Incostituzionalità dell’interpretazione analogica “creativa” in malam partem (nota a Corte cost. 14 maggio 2021 n. 98) di Maria Alessandra Sandulli
Sommario: 1. La rilevanza della sentenza per il diritto amministrativo - 2. I principi di diritto affermati dalla Corte costituzionale - 3. La questione all’esame della Consulta - 4. Conclusioni.
1. La rilevanza della sentenza per il diritto amministrativo.
Con la sentenza n. 98, pubblicata il 14 maggio scorso, la Corte costituzionale (Presidente Coraggio, redattore Viganò) ha segnato un importante punto fermo sulla delimitazione dei confini tra potere giurisdizionale e potere legislativo, quanto meno in ambito sanzionatorio.
Il tema è evidentemente di massimo interesse anche per il diritto amministrativo sotto diversi profili.
La prima, di più immediata evidenza, è data dalla progressiva estensione dell’ambito delle “pene amministrative”: oltre all’aumento delle sanzioni pecuniarie per effetto del processo di depenalizzazione degli illeciti contravvenzionali (a partire dalle leggi n. 317 del 1967, 706 del 1975 e, soprattutto, 689 del 1981, seguite da vari interventi successivi, come il d.lgs. n. 8 del 2016), si assiste invero a una proliferazione di sanzioni interdittive[1] (categoria nella quale evidentemente rientra anche la sottospecie – dai confini estremamente labili e incerti - dell’incapacità di contrarre con le pubbliche amministrazioni di chi si sia reso responsabile di precedenti illeciti o di falsità o omissioni dichiarative) e di misure eccezionalmente ostative alla fruibilità delle regole generali a tutela del legittimo affidamento in forza di pretese violazioni dell’obbligo di “autoresponsabilità” dichiarativa (come quelle previste dal comma 2-bis dell’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 s.m.i. per l’operatività del limite temporale di esercizio del potere di annullamento d’ufficio degli atti di autorizzazione e di ammissione a vantaggi economici e del potere di controllo postumo sulla s.c.i.a.).
La seconda è la tendenza - troppe volte purtroppo vanamente criticata - della giurisprudenza amministrativa a debordare dai confini dell’interpretazione, per esercitare, in inaccettabile concorso con il legislatore, una vera e propria funzione “creativa” di regulae iuris, anche in malam partem[2] e la denunciata “ritrosia” della Corte di cassazione a rilevare l’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore.
Il tema assume peraltro massima attualità e importanza in un momento in cui vi è assoluto bisogno di assicurare “certezza” ai cittadini e agli operatori economici, quantomeno sulle conseguenze giuridiche dei loro comportamenti. Perché, come ho cercato ripetutamente di segnalare, non si può sperare in una ripresa economica in un sistema che continua a tessere “trappole” e incertezze, esponendo i cittadini e gli operatori economici al costante rischio di una “riscrittura giurisprudenziale” in malam partem di disposizioni ambigue – e dunque interpretabili in buona fede anche in senso diverso e più favorevole all’agente – o, addirittura, caratterizzate da un dettato letterale assolutamente chiaro, stravolto dal giudice solo perché ritenuto “irragionevole” [3]. È emblematica, per tutti, la giurisprudenza sui richiamati limiti temporali al potere dell’amministrazione di rimuovere i propri atti (o dichiarare l’inefficacia delle s.c.i.a.) per vizi originari di legittimità, la quale, per un verso, propone indebite interpretazioni estensive delle eccezioni (come tali di stretta interpretazione) alla regola generale di consumazione del potere alla scadenza del termine stabilito dalla legge (nel 2015, 18 mesi, ora ridotti a 12[4] e, per gli atti legati al Covid-19, addirittura a 3[5]) per presunti “falsi o mendaci” dei soggetti istanti o segnalanti e, per l’altro verso, a fronte di una disposizione che inequivocabilmente individua il dies a quo per la decorrenza del termine nell’adozione del provvedimento originario, senza distinguere tra provvedimenti già adottati e provvedimenti successivi all’entrata in vigore della norma, lo ha, dopo qualche iniziale (e più corretta) interpretazione secundum litteram, prevalentemente posticipato a quest’ultima data e, in alcune pronunce, ne ha addirittura negato – contra legem – l’applicazione ai provvedimenti adottati prima della novella[6]. E non sono certamente meno gravi le interpretazioni estensive delle ipotesi di illecito ostative alla stipula di contratti pubblici (esemplari, per tutte, la confusione, opportunamente fermata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, tra false dichiarazioni e dichiarazioni erronee o reticenti e l’assimilazione analogica del rappresentante del socio unico persona giuridica al “socio unico persona fisica”) o, con riferimento a una materia di confine tra il diritto amministrativo e il diritto penale, le interpretazioni estensive del concetto di attività edilizia senza titolo, mediante un’indebita attrazione in tale ipotesi di illecito delle attività realizzate in base a titolo illegittimo[7].
2. I principi di diritto affermati dalla Corte costituzionale.
Merita dunque grande attenzione e massimo apprezzamento la sentenza in epigrafe, nella quale il Giudice delle leggi ha, giustamente, messo in relazione il principio di stretta legalità delle pene enunciato dall’art. 25, co. 2, Cost. (operante, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale[8] e sovranazionale[9], per tutte le misure afflittive, a prescindere dalla “etichetta” data loro dai singoli ordinamenti) e “l’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati» (sentenza n. 96 del 1981)”, ravvisando nel divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice “l’ovvio pendant” del suddetto “mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice” e sottolineando come la Corte abbia “recentemente rammentato che «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018)”.
Si evidenzia pertanto che l’imperativo dell’art. 25, co. 2, cit. “mira anch’esso a «evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito» (sentenza n. 327 del 2008), nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (così, ancora, la sentenza n. 327 del 2008, nonché la sentenza n. 5 del 2004)”. In questa prospettiva, la sentenza ha stigmatizzato il giudice rimettente, che, “nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio (omissis) omette di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza n. 447 del 1998)”. La Corte ha dunque affermato in termini molto netti che “Il divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore”. Dopo aver rimarcato la valenza generale del principio, anche negli altri ordinamenti, confermata dal richiamo alla giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, la sentenza ha, ancora, ribadito che “Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale” (significativamente richiamando, in particolare, accanto alle sentenze n. 96 del 1981 e n. 34 del 1995, anche la sentenza n. 121 del 2018, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo), mettendo specificamente e molto opportunamente in luce il fatto che tali corollari sono “posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonché – evidentemente – tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione (sentenza n. 364 del 1988)”. E ha significativamente aggiunto che la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale (da intendersi, come detto, riferita anche alle sanzioni amministrative) verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge, sottolineando come la richiamata garanzia soggettiva che il suddetto mandato costituzionale di determinatezza della legge penale vuole assicurare a ogni consociato sarebbe evidentemente svuotata laddove fosse consentito al giudice “assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura”.
3. La questione all’esame della Consulta.
La questione portata alla Consulta, pur legata a un dubbio di incostituzionalità di una norma processuale (art. 521 c.p.c.), investiva, indirettamente, l’applicabilità dell’art. 572 cod. pen. - che prevede un regime sanzionatorio delle condotte abusive nei confronti delle “persone della famiglia” più grave rispetto a quello contemplato dall’art. 612-bis, co. 2, dello stesso codice per le condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva» all’agente - anche alle persone “conviventi” con l’autore del reato[10]. Di fronte al chiaro riferimento della fattispecie criminosa descritta dal richiamato art. 572 alle “persone della famiglia”, il Garante della Costituzione, sulla scorta delle considerazioni sopra riportate, ha dunque correttamente ritenuto “il pur comprensibile intento, sotteso all’indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato”, mettendo in luce come essa si sostanzierebbe in una interpretazione analogica della norma punitiva a sfavore dell’autore della condotta sanzionata: “una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost”. La Corte ha conseguentemente ritenuto che il mancato confronto con le implicazioni del divieto costituzionale di applicazione analogica della legge penale in senso sfavorevole al reo in relazione al caso di specie si traducesse in una carenza di motivazione sulla rilevanza delle questioni prospettate, implicandone l’inammissibilità (da ultimo, sentenza n. 57 del2021).
In estrema sintesi, la “giustizia sostanziale” nei confronti della vittima, in nome della quale la Suprema magistratura penale (nelle numerose pronunce richiamate dal giudice remittente e citate nella sentenza in commento) ha ritenuto che l’ipotesi di reato descritta dall’art. 572 c.p. possa comprendere anche le condotte abusive nei confronti della persona convivente, non è dunque un elemento sufficiente a superare (recte, violare) il limite di stretta legalità e chiara prevedibilità nel quadro legislativo stabilito dall’art. 25, co. 2, Cost. e il principio di separazione dei poteri. Analogamente, e a più forte ragione, il richiamo alla “ragionevolezza” e alla pretesa esigenza primaria di tutela dell’interesse pubblico non possono giustificare una lettura “creativa” in malam partem di norme amministrative a contenuto sanzionatorio.
4. Conclusioni.
Si tratta, come anticipato in apertura, di un principio molto importante per la certezza del diritto e per la tutela dei confini tra i poteri voluta dalla nostra Costituzione: un’importanza tanto maggiore nel momento in cui, proprio all’esito della nota sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno, come noto, investito la Corte di Giustizia dell’Unione europea della questione dell’ambito di operatività del ricorso alle Sezioni Unite contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per “soli motivi inerenti alla giurisdizione”. Come evidenziato in sede di commento all’ordinanza di rinvio al Giudice sovranazionale[11], la posizione di “chiusura” della Corte costituzionale era stata in quell’occasione verosimilmente determinata dalla prospettazione della questione in termini di derogabilità al limite di sindacato delle Sezioni Unite sul potere di “interpretazione” del giudice amministrativo, sul presupposto – a mio avviso non condivisibile – che il confine tra “creazione” e “interpretazione” non sia di fatto mai tracciabile. Ora, quantomeno per le norme penali chiare, la Corte costituzionale ha smentito questo assunto ed è quindi auspicabile che anche la Corte regolatrice della giurisdizione apra finalmente la strada, almeno nei casi limite della giurisprudenza creativa in malam partem, all’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore.
[1] Categoria estesa, inter alia, dal codice dei contratti pubblici, dal d.lgs. n. 231 del 2001 e dall’art. 264 del d.l. n. 34 del 2020 (su cui v. La “trappola” dell’art. 264 del dl 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, in Giustizia insieme, giugno 2020.
[2] Mi si consenta il rinvio, anche per i richiami alla dottrina e alla giurisprudenza, inter alia, alle considerazioni svolte in M.A. SANDULLI, Princìpi e regole dell’azione amministrativa: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, in Federalismi.it, 2017; Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, in Riv. giur. ed., 3/2018, 687 e ss; Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 e ss.;
Conclusioni di un dibattito sul principio della certezza del diritto, in M.A. SANDULLI, F. FRANCARIO (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018, 305 e ss.; 27; Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi.it, e in giustizia-amministrativa.it, 2019; Autodichiarazioni e dichiarazione “non veritiera”, in Giustiziainsieme, ottobre 2020; Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020, in Giustiziainsieme, novembre 2020.
[3] Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e p A o il Recovery è inutile, Intervista a Il dubbio, 7 maggio 2021, leggibile anche su Giustiziainsieme, maggio 2021, e Sanità, misure abilitanti generali sulla semplificazione e giustizia, Intervento al webinar AIPDA su Next Generation EU. Proposte per il Piano nazionale di ripresa e resilienza, 28 aprile 2021, in corso di pubblicazione sul sito AIPDA.
[4] Art. 63 del d.l. semplificazioni approvato dal Consiglio dei Ministri il 28 maggio scorso.
[5] Art. 264 del d.l. 19 maggio 2020 n. 34, convertito, senza modificazioni in parte qua, nella l. n. 77 del 18 luglio.
[6] Cfr. C. DEODATO, Annullamento d’ufficio, in M.A. SANDULLI (a cura di) Codice dell’azione amministrativa, 2 ed., Milano, 2017 e M. SINISI, Autotutela in M.A. SANDULLI (a cura di) Principi e regole dell’azione amministrativa, 3 ed., Milano, 2020.
[7] M.A. SANDULLI, Controlli sull’attività edilizia, cit..
[8] A partire dalla sentenza n. 196 del 2010, seguita dalla sentenza n. 104 del 2014. Sull’applicabilità alle sanzioni amministrative delle garanzie di stretta legalità, proporzionalità, irretroattività e favor rei previste per le sanzioni penali (su cui cfr. già M.A. SANDULLI, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione. Studi preliminari, Napoli, 1981 e Le sanzioni amministrative pecuniarie, Principi sostanziali e procedimentali, Napoli 1983), v., tra le più recenti, Corte cost., sentt. nn. 20 e 63 del 2019 e ord. n. 117 del 2019, su cui cfr., anche per ulteriori richiami, E. BINDI e A. PISANESCHI, La retroattività in mitius delle sanzioni amministrative sostanzialmente afflittive tra Corte EDU, Corte di Giustizia e Corte costituzionale, in Federalismi.it, novembre 2019. Per una sintesi dell’evoluzione giurisprudenziale sulle sanzioni amministrative e per i richiami alla bibliografia essenziale, cfr. da ultimo, S. CIMINI, Sanzioni amministrative, Treccani on-line 2019.
[9] A partire dalla nota sentenza della Corte EDU Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel. c. Paesi Bassi, seguita dalle altrettanto note sentenze 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania, 27 settembre 2011, Menarini Diagnostic c. Italia, e 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia. La posizione è stata pacificamente abbracciata anche dalla Corte di Lussemburgo: cfr. da ultima, la sentenza della Grande Sezione 2 febbraio 2021, in C-489/19, sulla questione sollevata dalla Corte costituzionale nella citata ord. 117 del 2019 (e definita dalla sentenza n. 84 del 2021). Sull’ampia nozione di sanzione penale (afflittiva) secondo la Corte EDU, cfr., tra gli scritti più recenti, M. LIPARI, Il sindacato pieno del giudice amministrativo sulle sanzioni secondo i principi della CEDU e del diritto UE. Il recepimento della direttiva n. 2014/104/EU sul private enforcement (decreto legislativo n. 3/2017), in federalismi.it, aprile 2018; F. GOISIS, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, 3 ed., Torino, 2018; nonché lo stesso F. VIGANO’, Il nullum crimen conteso: legalità “costituzionale” vs legalità “convenzionale”, in Atti del convegno su “Il rapporto problematico tra giurisprudenza e legalità”, BUP, 2017, 9 ss, il quale rileva come “i due fasci di garanzie sottesi alla legalità penale di fonte, rispettivamente, costituzionale e convenzionale, non debbano essere considerati come antinomici, ma piuttosto come complementari, alla luce del criterio della massimizzazione delle garanzie dei diritti fondamentali che deriva dalla combinazione tra Costituzione e carte internazionali dei diritti, prima fra tutte la Convenzione europea; e che, pertanto, l'impatto del principio di legalità europeo sul sistema penale italiano comporti in linea di principio un innalzamento complessivo del livello di tutela dell'individuo nei confronti della potestà punitiva statale, rispetto al livello ricavabile dalla sola Carta costituzionale” (p. 11)..
[10] In particolare, come riporta la sentenza in commento, secondo il giudice remittente, “una tale interpretazione sarebbe, anzi, l’unica compatibile con l’art. 3 Cost., dal momento che sarebbe «irragionevole tutelare la vittima di mortificazioni abituali allorquando sia legata da vincoli fondati sul matrimonio, anche in quei casi in cui il rapporto sia ormai sgretolato e indebolito nella sua capacità di condizionare la vittima», e «non tutelare, invece, la vittima di mortificazioni abituali che avvengono in contesti affettivi non suggellati da scelte formali, ma caratterizzati comunque dalla attuale condivisione di spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacità di reagire della vittima». Del resto, le altre ipotesi previste dall’art. 572 cod. pen. (sottoposizione ad autorità o affidamento per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, ovvero esercizio di una professione o di un’arte) prescinderebbero tutte dall’elemento della convivenza”.
[11] Guida alla lettura, cit