ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il principio dell’affidamento nei confronti della pubblica amministrazione riflessi sul riparto tra le giurisdizioni alla luce dei nuovi orientamenti della giurisprudenza
di Maddalena Filippi, Presidente TAR Veneto
Sommario: 1. Il tema – 2. Le obiezioni della dottrina – 3.La giurisprudenza della Cassazione successiva alle ordinanze gemelle - 4. La lesione dell’affidamento in assenza di provvedimento – 5. Un’ipotesi di sconfinamento?
1. Il tema
Il tema è quello della tutela dell’affidamento del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, alla luce dei nuovi orientamenti della giurisprudenza.
Con una recente ordinanza[1], le Sezioni Unite della Cassazione hanno confermato il principio - affermato nelle tre ordinanze gemelle del 2011 (nn. 6594, 6595 e 6596) - con riguardo all’individuazione del giudice competente a decidere dei danni conseguenti al rilascio di un provvedimento favorevole, poi annullato in via di autotutela o dal giudice amministrativo.
Con quelle decisioni le Sezioni Unite hanno ritenuto che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda con cui il destinatario di un provvedimento illegittimo, ampliativo della sua sfera giuridica, chieda il risarcimento del danno subito a causa dell’emanazione dell’atto favorevole (illegittimo) e del successivo (legittimo) annullamento di tale provvedimento, in sede giurisdizionale o a seguito dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio da parte dell’amministrazione che ha emanato l’atto.
E’ il caso, tutt’altro che raro, del beneficiario di un titolo edilizio annullato - d'ufficio o su ricorso di altro soggetto - in quanto illegittimo, che chieda il risarcimento dei danni subiti per avere confidato nella apparente legittimità del titolo (ord. nn. 6594 e 6595); è il caso, tutt’altro che raro, dell’impresa che chieda il risarcimento lamentando la lesione dell'affidamento ingenerato dal provvedimento di aggiudicazione di una gara apparentemente legittimo, poi legittimamente annullato (ord. n. 6596). Si trattava dunque di controversie concernenti materie di giurisdizione esclusiva.
In queste ipotesi – hanno rilevato le Sezioni Unite – la competenza non appartiene al giudice amministrativo perché la domanda autonoma di risarcimento non riguarda l'accertamento dell’illegittimità del titolo edilizio o dell'aggiudicazione (illegittimità che, semmai, la parte avrebbe avuto interesse a contrastare nel giudizio amministrativo promosso dal controinteressato).
La domanda ha invece ad oggetto l’accertamento del comportamento illecito dell’amministrazione per aver ingenerato, nel cittadino come nell’impresa, il convincimento di poter legittimamente realizzare l’intervento edilizio assentito o di poter legittimamente eseguire l’appalto aggiudicato.
Al giudice ordinario si chiede dunque di accertare l’avvenuta violazione del principio del neminem laedere, cioè di quell’insieme di doveri di comportamento il cui contenuto prescinde dalla natura pubblicistica o privatistica del soggetto che ne è responsabile, insieme di doveri di comportamento che anche l’amministrazione, come qualsiasi privato, è tenuta a rispettare.
2. Le obiezioni della dottrina
Non si può non ricordare che le tre ordinanze gemelle sono state emanate a pochi mesi dall’entrata in vigore del codice del processo amministrativo. Tanto è vero che nei primi commenti si parlò di decisioni “perturbatrici” del lodo raggiunto in ordine al riparto di giurisdizione. In effetti, la formulazione degli articoli 7 e 30 del codice recepisce - nel rispetto della summa divisio scolpita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 204 del 2004 – una sorta di accordo raggiunto tra i vertici delle giurisdizioni nel corso dei lavori della Commissione incaricata di predisporre il testo del primo codice del processo amministrativo. Accordo secondo cui, con riguardo all’azione risarcitoria, la linea di confine tra le due giurisdizioni va collocata nella riconoscibilità – o meno – di un collegamento, mediato o immediato, tra l’evento individuato come fonte del danno e l’esercizio di un potere amministrativo.
Una parte della dottrina evidenziò subito come il principio affermato dalla Cassazione con le richiamate ordinanze gemelle non fosse coerente con la scelta compiuta dal codice del processo amministrativo, chiarissima – quest’ultima - nel senso di attribuire alla cognizione del giudice amministrativo tutti gli strumenti processuali idonei a tutelare la posizione lesa dall’esercizio dei pubblici poteri di cui è titolare l’amministrazione[2].
Si è osservato, in particolare, come la circostanza che il danno non sia immediatamente cagionato dal provvedimento – che appare legittimo – ma emerga solo dopo l’annullamento dell’atto, sia questione che attiene esclusivamente al piano cronologico. Si tratta di circostanza che invece non incide sulla ricollegabilità diretta del pregiudizio - sul versante eziologico, rilevante ai sensi dell’art. 1223 c.c. - all’adozione del provvedimento amministrativo.
Sicché - sotto il profilo della giurisdizione - azione caducatoria e azione risarcitoria sono da considerarsi equipollenti in quanto entrambe volte a contestare il cattivo esercizio del potere a fronte di posizioni di interesse legittimo.
In questo senso, dunque, il principio affermato dalla Cassazione in punto di tutela dell’affidamento nei confronti della pubblica amministrazione – specie con riguardo alle ipotesi ricadenti nell’ambito della giurisdizione esclusiva – doveva ritenersi non del tutto coerente con il criterio fondamentale di riparto individuato dalla Corte costituzionale nella inerenza dell’azione amministrativa all’esercizio di un potere pubblico.
Nei primi commenti alle ordinanze gemelle si è d’altra parte sottolineato come la lesione di un interesse legittimo si configuri anche quando l’amministrazione illegittimamente rilasci al cittadino un provvedimento favorevole che ben può costituire la fonte di una lesione a tale posizione di interesse legittimo. Tanto che – sotto il profilo della tutela – si è addirittura dubitato della necessità di scomodare la figura dell’affidamento per risarcire un tale tipo di danno[3].
3. La giurisprudenza della Cassazione successiva alle ordinanze gemelle
L’orientamento affermato dalla Cassazione nel 2011, con riguardo alla giurisdizione sui danni arrecati dall’annullamento di un provvedimento favorevole ma illegittimo, è stato successivamente confermato in diverse pronunce[4] (anche del Consiglio di Stato)[5].
E’ da ricordare, in particolare, l’ordinanza 4 settembre 2015, n. 17586[6], perché la motivazione che sorregge la decisione dimostra l’attenzione con cui la Cassazione ha seguito il dibattito della dottrina e le perplessità suscitate dal principio affermato sul punto.
Con questa ordinanza la Cassazione ha sottolineato come il principio riguardi ipotesi nelle quali l’esercizio del potere amministrativo (l’autotutela), o comunque l’annullamento giurisdizionale del provvedimento, rilevano non in sé, ma per l’efficacia causale del danno evento da affidamento incolpevole.
Ciò che viene messo in luce, in questa prospettazione, non è la modalità di esercizio del potere, ma il diritto soggettivo - di colui che ha ottenuto il provvedimento favorevole - a mantenere nel proprio patrimonio la consistenza sostanziale di questo diritto.
La lesione dell’affidamento creato dal provvedimento favorevole è dunque fonte di una responsabilità che - nella ricostruzione operata dalle Sezioni Unite con l’ordinanza del 2015 – è ricondotta nell’ambito delle “responsabilità da comportamento” dell’amministrazione.
Il danno considerato ai fini dell’accertamento della responsabilità non viene in rilievo come conseguenza del provvedimento, pur illegittimo, perché non deriva dal cattivo esercizio di un potere autoritativo. Dunque tale accertamento non richiede alcuna verifica in ordine alla legittimità degli atti posti in essere dall’amministrazione, non richiede il previo annullamento di questi atti, ma pone il baricentro nella fase di contatto tra il privato e l’amministrazione: il solo presupposto su cui si fonda tale responsabilità viene individuato nella lesione dell’affidamento in questa fase di contatto.
Così inquadrata la fattispecie di responsabilità – ed esclusa ogni possibile riconduzione nell’ambito del perimetro segnato dall’articolo 7 del codice del processo amministrativo - le Sezioni Unite confermano il principio affermato con le ordinanze gemelle del 2011, rilevando come il diritto al risarcimento del danno da lesione dell’affidamento non appartenga alla giurisdizione del giudice amministrativo anche quando tale affidamento si sia formato in una materia che rientri nella giurisdizione esclusiva dello stesso giudice amministrativo.
Da tale impostazione deriva che il privato, quando agisce in giudizio per il risarcimento del danno da lesione del legittimo affidamento, non porta come causa petendi l’illegittimità del provvedimento (da cui deriverebbe la giurisdizione del giudice amministrativo), ma fa valere la lesione di una nuova situazione di diritto soggettivo – il diritto alla conservazione dell’integrità patrimoniale - restando irrilevante ogni collegamento con il provvedimento e con l’esercizio autoritativo del potere dell’amministrazione.
La giurisdizione non può dunque essere attribuita al giudice amministrativo perché la lesione dell’affidamento del privato, e quindi del diritto soggettivo all’integrità patrimoniale, deriva dal realizzarsi di una fattispecie complessa rispetto alla quale l’illegittimo esercizio del potere da parte dell’amministrazione ha costituito solo uno, sia pure importante ma non necessario, dei fattori che hanno leso l’integrità patrimoniale del privato. Il provvedimento, sottolineano le Sezioni Unite, ha rappresentato soltanto “l’occasione” per ledere la sfera del privato.
Da ultimo, con l’ordinanza del 21 settembre 2020, n. 19677, le Sezioni Unite ribadiscono – sempre con riguardo ad analoghe fattispecie - che la domanda di risarcimento esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo in ragione della causa petendi.
In quel caso, in particolare, la società attrice non aveva messo in discussione l'illegittimità dell’atto ampliativo della sua sfera giuridica, annullato ope iudicis (si trattava dell’aggiudicazione di una gara); né aveva rimproverato all’amministrazione l'esercizio illegittimo di un potere consumato nei suoi confronti. La parte attrice aveva lamentato la lesione del proprio affidamento sulla legittimità dell'atto annullato e aveva domandato il risarcimento del danno (ovvero la condanna al pagamento dell'indennizzo o alla restituzione dell'indebito) per avere orientato le proprie scelte negoziali e imprenditoriali confidando, fino all'annullamento, nella legittimità dell’atto (e per avere sostenuto spese di esecuzione del contratto di appalto stipulato a seguito della gara).
Il Tribunale adito[7] aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a favore del giudice amministrativo sul rilievo che la posizione soggettiva dell’impresa di fronte all'esercizio illegittimo dell'attività provvedimentale non può considerarsi una fattispecie suscettibile di metamorfosi a seconda della diversa tutela - caducatoria o risarcitoria - invocata, ma mantiene una sostanziale unitarietà che rileva ai fini del riparto di giurisdizione. Con la conseguenza che - qualora la parte invochi, pure in via autonoma, la tutela risarcitoria per un danno cagionato dallo scorretto esercizio del potere - la posizione soggettiva lesa deve comunque ritenersi di interesse legittimo, considerata la riconducibilità della fattispecie nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Il giudice della giurisdizione ha invece confermato il principio secondo cui per predicare la sussistenza della giurisdizione amministrativa occorre che il danno del quale si chiede il risarcimento nei confronti della pubblica amministrazione sia causalmente collegato all’illegittimità dell’atto: in quel caso – come evidenziato dalla causa petendi - il risarcimento veniva chiesto non in relazione al danno provocato dall’illegittimità del provvedimento amministrativo, bensì come conseguenza della lesione dell’affidamento ingenerato dall’atto di aggiudicazione apparentemente legittimo.
4. La lesione dell’affidamento in assenza di provvedimento
Con l’ordinanza 28 aprile 2020, n. 8236[8], le Sezioni Unite hanno aggiunto un segmento ulteriore al principio affermato, a partire dal 2011, in tema di tutela dell’affidamento nei confronti della pubblica amministrazione: la Cassazione si è infatti pronunciata sulla domanda di risarcimento del danno da lesione dell’affidamento nel caso in cui non venga in gioco alcun provvedimento illegittimamente ampliativo, poi annullato in autotutela o in sede giurisdizionale.
Il caso è stato affrontato dalle Sezioni Unite in sede di regolamento preventivo di giurisdizione proposto da un Comune a seguito della domanda di risarcimento dei danni presentata da un’impresa di costruzioni che lamentava il falso affidamento ingenerato dal comportamento “ondivago” dell’amministrazione. Il danno prospettato riguardava la sola condotta dell’amministrazione, indipendentemente da ogni connessione con invalidità provvedimentali e, addirittura, indipendentemente dalla stessa esistenza di un provvedimento.
In particolare, nell’atto di citazione davanti al giudice ordinario, la parte attrice aveva evidenziato come - a fronte della presentazione di un progetto di massima per la realizzazione di un complesso alberghiero su un terreno di proprietà dell’impresa - il Comune avesse dapprima riconosciuto la rilevanza, sotto il profilo dell’interesse pubblico, dell’intervento progettato, senza però consentire, a distanza di anni, la favorevole conclusione del procedimento.
Nel frattempo era stata infatti adottata una variante urbanistica che, anche per effetto delle osservazioni regionali accolte dal Comune, l’impresa aveva ritenuto eccessivamente limitativa quanto alle potenzialità edificatorie.
Per oltre quattro anni – si lamentava – il Comune aveva interloquito e dialogato con l’impresa attraverso rassicurazioni in ordine all’esito favorevole del procedimento, richieste di integrazione documentale, suggerimenti di soluzioni migliorative, pareri anche favorevoli, per poi giungere all’esito del tutto insoddisfacente per l’interessata: un tale comportamento ondivago doveva ritenersi rilevante non solo sotto il profilo della violazione dei termini di conclusione del procedimento, ma soprattutto in punto di lesione dell’affidamento al rilascio del titolo richiesto per la realizzazione dell’intervento.
Proprio in relazione al doppio profilo contestato dall’impresa con la domanda di risarcimento, il Comune ha proposto il regolamento di giurisdizione ritenendo che sulla questione fosse competente il giudice amministrativo. Tanto la fattispecie del danno da ritardo per violazione dei termini procedimentali, quanto la fattispecie del danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa in materia edilizia ed urbanistica – ha rilevato la parte convenuta - rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[9].
In effetti, in questo senso ha concluso il Procuratore Generale che, condividendo quanto sostenuto dal Comune, si è espresso per l'affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo. In particolare il Procuratore Generale ha ritenuto che i principi enunciati nelle ordinanze gemelle non fossero applicabili alla vicenda in quanto essi “postulano l'esistenza di un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato, sulla cui legittimità il medesimo privato abbia fatto affidamento e che successivamente sia stato caducato, in via di autotutela o in sede giurisdizionale”. Provvedimento che nella specie non era stato adottato[10].
Le Sezioni Unite ritengono invece che il caso rientri nella giurisdizione ordinaria e propongono una lettura ancora più dilatata del principio di affidamento.
Il piano di valutazione non è quello dell’invalidità (di diritto pubblico) del provvedimento, ma quello, distinto, della sua conformità ai principi civilistici e alle clausole generali[11].
Prima, tra queste “clausole generali” del sistema ordinamentale, la clausola della buona fede oggettiva che abbraccia sia un dovere negativo di evitare comportamenti scorretti, informazioni sbagliate, reticenze, sia un dovere positivo di comportamento collaborativo.
Un dovere di comportamento collaborativo che – alla luce dell’articolo 2 della Costituzione[12] – interpreta il dovere di solidarietà sociale come “dovere di protezione” quando tra i consociati si instaurano “momenti relazionali” socialmente o giuridicamente “qualificati” tali da generare ragionevoli affidamenti sulla condotta corretta e protettiva altrui[13].
Ciò che viene in rilievo non è, dunque, l’inerzia o il ritardo da parte dell’amministrazione rispetto all’obbligo di concludere il procedimento, ma - al contrario - un comportamento positivo e generatore di aspettative poi deluse, rispetto ad un rapporto tacito di fiducia tra le parti che si svolge interamente sul “piano paritario” e che per questo non può che essere affidato al giudice ordinario.
E’ interessante rilevare come le Sezioni Unite, riprendendo una distinzione già sottolineata da una parte della dottrina, pongano l’accento sulla non sovrapponibilità della nozione di affidamento propria della disciplina dell'annullamento d’ufficio del provvedimento illegittimo rispetto alla nozione di affidamento a cui si fa riferimento nelle tre ordinanze del 2011, e nelle successive pronunce che alle stesse si sono uniformate.
L’affidamento tutelato dalla disciplina dettata dall'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio “prescinde da considerazioni legate all'elemento soggettivo della condotta dell'amministrazione e delle parti private (colpa, diligenza, buona fede etc.) e si risolve nella verifica della legittimità degli atti formali attraverso cui si esprime il potere discrezionale dell'amministrazione di ponderare l'interesse pubblico alla rimozione di un atto illegittimo con gli interessi privati del beneficiario di tale atto e degli eventuali controinteressati”.
Al contrario, il modello di tutela che viene in rilievo nelle ordinanze gemelle è “una situazione autonoma, tutelata in sé, e non nel suo collegamento con l'interesse pubblico, come affidamento incolpevole di natura civilistica, che si sostanzia, secondo una felice sintesi dottrinale, nella fiducia, nella delusione della fiducia e nel danno subìto a causa della condotta dettata dalla fiducia mal riposta; si tratta, in sostanza, di un'aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell'amministrazione fondata sulla buone fede”.
Ne deriva, dunque, una chiara distinzione tra la nozione di affidamento legittimo e quella di affidamentoincolpevole[14].
L'affidamento legittimo, secondo questa ricostruzione, trova protezione nel rapporto amministrativo: la struttura del procedimento è preordinata a prevenire la lesione dell’affidamento attraverso una serie di regole la cui violazione dà luogo all’invalidità provvedimentale (regole che impongono lo svolgimento di una istruttoria adeguata nel rispetto del contraddittorio; che richiedono la considerazione degli interessi dei destinatari del provvedimento come dei controinteressati; che fissano limiti temporali al potere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti illegittimi; che prevedono un indennizzo in caso di revoca di un atto che rechi pregiudizio agli interessati).
Ma la Suprema Corte ha osservato come – quando tali regole siano state rispettate e quindi risulti legittimo l’annullamento in sede di autotutela dell’atto amministrativo favorevole – sia configurabile la lesione del diverso affidamento che derivi non dalla invalidità di diritto pubblico del provvedimento, ma dalla mancata conformità ai principi civilistici e alle clausole generali del comportamento tenuto dall’amministrazione.
Il modello di tutela che viene in rilievo a fronte di una situazione di affidamento incolpevole – mette in luce l’ordinanza - muove da un piano di valutazione diverso che pone al centro il dovere di correttezza e di buona fede oggettiva, configurabile in capo all’amministrazione anche prima e a prescindere dall’adozione di qualsiasi provvedimento, o dall’esistenza di trattative tra le parti, perché si colloca in una dimensione relazionale[15].
Questo affidamento secondo buona fede – perché inteso come fiducia riposta nella correttezza altrui - non assume rilevanza giuridica se non nel momento in cui l'affidamento è stato deluso.
Con riguardo all’oggetto della lesione, le Sezioni Unite puntualizzano che – contrariamente a quanto affermato dalla stessa Corte a partire dalle ordinanze gemelle - la situazione soggettiva lesa dalla delusione delle aspettative generate dal comportamento della pubblica amministrazione non va individuata nel diritto soggettivo alla conservazione dell'integrità del patrimonio, ma “si identifica nell'affidamento della parte privata nella correttezza della condotta della pubblica amministrazione”[16].
Il danno consegue dunque non alla violazione di un dovere di prestazione, come si verifica in caso di lesione dell’affidamento legittimo, ma alla violazione di un “dovere di protezione”, il quale sorge non da un contratto, ma dalla relazione che si instaura tra l’amministrazione ed il cittadino nel momento in cui quest’ultimo entra in contatto con la prima.
Si tratta quindi di una forma responsabilità che grava sulla pubblica amministrazione nei confronti di un cittadino che si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione, solidarietà e tutela dell’affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo.
Dunque – affermano le Sezioni Unite - la natura di tale forma di responsabilità della pubblica amministrazione non può che essere ricondotta nell’ambito della responsabilità contrattuale da contatto sociale qualificato, il cui elemento qualificante va individuato non nella colpa, bensì nella violazione della buona fede che, sulla base dell’affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti[17].
5. Un’ipotesi di sconfinamento?
Come è stato recentemente suggerito[18], l’orientamento delle Sezioni Unite in tema di responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento[19] potrebbe aprire una prospettiva più ampia circa la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo che si presta ad essere estesa ad altre ipotesi - oltre a quella degli interventi amministrativi di secondo grado - sino a comprendere la generalità delle ipotesi in cui sia denunciabile la lesione della buona fede oggettiva[20].
La considerazione può senz’altro essere condivisa. Ma il punto è l’individuazione del giudice chiamato ad occuparsi di questa tutela.
Può ritenersi che - per attribuire la giurisdizione al giudice ordinario – sia sufficiente il richiamo al parametro della buona fede oggettiva o la riconduzione della responsabilità dell’amministrazione nell’ambito della responsabilità da contatto qualificato?
È vero che un numero sempre maggiore di norme di matrice privatistica è diventata regola del diritto amministrativo. Basti pensare alla recente consacrazione dei principi della collaborazione e della buona fede come cardini del procedimento[21].
Non v’è dubbio, d’altra parte, che la vicenda oggetto della richiamata ordinanza delle Sezioni Unite sia emblematica di una esperienza comune a tanti cittadini e a tante imprese: è infatti frequente che, dopo essersi rivolti all’amministrazione - per dare avvio ad un’attività economica, per realizzare un intervento edilizio o un progetto di trasformazione urbanistica – cittadini e imprese abbiano confidato nella favorevole conclusione del procedimento sulla scorta dell’affidamento ingenerato dal comportamento propulsivo dell’amministrazione e dalla positiva valutazione da questa espressa con riguardo al rilievo dell’iniziativa, per poi trovarsi di fronte, a distanza di tempo, ad un orientamento conclusivo del tutto diverso.
E dunque non v’è dubbio che l’apprezzamento – affidato al giudice dei diritti – del comportamento dell’amministrazione sotto il profilo del rispetto dei principi civilistici e delle clausole generali, prima fra tutte quella della buona fede oggettiva, potrebbe costituire un modello di tutela particolarmente efficace a fronte di lesioni arrecate all’affidamento ingenerato dall’amministrazione in situazioni come quelle appena richiamate.
Un tale apprezzamento – appunto perché muove dall’assunto che la controversia escluda qualsiasi collegamento, anche mediato, con l’esercizio del potere – è limitato alla considerazione di comportamentimeri.
A ben vedere, proprio l’esame della fattispecie cui si riferisce l’ordinanza delle Sezioni Unite n. 8236 del 2020 induce a chiedersi se l’orientamento affermato non rischi di affrontare la questione su un piano eccessivamente astratto.
In effetti, tenuto conto della vicenda descritta e in particolare del dialogo e delle interlocuzioni tra le parti, la decisione sembra operare – in modo quasi chirurgico – lo scorporo di alcuni comportamenti da un contesto complesso e articolato che ha visto l’amministrazione dare avvio ad un iter procedimentale (o pre-procedimentale), funzionalmente preordinato all’esercizio del potere.
In altre parole, l’approccio seguito dalla Suprema Corte sembra prendere in esame singoli comportamenti considerati in sé, nel loro aspetto statico.
Ma non si può non tener conto del contenuto dell’affidamento tradito: il danno di cui l’impresa chiede il risarcimento viene prospettato in relazione alla lesione di un’aspettativa sorta da comportamenti, iniziative e attività preliminari dell’amministrazione che hanno indotto a confidare nel favorevole esercizio di un potere amministrativo. Comportamenti, iniziative e attività preliminari che, appunto, sono (o dovrebbero essere) volte alla verifica della sussistenza dei presupposti per il favorevole esercizio di tale potere.
E sotto questo profilo vi è un altro aspetto che deve essere considerato e che riguarda un dato ontologico del potere amministrativo, quello della sua inesauribilità[22]: l’amministrazione investita di un potere ha per ciò stesso il potere di esercitarlo nuovamente.
E’ sufficiente il richiamo alla ri-esercitabilità del potere per cogliere come la considerazione segmentata e statica dell’attività procedimentale (o pre-procedimentale) quale comportamento mero di una amministrazione, finisca per trascurare un elemento che non può essere trascurato: la discrezionalità di cui – pur con margini molto diversi - è investita l’amministrazione nell’esercizio del potere. Discrezionalità che è certamente rilevante anche nell’attività pre-procedimentale, in quanto preordinata all’esercizio del potere.
Di qui una perplessità in ordine alle modalità di apprezzamento del comportamento dell’amministrazione secondo la clausola della buona fede oggettiva: proprio con riferimento alla vicenda in esame, concernente l’atteggiamento ondivago nell’attività preordinata al rilascio dell’autorizzazione per la realizzazione del complesso alberghiero, sembra infatti difficile valutare il comportamento dell’amministrazione – in punto di coerenza, di correttezza, di buona fede - scorporandolo dal contesto complessivo entro il quale quell’attività si inserisce, senza tener conto dei mutamenti intervenuti con riguardo all’assetto degli interessi pubblici alla cui realizzazione è preordinato il potere non ancora esercitato.
Nel caso di specie, l’intervento progettato dall’impresa non è stato più realizzabile (nelle dimensioni proposte) per il contrasto con i limiti introdotti da una variante urbanistica adottata dopo la presentazione della domanda, nel corso della lunga fase interlocutoria.
Non v’è dubbio che - dal punto di vista dell’impresa - quella variante possa rappresentare un comportamento scorretto e incoerente, tale da arrecare una lesione dell’affidamento sotto il profilo della violazione del principio generale della buona fede oggettiva.
Ma – dal punto di vista dell’interesse pubblico - il richiamo al c.d. postulato della inesauribilità del potere induce a ritenere che l’apprezzamento della buona fede richieda necessariamente una valutazione in ordine alle ragioni sottese alla scelta di procedere all’adozione della variante. In effetti, l’amministrazione, quando si pronuncia sulla domanda del privato, è tenuta a fare riferimento al regime normativo vigente non all’epoca di presentazione della domanda, ma nel momento in cui essa provvede, perché l’ultima disciplina adottata è (o dovrebbe essere) quella che garantisce la più adeguata valutazione dell’interesse pubblico attuale.
A questo proposito non può non richiamarsi il fondamentale studio di Fabio Merusi[23] che - con grande anticipo – aveva intuito che la verifica giudiziale in ordine alla buona fede dell’amministrazione avrebbe dovuto affidarsi a parametri come la ragionevolezza dell’affidamento asserito, la ragionevole prevalenza dell’interesse pubblico sopraggiunto rispetto alla situazione di affidamento in precedenza determinata[24].
Parametri tradizionalmente utilizzati dal giudice amministrativo attraverso la lente di ingrandimento del vizio della funzione che consente ora, nella più moderna declinazione delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere, di assicurare al processo amministrativo una giurisdizione “piena”, con l’accesso diretto del giudice al fatto e al materiale probatorio[25].
È vero, come ha ricordato l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato - che i doveri di correttezza, buona fede e lealtà non sono incompatibili con l’esercizio di poteri lato sensu autoritativi dell’amministrazione[26]; ma da questa affermazione non può farsi derivare l’assunto secondo cui la violazione di tali doveri comporta necessariamente la lesione di una posizione di diritto soggettivo e non di interesse legittimo.
Non può bastare l’accertamento di un comportamento dell’amministrazione contrario ai canoni della correttezza e della buona fede per escludere la giurisdizione del giudice amministrativo quando tale comportamento - considerato non in sé, ma nel contesto della vicenda in cui si inserisce - sia riconducibile, sia pure mediatamente, nell’area dell’esercizio del potere (e quindi nell’ambito di una inerenza a una vicenda in cui l’amministrazione agisce come autorità, circostanza sufficiente per attribuire la giurisdizione al giudice amministrativo in quanto giudice, non dell’atto amministrativo, ma dei pubblici poteri[27]).
Sicché, in ipotesi come quella esaminata, sembra difficile contestare che la posizione soggettiva lesa, pur riferibile all’ambito dell’affidamento tradito, abbia natura di interesse legittimo[28]. Con la conseguenza che la tutela risarcitoria dovrebbe spettare al giudice amministrativo.
La circostanza che i comportamenti tenuti dall’amministrazione non siano confluiti nell’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento (nel caso esaminato, prima dell’instaurazione del giudizio risarcitorio) non dovrebbe dunque rilevare in punto di qualificazione della posizione soggettiva.
Del resto, la vicenda su cui si sono pronunciate le Sezioni Unite mette in luce come sia riduttivo ricondurre le iniziative e le attività poste in essere dall’amministrazione, nel corso della lunga interlocuzione con l’impresa, nell’ambito di comportamenti meri. Risulta infatti che in quel caso, insieme a numerosi incontri informali tra i diversi uffici coinvolti nel procedimento autorizzativo, vi siano stati anche atti formali - seppure infra o pre-procedimentali - come la richiesta di acquisizione e la successiva espressione del parere da parte della Commissione urbanistica, la richiesta di parere alla Regione in ordine alla compatibilità dell’iniziativa con il Piano per l’Assetto Idrogeologico Regionale, a seguito della rielaborazione del progetto suggerita all’impresa dallo stesso Comune in esito alle interlocuzioni con le diverse amministrazioni interessate.
A ben vedere, più che di comportamenti meri, sembra trattarsi di segmenti procedimentali o pre-procedimentali. Anzi, per riprendere la storica definizione sandulliana, sembra proprio trattarsi di “una serie di atti […] e di operazioni […], posti in essere da un unico o da diversi agenti, solitamente culminanti in un provvedimento, e strutturalmente e funzionalmente collegati dall’obbiettivo avuto di mira, e perciò appunto coordinati in procedimento”[29].
Dunque, la mancata adozione del provvedimento conclusivo del procedimento non sembra impedire una considerazione unitaria di quell’insieme di atti, dialoghi, interlocuzioni, unificati dall’essere – tutti – preordinati all’esercizio del potere invocato nella domanda rivolta all’amministrazione.
Con la conseguenza che, con riguardo al caso di specie, la posizione soggettiva dell’impresa – la quale, con la propria iniziativa, ha dato avvio a quel complesso di attività, comunque funzionale al perseguimento dell’interesse pubblico – ben potrebbe essere qualificata come interesse legittimo procedimentale[30].
Sotto questo profilo va anzi rilevato come proprio la riconducibilità della responsabilità da lesione dell’affidamento nell’ambito della responsabilità da contatto qualificato – affermata dalle Sezioni Unite - sembra necessariamente presupporre una relazione, un rapporto, dunque un contesto quasi-procedimentale, piuttosto che una serie di comportamenti meri, considerati singolarmente e non nel loro aspetto dinamico e d’insieme.
In ogni caso, anche a voler ipotizzare che, in vicende come quella esaminata, la lesione dell’affidamento abbia natura di diritto soggettivo, dovrebbe ritenersi che – nelle materie di giurisdizione esclusiva - la tutela spetti comunque al giudice amministrativo.
Ma non v’è dubbio che una distinzione in punto di giurisdizione con riguardo al medesimo comportamento – attribuita al giudice ordinario ove la lesione dell’affidamento sia lamentata sotto il profilo della violazione della buona fede oggettiva, attribuita invece al giudice amministrativo ove tale lesione sia lamentata sotto il profilo della violazione delle norme che disciplinano il corretto esercizio del potere cui il comportamento sia mediatamente riconducibile – finirebbe per incidere fortemente sul principio di concentrazione della tutela giurisdizionale.
Come è stato autorevolmente osservato[31], la regola della concentrazione delle tutele costituisce applicazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale - di cui all’articolo 24 della Costituzione - e cioè del principio che più di ogni altro, sul piano generale, ha contribuito negli ultimi anni all’evoluzione della giurisdizione amministrativa ed alla sua nuova configurazione. È in nome del principio di effettività – si sottolinea - che la Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimità dell’attribuzione al giudice amministrativo di poteri risarcitori, indicando, nel criterio della concentrazione delle tutele, una modalità di attuazione dell’effettività.
E dunque - soprattutto con riferimento ai casi di annullamento del provvedimento favorevole illegittimo - l’orientamento seguito dalle Sezioni Unite non solo potrebbe tradursi in un vulnus al principio della concentrazione delle tutele, ma renderebbe più frequente il rischio di contrasto tra giudicati, se si considera il consistente numero di contenziosi che nascono dall’annullamento in autotutela di provvedimenti favorevoli (concernenti per lo più il caso della revoca dell’atto di aggiudicazione di una gara o quello dell’annullamento del titolo edilizio, oggetto entrambi delle richiamate ordinanze del 2011).
Del resto, come si è osservato acutamente[32], il diritto amministrativo sembra ormai orientato a riconoscere che – anche nei rapporti amministrativi – l’affidamento possa essere fonte di obbligazioni patrimoniali a carico dell’amministrazione. L’approdo finale del principio di affidamento nel diritto amministrativo – si sottolinea - “non è la garanzia di un risultato favorevole al cittadino in conseguenza dell’affidamento, ma è l’introduzione di una variabile specifica nell’esercizio di un potere discrezionale”. Con la conseguenza che l’affidamento – da ricercarsi non sul piano sostanziale ma su quello procedimentale – si risolve attraverso la ponderazione e il bilanciamento degli interessi. Una tale tecnica consente di mettere a confronto la garanzia del potere amministrativo (e quindi anche del suo riesercizio) con le ragioni dell’affidamento del privato, che mirano alla conservazione della posizione di vantaggio già riconosciuta dall’amministrazione.
Infine un ultimo profilo: quello degli effetti extra processuali del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno arrecato da un comportamento ritenuto contrario alla clausola della buona fede oggettiva alla stregua di una verifica condotta in astratto, senza considerazione per l’intreccio degli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda.
E’ tutt’altro che improbabile che i dirigenti degli apparati – per evitare il rischio di essere chiamati a rispondere dei danni cagionati da un comportamento che, scorporato da un tale complesso contesto, possa essere ritenuto ondivago o disorientante – preferiscano proteggersi con un ritorno alla burocrazia difensiva[33].
In altre parole - soprattutto di fronte a progetti di notevole rilevanza economica, fortemente incidenti in materia ambientale o storico-paesaggistica e che dunque richiedono istruttorie particolarmente complesse – potrebbe prevalere la scelta del percorso procedimentale più sicuro. Percorso che certamente non coincide con quello dell’attuazione sostanziale, e non solo formale, dei principi della partecipazione procedimentale.
Verrebbe in questo senso abbandonata ogni iniziativa, da parte dei responsabili degli uffici, volta ad avviare in via informale - in una sorta di leale collaborazione con cittadini e imprese, e spesso con le altre amministrazioni coinvolte dall’iniziativa – una pre-verifica ai fini della valutazione delle diverse soluzioni possibili, in vista della conclusione del procedimento (eventualmente, anche attraverso la definizione concordata del contenuto del provvedimento, ai sensi dell’articolo 11 della legge n. 241 del 1990).
Con il rischio, se così fosse, di tradire una delle prime finalità della legge sul procedimento, proprio al compimento del suo trentesimo compleanno.
[1]. Cass. Civ., SS.UU., ord. 21 settembre 2020, n. 19677.
[2]. Cfr., M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni, in Federalismi.it, n. 7/2011. Cfr., altresì, R. Villata che - in Spigolature “stravaganti” sul nuovo codice del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 857 ss. - osserva come la mancata estensione della giurisdizione amministrativa alle controversie risarcitorie tramite il riconoscimento di un’ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva abbia consentito alla Cassazione di tentare di riappropriarsi della giurisdizione su questioni risarcitorie collegate all’esercizio del potere.
[3]. Cfr., A. Travi, Annullamento del provvedimento favorevole e responsabilità dell’amministrazione, in Foro It., 2011, I, 2398.
[4]. Cfr., in particolare, le ordinanze delle Sezioni Unite 4 settembre 2015, n. 17586; 22 maggio 2017, n. 12799; 22 giugno 2017, n. 15640; 2 agosto 2017, n. 19171; 23 gennaio 2018, n. 1654; 2 marzo 2018, n. 4996; 24 settembre 2018, n. 22435; 13 dicembre 2018, n. 32365; 19 febbraio 2019, n. 4889; 8 marzo 2019, n. 6885 e 13 maggio 2019, n. 12635. In senso contrario, invece – anche se con riguardo alle sole materie di giurisdizione esclusiva – Cass. Civ., SS.UU., ord., 21 aprile 2016, n. 8057, e Cass. Civ., SS.UU., 29 maggio 2017, n. 13454, secondo cui, in tali materie, la giurisdizione sulle domande di risarcimento del danno da lesione dell'affidamento riposto sulla legittimità dei provvedimenti successivamente annullati appartiene al giudice amministrativo.
[5]. Cfr. VI, 27 settembre 2016, n. 3997.
[6]. Si richiamano, in proposito, le argomentazioni critiche di C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 2016, 547 ss. e di G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it – Dottrina, 2016.
[7]. Cfr. sentenza n. 404 del 2009 del Tribunale di Civitavecchia.
[8]. Si richiamano, in particolare, gli approfonditi commenti di G. Tulumello, “Le Sezioni Unite e il danno da affidamento procedimentale: la “resistibile ascesa” del contatto sociale”, in www.giustizia-amministrativa.it - Dottrina, 2020; di V. Neri, La tutela dell’affidamento spetta sempre alla giurisdizione del giudice ordinario?, in Urbanistica e Appalti, 6/2020 e di G. Tropea, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o., in Giustizia insieme, 2020.
[9]. Ai sensi, rispettivamente, dell’art. 133, comma 1, lettera a), n.1 e dell’art. 133, comma 1, lettera f), cod. proc. amm..
[10]. Il preavviso di rigetto in ordine al provvedimento conclusivo del lungo procedimento (diniego di rilascio del permesso di costruire in deroga) è stato infatti comunicato all’impresa quando già era stata avviata l’azione risarcitoria nei confronti del Comune davanti al giudice ordinario.
[11]. Così F. Volpe, in “Una nuova geografia delle tutele? Risarcimenti, annullamento e buona fede alla luce dei nuovi orientamenti e delle riforme”, relazione introduttiva al convegno Le giurisdizioni “sconfinate”, webinar, 13 novembre 2020.
[12]. Si richiama, a questo proposito, quanto in precedenza affermato dalla stessa Suprema Corte (Cass. Civ., SS.UU., 15 novembre 2007, n. 23726): “viene in rilievo l’ormai acquisita consapevolezza della intervenuta costituzionalizzazione del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., che a quella clausola generale attribuisce all’un tempo forza normativa e ricchezza di contenuti, inglobanti anche obblighi di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale”.
[13]. La garanzia costituzionale del principio di affidamento, secondo l’orientamento della Corte costituzionale, va invece individuata nell’articolo 3 Cost. (ex multis, Corte cost. 27 giugno 2017, n. 149).
[14]. In ordine alla diversità - “per funzione e per struttura” – delle due figure, si rinvia all’approfondito studio di F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, in Dir. proc. amm., 2018, 3, 827.
[15]. Sul punto, l’ordinanza in esame richiama la decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 4 maggio 2018, n. 5. Questa sentenza - riprendendo quanto rilevato in dottrina con riguardo alla possibilità che una responsabilità da comportamento scorretto sussista nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento - rileva come “in questi casi il provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un mosaico connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativa dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico", aggiungendo come si tratti di “una responsabilità da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale”.
[16]. Sul punto la decisione in commento chiarisce che “La nozione di ‘diritto alla conservazione dell'integrità del patrimonio’ risulta … priva di consistenza autonoma, risolvendosi in una formula descrittiva che unifica in una sintesi verbale la pluralità delle situazioni soggettive attive che fanno capo ad un soggetto”.
[17]. Così, Cass. Civ., I sez, n. 14188 del 12 luglio 2016, con cui la Suprema Corte ha rimeditato l’inquadramento della responsabilità precontrattuale ai sensi degli articoli 1337 e 1338 del codice civile.
[18]. Cfr., in particolare, F. Volpe, in “Una nuova geografia delle tutele?” cit., relazione introduttiva al convegno Le giurisdizioni “sconfinate”, webinar, 13 novembre 2020.
[19]. Orientamento confermato, da ultimo, da Cass. Civ., SS.UU., sent. 15 gennaio 2021, n. 615.
[20]. Cfr., in particolare, F. Volpe, in “Una nuova geografia delle tutele?” cit., relazione introduttiva al convegno Le giurisdizioni “sconfinate”, webinar, 13 novembre 2020.
[21]. Il nuovo comma 2 bis, aggiunto all’art. 1 della legge n. 241 del 1990, stabilisce che “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”. Il comma - aggiunto dall’art. 12, comma 1, lett. 0a), del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120 – rende esplicito il principio cui si ispirano tutte le disposizioni del Capo III della legge n. 241 del 1990 sulla partecipazione al procedimento amministrativo.
[22]. A. Travi, La tutela dell’affidamento del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. pubbl., 2018, 126.
[23]. L’affidamento del cittadino, Milano, 1970.
[24]. Si vedano sul punto le considerazioni di G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento, cit., che, con riguardo a tale azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento, rileva come risulti “evidente l’estraneità dell’attrezzatura processuale del giudice civile in un giudizio siffatto”.
[25]. Cfr., F. Patroni Griffi, Le giurisdizioni “sconfinate”, relazione al convegno Le giurisdizioni “sconfinate”, webinar, 13 novembre 2020.
[26]. Cfr., Cons. St., Ad. Pl. n. 5 del 2018 cit., ove si osserva come anche nella fase ad evidenza pubblica, che precede l’aggiudicazione della gara, «non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto)».
[27]. Cfr. Corte Cost., sentenze n. 204 del 6 luglio 2004 cit. e n. 191 dell’11 maggio 2006.
[28]. Come osserva autorevolmente F.G. Scoca - L’interesse legittimo, storia e teoria, Torino, 2017, 255 - sembra difficile ricostruire come diritti soggettivi “pretese, o ‘facoltà’, partecipative” che “sono strumenti di sostegno, e di esercizio, nel procedimento, dell’interesse legittimo, di cui sono titolari i privati”.
[29]. A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Jovene Editore, Napoli 1974.
[30] Sulle diverse ricostruzioni elaborate dalla dottrina in ordine alla natura giuridica degli interessi legittimi procedimentali, si rinvia a F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, XIII Edizione, 2020, Parte I, Sezione I, Capitolo 1.
[31]. Così A. Quaranta, Il processo amministrativo - Commentario al D. lgs. 104/2010, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, Introduzione, 58.
[32]. A. Travi, La tutela dell’affidamento cit., in Dir. pubbl., 2018, 131.
[33]. Cfr., G. Tulumello, “Le Sezioni Unite e il danno da affidamento procedimentale” cit.
L’abuso del diritto “altrui”. Riflessioni a margine di un lavoro monografico.
Fabio Francario intervista Domenico Fiordalisi
Domenico Fiordalisi è magistrato della Corte di Cassazione autore di diverse pubblicazioni in materia penale, tra le quali si possono ricordare, edite per i tipi della Giappichelli, Una clausola generale: pericolo di danno grave alla salute (2016), Giudicato progressivo e recidiva (2008), Efficacia giuridica e falso. Per una concezione normativa della fede pubblica (2010) e Abuso di facoltà legittime ed impedibilità degli atti antigiuridici (2008). Riprendendo riflessioni già in nuce in precedenti pubblicazioni, nel 2020 ha recentemente pubblicato un nuovo lavoro monografico sul tema dell’abuso del diritto (Abuso del diritto altrui. Una figura formale di qualificazione giuridica, Giappichelli, Torino 2020). Giustizia Insieme lo ha invitato ad illustrare i contenuti di quest’ultimo lavoro monografico nell’intervista curata dal Prof. Fabio Francario, che pubblichiamo di seguito.
I. Il libro svolge un ragionamento complesso sulla figura dell’abuso del diritto, analizzandone presupposti e limiti di applicazione e soprattutto interrogandosi sulla ratio dell’istituto. L’esperienza maturata come magistrato porta naturalmente a svolgere il pensiero muovendo dal concreto dell’esperienza del fatto storico alle categorie dommatiche del diritto, in uno scambio continuo che rivela una naturale inclinazione didattica che impronta l’intera trattazione.
Il primo chiarimento d’ordine concettuale che viene operato è che la figura può trovare cittadinanza solo in un ordinamento giuridico evoluto. Anzi, tanto più è evoluto il livello di civiltà giuridica dell’ordinamento, tanto più l’istituto potrebbe avervi cittadinanza. Se non si abbandona l’idea della “difesa privata e violenta del proprio diritto”, il problema teorico dell’abuso del diritto nemmeno può porsi. Il problema si pone nel momento in cui l’ordinamento abbandona la consuetudine e avoca a sé la produzione del diritto imponendo il primato della legge.
Può illustrarci meglio questo che sembra essere il punto di partenza di tutto il ragionamento giuridico svolto nella monografia?
La vis di ogni potere privato, inteso come contenuto di un diritto e, in particolare, l’idea della forza illimitata, che era ben riconoscibile nell’antica Roma nello ius vitae ac necis del pater familias e nella manus iniectio del creditore insoddisfatto è in minima parte presente nel modo illimitato di concepire l’esercizio del diritto individuale nei sistemi giuridici successivi.
Alla fine del ‘700, l’esigenza di garanzia dei diritti ha dato centralità alla legge scritta rispetto al diritto consuetudinario, incentrato sulla normalità dei rapporti giuridici, ma ha sentito subito la necessità di trovare dei temperamenti all’uso di un diritto di fonte legislativa, che non poteva trovare più in tale “normalità” un sicuro criterio oggettivo di conformazione del potere privato.
Sicché già negli artt. 6 e 7 della dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino nella Costituzione della Repubblica Francese del 22 agosto 1795 veniva distinto chi «viola apertamente le leggi» da «chi senza infrangerle le elude con freddezza ed astuzia, ferendo gli interessi di tutti e rendendosi così indegno della loro benevolenza e della loro stima».
È nata così, contemporaneamente all’affermarsi del primato della legge, la necessità di un rimedio all’uso distorto del diritto soggettivo di fonte legislativa, per non accordargli la protezione giuridica dello Stato.
II. L’originalità rispetto agli studi già esistenti e che potrebbero essere definiti “classici” (Giorgianni, Natoli, Gambaro, Bianca, Rescigno) è chiaramente rivelata sin dal titolo, che racchiude e condensa l’idea che l’abuso del diritto va visto non come un limite immanente, connaturato al diritto soggettivo, “interno” alla sua struttura, alla forma o ai contenuti del diritto, ma come un limite esterno che promana dal “diritto altrui” e origina un dovere giuridico di rispetto ad esso correlato. Lei sostiene come sia “fondamentale comprendere che assume rilevanza l’interesse “altrui”, “esterno al soggetto agente”, che in quanto tale “non può fungere da limite interno del potere stesso, perché non fa parte della struttura del potere al momento dell’iniziale coesistenza giuridica del potere e di un dovere siffatto” ovvero che “Tra limite e dovere c’è una differenza fondamentale; il secondo è qualcosa di più di un limite, perché ha un contenuto attivo “.
Ci può illustrare meglio questa differenza tra limite e contenuto attivo?
Il ricorso all’abuso del diritto si è affermato come necessario temperamento dei modi di uso di ogni diritto in contrapposizione concreta a interessi legittimi di diritto privato, nei casi di conflitto concreto tra il potere privato, esercitato in forza della norma attributiva del diritto soggettivo che lo contiene, e il dovere di solidarietà, dettato da una norma costituzionale che ha carattere precettivo e non solo programmatico e che ha la sua radice più forte nel principio di uguaglianza tra diritti in conflitto.
Si tratta di un temperamento che, al di là del generico e insufficiente riferimento al carattere sociale di ogni diritto, deve trovare nell’attenta descrizione giurisprudenziale delle forme del dovere giuridico di solidarietà, il rispetto effettivo del principio di uguaglianza e, quindi, la strada più oggettiva che consente di conformare a tali forme le singole modalità di esercizio di un potere o di una facoltà inutilmente lesive del diritto altrui.
L’interesse altrui fa parte del contenuto del dovere, tuttavia presenta un carattere di elevata genericità nella fase di costituzione e attribuzione del potere privato, sicché non può fungere da limite interno al potere stesso, perché non fa parte della sua struttura al momento dell’iniziale coesistenza giuridica del potere attribuito all’agente e del dovere, che contiene appunto l’interesse altrui.
Quest’ultimo ha bisogno, molto spesso, di eventi determinativi, che permettano la specificazione del valore dell’azione realizzatrice del dovere della sua tutela, puntualizzandosi su soggetti individuali, cioè su singole persone portatrici di interessi reali, che consentono di definire, solo dopo il prodursi di tali eventi concreti, in modo preciso, il criterio effettivo di conformazione dei comportamenti del titolare del potere, durante le articolate fasi di esercizio del diritto.
Salvo che un chiaro limite interno non sia espressamente indicato nella norma e tramite essa nel titolo costitutivo del diritto, in tutti gli altri casi - quindi in modo generale - il principio di uguaglianza e il dovere di solidarietà si posizionano all’esterno della fattispecie parziale di esercizio di un diritto. Possiamo parlare di abuso del diritto, quindi, per la violazione di un limite o di un dovere che originariamente è esterno al diritto, perché si riferisce ad un valore che viene specificato soltanto nel corso della vita del rapporto giuridico concreto tra chi esercita il suo potere privato e il terzo portatore di un interesse privato in conflitto.
Infatti, la norma non pone solo dei limiti all’esercizio di un diritto, bensì anche dei doveri ad esso connessi (cfr. l’art. 832 cod. civ.); l’indeterminatezza iniziale di limiti e doveri, come il dovere di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., al momento della coesistenza col diritto sorto in capo al soggetto titolare, e il fatto che essi non costituiscono la ragione (o una delle ragioni) in considerazione della quale la norma attribuisce quel diritto al soggetto collocano i medesimi limiti e doveri al di fuori della struttura costitutiva del diritto, sicché rimangono esterni alla sua fattispecie giuridica parziale.
I doveri, anche sotto forma di oneri, a differenza dei limiti, hanno un contenuto attivo, perché impongono una condotta cioè la scelta tra più modalità di azione, che permette di realizzare e salvaguardare il valore indicato in modo precettivo dalla norma all’agente.
Più è elevata l’importanza del valore (si pensi al livello in cui va collocato il valore della persona umana, sotto il profilo della dignità e della salute), più è intenso e preminente il dovere giuridico della sua tutela, imposto da una norma in base agli eventi determinativi con i quali l’agente si confronta in concreto.
III. Veniamo al profilo della ricostruzione dommatica della figura giuridica. Lei sostiene che, affinché possa configurarsi, l’abuso del diritto richiede sempre la violazione di un preciso dovere giuridico imposto da una norma, che però protegge un interesse che è estraneo alla fattispecie costitutiva del diritto esercitato. Ciò porta ad affermare che si risolve in una figura unitaria di secondo grado: è necessaria una doppia qualificazione del contegno come esercizio del diritto e violazione del dovere.
Può illustrarci cosa intende quando fa riferimento alla necessità di questa doppia qualificazione?
Ciò che rileva nella fattispecie dell’abuso è il pericolo di danno al diritto altrui, per la violazione oggettiva (da parte del soggetto agente che esercita il potere) del dovere di tutelare l’altrui interesse, che rischia di essere inutilmente compresso o addirittura soppresso da siffatta attività. Tale dovere di tutela, non legato alla ratio della norma attributiva del potere a quel soggetto, rimane estraneo alla fattispecie del diritto soggettivo esercitato. Questi risulta integrata in modo indipendente come fattispecie parziale, per esempio, nei riguardi dei terzi che non vengono lesi. Ma il riscontro concreto dell’avvenuta violazione del dovere di solidarietà e del diritto altrui si presenta come un elemento negativo, che si colloca all’esterno di detta fattispecie giuridica parziale del diritto esercitato, sicché l’effetto che normalmente ne sarebbe derivato, non può prodursi, atteso che le concrete modalità di esercizio di quel diritto lo rendono immeritevole di protezione giuridica.
L’abuso del diritto è riconoscibile, quindi, in una qualificazione giuridica di secondo grado, in base alla fattispecie completa composta dalla ordinaria fattispecie del diritto esercitato (costituita dagli elementi oggettivi e soggettivi dettati dalla norma attributiva) più l’elemento estraneo a questa, consistente nella violazione del dovere di tutela dell’interesse altrui, che gli eventi determinativi intervenuti (come la stessa libera scelta di particolari modalità concrete, che di fatto interferiscono con esso) hanno specificato.
Vi sono pertanto due norme, due fattispecie, due qualificazioni giuridiche. La norma di tutela del diritto di chi agisce e quella che tutela il diritto altrui.
Vi è la fattispecie parziale di esercizio del diritto e la fattispecie completa, che contiene la prima più l’elemento ad esso esterno, che viene specificato in base alla violazione del limite o del dovere di tutela attivo dell’interesse altrui, che non ha costituito né ha fatto parte della ragione di attribuzione del potere al titolare del diritto esercitato.
L’istituto permette sia la qualificazione giuridica in termini di «esercizio del diritto», che mantiene in ogni caso la sua validità ed efficacia giuridica verso i terzi non lesi ingiustamente, sia la qualificazione giuridica complessiva di “abuso del diritto”, che ha rilevanza limitata al terzo, il cui interesse doveva essere tenuto in considerazione e salvaguardato dall’agente: questi ha scelto modalità sproporzionate e irrazionali, lesive o pericolose della posizione giuridica di un terzo, con la conseguenza ordinaria dell’inefficacia relativa dell’atto o degli atti posti in essere e della possibilità, per il terzo il cui interesse è leso o messo in pericolo, di esperire quantomeno un’azione inibitoria di ulteriori atti lesivi.
IV. Nel libro si sostiene che l’eventuale abuso è riferito sempre ad un potere in senso lato, anche – ma non solo - quando questo costituisce contenuto di un diritto soggettivo, sottolineando che poteri giuridici sono anche i poteri pubblicistici e gli interessi legittimi.
Nel diritto amministrativo l’esigenza di tutela dell’interesse altrui è però connaturata alla struttura del potere, è immanente, non esterno alla costruzione del potere giuridico.
Si può ugualmente ricostruire l’abuso del diritto come figura generale o nel diritto amministrativo la figura è surrogata da quella dell’eccesso di potere?
Sono convinto che anche nel diritto pubblico vi sono forme di abuso del diritto inteso in senso stretto, laddove l’interesse altrui non sia stato preso in considerazione dalla norma come ragione dell’attribuzione del potere giuridico al soggetto agente, sicché la lesione o messa in pericolo di tale interesse costituisce elemento esterno alla fattispecie giuridica parziale di esercizio del potere, come nel caso già qualificato in termini di “abuso del diritto” dalla Corte costituzionale, con la sentenza del 23 aprile 1998 n. 140, che ha considerato atto arbitrario del pubblico ufficiale quello posto in essere con modi maleducati, aggressivi, vessatori, inurbani ed arroganti, poiché l’atto da lui compiuto, pur essendo sostanzialmente legittimo, viene compiuto con modalità scorrette, offensive o comunque sconvenienti, in quanto la convenienza e l’urbanità dei modi, esplicitamente imposte a determinate categorie di pubblici ufficiali, debbono ritenersi doverose finanche in difetto di esplicita disposizione legislativa, ponendosi come «limite esterno» ad ogni potere giuridico, derivante direttamente dalla necessità giuridica di tutelare la dignità della persona altrui.
V. Volendo scegliere una frase o una espressione in cui condensare i contenuti dell’intero lavoro, mi verrebbe in mente quella che compare in apertura del lavoro, secondo la quale «Il diritto a volte è come un’arma carica. E’ necessaria ogni cautela quando la si impugna per farne uso. Non ogni modalità di utilizzo è consentita».
Il concetto ritorna ben esemplificato a metà dell’opera, quando afferma che «se ho due strade per esercitare il mio diritto e, seguendone una, ledo il diritto e la libertà altrui e con l’altra no, ho l’onere di scegliere la seconda strada» e mi pare ripreso anche nelle conclusioni, con la citazione del Presidente Mariano D’Amelio: «il diritto non è un concetto assoluto. Esso è proporzione e come tale ha un limite. Oltre questo limite non è più operante come forza protetta dall’autorità dello Stato e se agisce e cagiona danno ad altri, non merita più protezione».
Il principio di proporzionalità, in quanto funzionale al sindacato sull’esercizio di poteri discrezionali, di scelta tra condotte astrattamente possibili, può essere impiegato al di fuori dell’ambito elettivo del diritto pubblico e consentire la costruzione di una figura teorica generale al di là delle singole specificità settoriali?
Ritengo che il livello di complessità e di maturità del nostro sistema giuridico ponga il principio di proporzionalità in tutte le forme di potere, privato o pubblico, che vengono esercitate spesso in delicate situazioni di contrapposizione di interessi.
Il parametro della proporzionalità, sia quando deve essere valutato di volta in volta sia quando deve reputarsi esistente in base a precise circostanze legalmente previste, è immanente in tutto l’art. 52 cod. pen. sulla legittima difesa dei propri diritti, nel caso estremo dell’impossibilità di un tempestivo intervento delle autorità preposte.
Nel diritto pubblico il principio di proporzionalità è uno dei criteri più importanti per misurare la legittimità delle scelte del soggetto agente e trova le più evidenti declinazioni nelle forme di eccesso di potere riconosciute dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale.
L’abuso del diritto altrui è, pertanto, l’istituto nel quale, in modo ormai sempre più evidente, trova applicazione detto principio, che permea ogni modalità di esercizio di un potere.
A tale conclusione, si perviene non solo all’esito di un esame, con gli strumenti della dommatica, dei vari fenotipi posti dall’ordinamento nei vari settori (pensiamo all’artt. 2 e 3 Cost, all’art. 54 della Carta di Nizza, all’art. 833 cod. civ., agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., alla particolare disciplina dell’abuso in materia tributaria, ai casi di abuso riconosciuti in modo sempre più attento dalla giurisprudenza nell’ambito del processo civile e del processo penale), bensì guardando gli stessi con la lente del genotipo: la figura formale di qualificazione giuridica dell’abuso del diritto, la cui caratteristica specifica consiste proprio nella doppia qualificazione del contegno, come esercizio del diritto e, al tempo stesso, come violazione del dovere di solidarietà, che impone all’agente di tutelare l’interesse altrui. Due qualificazioni, quindi, che formalmente convivono e possono essere messe a fuoco con una doppia fattispecie, una parziale e l’altra completa.
Dubbi di legittimità costituzionale sul sistema elettorale dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura secondo il "ddl Bonafede"*
di Antonio Mondini
Sommario: 1. Premessa - 2. Il nuovo sistema elettorale dei membri togati - 3. I dubbi di legittimità costituzionale.
1. Premessa
Il disegno di legge di iniziativa governativa presentato alla Camera il 28 settembre 2020 (atto Camera 2681) contiene disposizioni di delega al governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare e disposizioni immediatamente precettive in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura.
Queste ultime disposizioni, di modifica della legge n.195 del 1958 (recante Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), sono contenute nel Capo IV del disegno, composto dagli articoli da 20 a 38.
La riforma incide sulla composizione, sull’organizzazione (art. 20-27), sulla costituzione, cessazione e scioglimento del Consiglio (articoli da 28 a 34), sulla posizione giuridica dei suoi componenti e sul loro ricollocamento in ruolo (articoli 35. 36 e 37). Il capo si chiude con le disposizioni per l’attuazione e il coordinamento del nuovo sistema elettorale (articolo 38).
2. Il nuovo sistema elettorale dei membri togati
L’articolo 29 del ddl., sostituendo l’articolo 23 della legge 24 marzo 1958, n.195, introduce un nuovo sistema di elezione dei componenti togati, il cui numero è aumentato da 16 a 20 [1].
L’attuale art.23 stabilisce che i 16 membri togati sono eletti con criterio maggioritario a turno unico, in tre collegi nazionali: uno per consiglieri di Cassazione e i magistrati della Procura generale presso la Corte di Cassazione, in cui sono eletti 2 componenti; uno per i magistrati con funzioni giudicanti di merito in cui sono eletti 10 componenti, ed uno per i magistrati con funzioni requirenti di merito in cui sono eletti 4 componenti [2].
Ogni elettore può esprimere una sola preferenza per ciascuna delle tre categorie.
Con il nuovo art. 23, in luogo dei tre collegi elettorali nazionali per categorie funzionali e ad elettorato attivo aperto (nel senso che, come appena detto, ogni elettore vota per i candidati di ciascuna delle tre categorie), vi sono diciannove collegi elettorali -due speciali e diciassette territoriali- per categorie definite solo dall’appartenenza al collegio e ad elettorato attivo chiuso (nel senso che ogni elettore vota solo per i candidati del proprio collegio).
Più in dettaglio.
Dei due collegi speciali, uno è composto dai magistrati della Corte di Cassazione, della Procura generale presso la stessa Corte e del Tribunale superiore delle acque pubbliche. In questo collegio sono eletti due consiglieri. L’altro è costituito dai magistrati della corte d’appello di Roma, della DNA, dell’ufficio del massimario e dai magistrati fuori ruolo. Tra i magistrati di questo collegio è eletto un consigliere.
I diciassette collegi territoriali sono individuati con decreto del ministro della giustizia almeno tre mesi prima del giorno fissato per le elezioni. In ogni collegio territoriale è eletto un consigliere.
In luogo del vigente sistema maggioritario a turno unico, viene introdotto un sistema maggioritario a doppio turno; come oggi, vi sono candidature individuali e non di lista.
L’elettore esprime fino a quattro preferenze progressivamente ordinate e numerate, con obbligo di alternanza di genere.
Nei collegi diversi da quello di Cassazione, nel quale nessuno può essere eletto al primo turno, viene eletto il candidato che ottiene almeno il sessantacinque per cento dei voti di preferenza validamente espressi al primo posto sulla scheda.
Se nessun candidato ha ottenuto al primo turno la maggioranza necessaria, il secondo giorno successivo al completamento delle operazioni di scrutinio, si procede al secondo turno a cui accedono i quattro candidati che al primo turno hanno ottenuto il maggior numero di voti di preferenza calcolati attraverso un meccanismo di percentuali da applicarsi in riduzione per voti indicati sulla scheda al secondo, terzo e quarto posto [3].
Al secondo turno ciascun elettore può esprimere sino a due preferenze sempre con alternanza di genere. Risulta eletto il candidato che ha ottenuto più voti. I voti di seconda preferenza sono computati con una riduzione percentuale.
Per il collegio della Cassazione il sistema è diverso perché nessuno è eletto al primo turno. I quattro magistrati che al primo turno ottengono il maggior numero di voti passano al secondo turno. Anche qui, con il ridetto meccanismo dei coefficienti di riduzione per i voti di seconda, terza e quarta preferenza. Solo al secondo turno si ha l’elezione dei due candidati. I voti di preferenza indicati al secondo posto nella scheda sono percentualmente ridotti [4].
3. I dubbi di legittimità costituzionale
Il sistema elettorale definito dal ddl. di riforma pare si esponga a dubbi di legittimità costituzionale. In più numerosi hanno riferimento all’art.104, comma 4, prima parte, secondo cui i componenti togati “sono eletti … da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie”.
Riguardo a questa disposizione valgono tre ordini di considerazioni.
Il primo: l’elettorato attivo è riferito a tutti i magistrati. Tutti concorrono ad eleggere i consiglieri [5]. La categorizzazione è riferita solo all’elettorato passivo. In riferimento alla previsione contenuta nella legge istitutiva del Consiglio per cui ciascun magistrato poteva votare solo per i componenti appartenenti alla propria categoria (l. 24 marzo 1958 n. 195, art. 23, terzo comma) ([6]), la prevalente dottrina, fedele alla lettera e all’interpretazione storica della disposizione, ritenne la limitazione illegittima([7]); l’opinione contraria espressa dalla Corte costituzionale con sentenza 12 dicembre 1963, n.168([8]), è basata su uno (pseudo)argomento in conflitto con la lettera della disposizione e con la volontà dei costituenti: “se è vero che la Costituzione prevede la distinzione per categorie con riferimento soltanto all’elettorato passivo, da ciò non può derivare, come si assume, la illegittimità delle norme di attuazione per il fatto che agli stessi criteri di ripartizione si è attenuto per la formazione dei collegi elettorali. Giacché la rispondenza fra questi e le condizioni di eleggibilità (come si è del resto già rilevato nella ricordata sentenza 111 del 1963) non può ritenersi ingiustificata, anche in questo caso, dato lo speciale carattere dell’organo elettivo, preposto dalla Costituzione al governo della Magistratura e per garantirne l’indipendenza”([9]).
Il secondo ordine di considerazioni è il seguente: il riferimento costituzionale a “le varie categorie”, come sottolineato in dottrina, impedisce al legislatore di stabilire che magistrati appartenenti a determinate categorie funzionali non possono essere eletti e siano così esclusi dal Consiglio ([10]); nella sentenza 10 maggio 1982, n.87 ([11]), la Corte rilevò (punti 4 e 5 della motivazione) che il riferimento dell’art.104 alle categorie non esaurisce il proprio significato in quell’impedimento ma vincola, in positivo, il legislatore a dare un qualche rilievo all’articolazione degli eleggibili per categorie onde possa essere soddisfatta l’ “esigenza che all’esercizio dei delicati compiti inerenti al governo della magistratura contribuiscano le diverse esperienze di cui le singole categorie sono portatrici”.
Infine, il terzo ordine di considerazioni: il concetto di categoria non è precisamente determinato; dal combinato disposto degli artt.104, comma 4, e 107, comma 3, Cost. (secondo cui i magistrati si distinguono tra loro «soltanto per diversità di funzioni») risulta che debba essere legato alla funzione ([12]) ma ciò non consente di superare l’indeterminatezza giacché il fuoco si sposta sul concetto di funzione e, come rilevato dalla Corte Costituzionale, con la già citata sentenza n.87 del 1982 (punto 5 della motivazione), “… stabilire quali e quante siano le categorie dei magistrati destinate a riflettersi sulla composizione del Consiglio superiore…” spetta al legislatore. Tuttavia “il legislatore non è completamente libero, senza doversi attenere a criteri di sorta, costituzionalmente rilevanti”. Il legislatore deve infatti, in primo luogo, dare rilievo alla fondamentale distinzione, costituzionalmente imposta, fra legittimità e merito ([13]) e, oltre, tener conto dell’imprescindibile correlazione, “desumibile da tutto il complesso dei lavori preparatori svoltisi in seno alla Costituente”, delle singole categorie “alle classificazioni dei magistrati configurate dalle leggi che concorrono a formare la normativa sull’ordinamento giudiziario”; in dottrina, analogamente, è stato evidenziato che la scelta del legislatore è “subordinata al generale principio di ragionevolezza, nel senso che comunque dovrà fare riferimento a categorie che assumono un rilievo sulla base dei principi costituzionali o delle norme sull’ordinamento giudiziario” ([14]).
Alla luce di quanto precede appaiono di dubbia legittimità:
l’intero sistema di articolazione dell’elettorato attivo per categorie (corrispondenti a quelle dell’elettorato passivo) in conseguenza del quale gli appartenenti al collegio di legittimità possono eleggere solo due tra loro e non possono votare per gli appartenenti alla categoria dei magistrati di merito né per gli appartenenti a quella dei magistrati del collegio speciale riservato ai magistrati collocati fuori ruolo, ai magistrati dell’ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione, ai magistrati della corte d’appello di Roma e della procura generale presso la medesima corte e ai magistrati della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo; gli appartenenti al predetto collegio speciale non possono votare per altri che per gli appartenenti al proprio collegio; i magistrati dei 17 collegi elettorali territoriali non possono contribuire all’elezione dei due consiglieri del collegio speciale di legittimità né all’elezione del consigliere dell’altro collegio speciale. Il dubbio non è certo escluso dalla ricordata sentenza 168 del 1963. Essa costituisce un precedente ingombrante. Il riferimento, tuttavia, non può che essere alla Carta non ad una errata interpretazione della Carta;
il comma 3 del nuovo articolo 23 della l.195/58, secondo cui un collegio è costituito dai magistrati collocati fuori ruolo e dai magistrati della corte d’appello di Roma e della Procura generale presso la medesima Corte, dai magistrati dell’ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione, dai magistrati della corte d’appello di Roma e della Procura generale presso la medesima Corte e dai magistrati della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Come si legge nella relazione di accompagnamento al ddl, questo collegio è stato costruito in considerazione di “peculiarità dimensionali e di composizione del distretto della corte d’appello di Roma e degli uffici nazionali in esso compresi”, sulla base di “ragioni di omogeneità dimensionali” rispetto al collegio di legittimità. La previsione normativa in esame individua una differenziazione fra magistrati non derivante da diversità di funzioni. In altri termini, tale previsione non ha riferimento ad alcuna categoria funzionale, ad alcuna classificazione “che assuma un rilievo sulla base dei principi costituzionali o delle norme sull’ordinamento giudiziario”;
la eliminazione della differenziazione della categoria dei pubblici ministeri. Riguardo alla categoria dei magistrati di cassazione, la Consulta, nella sentenza n.87 del 1982, sul richiamo alla coeva sentenza n.86, ebbe ad affermare trattarsi di categoria della quale il legislatore ordinario “non può disporre” perché essa ha un preciso rilievo nella Carta. Mutati i riferimenti a quest’ultima -per i magistrati di legittimità la Corte evocò il disposto degli artt. 106, comma 3, e 135, comma 1 e 2, Cost., art. 111 Cost.; per la funzione requirente potrebbe evocarsi il disposto degli artt.107, ultimo comma, e 104, comma 3, l’affermazione di principio dovrebbe valere anche per la categoria dei magistrati del pubblico ministero ([15]).
Il nuovo articolo 23 della l.195 del 1958 pare esporsi ad un ulteriore dubbio di legittimità nella parte in cui stabilisce che i collegi elettorali territoriali sono individuati, prima di ogni elezione, dal ministro della giustizia. Per la precisione ai sensi dei riformati commi 4 e 5, il ministro, con il doppio limite per cui ogni collegio deve comprendere in via tendenziale un diciassettesimo del corpo elettorale e deve essere formato, “ove possibile”, nel rispetto del principio di continuità territoriale, può definire i collegi anche accorpando “più distretti di corte d’appello, ai quali, ove necessario sono sottratti o aggregati i magistrati appartenenti a uffici di uno o più circondari”[16]. Il potere ministeriale di modificare la mappa elettorale si traduce nel potere di influire sulla composizione, e quindi potenzialmente sull’attività, dell’organo garante dell’autonomia ordinamentale della magistratura [17]. Il dubbio si pone in riferimento all’art.104 della Carta, il cui primo comma enuncia il principio per il quale la magistratura costituisce ordine autonomo da ogni altro potere dello Stato [18] [19].
*L’articolo è stato pubblicato su judicium il 22 gennaio scorso, http://www.judicium.it/wp-cont...
[1] L’art. 20 del disegno di legge stabilisce altresì che i membri eletti dal Parlamento salgono a 10, in luogo degli attuali 8. I componenti elettivi si uniscono al Presidente della Repubblica che presiede il Consiglio (art.104, comma 2 Cost.) e al primo presidente e al procuratore generale della Corte di cassazione (art. 104, comma 3 Cost.).
[2] Ai sensi dell’art.24 della l. 195/1958 come modificato dall’art.6 della l. 28 marzo 2002, n.44, l’elettorato attivo è riconosciuto a tutti i magistrati con la sola esclusione degli uditori giudiziari ai quali, al momento della convocazione delle elezioni, non siano state conferite le funzioni giudiziarie, e dei magistrati che, alla stessa data, siano sospesi dall’esercizio delle funzioni per ragioni disciplinari. La norma non è stata aggiornata. A seguito della l. 30 luglio 2007, n.111, l’espressione “uditori giudiziari ai quali … non siano state conferite le funzioni giudiziarie”, deve essere intesa come riferita ai magistrati ordinari in tirocinio. L’elettorato passivo è riconosciuto a tutti i magistrati tranne che a coloro che al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie o siano sospesi dalle medesime per ragioni disciplinari, ai magistrati di tribunale che al momento della convocazione delle elezioni non abbiano compiuto almeno tre anni di anzianità nella qualifica; ai magistrati che al momento della convocazione delle elezioni abbiano subito sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento, salvo che si tratti della sanzione della censura e che dalla data del relativo provvedimento siano trascorsi almeno dieci anni senza che sia seguita alcun’altra sanzione disciplinare; ai magistrati che abbiano prestato servizio presso l’Ufficio studi o presso la Segreteria del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni; ai magistrati che abbiano fatto parte del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni.
[3] Nella relazione di accompagnamento si legge che i voti sono “diversamente «pesati» secondo l’ordine di indicazione del voto di preferenza sulla scheda”. E’ stato detto (Dal Canto, La riforma elettorale del CSM, relazione Seminario Annuale Associazione “GRUPPO di PISA”, 23 ottobre 2020, Il Consiglio Superiore della Magistratura: snodi problematici e prospettive di riforma, in www.gruppopisa.it) “che il meccanismo con il quale vengono contati i voti espressi a favore dei candidati, sia al primo che al secondo turno, caratterizzato dal fatto di attribuire agli stessi un peso via via degradante a seconda del posizionamento nell’ordine delle preferenze, sembra ideato appositamente per rendere più difficile – ma non impossibile – ogni calcolo a monte: la sensazione che si ricava è che, pur di sbarrare la strada all’azione delle correnti – con accorgimenti che probabilmente si riveleranno inefficaci – si sia preferito approntare un sistema la cui “cifra” più caratterizzante è la sua “indecifrabilità”, senza una vera scelta di campo, senza una vera visione: per dirla con una battuta, un’idea non così lontana da una sorta di “sorteggio” travestito”. Se così fosse, il nuovo sistema elettorale si porrebbe in contrasto con il comma 4 dell’art.104 della Costituzione, che, con il prevedere che i membri togati (non di diritto) sono “eletti da tutti i magistrati tra gli appartenenti alle diverse categorie”, esclude ogni forma di sorteggio (sul punto, v. oltre allo stesso Dal canto, op. cit.; Zanon Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2019, 5 ed., pag.40 s.; Tamburino, CSM, Sistema elettorale, Sezione disciplinare, in Giustizia Insieme, n.1-2/2011, 105; Luciani, Il sistema di elezione dei componenti togati del CSM, Relazione al Convegno “Voltare pagina. La riforma del sistema elettorale del CSM”, Roma, 23 giugno 2020, in www.questionegiusitizia.it2020; Rossi, Il punto (provvisorio) sui progetti di riforma del Consiglio superiore della magistratura, in Questione giustizia, n. 1, 2002, pag. 41 e ss.; Scarselli, Il Consiglio superiore della magistratura, in Dieci anni di riforme dell’ordinamento giudiziario (a cura di Romboli), in Foro it., 2016, parte V, col.157; Santalucia, I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, in www.giustiziainsieme.it. Con particolare riguardo all’ipotesi di previsioni introduttive di sorteggio “a monte” della votazione, ad un sistema cioè in cui l’elezione avvenisse tra un certo numero di sorteggiati, v. in particolare, D’Amico, I difetti dell’attuale sistema elettorale: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura, in Migliorare il CSM nella cornice costituzionale (a cura di Bernabei e Filippi), Padova, 2020, pag. 37: “Non vi è dubbio – almeno a mio parere – che siffatte previsioni, se fossero approvate nei termini anzidetti, si esporrebbero al rischio di essere dichiarate incostituzionali. A poco varrebbe osservare che l’art. 104 Cost. fa un generico riferimento, quanto all’elettorato passivo, agli «appartenenti alle varie categorie» e non a “tutti”, dovendosi piuttosto ritenere che questa previsione non possa non essere interpretata in senso onnicomprensivo, cioè di ritenere eleggibili tutti i magistrati e non solo una percentuale estratta a sorte”.). In realtà, la differenziazione del “peso” delle preferenze non ha niente a che fare con la sorte. Il candidato risulta eletto o non, a seconda del numero delle preferenze complessivamente espresse dai votanti. Con un metodo di ponderazione prestabilito, le preferenze, in base all’ordine in cui sono espresse, hanno un diverso valore.
[4] Quanto ai requisiti di elettorato attivo e passivo, il ddl. lascia i primi immodificati. Interviene invece sui secondi. Con l’art.30, modifica l’art.24 della l.195/58 sotto tre profili: innalzando l’anzianità minima per conseguire il diritto di elettorato passivo dagli attuali tre anni dalla attribuzione delle funzioni di magistrato di tribunale alla “terza valutazione di professionalità”: introducendo un limite di sei mesi per l’ineleggibilità dei magistrati che abbiano prestato servizio presso l’ufficio studi o la segreteria del Consiglio superiore della magistratura; introducendo una nuova ipotesi di ineleggibilità per coloro che fanno parte del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura o ne hanno fatto parte nel quadriennio precedente alla data di convocazione delle elezioni.
[5] Le limitazioni sono quelle previste dall’art.24 della l.195 del 1958, riportato alla precedente nota 2. La esclusione dall’elettorato attivo dei magistrati in tirocinio è conseguente al fatto che non essi non esercitano funzioni. Non pare quindi che detta esclusione sollevi dubbi di legittimità. Lo stesso può dirsi riguardo riguardo alla esclusione dei magistrati sospesi dalla funzioni.
[6]Ai sensi dell’art.23, primo comma, i componenti togati erano così ripartiti in base alla loro categoria: sei magistrati della Corte di cassazione (dei quali due con ufficio direttivo); quattro magistrati di Corte d’appello; quattro magistrati di tribunale. Vi erano: un collegio nazionale dei magistrati di cassazione (al tempo, precisamente, con qualifica di magistrato di cassazione anche se non con effettive funzioni. La illegittimità costituzionale dell’art. 23, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195, come sostituito dall’art. 3 della legge 22 dicembre 1975, n. 695, nella parte in cui prevedeva che i posti riservati ai magistrati di cassazione potessero essere assegnati a “magistrati che abbiano conseguito la rispettiva nomina, ancorché non esercitino le rispettive funzioni”, fu dichiarata con la sentenza 10 maggio 1982, n.87); quattro collegi territoriali dei magistrati di appello e quattro collegi territoriali dei magistrati di tribunale (artt. 25 e 26).
[7]Apponi, L’indipendenza interna ed esterna, in Magistrati o funzionari? (a cura di Maranini), Milano, 1962, pag. 20, s. “Ora è evidente … che l’elettorato attivo è costituito da « tutti i magistrati », per cui tutti i magistrati debbono eleggere tutti i magistrati eleggibili nel Consiglio superiore; mentre «gli appartenenti alle varie categorie» sono l’elettorato passivo. La legge sul Consiglio superiore, invece, comincia con il rompere la pariteticità tra le categorie dei magistrati”; Bonifacio Giacobbe, La magistratura, in Commentario della Costituzione, (a cura di Branca), Tomo II (artt.104-107), Bologna-Roma, 1986, sub art. 104, pag.63; Viesti, Gli aspetti incostituzionali della legge sul Consiglio superiore della magistratura, in Rassegna di diritto pubblico, 1958; Amato, L’uguaglianza dei giudici e l’indipendenza della magistratura di fronte alla Corte Costituzionale, nota alla sentenza -di cui subito nel testo- n.168 emessa dalla Corte Costituzionale il 23 dicembre 1963, in Democrazia e diritto, pag.137 s. il quale dopo aver sottolineato che “la lettera dell’art. 104, il quale prevede l’elezione ad opera di «( tutti » i magistrati … suggerisce, come sua ovvia implicazione, l’idea di un corpo elettorale unitario e indiscriminato”, espone che “Ciò è rafforzato … dagli stessi lavori preparatori dai quali risulta che la formulazione poi adottata per questa parte dell’art. 104 venne preferita ad una diversa, la quale avrebbe invece suggerito la settorializzazione degli elettori, poi ripresa dal legislatore ordinario. Unitamente al testo della Commissione – «gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari secondo le norme dello ordinamento giudiziario)- vennero posti in votazione due emendamenti: uno (emendamento Scalfaro ed altri), che sostituiva «secondo le norme dell’ordinamento giudiziario» con «fra gli appartenenti alle diverse categorie; l’altro emendamento (Targetti-Amadei), che, oltre a ciò, precisava “in rappresentanza di ciascuna di queste” Il Presidente, nel proporli all’Assemblea, sottolineò correttamente che l’emendamento Targetti-Amadei poneva condizioni sia per l’elettorato passivo che per quello attivo; ed in effetti, l’aggiunta sopra riferita comportava necessariamente che ogni magistrato fosse ammesso a votare per i rappresentanti della sua categoria soltanto. L’Assemblea, fortunatamente, respinse l’emendamento Targetti-Amadei, e subito dopo, approvò quello Scalfaro, che divenne cosi parte dell’art.104”; Mazziotti, Questioni di costituzionalità della legge sul Consiglio Superiore della Magistratura, nota a Corte Costituzionale n.168/1963, cit. in Giur. cost., 1963, II, pag. 1644 e ss., in part.1661 s.; contra Capaccioli, Forma e sostanza dei provvedimenti relativi ai magistrati ordinari, nota a Corte Cost.168/1963, cit, in Riv. it. dir. proc. pen., 1964, 265, sulla base della apodittica e fugace affermazione per cui, riguardo alla ripartizione o non ripartizione dell’elettorato attivo in categorie, “il legislatore ordinario godeva (e gode, in sede di eventuali modifiche) di una notevole sfera di discrezionalità applicativa e che la scelta che [il legislatore] ha fatto, con la legge del 1958, è una di quelle legittimamente possibili … il punto della suddivisione dell’elettorato in categorie o invece dell’unicità del corpo elettorale tocca la questione (di grande importanza) se si voglia evitare o invece conseguire il risultato di far dipendere l’intero esito delle votazioni (per gli eletti di tutte le categorie) dai soli magistrati di tribunale, che sono soverchianti per numero e per lo più maggiormente suscettibili di inquadramento organizzativo unitario ai fini elettorali, avrebbero presumibilmente influenza decisiva nell’ipotesi del corpo elettorale unico”; Torrente, voce Consiglio superiore della magistratura, voce dell’ Enciclopedia del diritto, vol. IX, Varese, 1961, p. 331.
[8] La sentenza è pubblicata, oltre che nelle Riviste citate alla nota precedente, in Foro it., 1964, I, 3 con nota di richiami; in Giust. civ., III, 1964, 3 e 30, con nota di Abbamonte; in Diritto e giurisprudenza, 1964, 50, con nota di Correale; in Giur. it, 1964, I, 1, 251; in Foro amm., 1964, I, 1, 74; in Giust. pen., 1964, I, 70 e in Temi nap., 1964, I, 3.
[9]Il virgolettato è tratto dal punto 6 della motivazione. Il conflitto con la lettera dell’art.104 comma 3, è evidente: il comma dice quello che dice e non solo non dice che i membri togati sono “eletti dalle varie categorie dei magistrati … tra gli appartenenti alle stesse categorie” né che“sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari votanti ciascuno per i componenti della propria categoria” (Apponi, ibidem, pag.21), ma riferisce la categorizzazione solo agli eleggibili dopo aver stabilito che “tutti” i magistrati eleggono i due terzi dei membri consiglio. Il conflitto con la volontà del costituente emerge dai lavori dell’Assemblea, su cui v. Amato, L’uguaglianza dei giudici e l’indipendenza della magistratura di fronte alla Corte Costituzionale, cit. alla precedente n. 5, nonché Zanon Biondi, Il sistema costutizionale della magistratura, Bologna, 2019, quinta ed., pag. 63: “la Costituzione, nel riferirsi … [alle categorie], non voleva delineare un C.S.M. “corporativo” (quale risulterebbe da un’elezione nella quale i pubblici ministeri possono votare solo per i pubblici ministeri, i giudici per i giudici ecc.), imponendo essa di tenere conto della distinzione solo per ciò che riguarda l’elettorato passivo”. L’insostenibilità dell’affermazione fatta dalla Corte, dovuta al segnalato, irriducibile conflitto con la Carta, assorbe il rilievo per cui la seconda parte della frase riportata tra virgolette, che dovrebbe spiegare detta affermazione, è inidonea allo scopo data l’incomprensibilità, nel contesto, dell’espressione “speciale carattere” del Consiglio. Resta da osservare che con la sentenza 111 del 1963 lga Corte affrontò una questione del tutto diversa da quella della legittimità, rispetto all’art.104, comma 3, di una disposizione limitativa dell’elettorato attivo dei magistrati ordinari per l’elezione dei componenti del Consiglio Superiore. La questione era infatti quella della legittimità, rispetto al disposto dell’art.135, comma 1, della Carta secondo cui un terzo dei giudici costituzionali sono eletti dalle “supreme magistrature ordinaria e amministrative”, dell’art.2, lett.c), della legge 11 marzo 1953, n.87, che, col prevedere che del collegio per l’elezione del giudice costituzionale riservata alla Corte dei Conti fanno parte soltanto il presidente, i presidenti di Sezione, il procuratore generale, i consiglieri e i vice procuratori generali (tranne coloro tra essi che fossero in posizione di aspettativa o di fuori ruolo per esercitare funzioni non d’istituto), esclude dal collegio i primi referendari e i referendari della Corte medesima. La Consulta dichiarò la questione infondata sul motivo che la limitazione dell’elettorato attivo ai soli vertici della magistratura contabile era giustificata dall’ “alto compito” assegnato al collegio elettorale “di designare un terzo dei componenti della Corte costituzionale, l’organo a cui è affidato il compito di controllare la costituzionalità delle leggi e l’ordinata ed equilibrata convivenza degli organi costituzionali, tra i quali si suddivide l’esercizio della sovranità statale”. Aggiunse che la conformità all’art.135,comma1, di detta limitazione, legata a quell’alto, “gravoso” compito ed al ruolo della Consulta, trovava “conferma [nel]la norma contenuta nel secondo comma del medesimo art. 135 della Costituzione, strettamente collegata col primo, al quale dà e dal quale riceve luce, che, ispirata al medesimo intento, limita l’eleggibilità ai magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori, ai professori ordinari di università in materie giuridiche e agli avvocati dopo venti anni di esercizio: categorie, per prestigio ed esperienza, omogenee tra loro e con quelle che concorrono a costituire i collegi elettorali”. Dunque, mentre la sentenza 168/63 ha avuto ad oggetto una norma che introduceva una limitazione dell’elettorato attivo non assoluta ma corrispondente e correlata a categorie di eleggibili e a fronte di una disposizione costituzionale che riconosce l’elettorato attivo a “tutti i magistrati ordinari” e prevede categorie solo per gli eleggibili, la sentenza 111/63 ebbe ad oggetto una legge che, a fronte di una disposizione costituzionale limitativa dell’elettorato attivo alle supreme magistrature e seguita da altra disposizione costituzionale direttamente istitutiva di una limitazione “omogenea” per gli eleggibili, definiva gli elettori con assoluta esclusione di alcuni magistrati dalla partecipazione al collegio elettorale.
[10] Fiumanò, A proposito di un recente messaggio del Presidente della Repubblica, in Foro it., 1977, V, 192; Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia, 2017, fasc. 4.
[11] La sentenza è pubblicata in Foro it., 1982, I, 1497, con nota di Pizzorusso; in Giust. civ., 1982, I, 1697, con nota di Stella Richter; in Cons. Stato, 1982, II, 625; in Cass. pen., 1982, 893, con nota di Lattanzi; in Giur. it., 1982, I, 1473, con nota di Longo; in massima in Giur. it., 1983, I, 1, 1 con nota di Annunziata e in Giur. costit., 1982, I, 863.
[12] Bessone Carbone, Consiglio superiore della Magistratura, voce Digesto disc. pubb., aggiornamento 2012, che parlano di “categorie di stampo funzionale”.
[13] La sentenza n. 87 del 1982 richiama la coeva sentenza n.86 (punto 6 della motivazione). Per questo vincolo, in senso adesivo, in dottrina, Bonifacio Giacobbe, op.cit., pag. 59 s.: “Nel quadro della giurisdizione quale emerge dal disegno costituzionale … emergono esplicitamente due funzioni: quella di merito e quella di legittimità, collegate, l’una all’altra, dall’art.111 della Costituzione che impone il controllo della prima da parte della seconda, sul terreno appunto della ricerca della conformità a legge delle decisioni di merito”. La sentenza n.86/1982 è pubblicata unitamente alla sentenza n.87. Si richiamano le indicazioni di cui alla superiore nota 11.
[14] Zanon, Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, V ediz., Bologna, 2019, p.35 ss.
[15] V. infatti Bonifacio Giacobbe, op. cit., pag.60: “Una prima fondamentale distinzione, dunque, può essere affermata, coerentemente con il dettato costituzionale, tra merito e legittimità. D’altra parte, la stessa Costituzione assegna un ruolo autonomo alla funzione requirente come emerge in modo chiaro ed inequivoco dall’ultimo comma dell’art.107 ed in modo implicito dal terzo comma dell’art. 104 …. Conseguentemente, nel sistema costituzionale, la funzione requirente presenta una sua autonomia. Coordinando i dati dianzi reperiti sembra possa legittimamente affermarsi che, nella identificazione delle categorie di eleggibili, il legislatore ordinario debba procedere utilizzando la classificazione tra merito e legittimità e. nell’ambito di questa classificazione, tra funzione requirente e funzione giudicante”. A fronte di quanto precede non pare possa darsi rilievo alla frase contenuta nel punto 6 della motivazione della sentenza n.86 del 1982, secondo cui “la sola categoria funzionale di magistrati che assuma un preciso rilievo costituzionale” sarebbe quella dei magistrati di cassazione. L’affermazione si scontra con la realtà del dato normativo ed è il probabile frutto (errato) dell’avere la Corte esaminato il disposto della Carta nella prospettiva di stabilire se fosse o meno legittimo, rispetto agli artt. 97, primo comma, 105 e 107, terzo comma, l’art. 7 della legge 20 dicembre 1973, n. 831, che preveda “un sistema di nomina a magistrato di cassazione … caratterizzato dalla scissione dell’attribuzione della qualifica dalla assegnazione dei corrispondenti uffici”.
[16] Art. 23, comma 4 e 5.
[17]In base alla lettera del comma 4, il ministro, da un lato, non può aggregare ad un distretto o sottrarre da un distretto e quindi ad o da un collegio, singoli magistrati, dall’altro, può aggregare o sottrarre “uffici”. Quindi può traslare, ai fini dell’elezione, un ufficio giudicante di un tribunale da un distretto ad un altro distretto e lasciare l’ufficio requirente del medesimo tribunale nel distretto di appartenenza o viceversa. Il che potrebbe assumere notevole rilevanza in considerazione del fatto che dall’eliminazione della differenziazione tra la categoria dei magistrati giudicanti e quella dei magistrati requirenti, è probabile derivi, proprio nei collegi territoriali, una preponderanza delle candidature “forti” dei pubblici ministeri dovuta alla loro maggiore “esposizione mediatica” rispetto ai magistrati giudicanti.
[18]Nell’ambito della formulazione dell’art.104, comma 1, si è fatto riferimento al principio di autonomia e non anche a quello di indipendenza in adesione al rilievo di Bonifacio Giacobbe, op. cit., pag.10, 12, 13 s. e, in particolare, pag. 32 40, secondo cui i due principi, pur correlati, devono essere tenuti distinti dato che “mentre il primo si riferisce in via esclusiva alla magistratura, intesa nel suo aspetto organizzatorio (ordine), rappresentato dalla complessa articolazione (e distribuzione) dei giudici secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, e distingue – sarebbe improprio dire contrappone – cotesto ordine rispetto agli altri “ordinamenti” espressivi degli altri poteri dello Stato, il secondo -quello che si esprime attraverso la indipendenza – più che all’ordine nel suo complesso (la cui tutela rispetto agli altri poteri dello Stato risulta realizzata attraverso l’autonomia) concerne più specificamente la posizione del singolo giudice, nel concreto esercizio della giurisdizione”. Sul ruolo del Consiglio come organo garante della autonomia della Magistratura, in modo incisivo, Daga, Il Consiglio Superiore della Magistratura, Milano, 1973, passim e, in particlare, p.284: “L’art.104 della Costituzionale, dopo avere solennemente definito la magistratura un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, passa a dare immediatamente le norme fondamentali sulla struttura del C.S.M. Appare immediatamente chiaro come il Costituente abbia voluto configurare nel Consiglio Superiore l’organo cui è attribuito la concretizzazione del principio di autonomia ed indipendenza della Magistratura (strumentale all’indipendenza della funzione) dagli atri poteri dello Stato”; in termini, di recente v. “al quale la Costituzione attribuisce la funzione di esprimere e di attuare l’autonomia dell’ordine giudiziario”, v., anche per essenziali riferimenti alla giurisprudenza della Corte Costituzionale e alla dottrina, Erbani, Il ruolo costituzionale del Csm, in Foro it. 2019, V, col.19 ss.
[19] Il dubbio è condiviso da Grosso, Brevi note sulle possibili linee di una riforma della legge elettorale del CSM, in wwwconsultaonline, secondo cui il “rischio … è che si realizzino – per mano del ministro – i ben noti fenomeni di “gerrymandering” nella determinazione dei collegi, con evidente pregiudizio per lo stesso principio costituzionale di autonomia e indipendenza della magistratura”. L’Autore ricorda “che, ai tempi in cui [con la l. 12 aprile 1990, n. 74, ai sensi della quale vi era un collegio unico nazionale per l’elezione dei due magistrati con funzioni di legittimità, e per i diciotto membri scelti fra magistrati con funzioni di merito, vi erano quattro collegi territoriali] era previsto [che questi ultimi fossero formati mediante] l’accorpamento di diversi distretti di Corte di appello in circoscrizioni elettorali territoriali che venivano di volta in volta individuate ad ogni elezione, [l’accorpamento] avveniva per sorteggio, e non certo per discrezionale decisione del ministro”. Il dubbio in parola sta sullo sfondo sia della considerazione che si legge nella “scheda di sintesi” relativa al ddl di riforma, facente parte dello studio Sistema elettorale del Csm. Quale riforma, in wwwquestione.giustizia.it, secondo cui “la formazione dei collegi, affidata di volta in volta a un decreto ministeriale, consente che i collegi siano composti in modo tale da favorire questo o quel candidato”, sia della considerazione svolta da Dal Canto, op.cit., pag. 23, secondo cui “la previsione di affidare ad un decreto ministeriale la formazione dei collegi per ogni elezione, [può favorire], in ipotesi, la possibilità di definire gli stessi sulla base di situazioni e aspettative contingenti”.
La verifica di legittimità costituzionale delle leggi elettorali parlamentari. Come tutelare il diritto del cittadino a votare in conformità alla Costituzione
di Felice Besostri
Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 177/2020 abbiamo una legge elettorale applicabile alla riduzione del numero dei parlamentari conseguente alla legge cost. n. 1/2020, con 400 deputati, di cui 8 della Circoscrizione estero e 200 senatori, di cui 4 della Circoscrizione estero da eleggere con un sistema elettorale misto maggioritario e proporzionale, con prevalenza di quest’ultimo. Non sono venuti meno i dubbi di costituzionalità della legge n. 165/2017, con la quale è stato rinnovato il Parlamento nel 2018, la cui scadenza naturale è prevista nel 2023. I dubbi sono aumentati con le modifiche apportate dalla legge n. 51/2019 e dalla riduzione del numero per le modalità con cui è stata attuata la riduzione specialmente al Senato, che comportano uno squilibrio non giustificato nella rappresentanza. Per la prima volta si pone il problema di una possibile incostituzionalità di una norma di rango incostituzionale, come prospettato dalla Consulta con la sentenza n. 1146/1988. Esiste il rischio concreto che si possano tenere elezioni anticipate addirittura prima del semestre che precede l’elezione del Presidente della Repubblica a partire dal gennaio 2022. Sarebbe la quinta elezione con una legge di sospetta costituzionalità dopo quelle del 2006, 2008 e 2013 con il Porcellum (legge n. 270/2005) e quella del 2018 con il Rosatellum (legge n. 165/2017). Per poterlo evitare occorre portare la legge in Corte Costituzionale. con un’ordinanza di rimessione ex art. 23 legge n. 87/1953 e che la stessa si possa pronunciare prima della convocazione delle elezioni, per evitare che si insedi un Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale visto il precedente della sentenza n. 1/2014, che ha fatti salvi i parlamentari proclamati eletti, malgrado l’incostituzionalità della legge elettorale. Una lotta contro il tempo, la lunghezza dei processi e il ridotto numero dei tribunali competenti solo quelli dove ha sede l’Avvocatura dello Stato, mentre si dovrebbe poter contare sui tutti i Tribunali civili, come giusto per la tutela di un diritto costituzionale fondamentale, che si esercita nel Comune di residenza. Una scelta che spetterebbe al Governo favorire o ostacolare tramite l’Avvocatura della Stato e ai giudici applicare su impulso degli avvocati degli elettori. La legge elettorale vigente formalmente non attribuisce un premio di maggioranza, annullato nelle versioni precedenti di un premio attribuiti senza una soglia minima (sent. n. 1/2014) o in seguito a ballottaggio tra le prime due liste (sent. 35/2017), ma sempre senza garanzia di rappresentatività effettiva del corpo elettorale. Si pongono tuttavia problemi di rispetto dell’art. 48 Cost. in ordine ai parametri costituzionali dell’uguaglianza, della libertà e della personalità del voto, che si applicano anche ai sistemi misti, con prevalenza del voto proporzionale, 5/8 dei seggi, rispetto a 3/8 maggioritari e apparentemente senza premi di maggioranza. I dubbi di costituzionalità sulla legge elettorale vigente sono amplificati dall’entrata dei nuovi collegi e circoscrizioni elettorali in applicazione del taglio del Parlamento. Le incostituzionalità della legge elettorale sono amplificate dalla legge cost. n. 1/2020 di taglio lineare del Parlamento del 36,50%, va eccepita la sua incostituzionalità, come atto presupposto, argomentando ex sent. n.1146/1988 della Corte costituzionale?
Sommario: 1. Antecedenti e presupposti - 2. La revisione costituzionale di riduzione dei parlamentari – 3. Le parti processuali e il privilegio del foro erariale – 4. I dubbi di costituzionalità della legge elettorale vigente – 5. La violazione dell’art. 48 Cost. sotto diversi profili – 6. Esclusione della questione della legittimità costituzionale della legge costituzionale n. 1/2020 dalle azioni giudiziarie per l’accertamento del diritto dei cittadini di votare in conformità della Costituzione.
1. Antecedenti e presupposti
Con la pubblicazione del d.lgs. 23 dicembre 2020 n. 177 “Determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, a norma dell'articolo 3 della legge 27 maggio 2019, n. 51.” nella G.U. Serie Generale n. 321 del 29-12-2020 - Suppl. Ordinario n. 45 si conclude l’iter della legge elettorale 27 maggio 2019, n. 51 “Disposizioni per assicurare l'applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari” in conseguenza dell’entrata in vigore il 5 novembre 2020 della legge costituzionale 19 ottobre 2020, n. 1 ”Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari. (G.U. Serie Generale n.261 del 21-10-2020). La legge costituzionale è stata promulgata dal Presidente della Repubblica con la formula “La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato; Il referendum indetto in data 17 luglio 2020 ha dato risultato favorevole;” prevista dall’art. 25 della legge n. 352/1970, qualora sia stato chiesto, entro 3 mesi dalla pubblicazione in G.U. n. 240 del 12 ottobre 2020 del testo della legge costituzionale approvata a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi delle Camere, il referendum costituzionale previsto dall’art. 138 Cost. e lo stesso dichiarato ammissibile con ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione[1]. Nel caso di specie l’iter, già complesso è stato vieppiù complicato dalla pandemia COVID-19, perché il referendum costituzionale, indetto con d.p.r. del 28 gennaio 2020 per il giorno di domenica 29 marzo 2020, si è invece tenuto nei giorni di domenica 20 settembre e di lunedì 21 settembre 2020 in seguito al d.p.r. del 17 luglio 2020 in G.U. Serie Generale n.180 del 18-07-2020, senza che il termine previsto dall’art. 15 c.2 legge n. 352/1970, fosse formalmente modificato, a differenza di quello del primo comma, cui si era provveduto con l'articolo 81 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, portato da 60 a 240 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza di ammissione dell’UCR del 23 gennaio 2020.
In applicazione dei principi affermati con le sentenze della Corte Cost. n. 1/2014 di annullamento parziale della legge elettorale n. 270/2005 e n. 35/2017 di annullamento parziale della legge elettorale n. 52/2015 è aperto per i cittadini elettori il ricorso per l’accertamento del loro diritto di votare in conformità alla Costituzione nel caso che la normativa elettorale vigente ingeneri un dubbio in proposito dell’estensione del loro diritto. Le sentenze n. 1/2014 e n. 35/2017 hanno avuto come antecedenti presupposti le sentenze n. 15 e n. 16 del 2008 in materia di ammissibilità di referendum abrogativo di leggi elettorali, dichiarato ammissibile, ma con avvertimento proprio sulla legittimità di un premio di maggioranza svincolato da una soglia minima in voti o seggi. I limiti al referendum abrogativo in materia elettorale sono stati precisati da due decisioni di inammissibilità la n. 13/2012 sulla legge n. 270/2005 di merito e più recentemente la n. 10/2020 in procedura sul referendum promosso da 8 consigli regionali per sostituire il sistema misto maggioritario/proporzionale con integralmente maggioritario di collegi uninominali da assegnare al candidato più votato. Le leggi elettorali sono considerate leggi “costituzionalmente necessarie” dovendosi intendere in particolare la cosiddetta auto-applicatività della normativa di risulta alla stregua di «una disciplina in grado di far svolgere correttamente una consultazione elettorale in tutte le sue fasi, dalla presentazione delle candidature all'assegnazione dei seggi» (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008). La medesima esigenza si è posta anche nel caso di parziale illegittimità costituzionale delle leggi elettorali della Camera e del Senato (sentenze n. 35 del 2017 e n. 1 del 2014). Gli annullamenti parziali sono stati possibili perché l’impianto della legge era proporzionale, corretto da un premio di maggioranza predeterminato in un numero minimo di seggi da attribuire in più alla lista o coalizione vincitrice, annullato il quale, si aveva una legge applicabile. Le discrepanze derivavano dalle differenze inevitabili della base elettorale nazionale per la Camera dei deputati in proporzione alla popolazione delle circoscrizioni e regionale per il Senato, con la previsione di un numero minimo di senatori a prescindere dalla popolazione per un gruppo di regioni, più che dalla diversa composizione del corpo elettorale.
2. La revisione costituzionale di riduzione dei parlamentari
Tuttavia, rispetto al passato i ricorsi non possono evitare di misurarsi con la legge costituzionale n. 1/2020 di riduzione del numero dei parlamentari specialmente per quanto riguarda il Senato della Repubblica. A causa dell’equiparazione delle Province autonome di Trento e Bolzano (non espressamente nominate) alle Regioni, non prevista da nessun testo di legge costituzionale a cominciare da quello assunto quale testo base (ddl cost. A.S.n.515 Calderoli-Perilli), ma introdotto come emendamento del relatore. La conseguenza è che il Trentino-Alto Adige/Südtirol con 6 senatori, 3 per ogni Provincia autonoma, si trova ad essere sovra rappresentato nel Senato rispetto a Regioni più popolose, comprese Regioni a statuto speciale (Sardegna e Friuli-Venezia Giulia) caratterizzate da lingue minoritarie riconosciute e tutelate dalla legge 15 dicembre 1999, n. 482 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” in G.U. Serie Generale n.297 del 20-12-1999, che costituisce ritardata attuazione dell’art. 6 Cost. e della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali di Strasburgo 1995, STE n. 157 del Consiglio d’Europa, autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione in Italia dati con legge n. 302 del 28 agosto 1997, (Gazzetta Ufficiale n. 215 S.O. del 15 settembre 1997).
Il Trentino- Alto Adige/Südtirol, che aveva 7 senatori come Abruzzo, Friuli-Venezia Giulia, Umbria e Basilicata, ora avrà 2 senatori in più di Abruzzo e Friuli-Venezia Giulia, ma anche 1 senatore in più di Liguria, Marche e Sardegna e lo stesso numero della Calabria, pur avendo al censimento 2011 una popolazione di 1.029.475 abitanti, la minore tra quelle delle regioni sopra nominate, tra le quali si distaccano la Sardegna con 1.639.362 e la Calabria con 1.959.050. In teoria vi possono essere norme di rango costituzionale incostituzionali in caso di violazione di principi supremi dell’ordinamento costituzionale (sent. n. 1146/1988 della Corte Cost.), ma come sottoporre il quesito alla Corte Cost. attraverso una questione di legittimità costituzionale in via incidentale prima dell’applicazione della legge in caso di elezioni parlamentari è un problema, non semplice.
3. Le parti processuali e il privilegio del foro erariale
Il Presidente della Repubblica è irresponsabile per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, salvo che per alto tradimento e attentato alla Costituzione (art.90 Cost.) e nessun suo atto è valido se non controfirmato dai ministri proponenti, che se ne assumono la responsabilità (art. 89 c.1 Cost.) e gli atti aventi valore legislativo, decreti-legislativi (art. 76 Cost.) e decreti-legge (art. 77 c. 2 Cost.), sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 89 c. 2 Cost.). Il d.lgs. n. 177/2020 è contro-firmato dal Presidente del Consiglio, dal Ministro dei Rapporti col Parlamento e dal Ministro dell’Interno che pertanto vanno evocati in giudizio, con notifica del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. o dell’atto di citazione presso l’Avvocatura Generale o le Avvocature Distrettuali della Stato, che assicurano la difesa ex lege del Governo senza necessità di delega e facendo scattare il privilegio del Foro erariale, con spostamento del giudice naturale, che non è più il tribunale ordinario competente in base alla residenza del cittadino elettore, bensì il tribunale del Comune capoluogo del distretto di Corte d’Appello, dove ha sede l’Avvocatura Distrettuale dello Stato (art. 25 c.p.c. Foro della pubblica amministrazione), che come primo effetto ha quello di incidere sul diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. e proprio in materia di tutela di un diritto costituzionale fondamentale, il diritto di voto in una Repubblica democratica nella quale la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione (art. 1 Cost.) precipuamente come corpo elettorale partecipando a elezioni e referendum. Questo è pur sempre un vantaggio rispetto al tentativo iniziale dell’Avvocatura dello Stato di concentrare le azioni sulle leggi elettorali presso il Tribunale Civile di Roma applicando l’art. 19 c.p.c., cioè il Foro generale delle persone giuridiche e delle associazioni non riconosciute, respinto dalla Cassazione con l’argomentata ordinanza della Sesta Sezione Civile n. 3395/18, che dichiara la competenza, su parere conforme della P.G. presso la Corte suprema, del Tribunale del Comune di residenza dei cittadini elettori ricorrenti, cioè dove il diritto viene esercitato.
Si riporta il passo pertinente dell’Ordinanza: “Ne consegue che la posizione soggettiva fatta valere deve essere valutata non nella sua astrattezza, ma necessariamente correlata all'esercizio, e l'effettività della tutela richiama necessariamente profili della tempestività e dell'accessibilità, nel rispetto dell'art.25 Cost. e dell'art.6 CEDU”[2] . La controversia, siccome appunto avente ad oggetto l'esercizio del diritto di voto, deve ritenersi radicata nel luogo ove si esercita il diritto, ovvero nel comune di residenza, nelle cui liste elettorali sono iscritti i ricorrenti, spostandosi se del caso la competenza ai sensi del primo comma dell'art. 25 c.p.c.”[ns. evidenziazione in grassetto].
Non essendo previsto l’accesso diretto alla Corte Costituzionale il numero di ricorsi in Tribunali diversi aumenta la probabilità di trovare un giudice sensibile alle questioni incidentali di costituzionalità e pertanto è pregiudiziale accertare se il Foro della Pubblica Amministrazione, se applicabile, costituisca una competenza territoriale inderogabile (ex art. 28 c.p.c.), quindi accertabile anche d’ufficio, derogabile, quindi eccezione soggetta a decadenza se non tempestivamente posta nel primo atto difensivo dell’Avvocatura dello Stato (art. 38 cpc).
Per poter tranquillamente promuovere il maggior numero di giudizi, senza dover affrontare pregiudizialmente la questione della competenza territoriale, rispetto all’invio in Corte Costituzionale, è necessario, non tanto che la competenza dell’art. 25 c.p.c., sia derogabile[3], quanto che non sia applicabile al caso di specie, come si potrebbe evincere a contrario proprio dall’eccezione di competenza territoriale ex art. 19 c.p.c. del Tribunale di Roma, sollevata dall’Avvocatura dello Stato.
L’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.), il diritto di difesa in ogni stato e grado per la tutela dei diritti (e degli interessi legittimi) (art. 24 Cost.), di non essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.), fanno parte dei principi supremi, altrettanto essenziali e fondamentali sono il diritto di voto personale ed uguale, libero e segreto (art. 48 Cost.), di candidarsi in condizioni di uguaglianza (art. 51 Cost.) e che il processo si svolga in contraddittorio tra le parti in condizioni di parità (art. 111 c. 2 Cost.) la Corte Costituzionale deve poter essere posta in grado di esercitare il controllo di costituzionalità ex art. 134 Cost., malgrado l’art. 66 Cost. e l’art. 25 c.p.c..
Resta il fatto, che si concentra di fatto il controllo eventuale di costituzionalità sulle leggi elettorali in non più di 26 Tribunali, quanti sono i distretti di Corte d’Appello di norma uno per regione salvo Lombardia, Campania, Puglia e Calabria con due e la Sicilia con quattro si limita la possibilità dell’esercizio di questo controllo. Il minimo sarebbe di poter investire tutti i circondari di Tribunale per comprendere almeno i Tribunali dei capoluoghi di Provincia.
Il Presidente del Consiglio e i ministri per entrare in carica devono prestare giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica (art. 93 Cost.) e la formula dell'art. 1, comma 3, della legge n. 400/88 è di chiarezza esemplare: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della nazione". “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi” è un obbligo per tutti i cittadini posto dall’art. 54 c. 1 Cost., che è completato dal secondo comma, per il quale tutti i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche le devono adempiere con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. Il rispetto della Costituzione è compito comune, eppure l’accesso alla Corte Costituzionale non è favorito, ma ostacolato: non si comprende quale sia l’interesse, tanto più dopo l’introduzione del processo telematico e la conseguente libertà di domiciliazione, che dovrebbe superare il privilegio del foro erariale, nato se non sbaglio nel 1863 quando la capitale era ancora Torino.
Il privilegio è stato mantenuto ed è regolato dal R.D. n. 1161/1933, un’epoca di Stato forte, autoritario, anzi totalitario dopo le leggi del 1939, con cui non va dimenticato mai, che ai cittadini italiani di ascendenza ebraica fu vietato di essere iscritto ad albi e ordini professionali, avvocatura compresa. Ora siamo cittadini di una REPUBBLICA DEMOCRATICA (art. 1 Cost.), membro della U.E., che si fonda sui valori della democrazia (art. 2 TUE), quindi non più sudditi e pertanto i diritti costituzionali fondamentali non possono essere violati da norme di leggi ordinarie e, tra di loro, quelli, che sono principi supremi, neppure da norme di rango costituzionale (Corte Cost. sent. n. 1146/1988).
Appare quindi meritevole di attenzione una massima tratta dalla recente sentenza Cass. civ., Sez. Unite, Sent., 18/12/2020, n. 29106: “La portata letterale della riportata disposizione normativa è inequivoca nell'escludere che l'esperimento dell'azione debba comportare il conseguimento di uno specifico beneficio in favore di colui (o di coloro) che la propone (o la propongono) e, quindi, implica l'ammissibilità di un rimedio impugnatorio (con lo strumento del reclamo) sotto forma di azione collettiva, che si inquadra nel più ampio "genus" dell'azione popolare (peraltro già ritenuta proponibile dallo stesso CNF in precedenti sentenze, come la n. 40/2011 e la n. 84/2018; tale ammissibilità è stata ammessa, in materia di contenzioso elettorale, anche dalla sentenza di questa Corte n. 11893/2006).
L'azione popolare, secondo l'inquadramento teorico assolutamente predominante, rappresenta una ipotesi di azione eccezionalmente concessa dal legislatore, allo scopo di tutelare un interesse pubblico, attraverso l'attribuzione di una legittimazione diffusa, che, perciò, prescinde dalla specifica titolarità di una situazione giuridica soggettiva qualificata in capo all'attore (o agli attori). La rilevanza di tale interesse, e quindi la sua tutelabilità in funzione del soddisfacimento di un fine dotato di una connotazione pubblicistica (di ripristino della legalità), è riconosciuta "ex ante" dal legislatore e non richiede, pertanto, un accertamento da parte del giudice, nel senso che l'interesse ad agire deve presumersi sussistente, una volta verificata la pertinenza al soggetto dell'interesse di cui si lamenta la lesione.”[4]
4. I dubbi di costituzionalità della legge elettorale vigente
La legge elettorale vigente è costituita dalla legge n. 165/2015 (Rosatellum), come modificato ed integrato dalla legge n. 51/2019, completata dal d.lgs. n. 177/2020, a differenza delle leggi n. 270/2005 (Porcellum) e
n. 52/2015 (Italicum), esaminate dalla Corte Costituzionale e dalla stessa dichiarate parzialmente, ma in aspetti essenziali, incostituzionali configura un sistema elettorale misto con i 3/8 dei seggi attribuito in collegi uninominali maggioritari al candidato più votato[5] e i 5/8 dei seggi a liste bloccate plurinominali in proporzione ai voti ricevuti e apparentemente senza premio di maggioranza.
Il premio di maggioranza nazionale o regionale, nei due casi precedenti, veniva attribuito alla lista o alla coalizione proporzionalmente più votata in un unico turno nel Porcellum, invece, nell’Italicum alla lista più votata alla sola Camera dei deputati, se superava il 40% dei voti validi al primo turno ovvero al secondo turno previo ballottaggio tra le due liste (non erano più consentite le coalizioni) immodificabili più votate nel primo turno e il blocco delle liste non era totale, ma riguardava il solo capolista, pluricandidabile fino a 10 volte.
Tuttavia, i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 1/2014 si applicano, non in via di logica interpretativa, ma espressamente alla nuova legge. Bisogna avere presente un passo della sentenza, che è fondamentale per la motivazione della sentenza, perché nell’opinione del giudice delle leggi il nostro ordinamento non avrebbe costituzionalizzato il sistema elettorale, al pari dell’ordinamento tedesco, alla cui giurisprudenza costituzionale del Tribunale Costituzionale Federale (Bundesverfassungsgericht)[6] è costretta a far riferimento, in assenza di propri precedenti per l’interpretazione consolidata dell’art. 66 Cost. data dalla magistratura amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, n. 1053/2008) e dalla Suprema Corte (Cass. SS.UU., 16 maggio 2006, n. 11623).
La Corte Cost., dopo aver affermato il principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.), che pur non vincolando il legislatore alla scelta di un determinato sistema elettorale, ritiene che tale principio “esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi (sentenza n. 43 del 1961) ed assume sfumature diverse in funzione del sistema elettorale prescelto) e formula la motivazione principale dell’annullamento[7] in termini applicabili anche a un sistema elettorale misto.
5.La violazione dell’art. 48 Cost. sotto diversi profili
a) La mancanza dello “scorporo” dei seggi maggioritari uninominali e il trasferimento del voto tra candidati uninominali e liste plurinominali viola il principio di uguaglianza del voto (artt. 3 e 48 Cost.).
La legge n. 165/2017, come già detto, prevede un sistema elettorale misto con una parte uninominale maggioritaria (3/8) e “altri seggi” che “sono assegnati nei collegi plurinominali” e che “sono attribuiti, con metodo proporzionale,…”(5/8). Tale meccanismo è assolutamente estraneo alla volontà dell’elettore ed il suo voto cessa di essere “personale e libero” come prescritto dagli artt. 48, comma 2, 56 comma 1 e 58, comma 1 Costituzione, e “diretto e libero”, come enfaticamente stabilisce l’incipit della nuova normativa.
Gli effetti di questo meccanismo assumono contenuti paradossali nel caso in cui il Candidato uninominale sia (come consentito) collegato con una pluralità di liste;
b) questo meccanismo produce ingiusti vantaggi per la coalizione di liste e le liste che la compongono.
La coalizione di liste e le liste coalizzate sono ulteriormente e -come vedremo- irragionevolmente avvantaggiate in violazione dell’art. 48 Cost., perché le liste coalizzate, anche se sotto la soglia nazionale del 3% dei voti validi, portano in dote alla coalizione i loro voti, purché pari almeno al 1%, mentre le liste non coalizzate devono raggiungere il 3% (art. 83 c. 1 lettere c) e e) d.p.r. n.361/1957 come modificato dall’art.1 c. 26 l.n. 165/2017.
La legge elettorale n. 165/2017 (art.1 c. 7) ha modificato l‘art. 14 bis e si possono fare coalizioni tra liste di partiti senza avere né un capo, né un programma in comune.
In caso di coalizione di liste regolate dall’art. 14 bis dpr n. 361/1957, come modificato dalla legge elettorale n. 270/2005, poteva essere legittima la presunzione che il voto per il candidato uninominale si conteggiasse per la coalizione e viceversa, perché la coalizione doveva avere un programma comune e un capo politico unico. Non essendoci più questo obbligo è irragionevole questa disparità di trattamento, che viola l’art. 3 Cost. oltre che l’art. 48;
c) il voto congiunto obbligatorio a pena di nullità è la base del voto di scambio politico, perché i capi dei listini possono essere candidati nei collegi uninominali, rafforzati dal voto congiunto obbligatorio a pena di nullità (art. 59 bis c. 3 dpr n 361/1957, come modificato dall’art. 1 c. 21 legge cit.) di punizione di quegli elettori, che vogliono esercitare il loro diritto costituzionale di voto diretto, libero e personale;
d) la contrarietà alla Costituzione del meccanismo delle liste bloccate è palese ed è stata statuita dalla Corte Costituzionale con la Sentenza n. 1-2014 ove afferma la possibilità di “liste bloccate solo per una parte” e comunque “in circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)” (Cfr. Corte Cost. N. 1/2014, considerato in diritto, sub. par. 5.1.– La questione è fondata nei termini di seguito precisati);
e) con il trasferimento del voto a favore di candidati in collegi e circoscrizioni diverse da quelli di espressione dei voti si nega la conoscibilità dei candidati, un principio che la Corte Costituzionale ha affermato essere un requisito essenziale per una legge elettorale aderente ai principii costituzionali. La ragione è quella di utilizzare in un sistema proporzionale tutti i voti validi, ma non può essere creata artificialmente con l’introduzione di soglie d’accesso e altre limitazioni al numero dei candidati, perché in siffatto sistema elettorale - che prevede lo slittamento dei seggi “eccedentari” o non assegnati verso altri Collegi o addirittura Circoscrizioni interprovinciali o regionali – la conoscibilità è impossibile e si altera il rapporto tra popolazione e seggi assegnati, in base alla popolazione dei collegi e circoscrizioni, sempre per la Camera dei deputati fino al taglio dei Parlamentari e nella maggior parte delle Regioni nel Senato della Repubblica, cioè con esclusione delle Regioni con un numero fisso o minimo di Senatori ex art. 57 c. 3 Cost., stravolto dalla legge cost. n. 1/2020.[8]
La causa di ciò risiede nella circostanza che il legislatore ha introdotto con la L. 165/2017 l’irragionevole prescrizione secondo la quale il numero dei candidati di ciascuna lista in ogni collegio plurinominale “non può essere inferiore alla metà, con arrotondamento all’unità superiore dei seggi assegnati al collegio”, e, “in ogni caso …non può essere inferiore a due né superiore a quattro” ( art. 18 bis c. 3 dpr n. 361/1957,come modificato dall’art. 1 c.10 lett. d) legge cit.), ciò anche nel caso in cui il numero di candidati eleggibili in ciascun collegio plurinominale sia maggiore, fino a 8, il doppio del numero massimo di candidati, che si possono candidare 5 volte, un uninominale e 4 plurinominali.
Massima della BVerG: “nessun candidato può essere danneggiato o favorito da comportamento elettori di altra circoscrizione”;
f) l’art. 51 c. 1 e 2 Cost. dispone che “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.
A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. La previsione di liste bloccate, voto congiunto obbligatorio e pluri/multi-candidature, esclude che ci si possa candidarsi in condizione d’uguaglianza;
g) L’art. 18 bis del dpr n. 361/1957 e l’art. 9 del d.lgs. 533/1993, come modificati, rispettivamente, dagli artt. 1 e 2 l. n. 165/2017 prevedono esenzioni dalla raccolta di firme per la presentazione di liste che favoriscono soltanto le formazioni già presenti nelle Camere uscenti a svantaggio di nuove formazioni violando principi ex sent. CGCE 23 aprile 1986 nella causa 294/83, Parti écologiste «Les Verts» vs Parlamento Europeo, per i quali le formazioni che fanno parte del Parlamento europeo non possono attribuirsi vantaggi in vista di elezioni, che impediscano o, comunque, ostacolino la partecipazione competitiva di nuovi soggetti;
h) le minoranze linguistiche e le minoranze politiche hanno un trattamento differenziato, benché l’art. 3 c. 1 Cost. stabilisca che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
Non solo, ci sono differenziazioni anche tra le minoranze linguistiche riconosciute dalla legge n. 482/999, in attuazione molto tardiva dell’art. 6 Cost.[9], non giustificate dalla loro consistenza numerica, ma unicamente dalla collocazione geografica delle minoranze stesse e quindi dei collegi o circoscrizioni di presentazione di liste rappresentative delle minoranze. Infatti, norme speciali elettorali sono previste unicamente per le liste rappresentative di minoranze linguistiche riconosciute, “presenti in circoscrizioni comprese in regioni ad autonomia speciale il cui statuto o le relative norme di attuazione prevedano una particolare tutela di tali minoranze linguistiche” (art. 14 bis c. 2 dpr n. 361/1957, come sostituito dall’art. 1 c. 7 l.n. 165/2017)[10].
La normativa di tutela di minoranze linguistiche non è di per sé violazione dell’art. 3 Cost. e di essa non si sentiva alcun bisogno, quando si votava con una legge elettorale proporzionale. Con legge elettorale con soglie di accesso nazionali, 4% con la n. 270/2005 e 3% con la n. 165/2017 le liste rappresentative di minoranze linguistiche sarebbero state escluse a priori, anche con la soglia del 2% per le liste coalizzate del Porcellum, contraddicendo i principi affermati con la sent. della Corte Cost. n. 356/1998[11], considerato che il partito rappresentativo della minoranza germanofona, la SVP, presente da sempre nel Parlamento italiano, ha una percentuale nazionale media nel periodo 1996-2018 intorno allo 0,40%, che nel 2006 fu decisiva per attribuire il premio di maggioranza all’Ulivo e a Prodi[12]. Un trattamento differenziato per ragioni linguistiche viola l’art. 3 Cost., quando è discrezionale, al limite arbitrario, come è evidente per l’elezione dei membri spettanti all’Italia nel Parlamento europeo ex legge n. 18/1979, dopo l’introduzione della soglia di accesso nazionale del 4% con la legge n. 10/2009, perché le norme speciali per le liste rappresentative di minoranze linguistiche si applicavano a tre lingue e tre territori, cioè alle minoranze francese della Valle d’Aosta, tedesca della provincia di Bolzano e slovena del Friuli-Venezia Giulia (artt.12 c. 8; 20 c. 1 n. 1) e 2); 21 c. 1 nn. 1), 2) e 22 c. 2 e 3 legge n. 18/1979 e s.m.i.) ignorando le altre minoranze tutelate dalla legge n. 482/1999, in vigore da circa 10 anni tra cui la lingua sarda, la più consistente tra le lingue minoritarie e la lingua friulana, seconda minoranza linguistica collocata nella stessa Regione autonoma della lingua slovena e nella stessa circoscrizione elettorale europea, Italia Nord-orientale delle lingue slovena e tedesca e nella circoscrizione Italia Nord-occidentale, la stessa della Val d’Aosta, l’occitano e il franco-provenzale delle valli piemontesi.[13]
Nella legge europea e nel Rosatellum la violazione dell’art. 3 c. 1 Cost. emerge per tabulas (cfr. nota 13);
h) dopo due annullamenti consecutivi del premio di maggioranza il “legislatore incostituzionale” si è fatto accorto, pertanto ha preferito rinunciare apparentemente al premio di maggioranza piuttosto che alle liste bloccate, ma sono corte (massimo 4 candidati) e poi ci sono 3/8 di seggi uninominali, che tecnicamente non sono liste e la conoscibilità del candidato è massima: tutto vero, almeno apparentemente, ma si tratta di una mezza verità e, come insegna il Talmud una mezza verità è una bugia intera: col voto congiunto obbligatorio
a pena di nullità tutte le candidature sono bloccate. Il voto non è più diretto, libero e personale e, quindi si realizza un’alterazione del rapporto tra i voti “in entrata” e i seggi “in uscita”, censurato al par. 3. 1, cpv. XI della sent. n. 1/2014.
Questa disproporzionalità si è verificata nelle elezioni del 2018 e come vedremo sarà amplificata con la riduzione del numero dei seggi, perché a parità di popolazione la riduzione del numero dei seggi, aumenta la popolazione di ogni singolo collegio e/o circoscrizione, con l’effetto, pertanto nei collegi uninominali, che aumenta il valore assoluto dei voti delle liste concorrenti privo di effetti, che collegato alle incostituzionalità denunciate nelle precedenti lettere b) e c) rende la fattispecie censurabile sotto il profilo della violazione degli artt. 3 e 48 Cost. sull’uguaglianza potenziale degli effetti del voto in un sistema misto, garantita nel complesso nel Mattarellum, dalla doppia scheda e dal voto disgiunto, anche in presenza da una netta prevalenza dei seggi assegnati col maggioritario, 3/4, cioè il doppio del Rosatellum.
Le elezioni del 2018 confermano l’effetto distorsivo attraverso il solo esame della Tabella 3 dell’articolo della prof. Lara Trucco dell’Università di Genova[14], per la rivista Costituzionalismo, di fascia A, nella quale è evidenziata la disproporzionalità tra i seggi assegnati e quelli spettanti in base alla percentuale complessiva. La coalizione di CDX alla Camera di 630 seggi con il 37,1% ottiene 265 seggi, 31 seggi in più dei 234, che le spetterebbero in un sistema proporzionale, cioè il 13,2% di seggi in più. Al Senato di 315 membri elettivi con il 37,5% (+ 0,4% rispetto alla Camera) conquista 137 seggi, invece di 118 con un incremento del 16,1% (+2,9% rispetto alla Camera) a dimostrazione dell’effetto della riduzione dei seggi. L’effetto viene Confermato daI risultati della seconda lista beneficiaria, il M5S, che alla Camera con il 32,7% prende il 10,2% di seggi in più mentre al Senato con una percentuale inferiore (- 0,5%), ottiene il 10,9% dei seggi in più (+ 0,7%).
Le liste perdenti amplificano le perdite, come dimostra la coalizione di CSX alla Camera, che con il 22,8% ha 112 seggi invece di 144, cioè il 14,6% di seggi in meno. Al Senato, con una percentuale, leggermente superiore, 22,9%, i seggi assegnati sono 60, in luogo di 72, ma la perdita percentuale in seggi è ben il 16,7%, quindi -2,1%, rispetto alla Camera. Con la riduzione a 400 dei deputati e 200 dei senatori la disproporzionalità viene artificialmente aumentata, anche grazie al metodo di calcolo della percentuale dei seggi alla Camera dove l’arrotondamento a danno del maggioritario si fa all’unità inferiore ( art. 1 c. 1, lett. a) n.1), l.n. 51/2019) e al Senato a favore all’unità più prossima (art. 2 c. 1, lett. a) n.1), l.n. 51/2019) e nella circoscrizione regionale Trentino-Alto Adige/Südtirol i 6 seggi sono tutti assegnati in collegi uninominali maggioritari, mentre con il criterio generale Senato avrebbero dovuto essere 2 su 6.
Il trattamento delle liste minoritarie politiche rispetto alle liste rappresentative di minoranze linguistiche è ancora più deteriore. LeU con 991.159 voti, il 3,3%, al Senato ha avuto 4 seggi invece di 10, cioè – 60%, mentre la SVP 128.282 voti, 0,4%, 3 seggi, in luogo di 1, +200% [15].
Il premio di maggioranza nel Rosatellum è nascosto e implicito nel sistema di voto (coalizioni, soglia di accesso nazionale, applicata anche al Senato in violazione dell’art. 57 c. 1 Cost.[16], voto congiunto obbligatorio a pena di nullità), per scattare occorre che la coalizione o lista di maggioranza relativa abbia una distribuzione media omogenea sul territorio, perché in tal caso alla Camera può dare la maggioranza assoluta anche con il 30% dei voti e al Senato col 35%, tutte percentuali inferiori al 40% dell’Italicum, previsto per l’assegnazione del premio in un turno unico.
Il vincitore delle future elezioni con la legge elettorale e numero di parlamentari vigente sarebbe padrone, pur non avendo la maggioranza assoluta dei voti validi e, comunque, dei votanti, della revisione costituzionale ex art. 138 Cost. in assenza di verifica del rispetto dell’art. 139 Cost. e dei principi costituzionali enunciati nella sentenza n. 1146/1988[17].
6. Esclusione della questione della legittimità costituzionale della legge costituzionale n. 1/2020 dalle azioni giudiziarie per l’accertamento del diritto dei cittadini di votare in conformità della Costituzione.
Le ragioni sono molteplici procedurali e di opportunità. Con il gruppo di avvocati anti-Italikum, circa un centinaio in 22 distretti di Corte d’appello, abbiamo maturato un’esperienza particolare, spesso un giudice si trova a dover affrontare, per la prima volta materie totalmente estranee a quelle affidate di norma alla sezione di appartenenza, sovraccaricarlo della questione di legittimità costituzionale di un atto presupposto potrebbe dilatare i tempi, tanto più, che le questioni non sono solo della legge costituzionale, ma di atti presupposti quali l’indizione del referendum in connessione con elezioni regionali, che coinvolgevano più di un terzo del corpo elettorale su due giorni, quando nella concitazione ci si è dimenticati, persino, di modificare formalmente il secondo comma dell’art. 15 della legge n. 352/1970, che prevede che “La data del referendum è fissata in una domenica compresa tra il 50° e il 70° giorno successivo all'emanazione del decreto di indizione”.
Non c’è dubbio, che la riduzione del numero dei parlamentari abbia accentuato aspetti già costituzionalmente problematici della legge elettorale vigente, accennati nel paragrafo 2) e passim negli altri, ma le questioni svolte, in particolare nel paragrafo 5), ne prescindono e riguardano essenzialmente le leggi n. 165/2015 e n. 51/2019 e di riflesso il d.lgs. n.177/2020 e sarebbero stati prospettabili negli stessi termini, anche con un diverso esito referendario. Si aggiunga che nell’unico ricorso presentato da una Regione, la Basilicata particolarmente colpita dal taglio al Senato, essendo passata come l’Umbria da 7 a 3 senatori, non si sono messi in discussione il nuovo numero dei deputati, 400, né dei senatori elettivi, 200, ma di quest’ultimi solo la distribuzione tra le Regioni dei senatori. In sintesi, l’equiparazione delle Province autonome alle Regioni ai soli fini del numero minimo di senatori ex art. 57 c. 3 Cost., avrebbe presupposto una contestuale modifica dell’art. 57 c. 1 Cost. e una diversa e non contradditoria formulazione del quarto comma dell’articolo stesso. In ogni caso non risulta giustificata la violazione di un principio supremo, come quello dell’uguaglianza dei cittadini e dei loro diritti costituzionali fondamentali, se non nei termini già consentiti e per le finalità dei costituenti, per la rappresentanza nel Senato della Repubblica delle Regioni minori.
Le Province autonome di Trento e Bolzano non sono, a differenza delle Regioni, parti costitutive della Repubblica ex art. 114 Costituzione.
Ultima, ma non meno importante ragione, il popolo si è pronunciato e i costituzionalisti si sono pronunciati in modo variegato, mentre è necessario che vi sia partecipazione vasta e nell’opposizione alla legge elettorale vigente comprendere il maggior numero di soggetti senza escludere nessuno a priori, quindi chi abbia votato SI’, NO o si sia astenuto.
[1] La verifica di legittimità della richiesta referendaria è per l’art. 12 c. 2 della legge n. 352/1970 limitata: “L'Ufficio centrale per il referendum verifica che la richiesta di referendum sia conforme alle norme dell'articolo 138 della Costituzione e della legge”, inspiegabilmente senza alcun riferimento all’art. 139 Cost., che costituisce un limite insuperabile alla revisione costituzionale, mentre per il referendum abrogativo ex art 75 Cost. è demandata alla Corte Cost., ex combinato disposto degli artt. 32 c. 2 e 33 della legge n. 352/1970 il rispetto del secondo comma dell’art. 75, che stabilisce le materie sottratte al referendum abrogativo, ampliate dalla giurisprudenza costituzionale al di là della lettera della legge (sent. n. 16/1978).
[2] Un riferimento importante al giudice naturale precostituito per legge e alla C.E.D.U., cioè al suo art. 6.
[3] Perché anche in assenza di eccezione dell’Avvocatura dello Stato, il giudice ordinario potrebbe essere di diverso e rilevarla d’ufficio. Se competente fosse l’AGA si applicherebbe l’art. 13 c.p.a., che non lascia dubbi in materia di inderogabilità della competenza territoriale, ma in materia di diritti elettorali dei cittadini la competenza è del giudice ordinario, anche nel caso che le operazioni elettorali, compresa la proclamazione degli eletti siano impugnabili ex art. 126 e ss. c.p.a. (Cass. SS.UU. Civili, ord. n. 21262/16).
[4] Non a caso le azioni per l’accertamento del diritto di votare secondo costituzione non sono soggette al Contributo Unificato, e ciò ai sensi del combinato disposto dell'art. 10 del DPR n. 115-2002 (Esenzioni: "Non è soggetto al contributo unificato il processo già esente, secondo previsione legislativa e senza limiti di competenza o di valore, dall'imposta di bollo o da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura, .... ), e dell'art. 1 del DPR 642-1972, Allegato B (atti, documenti e registri esenti dall'imposta di bollo in modo assoluto: "Petizioni agli organi legislativi; atti e documenti riguardanti la formazione delle liste elettorali, atti e documenti relativi all'esercizio dei diritti elettorali e dalla loro tutela sia in sede amministrativa che giurisdizionale").[ns. evidenziazione in grassetto].
[5] Cosiddetto maggioritario a turno unico “all’inglese”o “first-past-the-post” od anche “plurality” per distinguerlo da quello “alla francese” o “majority” ove il candidato deve conquistare la maggioranza assoluta dei votanti al primo o al secondo turno previo ballottaggio.
[6] Non a caso citata più volte negli scritti difensivi degli attori, in quanto il nostro art. 48 era sovrapponibile all’art. 38 GG (Grundgesetz), la legge Fondamentale tedesca, che tiene luogo della Costituzione della Germania.
[7] “In ordinamenti costituzionali omogenei a quello italiano, nei quali pure è contemplato detto principio e non è costituzionalizzata la formula elettorale, il giudice costituzionale ha espressamente riconosciuto, da tempo, che, qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare (BVerfGE, sentenza 3/11 del 25 luglio 2012; ma v. già la sentenza n. 197 del 22 maggio 1979 e la sentenza n. 1 del 5 aprile 1952).” (sent. 1/2014, par. 3.1.– La questione è fondata, cpv.XI).
[8] Con un emendamento del relatore nel corso della prima approvazione al Senato della Repubblica, senza una discussione adeguata alla rilevanza dell’argomento sono state equiparate le Province Autonome, che sono solo quelle di Trento e Bolzano, non nominate, alle Regioni, che hanno diritto al numero minimo di senatori, peraltro ridotto da 7 a 3, senza modificare l’elezione “a base regionale” prevista dall’art. 57 c. 1 Cost., né l’art. 114 Cost., che non prevede le Province autonome tra le parti costitutive della Repubblica, ma solo che costituiscono ex art. 116 c. 2 Cost. la Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
[9] L’Italia non ha ancora ratificato la “Carta europea delle lingue regionali o minoritarie” (STE n. 148), fatta a Strasburgo il 05/11/1992, entrata in vigore il 01/03/1998 e firmata dall’Italia il 27/06/2000. Ha ratificato, invece, con la legge n. 302/1997 la “Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali” (STE n. 157), fatta a Strasburgo il 01/02/1995, entrata in vigore il 01/02/1998 e firmata dall’Italia il 03/11/1997.
[10] Con questa norma il Rosatellum ha posto fine a un’anomalia, che non consentiva alla maggiore minoranza linguistica riconosciuta dalla l.n. 482/1999, quella sarda, di beneficiare della normativa speciale, perché lo Statuto speciale della Sardegna, approvato con legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, non prevedeva norme di tutela linguistica.
[11] Frutto di una norma speciale di tutela delle minoranze linguistiche consiliari di accesso diretto alla Corte Cost., l’art. 56 del dpr n. 670/1972 T.U. leggi costituzionali Statuto Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
[12] Camera dei deputati, Italia (Valle d’Aosta esclusa); Romano Prodi, totale coalizione voti 19.002.598, 49,81% con 340 seggi, di cui SVP (Südtiroler Volkspartei-Partito Popolare Sudtirolese) voti 182.704, 0,48 , con 4 seggi; Silvio Berlusconi, totale coalizione voti 18.977.843, 49,74% con 277 seggi. Differenza voti 19.002.598 - 18.977.843=24.755 < 182.704, differenza percentuale 49,81% - 49,74%= 0, 07% < 0, 48%.
[13] Nelle elezioni europee 2009 di prima applicazione della soglia la SVP con 143.509 voti, 0,47%, ebbe 1 seggio, restarono escluse le liste di Sinistra Europea e Sinistra e Libertà rispettivamente con 1.037.862 voti, 3,39% e 957.822 voti, 3,13%, che avevano superato la soglia del 4% la prima in 2 Circoscrizioni e la seconda in una. Nelle elezioni 2014 la SVP 138.037 voti, 0,50% e 1 seggio, mentre Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale nessun seggio con 1.006.513 voti e 3,67%, con supero della soglia in 2 circoscrizioni. Infine, nelle elezioni 2019 la solita SVP ebbe 1 seggio con 142.185 voti e lo 0,53%, mentre non conseguì alcun seggio +Europa con 833.443 voti e il 3,11%. Questa volta nessuna lista esclusa aveva superato la soglia in almeno una circoscrizione perché gli elettori di liste sotto-soglia hanno progressivamente smesso di andare a votare: nel 2009 i votanti furono 34.359.339 pari al 69,73 %, 10 anni dopo i votanti erano scesi a 27.780.855, il 54,50 % con 997.123 schede non valide, 3,58%. In cifre assolute: 1) elettori (2019) 50.974.994 – elettori (2009) 50.342.153=+ 632.841; 2) votanti (2019) 27.780.855 - votanti (2009) 34.359.339= - 6.578.484; 3) voti validi senza rappresentanza di liste con voti maggiori di SVP: 2.320.690, che senza soglia avrebbero eletto almeno un parlamentare europeo.
[14] Trucco L., Rosatellum-bis e la forma di governo “leadercratica” sul far del nascere della XVIII legislatura, Fascicolo 3/2018-Rotture e Continuità nell’Avvio della XVIII Legislatura, https://www.costituzionalismo.it/rosatellum-bis-e-la-forma-di-governo-leadercratica-sul-far-del-nascere-della-xviii-legislatura/
[15] I 3 seggi SVP sono tutti concentrati nella Provincia autonoma di Bolzano, 504.643 abitanti (cens. 2011), quindi un senatore ogni 168.214 abitanti, quando la media nazionale è di 297.169, calcolando i seggi fissi di Val d’Aosta, 1, e Molise, 2, che abbassano la media. La concentrazione territoriale del voto è in vantaggio che spiega il vantaggio in seggi della coalizione di CDX prevalente nel Settentrione e della lista M5S nel Meridione e Isole.
[16] Perché si aggiunge per le liste minoritarie politiche alla soglie implicite delle Regioni, tutte superiori al 3%, eccetto che in Lombardia con 315 senatori elettivi e che non riguarda le minoranze linguistiche.
[17] Secondo il prof. Pasquale Costanzo alla revisione costituzionale recentemente approvata, cfr. Costanzo P., QUANDO I NUMERI MANIFESTANO PRINCIPI OVVERO DELLA PROBABILE INCOSTITUZIONALITÀ DELLA RIDUZIONE DEI PARLAMENTARI, Consulta ON LINE,
Ragionando sulla (recte, sulle) sovranità.
Intervista di Roberto Conti a Enzo Cannizzaro.
Una conversazione aperta quella con il Prof.Enzo Cannizzaro, soprattutto serena, non gridata nei toni ma forte e appassionata nei contenuti e nelle prospettive, molte delle quali difficilmente definibili, che si agitano attorno al tema della sovranità al quale l'accademico internazionalista ha dedicato tempo e sapienza e che sempre di più ritorna, a volte in modo ossessivo e martellante, nelle discussioni universitarie e sui titoli di giornali come nei talk show quando esso si aggancia, in modo più o meno consapevole, a quelli del sovranismo e del populismo ai quali si affibbiano nella vulgata corrente connotati negativi.
Un incedere, quello di Cannizzaro, che calamita il lettore per la semplicità con la quale affronta temi di complessità pur evidente in modo limpido, conducendolo all'interno di territori impervi, nei quali i tradizionali poteri assumono veste e significato nuovi sui quali l'internazionalista offre la sua lettura, incastonandoli in un ordine in continuo movimento, nel quale i fattori dinamici interni alle singole comunità statuali che hanno progressivamente mutato il volto della sovranità nazionale si legano ai non meno prorompenti mutamenti della "sovranità esterna", al cui interno si avvertono segnali sempre più orientati verso nuove forme di organizzazione politica extra-statuali, portatrici di interessi riferibili alla comunità universale quali l'ambiente, le risorse vitali, la lotta alla povertà, con i quali gli stati tradizionalmente intesi saranno chiamati a confrontarsi, spesso in posizione diseguale e recessiva proprio a causa del minor peso della sovranità.
In questo sistema "in movimento" Cannizzaro riflette sugli assetti interni, sul ruolo di alcuni dei poteri espressivi della sovranità e, fra questi, delle giurisdizioni - costituzionale e comune - che hanno contributo alla metamorfosi della sovranità.
Una sovranità assoluta, popolare ed ora sempre più "costituzionale", che Cannizzaro risagoma delineandone funzioni e ruoli in quella prospettiva di un nuovo governo del mondo che, se non immediata, Egli sembra cogliere come affatto utopica ed anzi, quasi ineluttabile.
1. Professore Cannizzaro, se dovessi recensire il Tuo saggio "La sovranità oltre lo stato" in 1000 caratteri, cosa scriveresti?
Non potrei recensire il mio (piccolo) libro. Invero, non avrei neanche dovuto scriverlo. Come sai, io sono uno studioso, modesto, dei fenomeni giuridici. Sulla scienza giuridica, e in particolare sui processi di integrazione internazionali e sovranazionali, ho indugiato per la più gran parte della mia vita. Or bene, questo libro tratta di temi sui quali non ho alcuna formazione scientifica: la filosofia politica, innanzi tutto, ma anche la teoria dell’organizzazione sociale e la dottrina della Costituzione. Per decenni ho fatto il proponimento di scrivere e parlare solo attraverso argomenti di carattere scientifico: un proponimento al quale, ora, sono venuto meno. Come faccio a recensire un libro che non avrei dovuto scrivere?
Se non posso recensirlo, posso dirti, però, perché lo ho scritto. Ho molto esitato, invero, sia prima che durante la sua stesura. Diciamo che l’ho fatto sulla base di un imperativo etico. In queste pagine ho trasfuso le riflessioni di una vita sul potere politico, sulle sue molteplici forme, sulla sua intolleranza ad ogni limite, e sulla sua sostanziale amoralità. Ma si è sempre trattato di riflessioni prive di rigore e di sistematicità: due requisiti imprescindibili della riflessione scientifica. In ciascuna pagina di questo libro ho, piuttosto, riversato la mia dimensione etica della politica attingendo, quasi spigolando, dai sistemi concettuali elaborati dai grandi teorici del pensiero politico e giuridico.
Se dovessi darne una definizione, lo qualificherei, allora, come un roman philosophique; che tocca, fugacemente invero, il pensiero scientifico ma senza pretesa di scientificità; che cammina su un impervio crinale, fra la dura lezione del realismo storico e il dolce richiamo dell’utopia.
2. Esiste una relazione fra sovranità, populismo e sovranismo?
Nella logica che fonda il mio libro, il populismo è la più piena realizzazione del principio della sovranità popolare. Se la sovranità spetta al popolo, senza altra qualificazione, il popolo diventa la fonte unica di legittimazione del potere politico: un potere che potrà travolgere ogni forma di garanzia proprio in quanto esso realizza la volontà del popolo.
Il populismo è insito già nel sistema costruito da un pensatore oggi di gran moda: Rousseau; il fondatore della sovranità democratica. Rousseau ha costruito intorno al popolo, il corpo collettivo, un nuovo assetto di poteri dello Stato, nel quale, però, la volontà popolare, espressa nel principio maggioritario, non tollera alcun limite. In particolare, essa non trova limiti nell’attività giudiziaria, concepita non come un contropotere rispetto alla volontà popolare, in nome, magari, di una superiore legittimazione costituzionale, ma come la meccanica trasposizione di tale volontà dal piano della legge astratta a quello della decisione concreta.
Se il populismo costituisce una degenerazione possibile della dottrina della sovranità popolare diretta, esso appare addirittura inevitabile nei sistemi democratici privi di forme di intermediazione fra il popolo e i suoi governanti. In tali sistemi, la politica diventa pressoché esclusivamente gestione del consenso, ed è naturalmente tesa ad abbattere ogni garanzia costituzionale che si frapponga alla presunta volontà del popolo, magari sapientemente manipolata da sistemi informativi deboli o addirittura corrotti. Non abbiamo assistito a questo spettacolo negli ultimi decenni, una volta spariti i grandi sistemi di valori che animavano, almeno in parte, i partiti storici?
3. Nella Tua analisi hai affrontato distintamente il tema della sovranità interna e quello della sovranità esterna. Secondo te qual è la relazione fra le due sovranità: contrapposizione, cooperazione o reciproca limitazione?
A torto, nella letteratura sulla sovranità, si trascura la sovranità esterna. Essa non è un semplice complemento della sovranità dello Stato; essa ne costituisce una autonoma dimensione. Del resto, storicamente la dottrina della sovranità è nata proprio sul versante esterno; allorché i nascenti stati nazionali hanno avuto bisogno di una teoria politica nuova per sbarazzarsi dell’ormai nominale sottomissione all’impero universale.
La dimensione autonoma della sovranità esterna emerge con chiarezza se si pensa che non di rado gli Stati, anche se democratici, esternalizzano le tensioni interne scaricandole su politiche nazionaliste e xenofobe, contro il nemico interno. Si crea quindi uno evidente contraddizione fra la dinamica interna della sovranità, fondata su valori democratici, e quella esterna, caratterizzata da una considerazione esclusiva dell’interesse nazionale (la ragion di stato) che produce, a propria volta, politiche spregiudicate e talvolta aggressive. Tale dissociazione non appare in contrasto con la dottrina della sovranità. Essa, anzi, ne costituisce il suo più coerente sviluppo. Se la sovranità rappresenta la volontà di autodeterminazione di una comunità, essa si realizza proprio nei confronti con le altre comunità. Ne consegue che uno Stato ha un naturale interesse a competere e prevalere con gli altri Stati al fine di realizzare al massimo grado gli interessi che percepisce come propri, senza avvedersi della esistenza di altri interessi, di natura collettiva.
Questa circostanza dovrebbe far capire quanto sia illusoria una dottrina della sovranità fondata sulla priorità dei valori e interessi della comunità nazionale rispetto a quelli esterni. Questa dottrina isolerebbe la comunità nazionale e la condurrebbe verso una autoreferenzialità, se non anche verso derive nazionaliste e autoritarie.
4. Appare quasi naturale pensare, a questo punto, al tema delle “limitazioni di sovranità” a cui si dedica specificamente l’art.11 Cost. ed alle sorti dei rapporti fra ordinamento interno e ordinamento comunitario – ora dell’Unione europea –. Quanto il diritto-dovere di disapplicazione del diritto interno contrastante con quello UE immediatamente efficace ha, a tuo avviso, messo alle corde il concetto di sovranità nazionale ovvero, tutto al contrario ne ha esaltato il senso ultimo, mirando l'art.11 al perseguimento di un ordine esterno che assicuri valori universali di pace e giustizia?
Credo fermamente che l’apertura del sistema costituzionale rappresentato all’art. 11 sia la vera valvola di sicurezza che i Padri costituenti hanno creato per prevenire il ritorno dei nazionalismi. L’idea dello Stato costituzionale aperto (der offene Verfassungsstaat, secondo la felice formula tedesca) costituisce una vera rivoluzione nella dottrina del costituzionalismo contemporaneo. Essa eleva l’apertura dell’ordinamento agli influssi esterni a un vero e proprio principio fondamentale della Costituzione, che prevale sulle regole costituzionali “ordinarie” ed entra in rapporti di bilanciamento con ogni altro principio di eguale valore. Il valore normativo di questo principio è a volte trascurato, anche dalla Corte costituzionale nei suoi itinerari “sovranisti” che hanno caratterizzato alcune recenti espressioni davvero molto controverse della sua giurisprudenza.
In questo senso, la disapplicazione delle leggi confliggenti con il diritto europeo ha senz’altro un alto valore simbolico. Essa sancisce il primato dell’apertura del sistema costituzionale anche nei confronti della fonte che più di ogni altra rappresenta la volontà generale, vale a dire la legge.
5. Quanto allora la posizione della Corte costituzionale rispetto ai diritti fondamentali protetti da Carte dei diritti fondamentali diverse dalla Costituzione italiana può dirsi un'opzione tesa a proteggere la sovranità costituzionale?
Credo che lo sia stata a lungo. Come sai, tale posizione si è espressa in una frase che non avrei mai creduto di poter leggere in una sentenza costituzionale: quella, celebre, della sentenza 49 del 2015, la quale parla di un “predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU”: una frase inutile nel contesto di quella sentenza e intrisa di una ideologia giuridica che non esito a definire perversa.
6. Antonio Ruggeri evoca nei suoi scritti ripetutamente i concetti di intercostituzioni, di internazionalizzazione delle Carte costituzionali e di costituzionalizzazione delle Carte sovranazionali in una prospettiva che, riducendola all’osso, intende guardare non soltanto al ruolo centrale e osmotico dei diritti fondamentali ed al loro formarsi e rigenerarsi continuo attraverso l’interazione delle Carte dei diritti e dei giudici che le applicano, ma probabilmente anche una concezione universale dei diritti fondamentali. Questa posizione, che alcuni definiscono minoritaria nel panorama dei costituzionalisti, ti convince? Quanto essa potrebbe costituire la base per un nuovo paradigma della sovranità e con quali concrete possibilità di successo?
Ammiro molto l’opera giuridica di Antonio Ruggeri e la sua visione teorica e sistematica. Io non saprei dire se siamo entrati in una fase di osmosi costituzionale. Temo che per realizzare questo obiettivo la strada sia lunga e irta di difficoltà. Quel che rilevo, nel mio lavoro di studioso dei fenomeni giuridici transnazionali, è la progressiva formazione di interessi comuni che trascendono la dimensione statale e che esigono una propria forma di governo. Questi interessi premono su quelli propri delle varie comunità nazionali e sulla loro regolamentazione giuridica.
Solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile che un Paese africano, il Gambia, avesse adito di fronte alla Corte internazionale di giustizia il Myanmar per le condotte genocidiarie perpetrate da tale Stato nei confronti della minoranza Rohinga. È probabile che nessun Rohinga abbia mai varcato la frontiera del Gambia e che pochi fra essi sappiano dove si trovi questo Stato (anche molti italiani forse lo ignorano). E tuttavia, il Gambia è intervenuto dichiarando di farlo a tutela di interessi propri della intera umanità. Questo è solo un esempio, se pure simbolicamente importante, della avanzata degli interessi collettivi dell’umanità. Ma sarebbe semplicista prevedere una loro marcia trionfale tesa ad abbattere le strutture statali fondate sulla sovranità e a istituire il super stato mondiale, fondato su diritti universali. Questa sì che sarebbe una prospettiva utopica. Verosimilmente essa non sarebbe neanche auspicabile. La parabola della sovranità ci ha insegnato come il potere politico vada circoscritto, sminuzzato, posto sotto costante controllo, nei suoi obiettivi e nei suoi mezzi di azione. In luogo del sovrano globale, pur se illuminato, sembra preferibile una galassia di poteri, su base globale, nazionale o infranazionale, che concorrano al governo delle varie comunità che esistono su questa terra. In questo senso, una idea “osmotica” di costituzione, che metta in collegamento i principi fondamentali di ciascun ordinamento, quelli nazionali e i vari ordinamenti costruiti per la gestione di interessi collettivi, ben potrebbe costituire la nuoa dottrina giuridica del mondo futuro. Ma si tratta, temo, di una prospettiva assai remota nel tempo.
7. La giurisdizione e la sovranità. Tu sostieni che la frammentazione dei poteri e la loro distribuzione su base verticale od orizzontale segnano un declino dell’idea di sovranità tradizionale. Ma i giudici – costituzionali e comuni –, che pure costituiscono un elemento costitutivo della sovranità (Corte cost.n.175/1973) sono l’anima buona o cattiva dello stato moderno?
Rousseau configurava i giudici, lo si è detto, come una sorta di strumento automatico di produzione del diritto nel caso concreto. Questa idea, di chiaro stampo illuminista, è diventata una delle idee portanti della rivoluzione francese, spazzando via la vecchia classe dei giuristi romanisti che costituiva un importante puntello per la struttura della società francese del tempo. Ma di lì a pochi anni, e nonostante l’impetuoso avanzamento del fenomeno della codificazione, il ruolo dei giudici è tornato ad essere quello di protagonisti dell’ordinamento giuridico e così è ancora oggi.
In termini parzialmente analoghi, l’avvento della Costituzione repubblicana ha comportato il problema del rinnovo della vecchia classe di giudici, i quali consideravano il diritto costituzionale come un insieme di principi sprovvisti di normatività. La sentenza 1/1956 e l’affermazione della Costituzione come norma giuridica cogente inauguravano un nuovo ruolo per i giudici, chiamati a diffondere il nuovo verbo costituzionale. Esempi analoghi potrebbero essere proposti in relazione al ruolo dei giudici italiani nell’applicazione del diritto europeo, che sembra superare addirittura l’idea stessa della Costituzione come la sola norma fondamentale.
È difficile, insomma, separare il grano dal loglio. A volte, la giurisprudenza anticipa e promuove il mutamento sociale; altre volte, essa tende ad ostacolarlo irrigidendo il costume in modelli obsoleti. I giudici costituzionali sono i guardiani della Costituzione. Se il potere politico è fondato sulla legittimazione popolare, essi ne rappresentano il contropotere, su una fonte di legittimazione superiore, che si impone dall’alto alla volontà del popolo. Ciò spiega la grande tensione, che si svolge quotidianamente sotto i nostri occhi, fra i detentori del potere politico e i custodi dei valori costituzionali che lo limitano.
8. Quanto i giudici si sono appropriati di poteri sovrani e quanto gli altri organi dello Stato glieli hanno più o meno apertamente delegati?
I giudici esercitano poteri sovrani sia allorché promuovono i valori costituzionali nei confronti dei detentori del potere politico, sia, di converso, allorché impediscono la realizzazione della volontà popolare in nome di principi superiori. Vi è quindi una latente frizione fra le due dimensioni della sovranità, quella popolare e quella costituzionale, alla quale se ne può aggiungere un’altra, più rarefatta e impalpabile, data dalla sfera di valori transnazionali, assicurati da giudici esterni all’ordinamento dello Stato.
Questo è il mondo giuridico che abbiamo davanti: un mondo giuridico complesso, rispetto al quale ogni semplificazione appare inopportuna. Questo mondo tende ad attenuare la relazione fra i giudici e il popolo in nome del quale si pronunciano le sentenze. A chi sacralizzi una visione puramente maggioritaria della democrazia, l’istituzione di giudici che applichino valori costituzionali contro la volontà popolare potrebbe una deriva autoritaria. A chi sacralizzi una visione puramente nazionale dei valori costituzionali, l’istituzione di giudici sovranazionali che applichino valori propri di una più ampia comunità potrebbe una deriva elitista e un tradimento della sovranità del popolo vero, sovente identificato con la nazione.
In ambedue i casi, si tratta di posizioni puramente ideologiche, le quali possono essere valutate esclusivamente sul metro fattuale della storia.
Il rapporto fra poteri sovrani dei giudici e quelli degli organi politici è un rapporto storicamente determinato. Esso è insorto al momento in cui il sovrano ha “delegato” il potere di fare giustizia a organi diversi (King in Court); ma poi, la delega gli è, come dire, sfuggita di mano ed è iniziata la parabola della sovranità, formalmente unitaria ma sostanzialmente frammentata, che ha condotto ai nostri complessi sistemi giuridici che tendono a smembrare la sovranità nell’ambito di poteri e prerogative assegnate a singoli organi ed enti dello Stato. Questa distribuzione di poteri è fatta da norme giuridiche, ma essa si modella rispetto alla prassi e alla rispettiva forza o debolezza politica dei rispettivi titolari.
9. E dunque, i giudici interni e quelli sovranazionali, custodi delle istituzioni UE e della CEDU e di altri trattati internazionali, che ruolo svolgono rispetto al tema della sovranità interna ed esterna? Quanto hanno limitato i poteri sovrani degli Stati e quanto si fanno motore per un nuovo ordine sovranazionale?
I giudici sovranazionali e, di concerto, quelli interni, hanno contribuito in maniera decisiva allo sviluppo del nuovo ordine sovranazionale. Se valutassimo Van Gend en Loos alla luce della legalità costituzionale degli Stati membri, occorrerebbe qualificarlo come una sorta di “colpo di Stato”.
Più in generale, i giudici, anche quelli nazionali, hanno contribuito a individuare i nuovi interessi e valori della nuova comunità transnazionale creata dal diritto europeo e a trovare forme giuridiche adeguate alla loro tutela. Insomma, i giudici interni sono parte di questo processo sociale di individuazione di una “nuova comunità di diritto”, la quale esige una nuova forma di governo e che non si riassume nelle usuali categorie della sovranità.
10. In occasione della scelta di non proseguire l’iter parlamentare del progetto di ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU, del quale pure tu ti sei occupato su questa Rivista. Nel corso dei lavori parlamentari a più riprese è stato rappresentato il pericolo che la ratifica del Protocollo, ma addirittura la stessa ratifica del Protocollo n.15 potesse significare porre una pietra tombale sulla sovranità giuridica italiana, rappresentando tali strumenti il tentativo della Corte EDU di erodere spazi di sovranità nazionale. Che ne pensi?
Hai richiamato il mio breve scritto su questa Rivista- La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n. 16- nel quale ho prospettato che la mancata ratifica del Protocollo 16 non sia stata sorretta da argomenti logico-giuridici, quanto piuttosto da una ideologia che identifica il diritto con l’ordinamento nazionale. Di conseguenza, non tornerò su questo punto.
Mi limito, invece, a considerare la nuova questione che mi poni. L’idea che la ratifica del Protocollo 16 comporti una erosione di spazi di sovranità nazionale non è solo ispirata da tale ideologia. Essa è anche tecnicamente errata. Al fine di verificare questa affermazione, occorre considerare che il Protocollo 16 si inserisce in un sistema - quello della Convenzione - il quale ha certamente eroso e continua a erodere la sovranità nazionale. Non riesco proprio a capire quale ulteriore erosione si produrrebbe attraverso l’introduzione in tale sistema di uno strumento nuovo, quello dei pareri consultivi, teso a prevenire la violazione della Convenzione da parte dell’Italia e una corrispondente condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Gli oppositori della ratifica del Protocollo 16 non sono proprio riusciti a dimostrarlo.
È invece facile dimostrare che una ulteriore erosione della sovranità nazionale sarà prodotta proprio dalla mancata ratifica italiana del Protocollo 16. Difatti, il Protocollo 16 non ha bisogno della ratifica dell’Italia per entrare in vigore. Esso è già in vigore per dieci Stati parte e sono già stati adottati due pareri consultivi.
A tal fine, occorre ricordare, sinteticamente, alcune regole del Protocollo. Ai sensi dell’art. 3, lo Stato del giudice che ha chiesto il parere ha il potere di intervenire nel procedimento, di produrre memorie e di partecipare alle udienze. Inoltre, il giudice eletto su proposta di tale Stato siederà di diritto nel collegio giudicante. Si tratta di accorgimenti tesi a contestualizzare gli effetti del parere nell’ordinamento dello Stato parte dal quale la richiesta proviene. Infine, una volta adottato, il parere entrerà a far parte della giurisprudenza della Corte europea e produrrà l’effetto di precedente autorevole al fine di definire ricorsi individuali relativi alla medesima questione giuridica.
Proviamo, quindi a individuare, alla luce di tali regole, le conseguenze della mancata ratifica del Protocollo.
I giudici italiani non potranno chiedere un parere su un problema di interpretazione della Convenzione rilevante alla luce dell’ordinamento italiano. Essi, quindi, non potranno contestualizzare la questione di interpretazione della Convenzione nell’ordinamento italiano e non potranno, di conseguenza, portare a conoscenza della Corte gli elementi di diritto italiano atti a contribuire alla soluzione di una questione di interpretazione della Convenzione. Qualora la medesima questione interpretativa risulti anche per l’ordinamento di un altro Stato, e i giudici di tale Stato chiedessero un parere, esso sarebbe reso da un collegio che non comprenderà il giudice italiano e attraverso un procedimento nel quale lo Stato italiano non sarà parte e non potrà produrre documenti e memorie né partecipare all’udienza.
Ma tutto ciò non avrà certamente l’effetto di impedire che tale parere spieghi i propri effetti di precedente autorevole per la definizione di ricorsi individuali. Di conseguenza, ricorsi proposto da un individuo contro lo Stato italiano potranno essere definiti sulla base di un parere adottato in seguito a un procedimento promosso da giudici di un altro Stato e nei quali lo Stato italiano non avrà avuto la possibilità di partecipare.
Non mi sembra un buon risultato per coloro che ritengano che la mancata ratifica dell’Italia abbia evitato il rischio di una ulteriore erosione della sovranità dello Stato.
11. Le Nazioni Unite ed il Consiglio di sicurezza, organismi espressivi di un nuovo ordine mondiale che supera la sovranità degli Stati o semplicemente occasioni mancate, incapaci di operare al di sopra degli Stati rispetto alle sfide del futuro?
Le Nazioni Unite non sono il governo del mondo. Esse sono nate per un obiettivo specifico, ancorché ambizioso: quello di abolire l’uso unilaterale della forza e di conferirlo in via esclusiva ad una amministrazione centralizzata. Tale obiettivo è stato parzialmente raggiunto, anche se con tutti i limiti rappresentati da un meccanismo decisionale fondato su logiche intergovernative.
Ma il più grande merito delle Nazioni Unite è quello di aver contribuito silenziosamente a mutare il panorama degli interessi e dei valori collettivi della Comunità internazionale, pur senza possedere i poteri necessari per la loro tutela e la loro promozione. La Carta delle Nazioni Unite parla già il linguaggio di un costituzionalismo internazionale che ancora non esiste, se non in potenza. Essa ha contribuito alla formazione di una comunità nuova, che crede in tali valori e nella necessità di realizzarli, pur senza, e a volte contro, la volontà degli Stati: un costituzionalismo senza una forma di governo. Personalmente, credo che le Nazioni Unite non siano all’altezza delle sfide del futuro. Ma esse hanno contribuito a creare tali sfide e i presupposti per poterle affrontare.
12. Si fa un gran parlare, in questi giorni, di libertà individuali compresse da poteri privati operanti su scala globale. Che ruolo dovrebbero giocare secondo te la sovranità interna e quella esterna?
Il controllo dei poteri privati è la grande sfida del nostro tempo. Con molta difficoltà, gli Stati assicurano tale controllo entro i propri confini. Ma la rivoluzione globale proietta sullo scenario mondiale lo spettro di poteri esercitati sul piano mondiale, i quali si sottraggono al controllo degli Stati. Essi sono tanto più insidiosi in quanto si avvalgono delle nuove tecnologie di comunicazione che li rendono quasi invisibili.
La loro esistenza ha già sollevato il problema della definizione territoriale di applicazione delle discipline degli Stati e dell’Unione europea. Si pensi alla sentenza Schrems II della Corte di giustizia, del 2020, relativa alla applicazione extraterritoriale della disciplina europea sulla protezione dei dati.
Il futuro prossimo sarà verosimilmente caratterizzato da conflitti fra regolamentazioni statali, rispetto ai quali le regole internazionali di composizione su base territoriale sembrano obsolete. Peraltro, tali conflitti incrementeranno inevitabilmente le diseguaglianze sul piano globale, dato che gran parte della popolazione mondiale, il Sud della terra, non potrà godere di una efficiente protezione contro le grandi imprese tecnologiche che operano sul piano globale. Il futuro “remoto” potrebbe recare con sé una forma collettiva di governo dei poteri privati. Ma questo presuppone, a propria volta, una eclissi, totale o parziale, della sovranità statale e il sorgere di strutture di governo che dispongano di competenze settoriali per la gestione di interessi collettivi dell’umanità. Proprio quel che appare al confine dell’utopia …
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