ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’intervento della Cassazione a Sezioni Unite n. 8500/2021 sui confini dell’applicazione del termine di decadenza dell’attività impositiva in presenza di oneri pluriennali
di Giuseppe Ingrao
Le Sezioni Unite intervengono sul problema della rettifica delle quote di ammortamento o dei ratei annuali relativi a beni durevoli o ad oneri pluriennali qualora sia ormai definitiva la dichiarazione relativa all’annualità di prima iscrizione in bilancio. La pronuncia, in modo del tutto prevedibile, sconfessa la tesi restrittiva sostenuta da Cassazione n. 9993/2018 e n. 2899/2019, legittimando la piena rettificabilità delle dichiarazioni di periodo, per ragioni attinenti sia al calcolo matematico di ripartizione dell’onere, sia all’esistenza ab origine dei presupposti di deducibilità.
Sommario: 1. Premessa. - 2. L’ordinanza di rimessione n. 10701/2020. - 3. Le argomentazioni prospettate dalle Sezioni Unite. - 4. La questione della conservazione dei documenti contabili - 5. Conclusioni.
1. Premessa
La sentenza a Sezioni Unite della Cassazione 25 marzo 2021, n. 8500, risolve una questione molto delicata nel settore del diritto tributario specificamente riferito alla decadenza dell’azione impositiva prevista dall’art. 43, Dpr n. 600/73. La questione specifica riguarda l’applicabilità dell’istituto della decadenza qualora il reddito dichiarato compendi fatti economici a carattere pluriennale che si manifestano tramite la deduzione di quote di ammortamento o di ratei annuali. Si è, invero, affermata una possibile preclusione della rettifica delle quote annuali, qualora siano inutilmente decorsi i termini per l’esercizio del potere di accertamento relativamente all’annualità in cui è stata rilevata in bilancio la spesa da dedurre in modo frazionato nei periodi di imposta successivi ([1]).
Il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite è il seguente: “Nel caso di contestazione di un componente di reddito ad efficacia pluriennale per ragioni diverse dall’errato computo del singolo rateo dedotto e concernenti invece il fatto generatore ed il presupposto costitutivo di esso, la decadenza dell’amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento va riguardata, ex art. 43 d.P.R. n. 600/1973, in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente reddituale è indicato, non già in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione concernente il periodo di imposta nel quale quel componente sia maturato o iscritto per la prima volta in bilancio”.
Tale conclusione viene supportata da una moltitudine di argomentazioni giuridiche, tra cui un ruolo centrale assume l’affermazione (contenuta nel par. 4.5) secondo cui “la definitività, in conseguenza del mancato accertamento, della dichiarazione di prima emersione del componente pluriennale non porta in sé il diverso effetto della ‘preclusività’ di sindacato per un periodo di imposta successivo; anzi, per meglio dire, non produce proprio alcun effetto di accertamento, il quale può derivare solo dalla positiva rispondenza alla realtà di quanto dichiarato” ([2]).
2. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite n. 10701/2020
In termini provocatori, possiamo da subito evidenziare che il problema interpretativo su cui si è chiesto l’intervento delle Sezioni Unite non esisteva.
D’altra parte, ove ci fossero state forti criticità in merito all’applicazione dell’art. 43, Dpr n. 600/1973, in presenza di oneri pluriennali, queste sarebbero emerse già da qualche decennio vista la amplissima rilevanza concreta della questione.
Invero, prima delle sentenze della Cassazione del 2018 e 2019, il dibattito sulla possibilità per l’Ufficio di sindacare qualsiasi profilo attinente alla deducibilità delle quote di ammortamento o dei ratei annuali dei componenti reddituali a rilevanza pluriennale, anche se erano ormai decorsi i termini per accertare l’annualità nella quale le spese pluriennali erano state per la prima volta rilevate in bilancio e in dichiarazione, vi erano solo alcune pronunce contrastanti della giurisprudenza di merito ([3]). Il problema interpretativo è stato, quindi, creato proprio da questi due precedenti della Cassazione.
Le sentenze della Cassazione n. 9993/2018 e n. 2899/2019 hanno affermato che una interpretazione costituzionalmente orientata (art. 24 Cost.) delle norme sulla decadenza del potere impositivo esige che si tenga conto della pronuncia della Corte costituzionale n. 280/2005, secondo cui il contribuente non può essere esposto all’azione del Fisco per termini eccessivamente dilatati; pertanto, aderendo alla soluzione della possibilità di contestare un costo pluriennale o una quota di ammortamento oltre il termine per la rettifica della dichiarazione relativa al periodo di imposta di concreto sostenimento della spesa si arriverebbe a violare il dictum della citata sentenza della Corte costituzionale, atteso che i presupposti per il diritto della deduzione nel suo complessivo valore (e non della singola quota) si realizzano appunto nel momento di acquisizione del bene o di sostenimento della spesa ad utilizzo pluriennale. Peraltro, si è rilevato che il principio di autonomia dell’obbligazione tributaria per singolo periodo di imposta non consente nuove ed autonome valutazioni tutte le volte in cui il presupposto per la deduzione di una spesa si rinnova annualmente in termini identici rispetto al passato, come dimostra quell’orientamento della giurisprudenza secondo cui è ammessa l’efficacia espansiva del giudicato su annualità diverse da quelle oggetto della decisione definitiva in relazione a situazioni geneticamente unitarie, destinate a ripercuotersi su annualità successive ([4]).
In questa cornice, la Cassazione ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, al fine di offrire un indirizzo certo, che potesse evitare di alimentare prevedibili futuri contenziosi.
L’ordinanza di rimessione sottopone ad una puntuale critica gli argomenti giuridici evocati dalle due citate sentenze per negare la possibilità di sindacare i ratei dell’onere pluriennale quali: a) il principio di autonomia dell’obbligazione tributaria, che ad avviso dei giudici opera solo sul piano sostanziale e non procedurale e come tale risulta inidoneo a risolvere la questione controversa; b) la regola dell’efficacia espansiva del giudicato esterno su fatti aventi efficacia permanente o pluriennale, ritenuta anch’essa estranea alla questione controversa perché l’inoppugnabilità di un componente reddituale conseguente a vaglio giudiziale consolidatosi nel giudicato è cosa diversa dall’inoppugnabilità della dichiarazione per effetto di mancato accertamento; c) il riferimento alla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 280/2005 in tema di apposizione di una termine di notifica alla cartella di pagamento, che - chiariscono i giudici - non è riferibile all’istituto della decadenza in generale, ma esclusivamente alla riscossione dei tributi.
Su un piano più generale, l’ordinanza precisa che l’amministrazione finanziaria ha il potere di contestare i bilanci di esercizio successivi rispetto a quello di prima imputazione della spesa, non manifestandosi alcun aspetto di consolidamento e che la tesi che consente di sindacare pienamente la deducibilità della quota di ammortamento o del rateo della spesa pluriennale non confligge con la tutela del contribuente al quale la legge consente di disfarsi della documentazione contabile relativa alla dichiarazione una volta decorsi i termini dell’accertamento e comunque decorsi dieci anni dalla formazione della stessa, perché “il regime dell’art. 22 andrebbe ricollegato a ciascuno dei successivi periodi di imposta nei quali il componente reddituale assuma rilievo, sicché per ognuno di tali periodi dovrebbe decorrere un nuovo termine dell’obbligo di conservazione documentale fino allo spirare del termine di decadenza dell’ultima dichiarazione rilevante”.
3. Le argomentazioni prospettate dalle Sezioni Unite n. 8500/2021
La sentenza a Sezioni Unite, nell’approcciarsi al problema interpretativo, ha ribadito la grande rilevanza della questione, segnalando che, oltre il problema della svalutazione dei crediti, investe questioni eterogenee quali le quote di ammortamento dei beni strumentali materiali e immateriali, la rateizzazione delle plusvalenze, i crediti di imposta di cui il contribuente può beneficiare in modo frazionato, nonché le perdite d’impresa. La questione - avvertono i giudici – impatta, peraltro, non solo sui soggetti Ires, ma anche sulle persone fisiche, con diluizioni che non sempre sono frutto di una pura ripartizione matematica, ma a volte presuppongono per ogni singola annualità una nuova valutazione che adegui la rata di competenza all’evolversi di situazioni fattuali considerate dalla legge come rilevanti. In ogni caso, i giudici ritengono di poter prospettare una soluzione unitaria.
La Corte innanzitutto richiama alcuni precedenti della Cassazione sulla questione controversa, dai quali si può in qualche modo ricavare la possibilità per l’Ufficio di contestare senza limiti i ratei di spesa pluriennale nel periodo di imposta di relativa imputazione. In dette pronunce si precisa che è una mera facoltà, e non un obbligo sancito da preclusione, quella di contestare la componente pluriennale sin dalla sua prima dichiarazione (anche quando dalla contestazione d’origine non possa scaturire alcuna immediata imposizione).
L’orientamento in questione muove dall’applicazione del principio di autonomia di ciascuna annualità, ma - rilevano le Sezioni Unite - questo principio viene utilizzato a volte per sostenere la distinta e piena potestà di accertamento su ogni singola annualità, a volte per la definitività e successiva immodificabilità di quanto inizialmente dichiarato ([5]). Pertanto, la sentenza n. 8500/2021 chiarisce che la novazione anno per anno dell’obbligazione tributaria incide in primo luogo sulla dichiarazione, nel senso che la mera indicazione di un fatto fiscalmente rilevante per quel periodo d’imposta non può di per sé esplicare alcun effetto preclusivo sulla contestazione di quel medesimo fatto qualora venga dichiarato ex novo in una dichiarazione di altra annualità. Il principio in questione rileva poi sull’accertamento nella misura in cui l’atto impositivo deve essere notificato a pena di decadenza entro i termini di cui all’art. 43, Dpr n. 600/73, che decorrono dalla presentazione della dichiarazione. Da quest’ultimo punto di vista - si sottolinea - la predetta norma non pone espressi limiti, e quindi, atteso che la decadenza è materia di stretta interpretazione, non è praticabile una lettura tale da ingenerare un’ipotesi di decadenza anticipata o ultrattiva a carico del Fisco, perché maturata a causa dello spirare del termine di accertamento relativo non alla dichiarazione oggetto di verifica, ma ad una precedente dichiarazione. Pertanto, l’accertamento si rinnova di anno in anno, anche con riguardo al fatto costitutivo dell’elemento pluriennale dedotto, e non solo guardando alla correttezza della singola quota annuale. La dichiarazione definitiva per mancato accertamento non esplica effetti preclusivi di sindacato per quelle componenti che si riproducono in anni successivi.
Dopo questo fondamentale inquadramento del problema, i giudici provvedono ad esaminare le due sentenze del 2018 e del 2019, che - come detto - hanno determinato l’emersione del dubbio interpretativo. Sul punto si nota che l’argomento dell’efficacia esterna del giudicato, che impedisce accertamenti successivi, non è dirimente, in quanto “la preclusione del giudicato tributario ultrannuale attiene al merito dell’imposizione, cioè alla sussistenza o insussistenza sostanziale dei suoi presupposti fattuali o di qualificazione giuridica, non già alla potestà impositiva dell’Ufficio, ostando infatti quel giudicato non all’accertamento in sé, ma ad un suo determinato esito sul fondo della pretesa”. Peraltro, come già rilevato dall’ordinanza di rimessione, si puntualizza che l’intangibilità della dichiarazione per semplice inerzia dell’amministrazione è cosa diversa da una sentenza passata in giudicato.
In merito all’argomento rappresentato dal richiamo al principio evocato dalla Corte costituzionale secondo cui il contribuente non può essere esposto all’azione del Fisco per termini eccessivamente dilatati (Corte cost. n. 280/2005), le Sezioni Unite ribadiscono la tesi dell’ordinanza di rimessione secondo cui il principio, peraltro forgiato in un’epoca in cui la fase di riscossione della notifica della cartella di pagamento non era soggetta a termini di decadenza, non può essere utilmente impiegato per l’accertamento. Ed infatti, quando un componente reddituale pluriennale viene riportato in dichiarazione ne vengono al contempo richiamati tutti i fatti presupposti e gli elementi costitutivi, e quindi non si tratta di attribuire all’amministrazione un potere di controllo per un tempo indeterminato così da violare quanto prescritto dal giudice delle leggi.
4. La questione della conservazione delle scritture contabili
Sin qui la ricostruzione delle Sezioni Unite è perfettamente in linea con quanto sostenuto dall’ordinanza di rimessione.
Vi è, però, un ulteriore aspetto sul quale la sentenza in rassegna, al pari del provvedimento di rimessione, poteva spendere qualche ulteriore riflessione. Ci riferiamo in particolare alla puntualizzazione delle differenze, nella prospettiva della conservazione dei documenti contabili probatori oltre il periodo decennale, delle ipotesi in cui: a) un elemento viene imputato esclusivamente nello stato patrimoniale del bilancio di un determinato periodo e si trasforma in modo graduato in componente reddituale degli esercizi successivi; b) un elemento viene imputato al conto economico del bilancio e gli effetti reddituali si esauriscono all’interno di quel singolo esercizio ([6]).
Le Sezioni Unite ribadiscono quanto asserito nell’ordinanza di rimessione secondo cui la circostanza che l’amministrazione contesti il fatto generatore e il presupposto costitutivo dell’elemento anche a molti anni di distanza dal suo insorgere potrebbe determinare la lesione di posizioni giuridiche tutelate in capo al contribuente, quali i profili dell’affidamento (art. 10 della legge n. 212/2000) e dei limiti all’obbligo di conservazione della documentazione probatoria (art. 2220 Cod. civ. e art 8, comma 5, legge n. 212/2000) relativa alle spese pluriennali.
In merito al profilo dell’affidamento, tuttavia, i giudici chiariscono che non può farsi rientrare la mera inerzia dell’amministrazione che sia incorsa in decadenza nell’accertare la dichiarazione nella quale è stato indicato per la prima volta il componente di reddito con valenza pluriennale. Dalla mancata sottoposizione a verifica di una annualità pregressa, il contribuente non può quindi trarre alcun convincimento tutelabile circa la correttezza della propria condotta e la legittimità dell’operato negli anni successivi ([7]).
Con riguardo al tema della conservazione della documentazione contabile, il supremo collegio richiama la previsione contenuta nell’art. 22, comma 2, del Dpr n. 600/1973, la quale dispone l’obbligo di conservazione delle scritture contabili fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta anche oltre il termine stabilito dall’art. 2220 del codice civile o dalle altre leggi tributarie. Questa normativa - secondo i giudici - depone chiaramente che “è il regime di conservazione documentale, per la sua evidente finalizzazione e strumentalità, a doversi per forza adeguare alla disciplina dell’accertamento ed alla sua tempistica, non il contrario”. L’assenza di una lesione del diritto di difesa per la predetta correlazione servente tra conservazione dei documenti contabili e accertamento degli uffici impositori è stata accertata dalla Corte Costituzionale (sent. n. 247/2011) a proposito della normativa sul raddoppio dei termini per l’accertamento.
Le Sezioni Unite, peraltro, valorizzando il principio di reciproca collaborazione espresso dallo Statuto del contribuente, ritengono superabile quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, con riguardo alle ipotesi in cui un bene a fecondità ripetuta partecipa alla formazione del reddito per un periodo temporale superiore al decennio, secondo cui l’ultrattività dell’obbligo di conservazione della contabilità oltre il termine di cui all’art. 2220 cod. civ. opera solo se l’accertamento, iniziato entro il decimo anno, sia stato definito a tale scadenza, altrimenti il contribuente non avrebbe altra difesa che conservare le scritture sine die (Cass. n. 9834/2016). Secondo quest’ultimo orientamento, in sostanza, in caso di ammortamenti ultradecennali, l’amministrazione mantiene il potere di accertamento anche dopo il decennio dall’acquisto del bene, in merito alle residue quote di ammortamento imputate in bilancio e in dichiarazione, ma la prova del contribuente circa i valori imputati originariamente può essere fornite con altre modalità rispetto all’esibizione di documenti di spesa e delle scritture contabili ([8]).
Per le Sezioni Unite, invece, il contribuente è tenuto alla conservazione delle scritture contabili non sine die, ma fino allo spirare del termine di rettifica della dichiarazione nella quale viene fatto valere l’ultimo rateo annuale della spesa pluriennale, anche se la fattispecie di ammortamento sia ultradecennale. E ciò fermo restando che l’imprenditore, qualora sia legittimamente privato oltre il termine decennale della documentazione contabile, deve essere ammesso a fornire in altro modo la prova a suo carico.
Orbene, come detto, il tema della conservazione della documentazione contabile probatoria poteva essere ulteriormente approfondito, evidenziando la differenza sostanziale che vi è tra i casi in cui l’elemento patrimoniale dell’attivo o del passivo si trasforma in modo graduato in elemento reddituale degli esercizi successivi, dall’ipotesi di elementi reddituali che si esauriscono puntualmente all’interno di un esercizio. Muovendo dalla circostanza che la conservazione dei documenti relativi alle spese pluriennali, ed in generale alle poste che confluiscono nello stato patrimoniale del bilancio, è innanzitutto una esigenza dell’azienda, posto che la determinazione del reddito di esercizio deriva anche dalla considerazione di eventi realizzati in periodi molto risalenti nel tempo, si sarebbe dovuto rimarcare che la questione del mancato rispetto delle norme civilistiche e fiscali in materia e la conseguente limitazione del diritto di difesa è destinato tendenzialmente a sfumare. Nel caso, invece, di spese afferenti esclusivamente ad un esercizio, che affluiscono direttamente nel conto economico di uno specifico anno e giammai si ripresentano in anni successivi, andava notato che non emerge né un esigenza sul piano gestionale, né un obbligo sul piano giuridico, di conservazione oltre i termini decennali civilistici ovvero di quelli previsti per l’accertamento tributario; pertanto, decorsi tali termini né l’azienda, né il Fisco hanno più interesse alla conservazione della documentazione probatoria contabile.
In definitiva, la conservazione della documentazione contabile ([9]) per un lungo periodo temporale in alcuni casi, come per gli oneri pluriennali, o anche per i componenti positivi di reddito ripartiti in più esercizi (es. rateizzazione quinquennale delle plusvalenze da cessione di azienda o di beni strumentali) è del tutto fisiologica.
D’altra parte, nemmeno le sentenze della Cassazione del 2018 e del 2019 hanno affermato che una volta decorsi i termini dell’accertamento relativi alla dichiarazione tributaria corrispondente al periodo di prima iscrizione in bilancio del bene durevole, il contribuente può disfarsi della documentazione probatoria contabile relativa al suo acquisto, solo perché le successive quote annuali di ammortamento non possono più essere rettificate dall’Ufficio impositore.
Ed invero - dobbiamo sottolineare – che, non conservando le scritture contabili, qualora l’impresa decidesse di vendere il bene, non potrebbe quantificare (e provare) il valore iniziale del bene ai fini del calcolo della plusvalenza o della minusvalenza. In altri termini, finché vi è un costo o un valore da “spendere” per abbattere materia imponibile che potrebbe emergere in futuro, il documento probatorio, a prescindere da quanti anni sono decorsi dalla sua formazione, va conservato fintato che non si esaurisce il potere di accertamento relativo all’annualità in cui l’elemento in questione assume concreta rilevanza ([10]).
Questa considerazione, che risponde ad una logica di esperienza comune, dovrebbe di per sé indurre a ritenere poco sostenibile l’argomentazione per cui la conservazione della documentazione contabile per un periodo “allargato” rispetto ai termini previsti in linea generale dal codice civile o dalla legislazione tributaria rappresenti sempre e comunque una condotta inesigibile. E ciò fermo restando che in tutte quelle ipotesi in cui emerge una situazione di buona fede in merito alla mancata detenzione delle scritture contabili, il contribuente che subisce la rettifica deve essere ammesso a fornire la prova circa la correttezza fiscale del proprio operato con altri mezzi probatori, come nel caso in cui i beni durevoli provengano da operazioni di conferimento di società o da altre operazioni straordinarie per cui vige il principio di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti.
5. Conclusioni
In conclusione, muovendo dalla circostanza che gli artt. 38 e 39 del Dpr n. 600/1973 non pongono limiti al contenuto delle rettifiche che gli Uffici possono apportare alla dichiarazione di periodo ([11]) e che l’art. 43 del medesimo decreto non lascia spazio a interpretazioni restrittive sui termini quinquennali di decadenza di notifica dell’atto impositivo, possiamo affermare che in merito al problema della rettifica dei ratei di oneri pluriennali, sia l’ordinanza di rimessione, sia la sentenza a Sezioni Unite sembrano disperdersi sulla ricostruzione di profili che non rivestono centralità rispetto al cuore del problema che, a nostro avviso, è quello della conservazione della documentazione probatoria contabile che ha dato origine al valore iscritto nel bilancio.
Era cioè necessario incentrare la motivazione sul fatto che qualora una spesa per l’acquisto di un bene durevole venga imputata nell’attivo patrimoniale, o qualora un elemento del passivo del bilancio sia in grado di ripercuotersi anche solo potenzialmente negli esercizi successivi, occorre sempre conservare la documentazione probatoria, anche oltre il decennio. Diversamente, per le spese che si esauriscono nell’esercizio, la conservazione è limitata al periodo di decorrenza dei termini per l’accertamento.
Invero, la conservazione dei documenti di spesa, prima che essere un obbligo giuridico, è una esigenza dell’azienda, posto che la determinazione del reddito di impresa deriva anche dalla considerazione di eventi realizzati in esercizi molto risalenti nel tempo.
Vi è poi da considerare che l’art. 110, comma 8, TUIR, in caso di constatazione di una deduzione anticipata di una spesa pluriennale (cioè di un errore nel piano di ammortamento), obbliga il Fisco a rettificare in melius anche le dichiarazioni degli esercizi successivi, evitando così che si possa alterare la considerazione unitaria del tributo e garantendo la continuità dei valori di bilancio ([12]). Anche da questo punto di vista, quindi, sembra ragionevole la tesi abbracciata dalle Sezioni Unite con specifico riguardo alle spese pluriennali.
Mettendo da parte il profilo giuridico della vicenda, non dobbiamo trascurare che l’esigenza di verificare prontamente la sussistenza dei presupposti per la deducibilità dell’onere pluriennale nel periodo di prima iscrizione in bilancio e in dichiarazione dovrebbe ricondursi non tanto al contribuente (che ha necessità di stabilizzare il rapporto fiscale e comunque di difendersi in modo più agevole), ma soprattutto al Fisco, il cui interesse è quello di acquisire il tributo corrispondente all’esatta fattispecie imponibile realizzata. Agire tardivamente vuol significare perdere la possibilità di rettificare i primi ratei della spesa pluriennale ([13]). Ma come è noto non vi sono le capacità operative degli Uffici di controllare tutti i soggetti titolari di partita Iva ([14]), i quali quasi sempre dichiarano elementi di carattere pluriennale.
Va ancora notato che la tesi sostenuta delle sentenze del 2018 e del 2019 non tiene conto del fatto che, a prescindere dalla decadenza, il contribuente potrebbe scegliere di non dedurre la quota della spesa relativa all’anno di prima iscrizione in bilancio (tramite una variazione in aumento in dichiarazione), facendo sì che il Fisco per quell’anno non possa rettificare la dichiarazione, pur ritenendo quella spesa pluriennale indeducibile. Questa condotta, ove si ritenesse che la mancata rettifica della dichiarazione abbia effetti preclusivi per le quote imputate e dedotte negli anni successive, potrebbe consentire al contribuente di beneficiare di deduzioni dal reddito di impresa in mancanza dei presupposti.
[1] Cfr. CASTALDI L., Intorno al principio di autonomia dei periodi impositivi e ai termini decadenziali di accertamento, in Riv. trim. dir. trib., 2019, p. 194 e ss., la quale sostiene che la tesi restrittiva, che fa leva sul criterio dell’autonomia dei periodi di imposta, risponde all’esigenza di salvaguardia della stabilità nel tempo di quei profili dell’obbligazione tributaria destinati a spiegare i loro effetti conformanti anche in periodi impositivi successivi a quelli di loro emergenza rispetto al quale sono rimasti incontestati; PEDROTTI F., Considerazioni intorno alla decadenza dal potere di accertamento in caso di componenti reddituali ad efficacia pluriennale, in Riv. dir. trib., 2021, II, p.53 e ss. L’autore ritiene che non giustificabile, alla luce del precetto costituzionale di uguaglianza, “la circostanza per cui il termine di decadenza relativo al controllo fiscale in merito al presupposto reddituale dichiarato dal contribuente possa essere diverso a seconda che il reddito di impresa comprenda componenti negativi concorrenti a formare la base imponibile in un unico periodo di imposta, ovvero componenti negativi deducibili in più periodi di imposta”.
In senso contrario cfr. SCHIAVOLIN R., Termini di decadenza per l’accertamento relativo a costi pluriennali: una sentenza opinabilmente garantista, in Riv. dir. trib., 2018, II, p. 280 e ss.
[2] La centralità di questa affermazione nel ragionamento della Corte è evidenziata da FRANSONI G., Le Sezioni Unite e la decadenza: una sentenza che farà danni, in Fransoni.it, 2021, il quale avverte che l’unico dato difficilmente controvertibile è che la decadenza appartenga alla categoria degli effetti preclusivi e che la preclusività è una vicenda stabilizzante: l’ordinamento valuta che, da un certo punto in poi, il costo sociale della verità sia maggiore dei suoi vantaggi.
[3] Si veda CTR Milano, 21 ottobre 2014, n. 5447; CTR Milano, 11 giugno 2015, n. 2597.
[4] Cfr. FERRANTI G., I costi pluriennali vanno contestati nell’anno in cui sono sostenuti, in, Corr. trib., 2018, p. 1927.
[5] Cfr. CASTALDI L., Intorno al principio di autonomia dei periodi impositivi, cit., p. 204, la quale evidenzia che la scelta legislativa di attribuire valenza decadenziale ai termini di accertamento si spiega con l’intento di preservare l’autonomia dei periodi di imposta, con ciò intendendo riferirsi all’effetto della immutabilità/insindacabilità successiva, e dunque di definitiva cristallizzazione della rappresentazione del modo di essere dell’obbligazione anche per quanto attiene ai profili di essa destinati a rilevare negli esercizi successivi.
[6] Sul tema della trasmissione fiscale dei valori nel tempo cfr. LUPI R. - CROVATO F., Il reddito d’impresa, Milano, 2002, p. 239.
[7] Questa affermazione andrebbe meglio precisata perché non vi è un automatismo tra lo svolgimento di una verifica senza rilievi e l’insorgenza di un affidamento del contribuente. Sussistono, invero, frequenti ipotesi in cui un imprenditore subisce un controllo generale, ma nulla gli viene contestato in merito alla deducibilità della spesa pluriennale. L’affidamento si forma certamente se dai verbali di verifica risulta uno specifico esame della sussistenza dei presupposti per la deducibilità della spesa. Qualora, invece, manchi un riferimento all’analisi dei presupposti di deducibilità dell’onere pluriennale, l’insorgenza dell’affidamento è subordinata alla dimostrazione del fatto che il verificatore, usando l’ordinaria diligenza ed in relazione alla dimensione quantitativa della spesa pluriennale, avrebbe dovuto accorgersi dell’esistenza di una violazione delle regole tributarie.
[8] Sul tema cfr. TRIVELLIN M., Il principio di collaborazione e buona fede nel rapporto tributario, Padova, 2008.
[9] Che non si esaurisce nelle fatture, ma include contratti, commesse, corrispondenza, etc.
[10] Non è infatti immaginabile un accertamento finalizzato alla mera riduzione del valore fiscale di un bene patrimoniale in vista di una futura ed eventuale incidenza sulla determinazione del reddito.
[11] Cfr. sul punto, con riguardo al tema della possibilità di notifica di un accertamento con cui si rettificano in diminuzione le perdite, FRANSONI G., Giudicato tributario e amministrazione finanziaria, Milano 2001, p. 308.
[12] Cfr. FICARI V., Reddito di impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, p. 207; NUSSI M., L’imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, p. 87; FRANSONI G., Giudicato tributario e amministrazione finanziaria, cit., p. 312.
[13] Nel caso di specie è stata persa la possibilità di riscuotere il maggior tributo conseguente al recupero della svalutazione dell’anno 2003.
[14] Le verifiche riguardano mediamente il 5% dei soggetti interessati.
La Corte costituzionale tedesca non ostacola la ratifica della decisione sulle risorse proprie. Until the next time?
di Marina Castellaneta
La ratifica della decisione sulle risorse proprie approvata dal Consiglio UE il 14 dicembre 2020 (decisione 2020/2053 e che abroga la decisione 2014/335)[1] non solo apre la strada alle azioni indispensabili per la ripresa di tutti i Paesi membri colpiti sul piano sanitario, economico e sociale, ma è anche diventata un simbolo sul ruolo dell’Unione europea in un’epoca molto simile a quella post-bellica. Inoltre, tenendo conto dell’urgenza del completamento della procedura di ratifica da parte di tutti gli Stati membri in quanto passo indispensabile per l’effettiva applicazione del Next Generation EU (NGEU), eventuali ostacoli o rallentamenti da parte degli Stati rappresentano uno stop al cambiamento di rotta che l’Unione, a seguito della pandemia, è intenzionata a raggiungere. E questa volta non solo a parole, ma anche con i fatti come dimostra l’entità delle somme (750 miliardi di euro) destinate ai piani di ripresa dei singoli Stati membri.
Al 22 maggio 2021, tuttavia, i Paesi membri che hanno ratificato il provvedimento sono 22 perché mancano ancora all’appello Austria, Ungheria, Paesi Bassi, Polonia e Romania.
L’Unione europea ha tirato un sospiro di sollievo a seguito dell’ordinanza della Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht, BvG) che ha respinto la richiesta cautelare finalizzata a ottenere un’ingiunzione preliminare contro la ratifica del Parlamento tedesco sulla decisione fondamentale per l’attivazione del Next Generation EU. L’ordinanza della Corte costituzionale del 15 aprile 2021 (2BvR 547/21)[2] chiude, almeno per il momento, la partita. Ma potremmo dire “fino alla prossima volta” perché nell’ordinanza il BvG, pur respingendo la richiesta di ingiunzione, non ha dichiarato la manifesta inammissibilità o infondatezza del ricorso, con la conseguenza che ogni intervento Ue in ambiti analoghi potrebbe passare nuovamente sotto i riflettori della Consulta. Inoltre, come vedremo, il via libera disposto con l’ordinanza di aprile potrebbe essere scardinato qualora si ravvisassero interventi di natura permanente in grado di intaccare l’autonomia del Parlamento tedesco. Sul punto, infatti, la Corte costituzionale si riserva di decidere nel merito e di porre, eventualmente un nuovo quesito pregiudiziale alla Corte Ue.
Rinviando ad altro articolo per la ricostruzione della vicenda[3], vale la pena soffermarsi su alcuni passaggi dell’ordinanza di aprile che ha affrontato un nodo centrale sia per il mantenimento del punto di equilibrio raggiunto tra Stati e Unione sia per il ruolo politico e il contributo decisivo dato dalla Germania della Cancelliera Angela Merkel al nuovo percorso dell’Unione indirizzato, almeno per alcuni aspetti, alla solidarietà e non più al solo pareggio di bilancio. Certo, il punto era delicato perché è la prima volta che la Commissione va sul mercato per conto dell’Unione per reperire importi che saranno utilizzati dagli Stati nel loro insieme. Un punto di svolta non visto con favore da tutti anche perché considerato un passo quasi irreversibile verso la costituzione di un’unione fiscale, non voluta da alcuni partiti politici nell’intera Europa[4].
Nel caso in esame, tutto aveva preso il via dalla decisione depositata il 26 marzo 2021 con la quale era stato sospeso il procedimento di ratifica e stabilito che il Presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier non poteva firmare la legge di ratifica sulla decisione Ue sulle risorse proprie fino alla pronuncia sulle misure provvisorie della stessa Consulta tedesca[5]. Respinto il ricorso cautelare, la Germania ha ultimato la ratifica. Va ricordato che tale processo è indispensabile in base all’articolo 311 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea il quale stabilisce che il bilancio dell’Unione sia finanziato integralmente tramite risorse proprie fatte salve le altre entrate. L’approvazione è affidata al Consiglio che delibera secondo una procedura legislativa speciale all’unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo. Inoltre, il Consiglio può istituire “nuove categorie di risorse proprie o sopprimere una categoria esistente” e, in ogni caso, la decisione entra in vigore solo dopo l’approvazione degli Stati membri “conformemente alle rispettive norme costituzionali”. Se in passato il periodo di ratifica prendeva un tempo piuttosto lungo (quasi due anni), senza però causare particolari problemi, per la decisione del 2020 la tempestività è indispensabile. Infatti, se è vero come sottolineato nello studio del Parlamento europeo di maggio 2021, curato da Alessandro D’Alfonso, “National ratification of the Own Resources Decision”, che, in via generale, la decisione sulle risorse proprie non ha una data di scadenza e che le sue disposizioni continuano ad applicarsi fino alla ratifica del nuovo provvedimento, è anche vero che l’erogazione dei fondi “straordinari” prevista con la decisione del 2020 deve essere immediata per salvare l’economia europea.
La Corte costituzionale tedesca, come detto, non ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato e così ha precisato che nei casi in cui la Germania decida di adottare importanti misure di solidarietà a livello internazionale ed europeo, che incidano sulla spesa pubblica, è richiesta l'approvazione del Bundestag, che deve inoltre avere un’influenza sufficiente sull’utilizzo dei fondi forniti. In caso contrario, sarebbe violato il principio di autodeterminazione democratica che porta a una protezione dei cittadini rispetto ad erosioni che arrivino anche da istituzioni europee. Così, le decisioni sulla spesa pubblica decise in modo significativo sul piano sovranazionale non devono privare il Bundestag della sua prerogativa decisionale, tanto più che si tratta dell’organo direttamente responsabile nei confronti della collettività. È così impossibile costituire strumenti permanenti che spostino tale responsabilità per scelte di altri Stati in particolare “where this could have potentially unforeseeable consequences”. Se la Germania assume misure di aiuto a livello Ue o sul piano internazionale che incidono sul bilancio statale, l’approvazione del Parlamento è necessaria in ogni caso e lo stesso Bundestag deve avere un’influenza sufficiente su come i fondi saranno usati.
Quest’affermazione apre la strada a possibili ulteriori ricorsi. Tuttavia, in questo caso, per la Corte costituzionale, seppure sulla base di un primo esame, non sembra probabile che la “responsabilità di bilancio complessiva del Bundestag (art. 79 (3) GG in combinato disposto con l'art. 110 e art. 20 (1) e (2) GG) sia stata effettivamente violata”, così come si può escludere una diretta responsabilità della Germania che potrebbe derivare da un’assenza di liquidità, per colmare la quale il meccanismo previsto comporta un intervento della Commissione europea. Tra l’altro, i giudici di Karlsruhe non hanno sinora chiarito se e in che misura il principio di democrazia possa essere azionabile non solo nei casi in cui gli impegni economici, finanziari impediscano l’autonomia di bilancio per un tempo considerevole, ma anche nei casi in cui la limitino unicamente in talune specifiche situazioni e, quindi, per questa situazione, è necessaria una pronuncia di merito della Consulta.
Così, allo stato degli atti e a un primo esame sommario, la Corte rileva che la decisione sulle risorse proprie 2020, garantito che il Bundestag mantenga un'influenza parlamentare sufficiente sulle decisioni relative all'utilizzo dei fondi forniti, non appare in contrasto con la Costituzione. Pertanto, la Corte costituzionale federale ha basato la propria decisione nel procedimento cautelare preliminare su un bilanciamento delle conseguenze, arrivando a una conclusione non favorevole alle ricorrenti.
Se fosse stata emessa l'ingiunzione preliminare richiesta, la decisione sulle risorse proprie del 2020 non avrebbe potuto entrare in vigore fino alla conclusione del procedimento principale e questo ritardo avrebbe inciso negativamente sull'obiettivo di politica economica perseguito, con svantaggi irreversibili. Inoltre, la Corte prende in considerazione la posizione del Governo federale, che gode di un ampio margine di apprezzamento nella valutazione delle questioni di politica estera, arrivando alla conclusione che il ritardo dell’entrata in vigore della decisione metterebbe a dura prova le relazioni estere ed europee, di stretta competenza governativa. Proseguendo nel bilanciamento e nel raggiungimento di un punto di equilibrio tra vantaggi e svantaggi, la Corte ritiene che le conseguenze pregiudizievoli sarebbero inferiori nel caso in cui l'atto nazionale che ratifica la decisione sulle risorse proprie del 2020 fosse successivamente ritenuto incostituzionale.
Di qui la conclusione, almeno per il momento, dell’entrata in vigore della decisione sulle risorse proprie del 2020 una volta che tutti gli Stati membri l'avranno ratificata. Ciò autorizzerà la Commissione europea a contrarre prestiti fino a 750 miliardi di euro a prezzi 2018 sui mercati dei capitali per conto dell'Unione europea, fino al 2026.
Se poi, nel merito, la Corte costituzionale federale dovesse ritenere che la decisione sulle risorse proprie costituisce un atto ultra vires o ritenesse, contrariamente all'esame sommario nel procedimento di ingiunzione preliminare, che essa lede l'identità costituzionale, spetterebbe al governo federale, al Bundestag e al Bundesrat ripristinare l'ordine costituzionale con tutti i mezzi a loro disposizione. La Corte non ha poi escluso un possibile nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea. La saga continua.
[1] In Gazzetta Ufficiale Ue del 15 dicembre 2020, L 424, p. 1 ss. Si veda anche il regolamento 2020/2093 del 17 dicembre 2020 che stabilisce il quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-2027, in Gazzetta Ufficiale Ue del 22 dicembre 2020, L433, p. 1 ss.
[2] Reperibile nel sito https://www.bundesverfassungsgericht.de/SharedDocs/Pressemitteilungen/EN/2021/bvg21-029.html.
[3] M. Castellaneta, Bundesverfassungsgericht, ombelico del sovranismo o volano per un’Europa solidale?, in questa Rivista.
[4] Si veda L. Lionell, Green light from Karlsruhe for the ratification of new EU own resources decision. First fractures in the prohibition of fiscal integration?, in European Law Blog, 3 may 2021, https://europeanlawblog.eu.
[5] Il comunicato è nel sito https://www.bundesverfassungsgericht.de/DE/Homepage/homepage_node.html
75 anni dopo: il voto alle donne e le sfide, sempre aperte, per una democrazia inclusiva.
di Tania Groppi
Una coincidenza? Non direi proprio. Il 2 giugno del 1946 si realizzano due eventi di portata epocale nella storia d’Italia.
Il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea costituente pongono le fondamenta della Repubblica italiana, segnando il punto di svolta di un processo che porterà, con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, a un ordinamento del tutto nuovo, non solo rispetto a quello fascista, ma anche allo Stato liberale prefascista. Un ordinamento inclusivo anziché escludente, rispettoso del pluralismo anziché a una dimensione, pacifista anziché imperialista.
Ebbene, questa trasformazione dell’Italia, una vera e propria rifondazione, un nuovo inizio, un pactum societatis difficilmente immaginabile e costruibile per chi non avesse attraversato quel crogiuolo di dolore, macerie, morti, che era stata la Seconda guerra mondiale, è avvenuta, per la prima volta nella millenaria storia dei popoli che si sono susseguiti sulla penisola italica, con la partecipazione politica delle donne. Sia come elettrici, che come elette.
Giunge così a compimento un processo che nel nostro paese, come in altri, è stato particolarmente lungo e controverso, quello della conquista dell’eguaglianza tra i sessi nel godimento dei diritti politici: le donne avevano fatto parte dei “grandi dimenticati” (insieme ad altri soggetti, come i popoli colonizzati e gli schiavi) dalle rivoluzioni per i diritti della fine del Settecento e non erano riuscite a compiere quel cammino di conquiste che era invece riuscito, tra Ottocento e Novecento, ai movimenti dei lavoratori.
Le donne votano, massicciamente, quel 2 giugno del 1946, e un manipolo di esse riesce anche ad essere eletto. La pattuglia delle 21 “Madri costituenti” (quanti decenni ci sono voluti prima che si iniziasse ad utilizzare questa espressione!) fa il suo ingresso nell’Assemblea costituente, tra i commenti di giornalisti e cinegiornali, che osservano incuriositi questo fenomeno esotico e un po' bizzarro.
Che differenza con quel che sta accadendo in questi giorni, nel 2021, in un ordinamento lontano, ma per tanti versi vicino all’Italia come quello cileno, dove si sta per insediare una Convenzione costituente che, grazie al sistema elettorale utilizzato è completamente paritaria, 78 uomini e 77 donne chiamati a scrivere il nuovo patto fondamentale, a quasi cinquant’anni dall’uccisione di Salvador Allende e dall’avvio della dittatura.
È fin da subito evidente un primo problema, che si trascinerà poi per decenni e che resta ancora oggi insoluto. Tante sono le elettrici, più numerose persino degli uomini, ma poche sono le elette, In mezzo, c’è la questione delle candidate, poche anch’esse, e dell’attitudine dei partiti politici.
Un secondo si affaccia subito dopo. Nell’Assemblea costituente, le donne sono relegate ad occuparsi di tematiche ritenute più consone per il loro genere: eccole così alle prese con diritti delle lavoratrici, famiglia, infanzia, istruzione, lontane dalla “sala delle macchine” della forma di governo o della magistratura. Dove il gioco si fa serio, dove è in ballo il potere, quello non è un “terreno per donne”.
Ciò nonostante, le più combattive tra loro riescono in qualche modo ad emergere, a far sentire la propria voce, a lasciare un segno su alcuni temi, dal principio di eguaglianza (come non ricordare quel “di fatto” inserito grazie a Teresa Mattei nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione) all’accesso alle cariche pubbliche, con gli interventi di Maria Federici che riesce ad evitare che si faccia riferimento alle “attitudini” dei due sessi, per limitarsi ai casi più conosciuti.
La stagione che si apre subito dopo, a partire dal 1948, è come noto quella della inattuazione costituzionale. Anche qui un altro parallelismo, purtroppo in negativo. In tutti i campi, le novità introdotte dai costituenti (e dalle costituenti, dovremmo dire) restano per molto tempo sulla carta. I diritti delle donne non fanno eccezione, a partire da quella eguaglianza “senza distinzione di sesso” dell’art. 3, comma 1, della Costituzione: ci vorranno molti anni, e numerosi interventi della Corte costituzionale, per rimuovere discriminazioni macroscopiche, come la punizione con sanzione penale dell’adulterio femminile o l’impossibilità per le donne di accedere ai concorsi per la magistratura o per le posizioni dirigenziali nelle amministrazioni pubbliche.
Se molti gravi elementi discriminatori sono stati rimossi negli anni 1970 (pensiamo alla riforma del diritto di famiglia), ancora più lento e parziale è stato il cammino verso una vera e propria democrazia paritaria, che comprende non soltanto la partecipazione elettorale femminile, quella per intendersi avviata nel 1946 e che oggi celebriamo, ma la presenza paritaria di donne e uomini nei luoghi dove si adottano le decisioni politiche.
In questo campo, un primo momento di svolta è costituito dagli anni 1990. Qui, benché non vada trascurato l’impulso del diritto internazionale (sono gli anni della Conferenza di Pechino delle Nazioni Unite), spazi nuovi e prima impensati si aprono in Italia grazie al tentativo di rinnovare la rappresentanza politica nel crollo della cd. “Prima Repubblica”. Il vuoto di potere che si crea in conseguenza della fine di equilibri consolidati da decenni, consente che si “insinuino” previsioni legislative finalizzate a promuovere la rappresentanza femminile negli organi elettivi. Se la sentenza della Corte costituzionale n. 422/1995 ha costituito una dura (e non del tutto prevedibile) battuta d’arresto, il processo non si è fermato, spostandosi dal piano legislativo a quello delle fonti costituzionali, come è sembrato richiedere la sentenza stessa, che è stata letta nel senso di rendere necessaria la introduzione di un “ombrello costituzionale”. Ecco così nel 2003 la modifica dell’art. 51 (con l’aggiunta, nel primo comma, di una nuova frase: «A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini»), ma già nel 2001 si era inserito nell’art. 117, sulla potestà legislativa delle Regioni ordinarie (che viene completamente riscritto), un comma, il settimo, dedicato all’eguaglianza donna-uomo, introducendo una obbligazione positiva per i legislatori regionali, nella quale risuona fortemente ̶ come riconoscerà la sentenza n. 4/2010 della Corte costituzionale ̶ l’eco del secondo comma dell’’art. 3: «Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive».
Eccoci quindi arrivati, da quel lontano 2 giugno del 1946 che ha avviato la partecipazione politica delle donne, quasi ai nostri giorni. Cosa è accaduto in questi ultimi venti anni, dovremmo ora chiederci?
Se guardiamo ai dati della presenza femminile negli organi elettivi, essi risultano alquanto migliorati rispetto all’epoca precedente. In particolare, per il parlamento, la legge elettorale n. 165/ 2017 sembra aver prodotto qualche risultato, portando, con 225 elette alla Camera e 109 al Senato, al livello più alto della storia repubblicana il numero di donne parlamentari, ben il 35%. È questo il culmine di un lungo cammino: pensiamo che sono stati necessari 30 anni e sette legislature per eleggere più di 50 donne in parlamento e che soltanto nella X legislatura, cioè nel 1987, le donne hanno superato il 10% dei parlamentari, mentre sono giunte a sfiorare il 20% soltanto nella XVI, nel 2008 (molti altri dati interessanti sono disponibili nel Dossier elaborato nel 2018 dal Senato).
La situazione resta più complicata a livello regionale, dove le norme di riequilibrio via via introdotte, anche a seguito di un impulso dal centro intensificatosi negli ultimi anni (pensiamo, oltre alla legge di principio n. 20/2016, che chiede una presenza del 60/40 nelle liste e la doppia preferenza di genere, alla sostituzione, nel 2021, da parte del governo della Regione Puglia, per non aver attuato tali principi: primo, e per ora unico caso di utilizzo da parte dello Stato del potere sostituivo nei confronti di una regione per omissione legislativa), sembrano prestarsi ad elusioni e aggiramenti. L’EIGE (European Institute for Gender Equality) nel suo rapporto del 2020 dedicato all’Italia, rileva, quanto al “potere politico”, la presenza di un gender gap particolarmente significativo proprio a livello regionale: infatti, sulla base dei dati del 2019, la presenza femminile nei consigli regionali si attesta al 19,7% (a fronte di una media europea, in organi equivalenti, del 29%) e questo dato contribuisce a connotare una posizione italiana non proprio brillante (al 16 posto dell’Europa a 28).
Basti pensare a una regione come la Liguria, andata al voto nel 2020, che ha adeguato proprio in extremis la propria legislazione ai principi statali: il risultato di elezioni svoltesi con la normativa adeguata è di 3 donne su 30 consiglieri. Per non parlare dei presidenti di regione, una categoria nella quale la presenza femminile è assai sporadica, per usare un eufemismo, per non dire quasi inesistente (al momento solo l’Umbria ha una presidente donna).
Ma, oltre alle cariche elettive, la partecipazione femminile resta circoscritta anche in tutti quei luoghi decisionali ai quali si accede per elezione di secondo grado o per nomina: il che comprende sia organi politici, come il governo o le giunte regionali, ma anche autorità indipendenti o di garanzia, dalla Corte costituzionale al Consiglio superiore della magistratura. Inutile qui presentare la lunga lista dei “mai”: mai una donna è stata in Italia presidente del consiglio, mai presidente della Repubblica, mai presidente di una autorità indipendente, mai governatore della banca d’Italia. L’elezione di Marta Cartabia alla presidenza della Corte costituzionale, nel dicembre 2019, ha rappresentato una novità enorme, che non cancella però il fatto che, nella storia della Corte medesima, ci siano state soltanto 7 donne su quasi 120 giudici costituzionali.
Insomma, 75 anni dopo quel 2 giugno 1946, siamo ben lontani da una democrazia paritaria, fatta di donne e di uomini. Che si tratti dell’ennesimo parallelismo, cioè della riprova della incapacità di costruire nel nostro paese una democrazia veramente inclusiva, che consenta la partecipazione di tutti, in condizioni di eguaglianza, alla adozione delle decisioni politiche?
Una delle finalità degli anniversari è quella di suscitare una riflessione pubblica. In questo specifico anniversario, mi pare che la riflessione debba ruotare sul ruolo del diritto nel confrontarsi con una realtà che sembra assai ostile al cambiamento. Nel senso che alcuni settori della società italiana, tra i quali si colloca senza dubbio in una posizione di rilievo quello della politica, restano per le donne di difficile accesso, nonostante l’esistenza di una serie di norme, non troppo stringenti, ma nemmeno del tutto vacue, di riequilibrio.
Che fare? Come può il diritto contribuire a scardinare una mentalità che resta spesso patriarcale? Questo nella convinzione che, come è stato detto da una delle giuriste di punta del pensiero femminista, Catharine Mackinnon, il diritto «non è tutto ma non è nemmeno niente», e che è chiamato a una complessa interazione col tessuto delle norme sociali e dei comportamenti umani.
Sono sufficienti politiche pubbliche nel settore dei servizi sociali, che alleggeriscano la pressione di cura sulle donne, per liberare quelle energie necessarie per affrontare la vita politica? Oppure servono norme più stringenti, vere e proprie azioni positive in senso forte, che prevedano quote femminili nei luoghi decisionali, a partire dal governo, dalle giunte regionali, per arrivare alle autorità indipendenti, alle società partecipate…Norme che portino il genere storicamente subalterno ad essere presente in modo significativo in tali istituzioni, nella consapevolezza che occorre una critical mass minima, considerata almeno pari al 30%, per poter integrare la prospettiva di genere nelle decisioni degli organi collegiali ed evitare il cd. “tokenism”, ovvero la presenza di un numero di donne irrisorio e del tutto incapace di sovvertire le gerarchie di genere.
Tutto ciò nella convinzione, che è anche una speranza e chissà, forse un sogno, che una presenza femminile consistente possa permettere non solo una democrazia più paritaria, ma anche veramente plurale. Una democrazia nella quale le donne possano portare pienamente le proprie competenze e la propria voce. Una voce che dia voce a tutti gli oppressi, uomini e donne, a quella umanità esclusa che per tanti secoli e millenni esse hanno, più di tutti, incarnato. Chissà che questo non fosse il desiderio profondo che animava, quel 2 giugno 1946, quei milioni di donne che per la prima volta poterono dire una parolina, mettendo nell’urna le loro schede.
Denunciare l’estorsione in Sicilia: fatto ordinario o “rivoluzionario”?
Intervista di A. Apollonioa Giuseppe Condorelli
Giuseppe Condorelli è titolare dell'omonima azienda dolciaria siciliana, nota in tutto il mondo per i suoi torroncini. Ma è anche colui che di recente ha denunciato un tentativo di estorsione mafiosa, consentendo alla giustizia di fare il suo corso. Qualche anno prima aveva agito nello stesso modo: gli era stato chiesto il pagamento di una tangente e lui era corso a denunciare i fatti. Oggi, con moto d'orgoglio e d'ammirazione, viene cercato dai media del Paese per raccontare la sua esperienza, ma il cavaliere Condorelli si limita a dire: "ho fatto una cosa che dovrebbe essere normale".
Abbiamo cercato di capire in che cosa consista questo tipo di normalità, oggi in Sicilia.
Lei ha denunciato un tentativo di estorsione mafiosa e ha fatto arrestare i responsabili. La notizia ha suscitato un notevole clamore: alcuni parlamentari hanno sventolato in aula i torroncini Condorelli, i giornali e le testate nazionali sono accorse ad intervistarla, l'opinione pubblica la vede come un “eroe”. Lei si sente tale?
Assolutamente no. Non mi sento affatto un “eroe”, anzi sono rimasto alquanto esterrefatto dell’eco mediatica che ha avuto la notizia. Da cittadino nonché imprenditore siciliano, ho sempre creduto nella legalità quale valore imprescindibile nell’esercizio dell’attività d’impresa.
Già in passato aveva subito richieste estorsive, e puntualmente aveva denunciato. Lo Stato, e quindi la magistratura e le forze dell'ordine, ieri e oggi, si sono rivelate pronte a fronteggiare le minacce e i pericoli che lei denunciava?
Anche in occasione di esperienze negative di tale genere, ho potuto constatare l’efficienza e l’efficacia nelle azioni delle istituzioni e delle Forze dell’Ordine a tutela dei cittadini che denunciano atti intimidatori e/o tentativi estorsivi.
Lei è un imprenditore di primo piano, i suoi prodotti sono esportati in tutto il mondo: chi in Italia non conosce i torroncini Condorelli? Dal suo punto di vista, privilegiato, che differenza corre tra essere imprenditore in Sicilia e altrove? E quanto pesano le dinamiche criminali della sua terra?
Certamente, non volendo essere retorico e non volendo esternare “ovvietà”, posso affermare che fare l’imprenditore in Sicilia è ancora più difficile che altrove. In Sicilia , l’imprenditore è consapevole di dover lottare non solo contro le dinamiche criminali, ma anche contro le inefficienze burocratiche degli apparati pubblici e, talvolta, anche contro il deficit infrastrutturale e logistico.
Nel linguaggio mafioso, l'operatore economico è in regola quando è sotto la “protezione” di qualcuno. Questo modo di pensare risale agli albori ottocenteschi del fenomeno, in cui i grandi proprietari terrieri dell'Isola erano costretti ad affidare la protezione dei loro interessi ai mafiosi con la coppola e la lupara. Eppure siamo nel 2021....
Sappiamo che le origini della Mafia in Sicilia risalgono alla fine dell’ottocento con i primi movimenti dei “fasci” e successivamente con l’incedere dei mafiosi che taglieggiavano i grandi proprietari terrieri. Oggi sono cambiati i soggetti mafiosi e le loro dinamiche operative, ma fortunatamente c’è una maggiore coscienza civica nella lotta contro ogni forma di estorsione .
L'imprenditore siciliano come percepisce il fenomeno mafioso? Come un retaggio storico, un passato lontano, oppure un rischio concreto per l'attività di impresa? E come, dal suo punto di vista, l'imprenditore dovrebbe intendere il fenomeno mafioso?
L’imprenditore operoso, onesto e che ama il suo lavoro non può e non deve scendere a compromessi con i soggetti mafiosi.
Cosa si sente di dire ai suoi colleghi che, pur con le difficoltà del momento, nell'esercizio dell'attività di impresa credono sia “meglio” pagare il pizzo?
Direi che “denunciare conviene”! Oggi, la denuncia è l’unica azione che deve intraprendere l’imprenditore se vuole salvaguardare la propria impresa e soprattutto il futuro della stessa.
Lei, dalle colonne di un giornale, ha affermato rivolgendosi ai suoi estorsori se li avesse avuti di fronte: “Capisco che nella vita si può anche sbagliare, ma gli direi che non è questo il modo di vivere. La strada corretta è quella della dignità, dei valori, del lavoro. Non c'è alternativa, devono cambiare”. Le sue parole sono disarmanti, straordinariamente semplici, e da esse si coglie un messaggio di speranza per l'intera Sicilia: non c'è alternativa alla legalità. Vale per i mafiosi, per gli imprenditori, per le istituzioni. E' così?
Assolutamente sì! Nella vita di ogni uomo esistono dei valori fondamentali quali: dignità, legalità e onestà. Ecco perché anche i soggetti mafiosi possono redimersi nel tempo e possono cambiare.
Pochi giorni fa ricorreva l'anniversario della morte di Giovanni Falcone: egli all'inizio degli anni Novanta affermava sconsolato: “Oggi in pratica quasi tutti pagano la tangente”. Se oggi Falcone fosse ancora tra noi, e avesse davanti la nuova imprenditoria siciliana, pronuncerebbe le stesse parole?
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono i veri “eroi” dei nostri tempi. Grazie a loro che hanno pagato un prezzo elevatissimo con le loro vite spezzate da un vile e barbaro attentato nel 1992, oggi la Sicilia e gli imprenditori siciliani hanno preso le distanze dai fenomeni mafiosi. Credo che, anche oggi, Falcone avrebbe continuato la sua lotta contro la mafia con lo stesso impegno e con la stessa caparbietà di allora.
Sono stati giorni difficili, in cui i riflettori erano puntati su di lei. Una domanda forse molto personale: la sera, prima di addormentarsi, a cosa pensa?
Penso alla mia famiglia, alla mia azienda e al bene sviscerato che provo nei confronti della mia terra. Sogno un futuro migliore per i miei figli e soprattutto un futuro scevro da qualsiasi forma di sopruso e prepotenza.
È stato detto che l'invincibilità della mafia non esiste, dipende da noi: è così?
Non credo che la mafia sia invincibile, perché, il successo della lotta dipende solo da noi.
Occorre cambiare la cultura sociale soprattutto nei soggetti più giovani e per fare ciò occorre anche l’aiuto e la collaborazione di chi ci governa.
Incostituzionalità dell’interpretazione analogica “creativa” in malam partem (nota a Corte cost. 14 maggio 2021 n. 98) di Maria Alessandra Sandulli
Sommario: 1. La rilevanza della sentenza per il diritto amministrativo - 2. I principi di diritto affermati dalla Corte costituzionale - 3. La questione all’esame della Consulta - 4. Conclusioni.
1. La rilevanza della sentenza per il diritto amministrativo.
Con la sentenza n. 98, pubblicata il 14 maggio scorso, la Corte costituzionale (Presidente Coraggio, redattore Viganò) ha segnato un importante punto fermo sulla delimitazione dei confini tra potere giurisdizionale e potere legislativo, quanto meno in ambito sanzionatorio.
Il tema è evidentemente di massimo interesse anche per il diritto amministrativo sotto diversi profili.
La prima, di più immediata evidenza, è data dalla progressiva estensione dell’ambito delle “pene amministrative”: oltre all’aumento delle sanzioni pecuniarie per effetto del processo di depenalizzazione degli illeciti contravvenzionali (a partire dalle leggi n. 317 del 1967, 706 del 1975 e, soprattutto, 689 del 1981, seguite da vari interventi successivi, come il d.lgs. n. 8 del 2016), si assiste invero a una proliferazione di sanzioni interdittive[1] (categoria nella quale evidentemente rientra anche la sottospecie – dai confini estremamente labili e incerti - dell’incapacità di contrarre con le pubbliche amministrazioni di chi si sia reso responsabile di precedenti illeciti o di falsità o omissioni dichiarative) e di misure eccezionalmente ostative alla fruibilità delle regole generali a tutela del legittimo affidamento in forza di pretese violazioni dell’obbligo di “autoresponsabilità” dichiarativa (come quelle previste dal comma 2-bis dell’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 s.m.i. per l’operatività del limite temporale di esercizio del potere di annullamento d’ufficio degli atti di autorizzazione e di ammissione a vantaggi economici e del potere di controllo postumo sulla s.c.i.a.).
La seconda è la tendenza - troppe volte purtroppo vanamente criticata - della giurisprudenza amministrativa a debordare dai confini dell’interpretazione, per esercitare, in inaccettabile concorso con il legislatore, una vera e propria funzione “creativa” di regulae iuris, anche in malam partem[2] e la denunciata “ritrosia” della Corte di cassazione a rilevare l’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore.
Il tema assume peraltro massima attualità e importanza in un momento in cui vi è assoluto bisogno di assicurare “certezza” ai cittadini e agli operatori economici, quantomeno sulle conseguenze giuridiche dei loro comportamenti. Perché, come ho cercato ripetutamente di segnalare, non si può sperare in una ripresa economica in un sistema che continua a tessere “trappole” e incertezze, esponendo i cittadini e gli operatori economici al costante rischio di una “riscrittura giurisprudenziale” in malam partem di disposizioni ambigue – e dunque interpretabili in buona fede anche in senso diverso e più favorevole all’agente – o, addirittura, caratterizzate da un dettato letterale assolutamente chiaro, stravolto dal giudice solo perché ritenuto “irragionevole” [3]. È emblematica, per tutti, la giurisprudenza sui richiamati limiti temporali al potere dell’amministrazione di rimuovere i propri atti (o dichiarare l’inefficacia delle s.c.i.a.) per vizi originari di legittimità, la quale, per un verso, propone indebite interpretazioni estensive delle eccezioni (come tali di stretta interpretazione) alla regola generale di consumazione del potere alla scadenza del termine stabilito dalla legge (nel 2015, 18 mesi, ora ridotti a 12[4] e, per gli atti legati al Covid-19, addirittura a 3[5]) per presunti “falsi o mendaci” dei soggetti istanti o segnalanti e, per l’altro verso, a fronte di una disposizione che inequivocabilmente individua il dies a quo per la decorrenza del termine nell’adozione del provvedimento originario, senza distinguere tra provvedimenti già adottati e provvedimenti successivi all’entrata in vigore della norma, lo ha, dopo qualche iniziale (e più corretta) interpretazione secundum litteram, prevalentemente posticipato a quest’ultima data e, in alcune pronunce, ne ha addirittura negato – contra legem – l’applicazione ai provvedimenti adottati prima della novella[6]. E non sono certamente meno gravi le interpretazioni estensive delle ipotesi di illecito ostative alla stipula di contratti pubblici (esemplari, per tutte, la confusione, opportunamente fermata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, tra false dichiarazioni e dichiarazioni erronee o reticenti e l’assimilazione analogica del rappresentante del socio unico persona giuridica al “socio unico persona fisica”) o, con riferimento a una materia di confine tra il diritto amministrativo e il diritto penale, le interpretazioni estensive del concetto di attività edilizia senza titolo, mediante un’indebita attrazione in tale ipotesi di illecito delle attività realizzate in base a titolo illegittimo[7].
2. I principi di diritto affermati dalla Corte costituzionale.
Merita dunque grande attenzione e massimo apprezzamento la sentenza in epigrafe, nella quale il Giudice delle leggi ha, giustamente, messo in relazione il principio di stretta legalità delle pene enunciato dall’art. 25, co. 2, Cost. (operante, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale[8] e sovranazionale[9], per tutte le misure afflittive, a prescindere dalla “etichetta” data loro dai singoli ordinamenti) e “l’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati» (sentenza n. 96 del 1981)”, ravvisando nel divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice “l’ovvio pendant” del suddetto “mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice” e sottolineando come la Corte abbia “recentemente rammentato che «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018)”.
Si evidenzia pertanto che l’imperativo dell’art. 25, co. 2, cit. “mira anch’esso a «evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito» (sentenza n. 327 del 2008), nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (così, ancora, la sentenza n. 327 del 2008, nonché la sentenza n. 5 del 2004)”. In questa prospettiva, la sentenza ha stigmatizzato il giudice rimettente, che, “nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio (omissis) omette di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza n. 447 del 1998)”. La Corte ha dunque affermato in termini molto netti che “Il divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore”. Dopo aver rimarcato la valenza generale del principio, anche negli altri ordinamenti, confermata dal richiamo alla giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, la sentenza ha, ancora, ribadito che “Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale” (significativamente richiamando, in particolare, accanto alle sentenze n. 96 del 1981 e n. 34 del 1995, anche la sentenza n. 121 del 2018, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo), mettendo specificamente e molto opportunamente in luce il fatto che tali corollari sono “posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonché – evidentemente – tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione (sentenza n. 364 del 1988)”. E ha significativamente aggiunto che la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale (da intendersi, come detto, riferita anche alle sanzioni amministrative) verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge, sottolineando come la richiamata garanzia soggettiva che il suddetto mandato costituzionale di determinatezza della legge penale vuole assicurare a ogni consociato sarebbe evidentemente svuotata laddove fosse consentito al giudice “assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura”.
3. La questione all’esame della Consulta.
La questione portata alla Consulta, pur legata a un dubbio di incostituzionalità di una norma processuale (art. 521 c.p.c.), investiva, indirettamente, l’applicabilità dell’art. 572 cod. pen. - che prevede un regime sanzionatorio delle condotte abusive nei confronti delle “persone della famiglia” più grave rispetto a quello contemplato dall’art. 612-bis, co. 2, dello stesso codice per le condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva» all’agente - anche alle persone “conviventi” con l’autore del reato[10]. Di fronte al chiaro riferimento della fattispecie criminosa descritta dal richiamato art. 572 alle “persone della famiglia”, il Garante della Costituzione, sulla scorta delle considerazioni sopra riportate, ha dunque correttamente ritenuto “il pur comprensibile intento, sotteso all’indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato”, mettendo in luce come essa si sostanzierebbe in una interpretazione analogica della norma punitiva a sfavore dell’autore della condotta sanzionata: “una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost”. La Corte ha conseguentemente ritenuto che il mancato confronto con le implicazioni del divieto costituzionale di applicazione analogica della legge penale in senso sfavorevole al reo in relazione al caso di specie si traducesse in una carenza di motivazione sulla rilevanza delle questioni prospettate, implicandone l’inammissibilità (da ultimo, sentenza n. 57 del2021).
In estrema sintesi, la “giustizia sostanziale” nei confronti della vittima, in nome della quale la Suprema magistratura penale (nelle numerose pronunce richiamate dal giudice remittente e citate nella sentenza in commento) ha ritenuto che l’ipotesi di reato descritta dall’art. 572 c.p. possa comprendere anche le condotte abusive nei confronti della persona convivente, non è dunque un elemento sufficiente a superare (recte, violare) il limite di stretta legalità e chiara prevedibilità nel quadro legislativo stabilito dall’art. 25, co. 2, Cost. e il principio di separazione dei poteri. Analogamente, e a più forte ragione, il richiamo alla “ragionevolezza” e alla pretesa esigenza primaria di tutela dell’interesse pubblico non possono giustificare una lettura “creativa” in malam partem di norme amministrative a contenuto sanzionatorio.
4. Conclusioni.
Si tratta, come anticipato in apertura, di un principio molto importante per la certezza del diritto e per la tutela dei confini tra i poteri voluta dalla nostra Costituzione: un’importanza tanto maggiore nel momento in cui, proprio all’esito della nota sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno, come noto, investito la Corte di Giustizia dell’Unione europea della questione dell’ambito di operatività del ricorso alle Sezioni Unite contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per “soli motivi inerenti alla giurisdizione”. Come evidenziato in sede di commento all’ordinanza di rinvio al Giudice sovranazionale[11], la posizione di “chiusura” della Corte costituzionale era stata in quell’occasione verosimilmente determinata dalla prospettazione della questione in termini di derogabilità al limite di sindacato delle Sezioni Unite sul potere di “interpretazione” del giudice amministrativo, sul presupposto – a mio avviso non condivisibile – che il confine tra “creazione” e “interpretazione” non sia di fatto mai tracciabile. Ora, quantomeno per le norme penali chiare, la Corte costituzionale ha smentito questo assunto ed è quindi auspicabile che anche la Corte regolatrice della giurisdizione apra finalmente la strada, almeno nei casi limite della giurisprudenza creativa in malam partem, all’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore.
[1] Categoria estesa, inter alia, dal codice dei contratti pubblici, dal d.lgs. n. 231 del 2001 e dall’art. 264 del d.l. n. 34 del 2020 (su cui v. La “trappola” dell’art. 264 del dl 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, in Giustizia insieme, giugno 2020.
[2] Mi si consenta il rinvio, anche per i richiami alla dottrina e alla giurisprudenza, inter alia, alle considerazioni svolte in M.A. SANDULLI, Princìpi e regole dell’azione amministrativa: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, in Federalismi.it, 2017; Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, in Riv. giur. ed., 3/2018, 687 e ss; Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 e ss.;
Conclusioni di un dibattito sul principio della certezza del diritto, in M.A. SANDULLI, F. FRANCARIO (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018, 305 e ss.; 27; Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi.it, e in giustizia-amministrativa.it, 2019; Autodichiarazioni e dichiarazione “non veritiera”, in Giustiziainsieme, ottobre 2020; Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020, in Giustiziainsieme, novembre 2020.
[3] Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e p A o il Recovery è inutile, Intervista a Il dubbio, 7 maggio 2021, leggibile anche su Giustiziainsieme, maggio 2021, e Sanità, misure abilitanti generali sulla semplificazione e giustizia, Intervento al webinar AIPDA su Next Generation EU. Proposte per il Piano nazionale di ripresa e resilienza, 28 aprile 2021, in corso di pubblicazione sul sito AIPDA.
[4] Art. 63 del d.l. semplificazioni approvato dal Consiglio dei Ministri il 28 maggio scorso.
[5] Art. 264 del d.l. 19 maggio 2020 n. 34, convertito, senza modificazioni in parte qua, nella l. n. 77 del 18 luglio.
[6] Cfr. C. DEODATO, Annullamento d’ufficio, in M.A. SANDULLI (a cura di) Codice dell’azione amministrativa, 2 ed., Milano, 2017 e M. SINISI, Autotutela in M.A. SANDULLI (a cura di) Principi e regole dell’azione amministrativa, 3 ed., Milano, 2020.
[7] M.A. SANDULLI, Controlli sull’attività edilizia, cit..
[8] A partire dalla sentenza n. 196 del 2010, seguita dalla sentenza n. 104 del 2014. Sull’applicabilità alle sanzioni amministrative delle garanzie di stretta legalità, proporzionalità, irretroattività e favor rei previste per le sanzioni penali (su cui cfr. già M.A. SANDULLI, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione. Studi preliminari, Napoli, 1981 e Le sanzioni amministrative pecuniarie, Principi sostanziali e procedimentali, Napoli 1983), v., tra le più recenti, Corte cost., sentt. nn. 20 e 63 del 2019 e ord. n. 117 del 2019, su cui cfr., anche per ulteriori richiami, E. BINDI e A. PISANESCHI, La retroattività in mitius delle sanzioni amministrative sostanzialmente afflittive tra Corte EDU, Corte di Giustizia e Corte costituzionale, in Federalismi.it, novembre 2019. Per una sintesi dell’evoluzione giurisprudenziale sulle sanzioni amministrative e per i richiami alla bibliografia essenziale, cfr. da ultimo, S. CIMINI, Sanzioni amministrative, Treccani on-line 2019.
[9] A partire dalla nota sentenza della Corte EDU Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel. c. Paesi Bassi, seguita dalle altrettanto note sentenze 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania, 27 settembre 2011, Menarini Diagnostic c. Italia, e 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia. La posizione è stata pacificamente abbracciata anche dalla Corte di Lussemburgo: cfr. da ultima, la sentenza della Grande Sezione 2 febbraio 2021, in C-489/19, sulla questione sollevata dalla Corte costituzionale nella citata ord. 117 del 2019 (e definita dalla sentenza n. 84 del 2021). Sull’ampia nozione di sanzione penale (afflittiva) secondo la Corte EDU, cfr., tra gli scritti più recenti, M. LIPARI, Il sindacato pieno del giudice amministrativo sulle sanzioni secondo i principi della CEDU e del diritto UE. Il recepimento della direttiva n. 2014/104/EU sul private enforcement (decreto legislativo n. 3/2017), in federalismi.it, aprile 2018; F. GOISIS, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, 3 ed., Torino, 2018; nonché lo stesso F. VIGANO’, Il nullum crimen conteso: legalità “costituzionale” vs legalità “convenzionale”, in Atti del convegno su “Il rapporto problematico tra giurisprudenza e legalità”, BUP, 2017, 9 ss, il quale rileva come “i due fasci di garanzie sottesi alla legalità penale di fonte, rispettivamente, costituzionale e convenzionale, non debbano essere considerati come antinomici, ma piuttosto come complementari, alla luce del criterio della massimizzazione delle garanzie dei diritti fondamentali che deriva dalla combinazione tra Costituzione e carte internazionali dei diritti, prima fra tutte la Convenzione europea; e che, pertanto, l'impatto del principio di legalità europeo sul sistema penale italiano comporti in linea di principio un innalzamento complessivo del livello di tutela dell'individuo nei confronti della potestà punitiva statale, rispetto al livello ricavabile dalla sola Carta costituzionale” (p. 11)..
[10] In particolare, come riporta la sentenza in commento, secondo il giudice remittente, “una tale interpretazione sarebbe, anzi, l’unica compatibile con l’art. 3 Cost., dal momento che sarebbe «irragionevole tutelare la vittima di mortificazioni abituali allorquando sia legata da vincoli fondati sul matrimonio, anche in quei casi in cui il rapporto sia ormai sgretolato e indebolito nella sua capacità di condizionare la vittima», e «non tutelare, invece, la vittima di mortificazioni abituali che avvengono in contesti affettivi non suggellati da scelte formali, ma caratterizzati comunque dalla attuale condivisione di spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacità di reagire della vittima». Del resto, le altre ipotesi previste dall’art. 572 cod. pen. (sottoposizione ad autorità o affidamento per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, ovvero esercizio di una professione o di un’arte) prescinderebbero tutte dall’elemento della convivenza”.
[11] Guida alla lettura, cit
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