, n. 17 rispetto alla sentenza della CGUE, Sez. I, 13 luglio 2023, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathon. 3. Brevi considerazioni sull’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale. 4. Conclusioni.
1. Il problema della limitazione della giurisdizione esclusiva delle Sezioni riunite della Corte dei conti, ad opera dell’art. 23 quater d.l. 137/2020, in materia di ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT. I contrapposti orientamenti sulla configurabilità di una doppia giurisdizione speciale prospettati dalla sentenza in commento.
La fattispecie oggetto di indagine concerne le modifiche apportate dall’art. 23 quater del d. l. 28 ottobre 2020, n. 137 (inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176) all’art. 11, co. 6, lett. b) c.g.c, che limitano la giurisdizione esclusiva in unico grado delle Sezioni riunite della Corte dei conti sui giudizi in materia di ricognizione delle Amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT ai soli fini dell’applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica. Sul problema dell’interpretazione del citato art. 23 quater e del connesso art. 11, co. 6 c.g.c., così come modificato nel 2020, si è pronunciata non definitivamente, con sentenza del 19 ottobre 2023, n. 17, la Corte dei Conti, a Sezioni riunite, in sede giurisdizionale, in un giudizio che vedeva la Società Autostrade del Brennero S.p.a. come parte ricorrente, che, essendo inserita come Amministrazione pubblica nell’elenco del conto economico consolidato delle Amministrazioni pubbliche per l’anno 2023 e concorrendo, perciò, alla determinazione dei saldi di finanza pubblica, sarebbe sottoposta alla «disciplina nazionale sul contenimento della spesa pubblica» ai sensi dell’art. 11 del c.g.c. La ricorrente, perciò, contestando il proprio inserimento in suddetto elenco in forza dell’assenza dei presupposti per l’iscrizione, chiedeva l’accertamento e la declaratoria della non applicazione nei suoi confronti della disciplina di cui all’art. 11 del d. lgs. 26 agosto 2016, n. 174 e s. m.; l’accertamento e la declaratoria dell’insussistenza dei presupposti per la sua qualificazione come «amministrazione pubblica» in violazione dell’art. 1, co. 3, della l. 31 dicembre 2009, n. 196 e s.m. e della disciplina europea contenuta nel SEC 2010; nonché l’annullamento, previa sospensione degli effetti, dell’elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato, pubblicato nella G.U. – Serie generale n. 229 del 30 settembre 2022, nella parte in cui l’Istituto Nazionale di Statistica ha inserito, tra le «Altre amministrazioni locali», la Società Autostrada del Brennero S.p.a. per l’anno 2023 e di ogni altro atto connesso, presupposto e conseguente[1].
La Corte dei conti, a Sezioni riunite in sede giurisdizionale, nel dispositivo, ritenendosi giurisdizionalmente competente, si pronuncia non definitivamente disapplicando l’art. 23 quater – recepito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176 – poiché tale disposizione, precludendo non solo una decisione con effetti erga omnes come l’annullamento o la disapplicazione, ma anche una sentenza meramente dichiarativa dell’insussistenza dei presupposti per la qualificazione della ricorrente come Amministrazione pubblica ai sensi dell’art.1, co. 3, della l. 31 dicembre 2009, n. 196 (legge di contabilità e finanza pubblica) e del regolamento UE 594/2013, non garantirebbe il principio di effettività della tutela giurisdizionale e dell’effetto utile e dispone, conseguentemente, la propria cognizione su tutte le domande proposte rinviando, con separata ordinanza, gli incombenti istruttori ai sensi degli artt. 94 e 96 c.g.c. e la fissazione dell’udienza.
La pronuncia della Corte dei conti troverebbe fondamento nel rilievo per cui l’art. 23 quater in esame si porrebbe in contrasto sia con il diritto comunitario, sotto il profilo della violazione del «diritto al ricorso» di cui all’art. 47 CDFUE e del combinato disposto di cui agli artt. 52, par. 3 CDFUE e 6 CEDU, sia con la Costituzione, per la violazione degli artt. 3, 24, 97, 103, 111, 113 Cost. L’impedimento arrecato dalla disposizione in esame all’attuazione del principio dell’effetto utile dei regolamenti e della direttiva 85/2011/Ue, nonché del principio di effettività della tutela giurisdizionale imposto sia dalla Costituzione, sia dal diritto dell’Unione[2], avrebbe condotto, perciò, la Corte dei conti a disapplicare l’art. 23quater in esame. Questo impedimento all’attuazione dei principi comunitari sembra determinato dall’adesione alla tesi dell’impossibilità di configurare una doppia giurisdizione speciale, che potrebbe ipotizzarsi nel caso in cui si escludessero dalla cognizione giurisdizionale della Corte dei conti i giudizi aventi ad oggetto una normativa diversa da quella nazionale sul contenimento della spesa pubblica. Sul punto la sentenza in commento evidenzia le contrapposte posizioni assunte dalla parte ricorrente e dalla parte resistente. L’Avvocatura dello Stato, da un lato, ravvisa nel limite introdotto dall’art. 23quater, relativo alla cognizione della Corte dei conti, uno spazio per la tutela di quelle situazioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto comunitario da parte del giudice amministrativo[3], evidenziando come il citato articolo, se fosse interpretato nel senso di circoscrivere la possibilità di proporre ricorso alla Corte dei conti contro l’elenco ISTAT nel solo caso di applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non sarebbe incompatibile con il diritto dell’Unione (in particolare, con il regolamento n. 549/2013 e con i principi di effettività e di equivalenza) perché sarebbe comunque garantita agli enti interessati una tutela giurisdizionale effettiva.
Di contro, la ricorrente ritiene non configurabile una doppia giurisdizione speciale, perché in contrasto, da un lato, con il principio di «tassatività» sancito dagli artt. 25 e 111, co. 1 Cost. e, dall’altro, con gli artt. 103, co. 2, e 100 Cost., che individuano la Corte dei conti come il giudice competente in materia, rispettivamente, di contabilità pubblica e di controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato, nonché sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria[4]. La tesi che si oppone alla configurabilità di una doppia giurisdizione speciale, perciò, esclude qualsiasi deroga alla designazione del giudice contabile come giudice competente in materia di corretta determinazione dei saldi di bilancio [5].
La Corte dei conti, oltre a condividere le ragioni della parte ricorrente, a conforto della scelta di procedere alla disapplicazione evidenzia il carattere self executing del regolamento n. 549/2013 (il cui allegato A è noto come SEC 2010) – parte di un sistema normativo comprensivo della direttiva n. 85/2011/Ue e del regolamento 471/2013/Ue – che rimetterebbe allo stesso giudice a quo la verifica del superamento del limite del principio di autosufficienza del ricorso, che sarebbe configurabile nel caso in cui il ricorrente fosse costretto a proporre più di un ricorso per l’esame della propria domanda. A questo riguardo, la sentenza in commento riporta un rilievo della Corte costituzionale che, nella sentenza dell’11 marzo 2022, n. 67, osserva che «in caso di doppia pregiudizialità, ove, per effetto di una sentenza della Corte di giustizia, vi sia certezza dell’esistenza di un diritto Ue direttamente applicabile, è onere del giudice a quo riscontrare, a pena di inammissibilità, la possibilità di una interpretazione conforme al diritto europeo (cfr. ex plurimis, C. cost. sentt. n. 7 e n. 166/2004, n. 406/2005, n. 129/2006) ovvero la sussistenza dei presupposti per la «non applicazione» della disciplina interna (C. cost. sent. n. 170/1984)»[6], che imporrebbe, perciò, la disapplicazione[7]. Nella fattispecie in esame, pertanto, il giudice adito, esclusa l’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale e rilevata l’incompatibilità del sistema giurisdizionale interno con quello comunitario, disapplica l’art. 23 quater del d.l. 137/2020[8].
2. Inquadramento della sentenza della Corte dei conti, 19 ottobre 2023, n. 17 rispetto alla sentenza della CGUE, Sez. I, 13 luglio 2023, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathon.
La Corte dei conti, nella sentenza in commento, nel porre a fondamento della pronuncia con la quale disapplica l’art. 23 quater in esame il principio di effettività della tutela giurisdizionale imposto dal diritto dell’Unione[9], richiama la sentenza della CGUE, Sez. I, del 13 luglio 2023, Cause riunite C-363/21 e C-364/21, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathlon[10], che affronta alcune questioni utili all’inquadramento della fattispecie in esame.
Anche le richiamate cause riunite – in cui si contrappongono, rispettivamente, Ferrovie nord S.p.a. e la Federazione italiana Thriathlon (FITRI) all’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) in merito all’iscrizione di Ferrovie nord e della FITRI nell’elenco delle Amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato delle autorità pubbliche – affrontano il problema dell’interpretazione dell’art. 11, co. 6 c.g.c., così come modificato dall’art. 23 quater d. l. 137/2020 c.g.c. e, a fronte delle contrapposte posizioni assunte dalle parti ricorrenti e dalle resistenti principali sull’interpretazione da attribuire alla citata disposizione, la Corte dei conti decide di sospendere i procedimenti e di adire la CGUE affinchè chiarisca «se i regolamenti n 473/2013 e n. 549/2013, la direttiva 2011/85, nonché l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta e dei principi di equivalenza e di effettività, debbano essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale che limiti la competenza del giudice contabile a statuire sulla fondatezza dell’iscrizione di un ente nell’elenco delle amministrazioni pubbliche»[11]. Ad avviso del giudice del rinvio, non dissimilmente dalle posizioni assunte dal giudice della sentenza in commento, la limitazione di competenza introdotta dall’art. 23 quater del decreto-legge n. 137/2020 determinerebbe un’assenza di controllo giurisdizionale in merito alla fondatezza della designazione di determinati enti come Amministrazioni pubbliche. «Di conseguenza, tale limitazione escluderebbe la corretta applicazione delle regole contabili e di bilancio dell’Unione contemplate tanto dal regolamento n. 549/2013 quanto dalla direttiva 2011/85 e, pertanto, il rispetto dei requisiti indicati all’articolo 126 TFUE e nel Protocollo n. 12»[12]. In particolare, la disposizione in esame, secondo il giudice del rinvio delle cause riunite, escluderebbe anche «qualsiasi controllo indipendente sulle autorità di bilancio nazionali, quale previsto da detta direttiva e dal regolamento n. 473/2013, nonché la garanzia di una tutela giurisdizionale effettiva come sancito dall’articolo 19 TUE e dall’articolo 47 della Carta»[13]. Il medesimo giudice del rinvio osserva anche che nel caso in cui si ammettesse che l’art. 23 quater in esame abbia ristretto la competenza della Corte dei conti, estendendo, nel contempo, quella del giudice amministrativo, si porrebbero comunque dei dubbi sulla conformità del medesimo articolo con il principio della tutela giurisdizionale effettiva, poiché le ricorrenti dovrebbero «proporre due distinti ricorsi dinanzi a due giudici differenti per far valere i propri diritti, il che rischierebbe di ledere il principio della certezza del diritto in ordine alla determinazione del loro status con riguardo all’attuazione del regolamento n. 549/2013»[14].
Alla luce delle questioni poste dal giudice a quo, la CGUE ha ritenuto necessario «verificare, da un lato, se l’assenza di possibilità di contestare la fondatezza dell’iscrizione di un ente come amministrazione pubblica nell’elenco ISTAT, quale derivante, ad avviso del giudice del rinvio, dall’articolo 23 quater del decreto-legge n. 137/2020, confligga con le prescrizioni scaturenti dai regolamenti n. 473/2013 e n. 549/2013 nonché dalla direttiva 2011/85 e, dunque, con l’efficacia di questi ultimi nonché con l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva stabilita dal diritto dell’Unione. Dall’altro lato occorre esaminare, se tale articolo 23 quater, come interpretato dai convenuti di cui ai procedimenti principali, sia conforme all’esigenza di una siffatta tutela giurisdizionale effettiva»[15].
Sulla prima questione la CGUE rileva che al fine di assicurare che l’autorità nazionale competente rispetti la definizione del diritto dell’Unione di un ente come «amministrazione pubblica», ai sensi del regolamento n. 549/2013, la sua decisione deve poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale. L’effetto utile di detto regolamento, perciò, ad avviso della Corte europea, «osta ad una normativa nazionale che escluda, di fatto, qualsiasi possibilità di controllo giurisdizionale della fondatezza della qualificazione di un ente come amministrazione pubblica»[16]. L’assenza di un controllo giurisdizionale sulla qualità di «amministrazione pubblica» determinerebbe, poi, anche una compromissione della finalità e dell’effetto utile della direttiva 2011/85[17] se «i dati di bilancio di enti fossero pubblicati e trasmessi alla commissione (Eurostat) pur in assenza, in capo a tali enti, della qualità suddetta»[18].
Con riferimento, poi, alla verifica dell’idoneità dell’articolo 23 quater del decreto-legge n. 137/2020 a soddisfare la necessità di un controllo indipendente sulle autorità di bilancio dello Stato membro interessato risultante dal regolamento n. 473/2013 e dalla direttiva 2011/85, la CGUE rileva che tali testi normativi dell’Unione «esigono l’istituzione di organismi indipendenti soltanto ai fini del rispetto delle regole di bilancio numeriche dell’Unione, ma lasciano gli Stati membri liberi di limitare la portata del controllo giurisdizionale delle loro Corti dei conti per quanto riguarda l’applicazione del regolamento n. 549/2013»[19]. Sui principi di equivalenza e di effettività rileva, infine, la CGUE di non disporre «di alcun elemento tale da far dubitare della conformità a tale principio della normativa nazionale controversa nei procedimenti principali»[20]. Sul principio di effettività ricorda il giudice ad quem che il diritto dell’Unione non impone agli Stati membri di «istituire mezzi di ricorso diversi da quelli stabiliti dal diritto interno, a meno che dalla struttura complessiva dell’ordinamento giuridico nazionale in discussione non risulti che non esiste alcun rimedio giurisdizionale tale da permettere, anche solo in via incidentale, di assicurare il rispetto dei diritti riconosciuti ai singoli dal diritto dell’Unione, oppure che l’unico modo per poter adire un giudice da parte di un singolo sia quello di commettere violazioni del diritto (sentenza del 21 dicembre 2021, Randstad Italia, C-497/20, EU:C:2021:1037, punto 62 e la giurisprudenza ivi citata)»[21].
Nonostante la CGUE non escluda la possibilità di configurare una doppia giurisdizione speciale nell’ordinamento interno, la Corte dei conti, nella sentenza in commento, ritiene che il legislatore non abbia «in nessun modo alterato i confini dell’ambito oggettivo della cognizione del giudice contabile»[22], che continuerebbe «a riguardare complessivamente “la ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT”»[23], ma abbia modificato il quomodo della giurisdizione, delimitando, quindi, i soli «fini» della giurisdizione contabile[24]. In particolare, ad avviso della Corte dei conti, la disposizione in esame avrebbe «escluso la capacità di questo giudice di statuire in modo vincolante a fini diversi da quelli relativi della normativa nazionale, escludendo la disponibilità di mezzi di tutela, quali l’annullamento (produttivo di effetti erga omnes) o la disapplicazione a garanzia di altri effetti/fini, tra cui, quelli del diritto Ue»[25], pregiudicando il principio dell’effetto utile della direttiva 2011/85[26] e del connesso principio dell’effettività della tutela giurisdizionale.
La richiamata sentenza della CGUE, tuttavia, non pare escludere una giurisdizione generale e residuale del giudice amministrativo, evidenziando come i regolamenti n. 473/2013 e n. 549/2013, la direttiva 2011/85, nonché l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta e dei principi di equivalenza e di effettività, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una normativa nazionale che limiti la competenza del giudice contabile a statuire sulla fondatezza dell’iscrizione di un ente nell’elenco delle amministrazioni pubbliche, purché siano garantiti l’effetto utile dei regolamenti e della direttiva summenzionati nonché la tutela giurisdizionale effettiva imposta dal diritto dell’Unione. Inoltre, la stessa CGUE rileva che «qualora il giudice del rinvio dovesse accogliere l’interpretazione dell’articolo 23 quater del decreto-legge n. 137/2020 proposta dai convenuti, ossia quella secondo cui soltanto il giudice amministrativo è competente ad annullare l’iscrizione di un ente nell’elenco ISTAT ed il giudice contabile può controllare unicamente la legittimità di tale iscrizione in maniera incidentale allorché statuisce sull’applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non si potrebbe ritenere che tale disposizione leda il principio di effettività o che essa riveli un elemento da cui risulta che l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE sarebbe violato»[27]. «Infatti, in una simile ipotesi, esisterebbe un mezzo di ricorso giurisdizionale che permette di assicurare il controllo sulle misure adottate dall'ISTAT in applicazione del regolamento n. 549/2013 e della direttiva 2011/85»[28]. Con riguardo al rischio di un allungamento dei procedimenti, cui potrebbe condurre la configurabilità di una doppia giurisdizione speciale, rileva la CGUE che «gli enti iscritti nell’elenco ISTAT che intendono contestare la loro designazione quali amministrazioni pubbliche non sono tenuti a presentare due distinti ricorsi, vale a dire uno davanti al giudice amministrativo e un altro davanti alla Corte dei conti. Infatti, da un lato, essi potrebbero chiedere al giudice amministrativo l’annullamento erga omnes della decisione che li ha iscritti in quest’elenco. Dall’altro, dinanzi alla Corte dei conti, essi potrebbero contestare le conseguenze della loro iscrizione nell’elenco suddetto e ottenere, eventualmente, in maniera incidentale, la disapplicazione di tale iscrizione»[29]. La CGUE, infine, supera il problema relativo al possibile crearsi di una situazione di incertezza giuridica, in relazione all’eventuale formarsi di giudicati contrastanti sulla fondatezza dell’iscrizione di un ente nell’elenco ISTAT, rilevando che «la semplice possibilità che si verifichino simili divergenze non è sufficiente per concludere per l’esistenza di una violazione dell’articolo 19 TUE, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta e del principio di effettività, purché un ente che contesti la decisione di qualificazione adottata nei suoi confronti possa limitarsi a proporre un unico ricorso per veder esaminata la propria domanda. Ciò non toglie che incombe all’ordinamento giuridico italiano prevedere le modalità concrete di esercizio dei mezzi di ricorso, in modo tale da non pregiudicare in maniera sproporzionata il diritto ad un ricorso effettivo sancito dall’articolo 47 della Carta»[30]. Inoltre, osserva la CGUE, «il fatto che il giudice competente – ossia, secondo i convenuti di cui ai procedimenti principali, il giudice amministrativo – non sia, come indicato da detto giudice del rinvio, quello designato dalla Costituzione della Repubblica italiana quale giudice competente in materia di bilancio è privo di rilevanza dal punto di vista del diritto dell’Unione»[31].
3. Brevi considerazioni sull’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale.
A fronte della posizione assunta dalla CGUE, per cui non sembrerebbe impossibile considerare l’art. 23 quater in esame compatibile con la normativa comunitaria, purchè siano garantiti il principio di effettività e dell’effetto utile, occorre verificare, muovendo dalla citata sentenza della Corte dei conti, se il sistema normativo interno consenta di configurare la giurisdizione amministrativa come una giurisdizione di carattere generale per quanto riguarda la tutela dell’interesse legittimo.
A questo riguardo, la Corte dei conti – esclusa la compatibilità dell’art. 23 quater del d. l. 137/2020 con il diritto Ue in forza della rimessione, da parte della CGUE, al giudice nazionale del riscontro dei limiti ostativi a tale compatibilità – osserva che per costante giurisprudenza, ai sensi degli artt. 100 e 103 Cost., la giurisdizione «generale» in materia di contabilità pubblica compete alla Corte dei conti. Inoltre, una giurisdizione generale del giudice amministrativo per l’annullamento degli atti sarebbe esclusa anche in ragione dell’«avvenuta codificazione della clausola generale dell’equilibrio di bilancio»[32] e della tutela del bilancio quale «bene pubblico» in senso giuridico, che comporterebbe costanti verifiche preventive e consuntive riservate alla Corte dei conti dall’art. 100 Cost.[33]. Tuttavia, tali rilievi della Corte dei conti non sembrano del tutto convincenti se si considera che già il previgente art. 1, co. 169 della legge del 24 dicembre 2012, n. 228 rimetteva al giudice amministrativo tutte le decisioni concernenti l’iscrizione di un ente nell’elenco ISTAT. Pare, pertanto, che la riserva di giurisdizione in favore della Corte dei conti ai sensi dell’art. 103, co. 2 Cost. – per cui «la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge» – non escluda una competenza generale e residuale del giudice amministrativa in materia di interessi legittimi, ma incontri il limite funzionale della interpositio del legislatore[34] contenuta nel codice di giustizia contabile[35]. Ai fini dell’attribuzione di una determinata competenza giurisdizionale alla Corte dei conti in materia di contabilità pubblica non pare sufficiente, quindi, il generale riferimento al concorso dell’elemento soggettivo, che attiene alla natura pubblica dell’ente e di quello oggettivo, che riflette la natura pubblica del denaro e del bene oggetto di gestione, rientrando, già secondo una risalente giurisprudenza, «nella discrezionalità del potere legislativo valutare se e quali siano le soluzioni più idonee alla salvaguardia dei pubblici interessi»[36]. Se, quindi, l’art. 103, co. 2 Cost. fosse inteso come una norma di garanzia conservativa della giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica e, proprio in quanto norma sulla ripartizione della giurisdizione, non risultasse dotato di un’assoluta generalità, ma necessitasse di apposite specificazioni legislative[37], non sembra potersi escludere che il legislatore ordinario possa non solo ampliare le materie assegnate alla giurisdizione della Corte dei conti tanto nell’ambito delle «altre materie specificate dalla legge» quanto in quello delle «materie di contabilità pubblica»[38], ma anche restringere la potestas judicandi della medesima Corte, in forza di valutazioni discrezionali, anche di opportunità politica, che potrebbero condurre a ravvisare nel giudice contabile una minore idoneità all’esame di determinate controversie[39].
La configurabilità di una giurisdizione generale e residuale del giudice amministrativo laddove il cittadino si contrapponga all’esercizio del potere autoritativo dell’Amministrazione non sembra porsi in contrasto con la Costituzione anche se si considerano gli artt. 113, co. 3 e 103, co. 1 Cost. Infatti, una parte della dottrina ha rilevato come, da un lato, «il giudice ordinario, che pacificamente ha giurisdizione in materia civile e penale […] e che decide in materia di diritti soggettivi non abbia però una giurisdizione esclusiva in merito, perché la sua giurisdizione sul punto è limitata dalla possibilità prevista dall’art. 103, comma 1, Cost. sulla giurisdizione in tema di diritti soggettivi del Consiglio di Stato» e, dall’altro, come «il Consiglio di Stato […] ha giurisdizione a tutela di interessi legittimi, ma non ha una giurisdizione esclusiva sul punto, poiché il disposto di cui al terzo comma dell’art. 113 Cost., che consente che anche ad altri giudici sia attribuito il potere di annullamento dei provvedimenti amministrativi, dimostra come questi giudici, nella specie il giudice ordinario, abbiano una giurisdizione estesa agli interessi legittimi (se si trattasse di diritti soggettivi non vi sarebbe un problema di annullamento ma di riconoscimento di nullità)»[40].
Una rimessione al giudice amministrativo di una tutela generale degli interessi legittimi, inoltre, sembra essere confermata, oggi, dal legislatore ordinario che, con le modifiche apportate all’ 37c.p.c.[41] dalla riforma Cartabia, distinguendo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o degli altri giudici speciali e individuando, perciò, il giudice amministrativo come un giudice che ha una posizione particolare nell’ordinamento, che lo distingue dagli altri giudici speciali in genere[42], sembra individuare nello stesso il giudice naturale degli interessi legittimi[43], come il giudice ordinario è il giudice naturale dei diritti soggettivi. Questa distinzione tra il giudice amministrativo e gli altri giudici speciali è ripresa dal legislatore anche all’art. 362 co. 1 c.p.c., che definisce gli altri casi di ricorso in Cassazione[44]. Sulla possibilità di considerare la giurisdizione amministrativa sullo stesso “piano” di quella ordinaria, una parte della dottrina ha evidenziato anche il richiamo operato dal c.p.c. ai principi di chiarezza, specificità e sinteticità degli atti, propri del codice del processo amministrativo[45] e applicabili, dopo la riforma Cartabia, anche nel processo civile. Anche l’art. 7 c.p.a., infine, devolvendo alla giurisdizione amministrativa «le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi […] concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo» pare attribuire rilievo, ai fini della configurabilità della giurisdizione amministrativa, non all’avvenuto esercizio del potere attraverso l’emanazione di un provvedimento imperativo suscettibile di incidere unilateralmente nella sfera giuridica del destinatario dell’atto, ma all’avvio di un procedimento amministrativo, in cui il privato si contrappone all’“esercizio” del potere autoritativo dell’Amministrazione[46]. La predisposizione annuale dell’elenco Istat delle Amministrazioni pubbliche, pertanto, non essendo un atto assunto dall’Amministrazione iure privatorum, rientrerebbe nella giurisdizione generale del giudice amministrativo[47].
4. Conclusioni.
Alla luce delle considerazioni esposte, con riguardo alla possibilità di configurare una doppia giurisdizione speciale all’interno del sistema, se si ammettesse una cognizione giurisdizionale del giudice amministrativo in materia di ricognizione delle Amministrazioni pubbliche, potrebbe ritenersi che l’art. 23 quater in esame abbia inciso sul titolo legittimante il giudizio dinnanzi alla Corte dei conti ai fini della configurabilità della sua giurisdizione. Non è infrequente, infatti, che il legislatore devolva alla giurisdizione dell’uno o dell’altro giudice una stessa materia a seconda del titolo fatto valere in giudizio, identificabile con la causa petendi, per cui la giurisdizione è determinata sulla base dei fatti allegati da chi propone l’atto introduttivo e dalla intrinseca natura della posizione giuridica che in base ad essi viene fatta valere[48]. Si pensi, ad esempio, alla materia delle pensioni dei militari, in cui «la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti […] è limitata solo a quanto concerne con immediatezza, anche nella misura, il sorgere, il modificarsi e l’estinguersi totale o parziale del diritto alla pensione in senso stretto, restando esclusa da tale competenza ogni questione connessa con il rapporto di pubblico impiego, quale la determinazione della base pensionabile e dei relativi contributi da versare, sulla quale, invece, la giurisdizione è del giudice amministrativo» (Cons. Stato Sez. VI, 30-04-2002, n. 2323)[49]. Se, quindi, si ritenesse che l’art. 23 quater in esame, imponendo alla Corte dei conti di decidere solo con riguardo all’applicazione della normativa interna sulla spending review, abbia ristretto la materia della giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, la disapplicazione, nel caso di specie, sarebbe pronunciata da un giudice privo di giurisdizione.
[1] Corte dei conti, Sez. riunite, 19 ottobre 2023, n. 17, sub 1. In particolare: «Con il primo motivo di ricorso, (I) è stata denunciata la violazione della l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo (vizio formale). ISTAT, infatti, secondo la tesi della società ricorrente, agirebbe in base all’inopinata tesi di non ritenersi obbligata ad osservare le regole del giusto procedimento, in virtù della natura vincolata del provvedimento autoritativo. Tale tesi ha l’effetto di costringere la società ad attivare necessariamente la propria difesa direttamente in sede giurisdizionale, con danno alle proprie ragioni» (sub 3.1.). «Dal punto di vista sostanziale, il ricorrente ha negato la sussistenza dei requisiti per essere qualificata “amministrazione pubblica” ai sensi del SEC 2010. In particolare, ha contestato (II) la sussistenza di un “controllo pubblico” (secondo motivo di ricorso), atteso che nessuna delle partecipazioni ascrivibile a soggetti pubblici, da sola, garantisce il controllo della maggioranza dei voti. In merito, ISTAT non avrebbe in alcun modo dimostrato l’esistenza di un formale vincolo (di legge o fondato su atti negoziali) tramite cui le varie amministrazioni pubbliche si coordinano per esercitare un controllo unitario» (sub 3.2.). «Infine, (III) (terzo motivo di ricorso), A22 ha negato di operare fuori mercato, quale soggetto la cui attività è prevalentemente “non destinabile alla vendita”. Il punto centrale di tale difesa riguarda la tesi della qualificabilità della tariffa autostradale alla stregua di un corrispettivo, avente le caratteristiche di un “prezzo economicamente non significativo” ai sensi del SEC 2010. Infatti, il carattere regolamentato di un prezzo, secondo il SEC (§§3.19 e 20.19) non escluderebbe il carattere economicamente significativo dello stesso» (sub 3.3.).
[2] Testualmente Corte dei conti, cit., sub 4.
[3] Corte dei conti, cit.: «Secondo la difesa di ISTAT e MEF […] la sentenza non avrebbe negato, ma confermato, la separazione tra due ambiti normativi, quello privatistico (ovvero degli effetti sui poteri gestionali dei soggetti inclusi nell’elenco ISTAT, mediante la distinzione tra enti pubblici e privati) e quello pubblicistico-europeo (concernente la delimitazione della finanza pubblica). Seguendo questa impostazione, il legislatore interno non si è posto in contrasto con il diritto Ue, poiché la “mappatura della finanza pubblica”, come correttamente riconosciuto dalla Corte di giustizia, può essere verificata dal giudice amministrativo, mentre i risvolti contabili (ex art. 103 Cost.) restano attribuiti alla cognizione della Corte dei conti» (sub 15-15.1).
[4] Testualmente Corte dei conti, cit., sub 12.2
[5] La difesa della parte ricorrente, in altri termini, esclude la possibilità per il giudice o, comunque, per l’interprete di «desume[re] criteri di attribuzione della giurisdizione alternativi o opposti a quelli che il legislatore stesso ha espressamente indicato»[5] in forza della «tassatività» delle norme sulla giurisdizione, che «risulta ancora più rigoroso in materia di bilancio, dove vige, in virtù del combinato degli artt. 81, co. 6, Cost. e 5, co. 1, lett. a) l. cost. n. 1/2012, una riserva formale e assoluta in materia di controlli sull’andamento della finanza pubblica» (Corte dei conti, cit., sub 40).
[6] Corte dei conti, cit., sub 3.2.
[7] Corte dei conti, cit., sub 3.3 La Corte dei conti, con riguardo al principio dell’effetto utile, afferma che «l’obbligo di disapplicazione, infatti, è direttamente connesso a tale principio (C. cost. sent. n. 67/2022, punto 10.2 in diritto; Corte di giustizia, sentenza 22 febbraio 2022, RS, C-430/21, RS, punto 88, ECLI:EU:C:2020:99), costituendo una garanzia e una forma di tutela obbligatoria a disposizione di ciascun giudice nazionale che deve applicare il diritto Ue» (sub 3.3).
[8] Sul rilievo dei principi generali di diritto comunitario v. D. DE PRETIS, I principi del diritto amministrativo europeo, in M. RENNA – F. SAITTA (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 41-59.
[9] Testualmente Corte dei conti, Sez. riunite, 19 ottobre 2023, n. 17 (sub 4).
[10] Rileva la CGUE, Sez. I, 13 luglio 2023, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathon, C-363/21 e 364/21, EU: C: 2023: 563: «[…] qualora il giudice del rinvio dovesse accogliere l’interpretazione dell’articolo 23 quater del decreto-legge n. 137/2020 propugnata dai convenuti di cui ai procedimenti principali nonché, all’udienza, dal governo italiano, ossia quella secondo cui soltanto il giudice amministrativo è competente ad annullare l’iscrizione di un ente nell’elenco ISTAT ed il giudice contabile può controllare unicamente la legittimità di tale iscrizione in maniera incidentale allorché statuisce sull’applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non si potrebbe ritenere che tale disposizione leda il principio di effettività o che essa riveli un elemento da cui risulta che l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE sarebbe violato” (sub 95). «Infatti, in una simile ipotesi, esisterebbe un mezzo di ricorso giurisdizionale che permette di assicurare il controllo sulle misure adottate dall’ISTAT in applicazione del regolamento n. 549/2013 e della direttiva 2011/85» (sub 96).
[11] CGUE, cit., sub 60
[12] CGUE, cit., sub 61
[13] CGUE, cit., sub 61
[14] CGUE, cit., sub 62
[15] CGUE, cit., sub 63
[16] CGUE, cit., sub 70
[17] La direttiva 2011/85, infatti, all’art. 1 enuncia le regole relative ai quadri di bilancio degli Stati membri, necessarie «per garantire il rispetto, da parte degli Stati membri, degli obblighi che incombono loro in virtù del Trattato FUE per quanto riguarda l’esigenza di evitare disavanzi pubblici eccessivi» (CGUE, cit., sub 71).
[18] CGUE, cit., sub 77
[19] CGUE, cit., sub 83
[20] CGUE, cit., sub 91
[21] CGUE, cit., sub 92
[22] Corte dei conti, cit., sub 26
[23] Corte dei conti, cit., sub 26
[24] Corte dei conti, cit., sub 26.1; 26.2
[25] Corte dei conti, cit., sub 26.3
[26] Cfr CGUE, cit., sub 94
[27] CGUE, cit., sub 95
[28] CGUE, cit., sub 96
[29] CGUE, cit., sub 97
[30] CGUE, cit., sub 98
[31] CGUE, cit., sub 99
[32] Corte dei conti, cit., sub 36.1
[33] Corte dei conti, cit., sub 36.1
[34] Dig. disc. pubbl., «giurisdizioni amministrative speciali» (voce) 494 Cfr. O. SEPE, ult. op. cit., 97. L’Autore prosegue: «L’elaborazione giurisprudenziale […] e le stesse pronunce sia della Corte costituzionale (sentenza 3 giugno 1966, n. 55) sia della Cassazione (Sez. riunite, 20 luglio 1968, n. 2616) hanno portato a chiarire che la Costituzione ha voluto una giurisdizione di contabilità caratterizzata da un ambito di materie, cioè una giurisdizione generale contabile che, essendo di diritto oggettivo, “è disegnata dalle materie di contabilità pubblica, ma che, in quanto generale, è automaticamente espansibile per ciò che attiene a dette materie, mentre lo è in guisa subordinata alla volontà legislativa per quelle altre specificate dalla legge, vale a dire per quelle altre materie per le quali solo si potrebbe porre il problema della natura derogatoria della giurisdizione della Corte rispetto alle giurisdizioni generali”» (11).
[35] Rileva C.E. GALLO, Considerazioni a prima lettura circa le ricadute della riforma Cartabia sul processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 3/2023, 450: «Per quanto concerne la Corte dei conti, la Corte costituzionale in passato ha sempre escluso che alla medesima sia attribuita una giurisdizione esclusiva in materia di contabilità pubblica, ritenendo che occorresse in ogni caso una interpositio legislatoris: oggi l’interpositio c'è, ed è contenuta nel codice di giustizia contabile, ma è pur vero che vi sono una serie di ambiti nei quali la responsabilità di soggetti legati alla pubblica amministrazione in modo variegato è attribuita al giudice ordinario»
[36] Dig., cit., 494. Si rileva, a questo riguardo, che «l’assenza di determinazione dei limiti concernenti la “tendenziale generalità” della giurisdizione della Corte dei conti ai sensi dell’art. 103, 2° co. Cost., inducono la giurisprudenza costituzionale ad un atteggiamento restrittivo, espresso in C. Cost., n. 641/1987, la quale, riannodando le fila dell’interpretazione giurisprudenziale sulla norma dell’art. 103, 2° co. Cost., afferma: a) la materia della contabilità pubblica non è definibile oggettivamente, ma occorrono apposite qualificazioni legislative e puntuali specificazioni non solo rispetto all’oggetto, ma anche rispetto ai soggetti; b) la giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica è solo tendenzialmente generale e pertanto sono possibili deroghe con apposite determinazioni legislative, specialmente nella materia della responsabilità amministrativa non di gestione; c) la cognizione delle cause attinenti alla responsabilità patrimoniale per danni cagionati ad enti pubblici da pubblici funzionari involge questioni relative a diritti soggettivi, per i quali, in assenza di apposite disposizioni derogatorie, anche di rango costituzionale, sarebbe competente il giudice ordinario; la riserva di giurisdizione spettante alla Corte dei conti ai sensi dell’art. 103, 2° co. Cost., incontra il limite funzionale della interpositio del legislatore, cui spetta, nei limiti ad esso imposti dalle norme costituzionali sulla ripartizione della giurisdizione, fra le quali rientra l’art. 103, 2° co. Cost., la determinazione della sfera di giurisdizione dei giudici (ordinario, amministrativo, contabile, militare ecc…)» (494)
[37] Dig., ibidem
[38] O. SEPE, La giurisdizione contabile, in G. SANTANIELLO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Padova, 1989, 36: «La seconda parte del precetto contiene un rinvio alle leggi ordinarie vigenti e future; la prima parte copre con l’usbergo della costituzionalità le materie di contabilità pubblica. In effetti la Corte costituzionale ha più volte affermato che l’art. 103, nel riservare alla giurisdizione della Corte dei conti le materie di contabilità pubblica, ha recepito la nozione tradizionalmente accolta dalla legislazione vigente e dalla giurisprudenza, comprensiva dei giudizi di conto e di quelli di responsabilità; sotto l’aspetto soggettivo ne ha allargato l’ambito oltre quello, cui aveva originario riferimento, di amministrazione diretta dello Stato. Tale sarebbe il significato e il contenuto dell’aggettivo pubblico, com’è confermato dallo stesso uso fattone in altre disposizioni della Costituzione (ad es. art. 54, 2° comma; artt. 97 e 98). La giurisprudenza della Corte costituzionale nelle dette materie, per le quali occorrono “apposite qualificazioni legislative e puntuali specificazioni non solo rispetto all’oggetto ma anche rispetto ai soggetti” è solo tendenzialmente generale. sono possibili deroghe alla giurisdizione ordinaria solo con apposite disposizioni legislative, specie nella materia della responsabilità amministrativa non di gestione». Cfr. T.A.R. Lazio sez. III - Roma, 09 gennaio 2017, n. 246, sub 4.
[39] Testualmente O. SEPE, La giurisdizione, cit., 98.
[40] C. E. GALLO, Considerazioni, cit., 450
[41] Art. 37, co. 1, secondo periodo: «Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o dei giudici speciali è rilevato anche d’ufficio nel giudizio di primo grado».
[42] Testualmente C. E. GALLO, ult. op. cit., 449
[43] Cfr. M. NIGRO, Giustizia amministrativa, III, Bologna, 1983. L’Autore, distinguendo tra «giurisdizione amministrativa ordinaria e giurisdizioni amministrative speciali» (162) e ravvisando nei giudici amministrativi i “giudici ordinari del contenzioso amministrativo» (162) e nella Corte dei conti «la più importante delle giurisdizioni speciali […] alla quale la Costituzione riconosce competenza “nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge” (art. 103 II c.)» (164) osserva: «Le giurisdizioni amministrative speciali sono quelle costituite per somministrare giustizia in particolari materie: esse si debbono considerare speciali rispetto al giudice dei diritti (tribunali ordinari) se, o per la parte in cui, conoscono di diritti, o rispetto al giudice degli interessi (Consiglio di Stato e Tribunali amministrativi) se, o per la parte in cui, conoscano di interessi legittimi, il che comporta che là dove si arresta la loro competenza riprende vigore rispettivamente quella dei tribunali ordinari o quella dei tribunali amministrativi» (164).
[44] Testualmente C. E. GALLO, ult. op. cit., 449. Sulla riforma Cartabia v. F. DE STEFANO, La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura, in www.giustiziainsieme.it
[45] GALLO, ult. op. cit., 449
[46] Cfr. Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204. Lo stesso art. 7 c.p.a. devolve alla giurisdizione amministrativa «[…] le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo […]».
[47] Cfr. T.A.R. Lazio sez. III – Roma (sub 3). Cfr. Dig., cit., 492
[48] Cons. Stato, Sez. VI, 9 ottobre 2020, n. 6022; Cons. Stato, Sez. VI, 11 luglio 2017, n. 3418; Cons. Stato, Sez. IV, 14 gennaio 2016, n. 81; T.A.R. Lazio, Sez. III – Roma, 21 febbraio 2023, n. 2935; T.A.R. Campania, Sez. V – Napoli, 20 febbraio 2020, n. 811; T.A.R. Emilia Romagna, Sez. I – Parma, 7 dicembre 2017, n. 395; T.A.R. Campania, Sez. V – Napoli, 4 dicembre 2017, n. 5720; T.A.R. Lazio, Sez. I – Roma, 13 ottobre 2016, n. 10239; T.A.R. Lombardia, Sez. III – Milano, 7 gennaio 2015, n. 4; T.A.R. Campania, Sez. V – Napoli, 7 maggio 2015, n. 2538; T.A.R. Piemonte, Sez. I – Torino, 6 marzo, 2015, n. 431; T.A.R. Campania, Sez. V – Napoli, 2 dicembre 2014, 6300.
[49] TAR Abruzzo, Sez. I – L’Aquila, 23 giugno 2022, n. 273, sub 2.1.
La scienza giuridica ha dedicato finora scarsa attenzione alla comunicazione delle istituzioni europee. Il tradizionale approccio può essere riassunto da un vecchio motto latino che recita: “verba volant, scripta manent”. Le parole pronunciate volano via, solo ciò che è scritto rimane – e, quindi, merita di essere preso in considerazione, potendo imporre diritti e obblighi agli individui. Tuttavia, nella società dell'informazione in cui viviamo, questo approccio rischia di non essere più convincente né sostenibile.
Uno scarno comunicato stampa della BCE, adottato dopo il famoso discorso del “whatever it takes”, ha minacciato il principio del primato del diritto dell’Unione europea nel caso Gauweiler. La decisione di spostare la sede dell'Agenzia europea del farmaco da Londra ad Amsterdam, che ha portato a quattro cause davanti alla Corte di giustizia dell'UE, è stata adottata in primo luogo attraverso un tweet. La “Dichiarazione UE-Turchia” sulla gestione della crisi dei rifugiati siriani, secondo la Corte di giustizia e il Tribunale, era una mera dichiarazione intergovernativa, pubblicata tramite un comunicato stampa, e quindi non sottoponibile allo scrutinio del Giudice dell’Unione.
Legislazione e comunicazione sono sempre andate di pari passo per regolare le società. Tuttavia, l'ascesa di Internet e dei social media ha chiaramente proiettato quest'ultima in una nuova dimensione, il cui impatto sulla sfera giuridica deve ancora essere pienamente compreso e affrontato dai giuristi.
Gli studi sulla soft law hanno fatto un primo tentativo in questo senso, concentrandosi su atti che hanno una natura ambigua ma che almeno presentavano le caratteristiche di atti giuridici, per quanto atipici, spesso adottati seguendo procedure previste da ulteriori fonti. Al contrario, i comunicati stampa, gli annunci, i post sui social media vanno chiaramente al di là di tale perimetro definitorio, essendo spesso fonti non scritte o non giuridiche, adottate attraverso procedure non regolamentate –eppure, nonostante tali considerazioni, hanno spesso un impatto enorme sugli individui.
In questo contesto, la cattedra Jean Monnet “Verba Volant, sed Imperant? The Legal Challenges of EU Communication” si propone di discutere se e in che misura i mezzi e le strategie di comunicazione possano essere considerati come nuove fonti del diritto dell’Unione europea e come i principi consolidati della tutela giurisdizionale dell’ordinamento sovranazionale possano affrontare le sfide che tale “nuovo mondo” implica. A tal fine, la Conferenza inaugurale mira a riunire accademici e professionisti, sia a livello nazionale che europeo, per discutere le implicazioni giuridiche della comunicazione dell’Unione europea e per rilevare il suo impatto nei vari settori delle politiche dell’Unione.
A questo link tutte le informazioni: https://lawcom.unife.it/inaugural-conference.
Nella sua ormai lunga esperienza professionale Lei ha avuto l’occasione di svolgere diverse funzioni: è stato sostituto Procuratore a Napoli, anche presso la DDA, poi all’ufficio del massimario, Presidente dell’ANAC ed attualmente riveste il ruolo di Procuratore della Repubblica a Perugia. Tale diversità di ruoli Le ha consentito di analizzare il fenomeno corruttivo sotto diverse angolature, sia come investigatore in relazione al caso concreto che come, potremmo dire, studioso ed osservatore del fenomeno.
Quali sono i punti deboli del sistema attuale di tutela contro la corruzione, cosa manca e cosa sarebbe auspicabile introdurre o modificare, tanto in un’ottica di garanzia per l’indagato che in un’ottica di tutela effettiva della collettività contro un fenomeno i cui effetti si riverberano sulla efficienza ed effettività dei servizi resi al cittadino e dunque sullo sviluppo economico, sociale, culturale del Paese.
È necessario prima di affrontare specificamente la questione posta partire da una considerazione di fondo. Grazie soprattutto al lavoro svolto in sede internazionale e riversatosi in varie convenzioni, la più importante delle quali è quella dell’ONU del 2003 varata in Messico a Merida, la corruzione non è più vista solo come un atto, pur grave, di “tradimento” del funzionario pubblico rispetto al dovere di fedeltà assunto con l’Istituzione di appartenenza. Soprattutto quella corruzione che riguarda il sistema lato sensu delle commesse pubbliche (la cd. grand corruption) va, invece, considerata come un meccanismo che distorce le regole della concorrenza e del mercato, al punto di minare persino le stesse fondamenta della democrazia. Su questo punto sono concordi tutti i preamboli delle convenzioni internazionali e non è un caso che una felicissima definizione di essa attribuibile al Presidente Mattarella, la indica come “furto di democrazia”.
Questo cambio di paradigma è fondamentale perché giustifica la messa in campo di strumenti molto più raffinati del passato che si imperniano non solo sulla tradizionale attività repressiva/penale ma anche sulla più moderna prevenzione.
Grazie allo stimolo internazionale, l’Italia si è dotata, a partire dalle legge Severino del 2012, di un armamentario molto più efficiente di quello precedente, valutato positivamente sul piano sovranazionale, creando anche un’autorità indipendente ad hoc (l’ANAC) con il compito di sovrintendere al rispetto delle disposizioni in materia di prevenzione ma non mancando di rafforzare contestualmente gli strumenti repressivi, sia introducendo nuovi reati (corruzione per l’esercizio delle funzioni, traffico di influenze illecite etc), ma anche di strumenti ritenuti idonei a farla emergere (attenuanti in caso di caso di collaborazione, non punibilità in presenza di un’autodenuncia, possibilità di utilizzare le operazioni sotto copertura etc).
Sarebbe impossibile in questa sede individuare criticità e punti di forza di questo nuovo ed articolato impianto, ma io credo che esso sia ben strutturato ed ha già dato alcuni buoni risultati, consentendo all’Italia di recuperare tante posizioni, ad esempio nella classifica di Transparency international.
Quell’impianto necessiterebbe di una manutenzione che non lo metta, però, in discussione e soprattutto dovrebbe essere supportato anche dal punto di vista culturale e politico. Invece, nell’ultimo periodo l’intero sistema anticorruzione è oggetto di critiche ed attacchi anche da esponenti delle Istituzioni pubbliche che ne stanno facendo perdere la sua forza. Non c’è legge che possa funzionare se chi dovrebbe sostenerla non ci crede ed anzi propone revisioni profonde e, a mio modo di vedere, peggiorative.
È stato approvato anche alla camera il disegno di legge C. 1718 che porta il nome dell’attuale Ministro della Giustizia, Nordio. La modifica normativa che connota tale disegno di legge è certamente l’abolizione tout court della controversa fattispecie dell’abuso d’ufficio, rispetto alla quale lei ha già preso espressamente posizione fornendo un contributo tecnico – giuridico in sede di audizione alla Camera dei deputati, avvenuta il 13 settembre 2023 che, come quello di altri Suoi colleghi, pare essere rimasto del tutto inascoltato.
Perché, in sintesi, gli effetti dell’abrogazione di tale norma possono determinare un serio arretramento nel sistema di tutela contro la corruzione?
Voglio premettere che è mia convinzione che l’abrogazione dell’abuso di ufficio abbia effetti deleteri sul sistema Paese che vanno ben oltre le questioni della corruzione. Viene meno, infatti, un presidio, che al di là dell’applicazione concreta, di legalità dell’azione amministrativa. Il delitto di abuso tutela, infatti, direttamente il valore costituzionale dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione pubblica, sanzionando comportamenti di strumentalizzazioni dell’azione amministrativa che dovessero intenzionalmente avvantaggiare o danneggiare qualcuno. Ed è falso quanto viene ogni giorno affermato anche da personaggi di primo piano della politica, secondo cui l’abrogazione non attenuerebbe la tutela del valore costituzionale dell’imparzialità perché il sistema in generale ha già altri strumenti alternativi È invece indiscutibile, e sfido chiunque a dimostrare il contrario, che gli atti prevaricatori o i favoritismi anche eclatanti, compiuti senza una controprestazione di utilità, resteranno senza tutela penale. certo essi potranno, se emersi, essere sanzionati in via disciplinare, ma non c’è bisogno di una conoscenza profonda dell’amministrazione pubblica per sapere quanto sia inefficiente il sistema disciplinare nella pubblica amministrazione. L’abrogazione ridurrà senza dubbio, quindi, il controllo di legittimità sull’azione amministrativa ed indirettamente, quindi, rischierà di creare un humus favorevole ai fatti corruttivi. Ma l’effetto più negativo per le indagini sulla corruzione deriva dall’impossibilità di utilizzare l’abuso di ufficio come “reato spia”. Chi si occupa di indagini di pubblica amministrazione sa bene che un’indagine per corruzione molto raramente parte da una notizia di reato specifica e che essa soprattutto consegue ad indagini sulla regolarità di atti amministrativi. Quando in futuro non si potrà avviare nessun accertamento su possibili strumentalizzazioni dell’azione amministrativa, sarà difficilissimo reperire in altro modo una notizia di reato per corruzione. Questa affermazione, che viene contestata dai fautori dell’abrogazione con argomenti squisitamente ideologici (del tipo che i reati spia sarebbero espressione di una cultura della “pesca a strascico”), trova, invece, supporto proprio dalle convenzioni internazionali che ritengono indispensabile, per un’efficacia azione anticorruzione, la previsione di una fattispecie penale di abuso.
È noto che la ragione posta a fondamento della necessità di abolire l’abuso d’ufficio sia, in sintesi, la presunta inutilità della norma – valutata in virtù delle poche sentenze di condanna e delle numerose assoluzioni scaturite dai procedimenti penali avviati per tale fattispecie - unitamente agli effetti persino dannosi che la stessa avrebbe comportato ingenerando la c.d. “paura della firma” e la conseguente paralisi dell’azione amministrativa.
Si tratta di una giusta chiave di lettura? Cosa indica, se così non è, il dato relativo alle assoluzioni e come avrebbe potuto essere diversamente letto e valorizzato?
Che ci sia una tendenza nell’amministrazione a rallentare l’azione amministrativa per la paura dei funzionari di subire conseguenze negative sul piano personale per il loro agire è un dato purtroppo indiscusso. Nel nostro linguaggio si è persino coniata un’espressione (“burocrazia difensiva”) mutuata da altri ambiti (quello sanitario dove si parla di “medicina difensiva) che è assolutamente sconosciuta in altri Paesi. Dare, però, la colpa di questa situazione all’abuso di ufficio è frutto di una visione superficiale che sarà purtroppo certamente smentita nel prossimo futuro. I fatti dimostreranno che anche dopo l’abolizione dell’abuso la burocrazia difensiva non sparirà affatto e le amministrazioni non eccelleranno per la celerità delle decisioni. La paura della firma ha ragioni più complesse, frutto spesso di una cattiva organizzazione dell’amministrazione e di una non sempre adeguata preparazione dei funzionari, di cui essi non hanno nessuna colpa, perché non vengono loro nemmeno spiegate le tantissime e continue modifiche legislative in ambiti delicati, come ad esempio quelli degli appalti pubblici. Quanto al dato delle assoluzioni, è certamente indiscutibile che ve ne sono state numerose soprattutto nei tre gradi di giudizio, spesso anche con il ribaltamento di decisioni di condanna di primo grado. Le ragioni di ciò sono varie e dipendono indiscutibilmente non solo dalla struttura della norma ma anche dall’interpretazione della giurisprudenza che ha ritenuto, fra i parametri normativi che giustificano la violazione di legge, di annoverare anche regole spesso elastiche che rendono non sempre chiaro stabilire a priori cosa è lecito e cosa non lo è. Questa considerazione avrebbe, però, giustificato un intervento di modifica sulla fattispecie e non certo l’abrogazione. Del resto, il legislatore del 2020 con una riforma certo non scritta bene era intervenuto sul punto e non si è voluto nemmeno attendere gli esiti concreti di tale riforma; era una battaglia ideologica quella di mostrare “lo scalpo” dell’abuso di ufficio. Il legislatore, quindi, con la scelta che ha fatto ha ammesso la sua impotenza nello scrivere una norma migliore! Credo, invece, sia un argomento davvero insignificante quello pure utilizzato durante la fase di discussione del ddl che molti procedimenti di abuso si concludono con un nulla di fatto e cioè con l’archiviazione. Se dovessimo applicare questo criterio per stabilire quali norma lasciare in vita, rischieremmo di dover abrogare mezzo codice, a partire dal delitto di furto, in cui oltre il 95 per cento dei procedimenti vengono definiti con archiviazione per essere ignoti gli autori del reato. Ovviamente l’argomento parte dall’idea che nei confronti dei funzionari pubblico anche solo l’avvio di un procedimento potrebbe rappresentare un danno, non controbilanciato dall’archiviazione. Questa affermazione è almeno parzialmente vera, ma anche in questo caso si sarebbe potuto intervenire con disposizioni ad hoc per sterilizzare queste conseguenze negative (e la riforma di Cartabia le aveva già avviate stabilendo che la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato non può determinare effetti pregiudizievoli), piuttosto che giungere al taglio netto.
Quanto, secondo la sua esperienza, il tipo di discrezionalità esercitata (politica, amministrativa o tecnica) contribuisce a rendere maggiormente controllabile, e dunque criticabile ex post, la correttezza dell’agire del pubblico funzionario? Potrebbe essere utile diversificare la responsabilità in ragione del tipo di discrezionalità esercitata o della qualifica rivestiva o del tipo di condotte realizzate, prevaricatrici o favoritrici o, ancora, in relazione al settore specifico di riferimento (es: settore sanitario o degli appalti)?
Partiamo da una considerazione. La discrezionalità nella pubblica amministrazione rappresenta un dato fisiologico, direi persino ontologico. Serve perché l’amministrazione deve essere in grado di adattare le norme alle situazioni concrete che non sono prevedibili in astratto. L’idea di un’amministrazione che si limita ad eseguire le norme di legge è una semplificazione che non tiene conto della complessità delle vicende soprattutto in una società come quella attuale caratterizzata da tante stratificazioni e specificità. Ciò detto è evidente che la discrezionalità è maggiormente a rischio di strumentalizzazioni illecite rispetto all’attività vincolata ma è un rischio che non si può in astratto sterilizzare. Esistono poi forme diverse di discrezionalità che concedono maggiori o minori margini di scelta da parte del funzionario. Onestamente sarei scettico nel pensare che possa graduarsi la responsabilità penale o di altro tipo in relazione alle diverse forme di discrezionalità. Credo, invece, una strada percorribile potrebbe essere quella di lavorare su regole non giuridiche (tipo linee guida) che contengono regole sostanziali e procedimentali idonee a guidare nei casi concreti la discrezionalità ed il cui rispetto potrebbe valere come una presunzione di legittimità per l’azione del funzionario. Un sistema, quello cui penso, non diverso da quello delle linee guida nei vari settori della medicina, riconosciute giuridicamente dalla legge Gelli/Bianco. Un tale meccanismo potrebbe forse garantire maggiormente il cittadino rispetto agli arbitri, ma anche il funzionario rispetto ai rischi che potrebbero derivare dal suo agire.
Abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite. Il DDL Nordio prevede anche la modifica dell’art. 346 bis c.p., con un ritorno all’originaria versione della norma, per come introdotta nel 2012 dalla Legge Severino ma, allo stesso tempo, un restringimento dello spettro applicativo della fattispecie con la previsione della natura “economica” dell’utilità data o promessa e una tipizzazione assai stringente del concetto di “mediazione onerosa”.
Quali sarebbero, a suo modo di vedere, gli effetti collaterali di questa modifica normativa, specialmente alla luce della coeva abrogazione dell’abuso d’ufficio?
Malgrado il traffico di influenze sia stato introdotto da poco più di 10 anni (dalla legge Severino del 2012) siamo alla terza riscrittura! E già questa è una clamorosa patologia del sistema. Un tira e molla che non fa onore alla nostra legislazione. Ciò detto, voglio premettere che io non ero stato fra entusiasti della modifica della fattispecie arrecata dalla legge cd. “spazzacorrotti” 2019 e soprattutto non mi aveva convinto l’assorbimento nella norma del millantato credito. Questo reato, infatti, si era ritagliato nel corso degli anni un suo spazio nel sistema penale, perché puniva un comportamento fraudolento nei confronti di un soggetto privato che danneggiava contestualmente anche l’immagine di imparzialità dell’amministrazione pubblica e dei suoi funzionari. La scelta della “spazzacorrotti”, che aveva avuto come effetto di rendere punibile anche chi era stato vittima di una vera e propria frode, non mi aveva convinto anche si trattava di un’opzione patrocinata dalle convenzioni internazionali. Il ddl Nordio sul punto torna indietro, ma senza ripristinare il millantato credito; fa, invece, confluire la millanteria (o come si preferisce dire la “vendita di fumo”) nella truffa, che però è sanzionato in modo molto più lieve del precedente delitto oltre ad essere procedibile a querela. Ma la parte della riforma che più mi trova critico è quella in cui è stata definita la “mediazione illecita”; si tratta di un concetto generico, soprattutto perché nessuna disposizione chiarisce quando la mediazione è lecita, che aveva sempre attirato gli strali della dottrina, per il suo difetto di tassatività e quindi in astratto la scelta del legislatore non può che essere condivisibile. Senonché, però, nella sua determinazione il ddl Nordio ha richiesto, fra l’altro, quale requisito imprescindibile che l’attività oggetto di traffico debba costituire per il pubblico ufficiale trafficato un illecito penale. Con la contestuale abrogazione dell’abuso di ufficio, le cd “mediazioni cd onerose” (quelle cioè in cui il trafficante si fa dare denaro o utilità economica per un suo “intervento”), finalizzate ad ottenere da parte del pubblico ufficiale una strumentalizzazione delle sue funzioni, diventeranno lecite. Ciò significa che da domani la condotta di chi dovesse chiedere del denaro per richiedere una “raccomandazione” ad un componente di commissione di concorso per far promuovere un candidato non costituirebbe più reato! E tanti altri analoghi esempi potrebbero essere fatti. È un passo indietro indiscutibile per il contrasto al malaffare nella pubblica amministrazione. Con le modifiche del decreto Nordio si depotenzia quindi in modo significativo la capacità applicativa della norma, con il rischio, altresì, che quelle poche condanne ottenute potranno persino decadere.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.