ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Contract e contracts nel diritto inglese: la rilevanza della buona fede*
di Mario Serio
Sommario: 1. L’accezione plurale o singolare del contract inglese ‒ 2. La partecipazione della buona fede al sistema dei principii generali del law of contract inglese ‒ 3. Orientamenti giurisprudenziali e dottrinari inglesi favorevoli al (limitato) riconoscimento del principio di buona fede contrattuale ‒ 4. Brevi considerazioni conclusive e riassuntive.
1. L’accezione plurale o singolare del contract inglese
La questione dell'uso alternativo, se non contrapposto, del termine “contract” al singolare o al plurale nel common law inglese non sembra riflettere, secondo una diffusa opinione[1], il medesimo, stringente e fascinoso carattere che essa è solita rivestire nei principali ordinamenti del continente europeo. Ciò non toglie, tuttavia, che la questione stessa riemerga vivacemente con riferimento ad istituti e figure del law of contract rispetto ai quali il motivo dominante è rappresentato dalla loro possibile riconducibilità a criteri o principii di natura generale e dei quali si possa predicare un'immanente ed ineliminabile presenza nelle pieghe ordinamentali, come il tema della buona fede (good faith), di cui più avanti si tratterà, chiaramente dimostra.
Ridotta al suo nucleo essenziale la dicotomia contract-contracts deve preliminarmente rispondere alla domanda che ne costituisce il logico presupposto, ossia come si configuri, ed a quali fini ubbidisca, una declinazione del termine al singolare, che ne rappresenterebbe la capacità di descrivere l'essenza della figura nelle potenziali esplicazioni dell'esperienza giuridica.
Prima di accedere al territorio del contract, giova rimuovere il sospetto che anche in altre aree del diritto privato inglese di non minor rilevanza si registri un'analoga tendenza a lasciar convivere in esse, ed adottando un lessico familiare al giurista italiano, una parte generale (declinata al singolare) ed una parte speciale (declinata al plurale), allo scopo di rinvenire tra loro un rapporto bilanciato di vicendevole preminenza di una delle due declinazioni. È di ausilio al proposito il richiamo del fondamentale capitolo dedicato alla responsabilità civile, condensato attorno alla figura del tort, concepito come oggetto di un'apposita branca sia singolarmente sia pluralisticamente considerata (rispettivamente law of tort o law of torts). Nelle famose lezioni indiane di Tagore dei primi anni '30 del secolo scorso[2], uno dei più eminenti studiosi inglesi, Winfield, autore di uno dei più celebrati manuali in materia[3], si intrattenne memorabilmente attorno alla competizione tra i due modelli linguistici (che naturalmente celavano ben più profonde divaricazioni concettuali) cogliendo il fondamento del dilemma nella (da lui ritenuta) attitudine del common law alla elaborazione di una teoria generale della responsabilità da fatto illecito radicata su principii fondativi e sull'esistenza di una clausola generale per la relativa affermazione (il duty of care coevamente sancito dalla House of Lords nel fondamentale caso Donoghue v Stevenson[4]) in antagonismo con una concezione atomistica poggiante sull'autonomia disciplinare e strutturale delle singole figure, insuscettibili di attrazione in un unico recipiente. Visione, questa, che attrasse opposti orientamenti dottrinari e giurisprudenziali miranti ad esaltare la atipicità e la individualità delle singole figure di torts non attenuate dal comune riconoscimento della presenza di uno statuto basilare imperniato sulla accertata violazione del dovere di non recare ad altri un danno ingiusto. Dovere da coniugare, tuttavia, con ciascuno degli spicchi del caleidoscopio “tortious”, ciascuno contrassegnato da specificità irripetibili che largamente risentono degli attributi propri del singolo bene protetto.
Questo si dice per segnalare non già una perfetta assimilabilità tra due delle principali componenti del diritto privato inglese, in effetti smentita da una tradizione di concentrazione dell'attenzione sulle singole figure di tort, quanto per sottolineare la ciclica riproposizione di un'indagine metodologica rivolta alla scoperta di un patrimonio comune ed autosufficiente di principi e regole di disciplina applicabili ad entrambe.
Tornando al contract ben può dirsi che vige, soprattutto in dottrina, una concezione funzionalista diretta alla individuazione dei fini che la sua parte generale ed il correlato corteo di principii sono chiamati ad assolvere. Fini consistenti nel compimento di una molteplicità di operazioni logiche ed epistemologiche munite di idoneità contraddistintiva dell'istituto contrattuale: la identificazione dei requisiti del contract e degli elementi distintivi rispetto ad una promessa giuridicamente non vincolante (ma, in ipotesi, solo moralmente impegnativa); i criteri per pervenire alla definizione del suo contenuto; la disciplina delle conseguenze del mancato rispetto delle obbligazioni contrattualmente assunte e dei rimedi connessi. L'essenzialità e la relativa esiguità dei temi che concorrono a dar vita al “general law of contract” possono spiegarsi impiegando punti di osservazione diversi. In primo luogo, deve ritenersi, concordemente all'accreditato orientamento dottrinario imperante, che innegabile influenza sia stata esercitata dalla mancata recezione del modello romanistico e dalla conseguente ripulsa di una autonoma categoria concettuale rispondente alla denominazione di “special contracts”, accolta nei sistemi giuridici di civil law. In secondo luogo, ha contribuito alla solida costituzione di un plesso ordinamentale sorretto da pilastri di ampia portata la condivisa aggregazione di plurime regole operazionali sufficienti ad assicurare ordinariamente l'uniforme regolamentazione dell'archetipo contrattuale in sé considerato, indipendentemente dalle concrete raffigurazioni potenzialmente riscontrabili nelle singole figure di accordo negoziale vincolante. Basti al riguardo pensare all'omogeneo corpo normativo, tanto di origine giudiziale quanto di derivazione legislativa, che scandisce le evenienze più rilevanti nella vita fisiologica o patologica del contract, afferente, ad esempio, al processo della sua formazione, alla sua fase interpretativa, al momento dell'inattuazione, alle opzioni rimediali: esso è capace di universale applicazione alla categoria generale del contract, manifestando al contrario natura residuale ed eccezionale le ipotesi di adozione di uno statuto disciplinare dedicato a singole “species” (quali quelle di vasto impatto nel settore dei rapporti contrattuali ascrivibili al fenomeno consumeristico), reputate meritevoli di un trattamento particolare in ragione, ad esempio, delle condizioni soggettive delle parti e della correlata necessità di superare connaturali posizioni di squilibrio (come, ad esempio, è stato deputato ad assicurare il Consumer Rights Act del 2015). Seguendo questa logica è comunemente estranea al common lawyer la propensione euristica, tipica del suo omologo continentale, del “nomen iuris” da attribuire, a fini regolamentari, alla singola fattispecie contrattuale che gode nel common law del beneficio di una cornice adeguatamente ampia e capiente di principii e regole adottabili di norma nel singolo caso. Un campo in cui è peculiarmente avvertita la linea uniformatrice in questione è non accidentalmente quello delle tutele e dei rimedi garantiti nell’evenienza di inadempimento ad una platea pressoché globale di situazioni: ciò che ha indotto le Corti giudicanti a resistere alla tentazione di elevare una rigida barriera divisoria, sia in senso dogmatico sia nelle implicazioni pratiche, tra “special” e “general contracts”. Anche il terreno dell'ermeneutica contrattuale è avvinto alla medesima tensione unitaria, la cui manifestazione più evidente e sicura viene fornita dalla salda adesione al metodo informatore dell'accertamento della volontà delle parti secondo standard di pura oggettività piuttosto che in omaggio alla superiorità della “voluntas” sui “verba”. Allo stesso modo la possibilità dell'integrazione del contenuto contrattuale alla stregua di quel caratteristico modo di operare sussunto sotto il nome di “implication of terms” nelle sue varie dimensioni (giudiziale, normativa, consuetudinaria) viene esperita secondo precise ed omogenee regole che in via normale non soffrono apprezzabili deroghe con riferimento alle fattispecie contrattuali individuali. Inevitabili e logicamente conseguenti sono le forme di redazione dei testi contrattuali, usualmente calibrati secondo la prospettiva del loro assoggettamento ad un trattamento che scaturisce da un codice concettuale tendenzialmente uniforme.
La descritta affezione del common law inglese ad una visione globale del contract (una delle cui esplicitazioni è rappresentata dal tradizionale uso del termine al singolare) e la diffidenza che ne discende nei confronti di una rigida categorizzazione anche in termini dogmatici dei singoli tipi contrattuali non comporta, tuttavia, che seri problemi non campeggino con riferimento alla possibilità di arricchire il catalogo dei principii generali integrandoli di loro controversi fattori esponenziali. Sorge, pertanto, il problema, tutto interno al “general law of contract”, di determinarne perimetro e componenti al fine di offrire un quadro affidabile e stabile all'osservatore esterno.
In questa complessa e mai compiutamente risolta sfera definitoria si colloca certamente in posizione di assoluta importanza la vicenda della rilevanza ed ammissibilità, tra quelli caratteristici del “contract”, del principio di buona fede, concepito nella duplice veste soggettiva ed oggettiva cui gli ordinamenti di civil law sono avvezzi, rispettivamente secondo i parametri della correttezza e della ignoranza di circostanze perturbatrici della validità ed efficacia contrattuale.
Ci si trova senza dubbio di fronte ad uno dei capitoli più tribolati e divisivi del diritto privato inglese, e di quello contrattuale in particolare, di cui è necessario tentare di cogliere brevemente genesi, occasioni di inveramento, soluzioni e linee prospettiche.
2. La partecipazione della buona fede al sistema dei principii generali del law of contract inglese
La storia della good faith quale parte integrante della teoria del contract inglese nonché dei suoi principii generali debutta sotto i più promettenti auspici in virtù di una pronuncia resa nel 1766 nel caso Carter v Boehm[5] da uno dei più noti e lodati Giudici che abbiano operato in quell'ordinamento, Lord Mansfield, di origini scozzesi. Il riferimento anagrafico non è privo di significato poiché ne denuncia ‒ in aderenza alla tradizione culturale dell'ordinamento del Paese di provenienza ‒ la spiccata vicinanza al mondo del civil law continentale e specialmente alle sue radici romanistiche, rendendo del tutto naturale la proclività a dare centrale rilievo alla buona fede in ambito contrattuale. Ed invero, decidendo su una controversia avente ad oggetto la condotta richiesta alle parti di un contratto di assicurazione in termini di disvelamento di circostanze refluenti sul consenso prestato alla conclusione del negozio, il Giudice ritenne che la disputa dovesse trovare governo secondo il canone della buona fede, in quanto applicabile ad ogni tipo di contratti ed accordi negoziali. Egli procedette anche ad una puntuale descrizione del contenuto di quello che veniva enunciato alla stregua di un obbligo di matrice contrattuale, chiarendo che esso proibisce a ciascuna delle parti di nascondere i fatti di cui sia a privata conoscenza onde non indurre l'altra, inconsapevole, ad una stipulazione cui non sarebbe altrimenti giunta, nel senso che l'impulso alla manifestazione del consenso era proprio dato dalla mancata conoscenza delle circostanze artatamente taciutegli[6].
Un così felice esordio, che poneva il common law inglese in stretto connubio con i sistemi continentali, fu bruscamente contraddetto dal pensiero, proiettatosi soprattutto nei repertori giurisprudenziali, affermatosi a partire dalla seconda metà del XIX secolo, ovverosia nel periodo fondativo di una teoria del contract del tutto speculare a dottrine economiche volte a privilegiare l'assoluta libertà di scambio in una pretta logica individualista di perseguimento del profitto e del self-interest. Fu così che iniziarono a svilupparsi, perfezionarsi, consolidarsi, scolpirsi concezioni espulsive della good faith dalla tavola dei principi generali del contract, avvalorate da una serie di molteplici argomenti, nessuno dei quali completamente scomparso perfino dalla odierna scena.
Le maggiori opere trattatistiche sul contract sono solite convenire, forti anche del concorde apporto giurisprudenziale, sull'elenco delle ragioni principali che hanno portato alla consueta affermazione secondo cui “there is no generale doctrine of good faith in the English law of contract”[7], vuoi nella fase prodromica delle trattative, vuoi in quella esecutiva, vuoi, infine, in quella eventualmente modificativa dell'accordo originario. La rassegna degli ostacoli ad un riallineamento dell'esperienza inglese a quella degli ordinamenti continentali permeati dagli insegnamenti romanistici non può che porre al proprio apice un peculiare tratto di quell'ordinamento, in molti casi ingenerosamente enfatizzato a detrimento di una appropriata conoscenza critica del common law inglese, cui per questo è stata non convincentemente negata l'attitudine a nutrirsi di forme di conoscenza tassonomicamente orientate ed alimentate dal ricorso alle categorie mentali del fenomeno giuridico[8]. E tale severa opinione continua ad incontrare larga fortuna fra i giuristi stranieri, incoraggiati anche da talune posizioni inglesi che lambiscono addirittura l'autodenigrazione. Si tratta della diffusa riluttanza della giurisprudenza inglese ad accogliere nel proprio “legal reasoning” metodi argomentativi basati su generalizzazioni concettuali e principii astratti, classe definitoria cui apparterrebbe la buona fede. Può, tuttavia, osservarsi incidentalmente al riguardo che nelle sparute pronunce e nei non rari contributi dottrinali di apertura all'ingresso della good faith nel domain del contract si è sapientemente rifuggito il pericolo grazie ad una fruttuosa concretizzazione dei margini del suo possibile intervento nei vari casi di specie, ad esempio ancorandolo a postulazione di condotte delle parti contrattuali ispirate all'onestà o all'accettabilità nel mondo degli scambi giuridici o, ancora, all'obbiettivo di concorrere a conferire efficacia agli accordi commerciali. Si addebita poi al canone in parola l'alone di incertezza in ordine alla determinazione del preciso contenuto del connesso obbligo che da esso promanerebbe, con nocumento alla chiara circoscrizione dei rapporti tra le parti. Anche a diluizione di questo stigma si è levata alta e limpida l'autorevolissima voce del compianto Lord Bingham[9], campione del pensiero liberal-progressista, che, in una celebre sentenza della Court of Appeal del 1989[10] fece immaginifico ricorso ad esemplificazioni vivide e tratte dalla quotidianità delle relazioni giuridicamente rilevanti per incanalare l'opera dell'interprete verso l'approdo definitorio della good faith in uno specifico ambito contrattuale poi degenerato nella sfera litigiosa. Difficilmente potrebbe pensarsi a prosa più duttile nella costruzione di un benefico ponte tra la pratica dimensione della vita umana e la sua valutazione in sede giudiziale: si esemplificò la natura dello spazio occupato dalla buona fede nella vicenda contrattuale attribuendole l'idoneità a convertirsi in precetti e regole semplici, quali il “fair play” comportamentale, il dovere di mantenere le “mani pulite” (clean hands) nel corso di ciascuna delle frazioni di cui si compone complessivamente il contract, l'esigenza di “giocare a carte scoperte”[11]. L'acume dell'intuizione è testimoniato dal credito costantemente accordatole dalla letteratura giuridica successiva
Ed infine, la sommaria lista dei motivi dell'ostilità (tale essendo stata spesso esplicitamente proclamata) del common law inglese ‒ a differenza di quelli statunitense ed australiano ‒ ad ospitare la buona fede all'interno della teoria generale del contract contempla l'accusa di incompatibilità con la genuina natura del legame che deve reggere i rapporti tra le parti: essa fu molto recisamente delineata nel 1992 dalla House of Lords nel caso Walford v Miles[12], per bocca di Lord Ackner ,da cui provennero parole del peso di macigni per confutare l'ipotesi dell'ingresso della good faith nella traiettoria del contract. Egli affermò con piglio intransigente che l'idea secondo cui le trattative contrattuali debbano ispirarsi al dovere di buona fede intrinsecamente ripugnerebbe alla posizione di antagonismo assunta dalle parti interessate al negoziato[13].
È di innegabile evidenza la frattura tra questa posizione, condivisa da tutti gli altri componenti il collegio della House of Lords, ed il ragionamento arioso e sensibile ad una visione in senso solidaristico del rapporto contrattuale espressa da Lord Bingham: lungi dal provocare un’insuperabile situazione di stallo il conflitto ha animato apprezzabili riflessioni dottrinarie e rinnovate energie giurisprudenziali indirizzate al recupero del dialogo tra common law inglese e civil law.
3. Orientamenti giurisprudenziali e dottrinari inglesi favorevoli al (limitato) riconoscimento del principio di buona fede contrattuale
Di tali contro-tendenziali posizioni va dato un sommario cenno per fugare la falsa impressione che le acque nel canale della Manica siano irrimediabilmente stagnanti, per quanto ancora tutt'altro che inarrestabilmente fluenti.
Due esempi possono utilmente essere esibiti della vitalità tutt'altro che rassegnata di parte della dottrina e della giurisprudenza al destino dell'irreversibile incomunicabilità delle due principali famiglie giuridiche europee in relazione al principio della buona fede contrattuale in ognuno dei profili in cui la vicenda rapportuale è destinata a snodarsi.
Perché, in effetti, alla radice delle concezioni favorevoli ad una tensione incrementale dei principi generali del contract inglese platealmente si scorge il dichiarato proposito ‒ sciaguratamente compromesso dagli esiti referendari del giugno 2016 ‒ di riconsiderare in senso armonioso il tessuto relazionale tra common law e civil law, restituendo fiducia all'idea della imprescindibilità del risultato nella prospettiva della edificazione di una prospera e duratura stagione di Koinè giuridica europea.
Esattamente in questa fervida scia culturale si inserisce il pensiero di una delle più qualificate ed aperte menti giuridiche inglesi, Ewan Mc Kendrick[14], che, coltivando l'ottimismo della volontà, esclude l'esistenza di un abisso incolmabile tra i due sistemi ordinamentali a confronto. Nel denunciare come fattore impediente la radicata avversione del diritto inglese nei confronti dei principii generali, l'Autore considera, d'altro canto, che quell'ordinamento ha sempre intessuto un discorso al quale l'idea della buona fede non è stata sostanzialmente estranea. Su questa scia un altro studioso[15] icasticamente scrive che i fondamenti della buona fede possono scovarsi tra la polvere del common law. In particolare, viene ridimensionata, se non addirittura rigettata, l'impressione che il law of contract inglese sia strutturalmente incapace di recepire, al di là dei vezzi nominalistici, il precipitato sostanziale della figura. Fanno fede di questa disponibilità all'assorbimento del contenuto effettivo del principio di buona fede contrattuale quale predicato negli ordinamenti continentali numerosi esempi di tipi contrattuali ai quali in modo naturale e pressoché meccanico corrisponde il crisma della loro disciplina secondo il canone della buona fede oggettiva. Ed infatti, sono note ed indiscusse figure contrattuali la cui conformazione è sempre stata concepita in funzione di indissolubile nesso con i contenuti essenziali della buona fede, tra i quali indubbiamente spicca il sostrato fiduciario che costituisce la linfa del solidissimo paradigma dei contratti “uberrimae fidei”, normalmente riferibili ai rapporti assicurativi, come la risalente pronuncia di Lord Mansfield decisivamente conferma.
Ora, queste osservazioni suggeriscono la conclusione che il principio di buona fede debba proseguire il proprio cammino orientato al rafforzamento delle proprie basi in termini sia giuridici sia etici. Lungo questo speranzoso itinerario si innesta il pensiero di altro autorevole teorico, Hugh Collins[16], che esprime la convinzione, ovviamente spalmata nel non breve periodo, che il common law inglese alla fine debba essere costretto a cedere ad una concezione ideale maggiormente connotata in senso europeo, quale quella, emergente dalla direttiva comunitaria 93/13 in maniera pressoché letterale trasposta in quell'ordinamento[17] e dall'Unfair Contract Terms Act inglese del 1977, diretta all'equo bilanciamento dei rapporti tra consumatori e professionisti, altro terreno di elezione in vista della piena esplicazione delle robuste potenzialità della good faith contrattuale.
Vagiti giurisprudenziali, che pure si è tentato di soffocare rudemente da parte dei gradi superiori di giurisdizione, vanno recentemente e con soddisfazione registrati, anche in ragione del prestigio del Giudice da cui provengono, nel frattempo promosso al rango di componente effettivo della United Kingdom Supreme Court, nelle prime istanze giudiziarie.
Va, infatti, ricordata con il dovuto apprezzamento la sentenza pronunciata nel 2013 dall'oggi Lord Leggatt, che allora sedeva nella High Court (dalla quale fu elevato “per saltum” al grado finale di giurisdizione britannica), nel caso Yam Seng v International Trade Corporation Ltd[18]. In essa furono esaminati da un angolo visuale particolarmente affilato alcune delle maggiori questioni attorno alle quali si dipana il dibattito concernente la buona fede contrattuale.
Nella fattispecie, l'oggetto della lite consisteva nella domanda tendente alla dichiarazione della sussistenza di un inadempimento legittimante la risoluzione di un contratto di distribuzione di prodotti di profumeria ed al risarcimento del danno: al fine della qualificazione delle circostanze dedotte quali indici dell'inadempimento stesso il Giudice adottò un criterio improntato al principio di buona fede oggettiva nel senso continentale di correttezza e lealtà comportamentale. La sentenza rivela la profonda consapevolezza di una persistente contrarietà del mainstream culturale inglese alla introiezione di un siffatto principio generale ed integra l'appena esposto impianto argomentativo dottrinario, del tutto condiviso, con due ulteriori, realistiche precisazioni. La prima si concentra sulla preferenza abitualmente accordata dalla giurisprudenza inglese a soluzioni meglio rispondenti alle necessità del caso concreto indipendentemente dal loro possibile inquadramento dogmatico: il che equivale a dar forza al concetto espresso da Mc Endrick circa una strisciante, seppur non dichiarata, presenza del principio di buona fede nelle pieghe del sistema e soprattutto nella prassi, almeno ogni volta che la sua affermazione serva la causa della giustizia del caso concreto da decidere. Il successivo passaggio analitico della pronuncia di Lord Leggatt punteggia con brillante sguardo di introspezione psicologico il problema. Esso allude ad un intimo contrassegno del contract inglese e delle aspettative che su di esso convergono ad opera delle parti per poi essere valorizzate in sede giudiziale: esplicitamente si parla dell'etica individualistica, che presiede agli scambi commerciali realizzati attraverso il veicolo contrattuale, fortemente sostenuta ed approvata dalla giurisprudenza che reiteratamente nel tempo mira alla preservazione degli accordi raggiunti per il soddisfacimento degli interessi individuali delle parti, con la sola eccezione ‒ che di per sé esclude la rilevanza del criterio della buona fede sia al momento della conclusione sia in quello dell'esecuzione del vincolo ‒ delle ipotesi di mancata osservanza, obiettivamente verificabile, delle clausole obbligatorie. In questo articolato e lucidamente illustrato contesto la sentenza si accosta con risolutezza ed evidente empito solidaristico al tema razionalmente collegato al mancato riconoscimento di un principio generale di buona fede contrattuale: la strada prescelta per colmare una lacuna giudicata inconciliabile con una veduta evoluta ed al passo con le altre esperienze giuridiche europee implicitamente circolanti nel testo è stata quella di scardinare la contraria blindatura concettuale con l'utilizzazione del prezioso meccanismo, già ricordato, dell'integrazione del contenuto mediante l'apposizione di patti impliciti (implied terms) nella misura e secondo la latitudine suggerite dalle particolarità del singolo caso. A ben vedere è stata data piena conferma, ospitandola nel corpo motivazionale della sentenza, all'arguta osservazione di Lord Bingham che, nel generoso tentativo di ammortizzare i perniciosi effetti di un inveterato atteggiamento negativo rispetto al principio generale di buona fede, poneva nel debito (e consolatorio) rilievo la sperimentata capacità del diritto inglese dei contratti di supplire a tale endemica carenza percorrendo la soluzione di statuirne la silenziosa, per quanto frammentaria, presenza laddove si fosse di fronte a dimostrate situazioni di sostanziale iniquità negoziale (ad esempio facendo leva sul criterio di ragionevolezza, come appropriatamente notato in linea generale da un nostro illuminato comparatista[19]), malgrado il ripudio del superiore principio che esige che le parti contrattuali debbano in ogni fase agire in buona fede[20]. Di fronte al prolungato inceppamento dello strumento della generosità mentale e dell'apertura al modello dell'Europa continentale la High Court si è spinta al passo di affermare che la presenza della buona fede ben può essere oggetto di ricognizione giudiziale in preciso rapporto al contesto negoziale ed agli effetti che ne discendono: contesto che deve indurre l'interprete a pretendere dalle parti un contegno onesto, in primo luogo palesato dalla ripulsa di qualunque forma di condotte astutamente decettive in danno dell'altra parte, quali il calcolato silenzio serbato relativamente a circostanze rilevanti, la mancata dolosa rivelazione di informazioni essenziali, con speciale riguardo alla categoria di contratti con originalità ‒ almeno per il common law inglese ‒ appellati “relational” come tributo alla loro intrinseca natura fiduciaria. La svolta concettuale impressa da Lord Leggatt ha comportato la redazione di un importante codicillo che la completa, donandole una anche maggior perspicuità: si dice, infatti, che il dovere comportamentale commisurabile al parametro della buona fede imposto alle parti contrattuali va ragguagliato al comune programma negoziale, cui non è, pertanto, consentito attentare adibendo la via obliqua di condotte arbitrarie, capricciose, irragionevoli, in una parola irrazionali.
In questa sede è necessariamente postulato un doveroso tributo all'aria nuova che si respira e circonda la good faith, finalmente affrancata dalle strettoie dell'egoismo contrattuale, che l'avevano relegata all’angolo, e liberata verso un orizzonte prossimo ai valori della leale collaborazione anche nella sfera delle relazioni interindividuali: così, peraltro, raggiungendo un altro commendevole traguardo, quello dell'ingegnerizzazione di nuovi tramiti di collegamento tra common law e civil law, di sicuro foriera di stabilità e prevedibilità nei traffici internazionali.
La nota dolente, ma non tanto da dover provocare sentimenti di sfiducia nell'affermazione di un moderno progetto di ripensamento dello strumento contrattuale in chiave di reciproco rispetto tra le parti, che va trascritta in questa sede è data dalla pronuncia adottata dalla Court of Appeal nel 2016 (annus horribilis, come prima detto) nel caso MSC Mediterranean Shipping Company v. Cottonex Anstalt[21]. Particolarmente acuminati e polemici sono stati gli aculei gettati nella propria opinione, ed evidentemente scagliati alla volta di Lord Leggatt (non ancora asceso alla Supreme Court: il che può fornire un'eloquente spiegazione della durezza verbale) dal Giudice Moore Bick, cui si sono associati gli altri due componenti il Collegio, nella propria opinione. Questa, infatti, non ha esitato ad additare i pericoli insiti nel riconoscimento di un principio generale di buona fede che, ove invocato, potrebbe alternativamente essere utilizzato dalle parti con l'obiettivo di indebolire l'impianto contrattuale o di proporne un'interpretazione corriva per piegarlo ai propri interessi. Pericoli definiti non dissimili da quelli generati da una concezione troppo liberale (e qui il riferimento critico alla posizione di Lord Leggatt è trasparente) dell'ermeneutica contrattuale condotta all'insegna dell'integrazione del contenuto delle clausole che sarebbe stata severamente respinta dalla Supreme Court nel caso Arnold v Britton del 2015[22], che però registrò una fiera opinione dissenziente di Lord Carnwath[23].
Anche la recentissima, già citata, sentenza della Supreme Court (in una composizione che non comprendeva Lord Leggatt) nel caso Pakistan International Corporation v Times Travel[24] non lascia trasparire sostanziali modifiche della posizione appena riportata della Court of Appeal nel 2016. Tuttavia, un non trascurabile spiraglio non va ignorato nell'opinione di Lord Burrows, l'unico dei Giudici supremi di accreditatissima provenienza accademica. Egli, infatti, pur dichiarando di temere l'ingresso nel law of contract di un principio di buona fede ancorato al criterio dell'accettabilità nel mondo del commercio o della irragionevolezza delle condotte delle parti, ha ritenuto che le circostanze del caso concreto, di fronte alle quali era stata prospettata la possibile fruizione del canone di cui si discute, potessero trovare un'adeguata e soddisfacente risposta mediante l'applicazione delle regole proprie di altro istituto (quello della violenza economica o “economic duress”) quale efficace antidoto alla lamentata condotta prevaricatrice di una delle parti, così in pratica riproponendo il brillante metodo argomentativo di Lord Bingham che pone al centro della scena il bisogno di non lasciare prive di tutela rimediale le posizioni delle parti reputate meritevoli.
4. Brevi considerazioni conclusive e riassuntive
L'esposizione che precede indirizza verso un discreto numero di considerazioni a cerchi concentrici di differente diametro, dei quali si dà adesso in energica sintesi conto.
Va, innanzitutto, ribadita perché assodata e resistente nel tempo la configurazione del diritto contrattuale inglese come ruotante attorno ad un nucleo agevolmente percettibile di principii e regole di generale applicazione, solo derogabili o integrabili a cagione di situazioni di speciale e contingente natura, di estensione tale, comunque, da non dar vita ad un autonomo corpo normativo o giurisprudenziale. Da qui sorge l'opportuno mantenimento di una declinazione al singolare della branca del diritto privato inglese in questione, cui va accreditato uno statuto ben strutturato e di sicura e vasta applicazione che non richiede la parallela formazione di uno “special law of contract(s)”. Destino, questo, che diversifica in maniera sensibile la disciplina del contract da quella, pluralistica e differenziata, dei torts e del loro apparato dogmatico e pratico.
Del tutto rientrante nei confini tematici dei principi generali del law of contract inglese risulta, pertanto, l'indagine vertente sulla plausibilità dell'idea di ricondurvi una nozione, quale quella di buona fede, che reca l'indelebile marchio della risalenza storica agli ordinamenti di matrice romanistica. Sostanzialmente univoci sono i risultati, conseguiti anche sulla piattaforma della frequenza statistica, della ricerca, riassumibili nella trita proposizione ricavabile dal common law latamente inteso che stentoreamente rigetta l'esistenza di un generale principio di buona fede ascrivibile al law of contract. Di eguale, ripetitiva regolarità appaiono le ragioni addotte per giustificare quella che a buon titolo, desumibile dalla comparazione con gli ordinamenti di civil law europeo, può definirsi una posizione eccentrica. Se si volesse approdare ad una formula risolutiva ben si presterebbe quella che si impernia sulla strenua difesa che l'ordinamento inglese intende spendere, a causa della reiezione del “good faith principle”, al più augusto degli architravi del contract, quello che ne preserva la “sanctity”, nella accreditata accezione di santuario dell'autonomia negoziale privata inviolabile da incursioni esterne che siano intese ad una destrutturazione o anche ad una ristrutturazione indebita del suo contenuto. E tra i fattori potenzialmente nocivi per la tenuta del fortilizio viene costantemente annoverata la buona fede, cui viene conferito il temibile attributo della rimodellabilità in senso imprevedibile ed imponderabile del suo tessuto testuale. Corredano questa generica fobia ragioni minori ed ancillari, seppur dissimulate come di pari forza, rappresentate quali ulteriori baluardi per la salvaguardia dell'intangibile volontà delle parti. Questa sarebbe messa a repentaglio dalla vacuità delle implicazioni che potrebbero trarre origine dall'affermazione del canone della buona fede. Su questa linea da oltre un secolo e mezzo la giurisprudenza inglese, che ha potentemente condizionato buona parte del pensiero dottrinario, dimentica dei contrari precedenti dell'ultimo quartile del 1700, si è attestata in modo intransigente e chiuso.
Tuttavia, crescenti raggi solari, favoriti dall'influsso dell'“exemplum” europeo vanno vantaggiosamente infiltrandosi nelle maglie finora ritenute impenetrabili dell'ostinato rifiuto di asilo alla osteggiata esule dal “legal discourse” inglese. La potenza di questa luce non va calcolata nel breve periodo ‒ come senza riserve ammettono gli stessi fautori di questo processo rinnovatore ‒ ma va auspicabilmente proiettata nel futuro in ragione della persuasività degli argomenti che la suffragano. Questi si distinguono non solo per la loro naturale inerenza alla promozione della dimensione extra-individuale del mezzo contrattuale e per la conseguente aderenza ad un progetto negoziale attento alla protezione di valori di fatto racchiusi nel corpo vivo della costituzione materiale inglese. Tali argomenti possiedono un pregio ancor più avvolgente ed edificante, tanto più apprezzabile nell'amaro tempo presente di disgregazione dell'unità istituzionale europea seguita alla fuoriuscita del Regno Unito dall'Unione Europe con conseguenze globali allo stato difficilmente computabili. Resta, infatti, tuttora spianata e percorribile la strada del ravvicinamento giuridico, che la graduale recezione del principio di buona fede contrattuale nel common law inglese (coraggiosamente avallata anche da esemplari figure di Giudici e dalle loro indimenticabili opinioni individuali) certamente renderebbe più pervia e luminosa: direzione ormai da tempo e con sicurezza imboccata dagli ordinamenti statunitense ed australiano che non mostrano affatto segni di ravvedimento, premendo, al contrario, molto insistentemente sul confratello inglese perché salutarmente li emuli[25].
*Il testo costituisce la rielaborazione della relazione tenuta all’Accademia dei Lincei il 29 novembre nel corso dell’incontro di studio "Il contratto o i contratti", organizzato dalla SSM.
[1] J. Cartwright, Contract Law. An introduction to the English law of contract for the civil lawyer, London, 2016, p. 57 ss.
[2] P. Winfield, The province of the law of tort, Cambridge, 1931.
[3] Winfield & Jolowicz on Tort (20th ed), edited by James Goudkamp, Donal Nolan, UK, 2020.
[4] [1932] AC 562.
[5] [1766] S.C. 1 Bl. 593.
[6] “Good faith forbids either party by concealing what he privately knows, to draw the other into a bargain, from his ignorance of that fact, and his believing the contrary”.
[7] La suddetta affermazione è presente anche nel caso Times Travel, deciso dalla Supreme Court il 18 agosto 2021, su cui ci si soffermerà in seguito (infra, par. 3).
[8] M. Serio, Il ricorso alle legal categories nell'esperienza del diritto privato inglese, in Europa e diritto privato, 2010, pag. 511 ss.
[9] Autore di The rule of law (London, 2008) autentico manifesto della democrazia liberale inglese e della sua epifania giudiziale.
[10] Interfoto Picture Library Ltd v Stiletto Visual Programmes Ltd [1989] QB 433 (CA) 439.
[11] “Putting one's cards face upwards on the table”.
[12] [1992] 2 AC 128.
[13] “The concept of a duty to carry on negotiations in good faith is inherently repugnant to the adversarial position of the parties when involved in negotiations”.
[14] E. Mc Kendrick, Good faith: a matter of principle, in Good faith in contract and property, a cura di A.D.M. Forte, Oxford, 1999, p. 39 ss.
[15] M. Clarke, The common law of contract in 1993: is there a general doctrine of good faith?, in Hong Kong Law Journal, 1993, p. 318.
[16] H. Collins, Good faith in European contract law, in Oxford Journal of legal studies, 1994, p. 229 ss., ed in particolare p. 254.
[17] Il riferimento è alle Unfair Terms in Consumer Regulations del 1999 (SI 1999/2083).
[18] [2013] EWHC 111 (QB).
[19] G. Criscuoli, Buona fede e ragionevolezza, in Riv.dir.civ., 1984, p. 709 ss., ed in particolare, p. 721 ss.
[20] “English law has not committed itself to the overriding principle that in making and carrying out contracts parties should act in good faith: it has developed piecemeal solutions in response to demonstrated problems of fairness”.
[21] [2016] EWCA Civ 789.
[22] [2015] UKSC 36.
[23] Queste le parole del Giudice Moore Bick: “There is a real danger that if a principle of good faith were established it would be invoked as often to undermine as to support the terms in which the parties have reached agreement”.
[24] [2021] UKSC 40.
[25] Si vedano, per il diritto statunitense, C. Perry (Good faith in English and US contract law: divergent theories, practical similarities, in Business Law International, 2016, p. 27 ss.) e, per il diritto australiano, L. E. Trakman, K. Sharma (The binding force of agreement to negotiate in good faith, in The Cambridge Law Journal, 2014, p. 598 ss.).
Ipotesi di modelli per progettare l’Ufficio per il Processo. Narrazione di un percorso condiviso ed elaborazione di una prima check list sperimentale di Mariano Sciacca*
A dibattito dottrinale aperto, è possibile sviluppare alcune ipotesi metodologiche circa la progettazione dell’Ufficio del Processo, così come previsto dal P.N.R.R..
L’occasione è data dalla ricostruzione del percorso di analisi organizzativa sperimentato presso una sezione del tribunale di Catania, sfociato nell’elaborazione di una checklist di modellizzazione organizzativa per l’Ufficio per il processo locale.
Sommario: 1. La lunga marcia dall’UPP a costo zero sino all’UPP\PNRR a motore europeo. 2. La progettazione dell’UPP presso la quarta sezione civile, imprese e fallimentare del Tribunale di Catania. Le riunioni ex art. 47-quater O.G. e il workshop di esplosione delle criticità, dei contenuti e delle proposte. 3. Gli obiettivi del workshop. 4. L’analisi strategica delle attività individuate. 5. Una prima checklist delle azioni per lo sviluppo del modello organizzativo sezionale.
1. La lunga marcia dall’UPP a costo zero sino all’UPP\PNRR a motore europeo.
Comprendere la lunga marcia intrapresa - dall’Ufficio per il processo a costo zero sino all’UPP\PNRR a motore europeo – impone un richiamo agli obiettivi di fondo che, sin dalle origini del dibattito, hanno scandito il confronto tra gli esperti di settore: potenziare le capacità di azione dei magistrati costruendo con loro strumenti a supporto delle loro attività (gestione del ruolo, gestione del fascicolo, processo di decisione, aggiornamento e studio), riqualificare il lavoro dei cancellieri e costruire unità operative di base sinergiche.
Le idee forti a sostegno del progetto UPP sono state individuate in estrema sintesi: azione sul piano organizzativo e istituzionale dei mezzi e delle strutture, anziché su quello della permanente riforma dei riti; centralità del ruolo del dirigente e della pianificazione gestionale; valorizzazione delle best practices nell’ottica del caseflow management dirette ad eliminare operazioni ridondanti; semplificazione delle procedure, razionalizzazione dei flussi documentali; riqualificazione delle culture professionali esistenti e inserimento di nuove professionalità (organizzative, informatiche e statistiche).
Centrale nella riflessione organizzativa è stata la fissazione di alcuni obiettivi strumentali: specializzazione per aree funzionali (assistenza all'udienza; relazioni pubblico – u.r.p. fisico e sito internet); ricerche dottrinali e giurisprudenziali; rapporti con i consulenti tecnici; predisposizione minute provvedimenti istruttori/decisori; adempimenti volontaria giurisdizione e adempimenti amministrativi; statistica); semplificazione delle attività (individuazione delle attività meramente formali, inutili e ridondanti; revisione delle procedure di gestione, spostando l’onere delle attività in questione ad altre articolazioni dello Stato o a privati; abbandono di prassi regolamentari locali non più richieste dalla normativa; informatizzazione integrale dei dati, delle procedure e dei relativi flussi, garantendo l’accessibilità alle informazioni ed ai servizi via intranet e via internet, realizzando una piena interoperabilità fra amministrazioni centrali e periferiche dello stato e garantendo interscambi documentali con pubbliche amministrazioni nazionali e locali, nonché con enti privati); riorganizzazione e riqualificazione dei ruoli professionali, superando il dilettantismo e valorizzando la dimensione organizzativa della “delega”.
Il dibattito che ne è seguito si è caratterizzato per una pluralità di dimensioni che vanno necessariamente segnalate: il valore in sé del dialogo interprofessionale per la definizione di soluzioni condivise rispetto ad una autoreferenziale visione corporativa e settoriale, l’ineludibilità di risposte sistemiche a fronte di interventi circoscritti alla risoluzione di microcriticità; il dilemma, ancora oggi irrisolto, dello stile gestionale degli uffici giudiziari, compresso e stressato tra un approccio istituzionale e un’impronta più prettamente manageriale[1].
2. La progettazione dell’UPP presso la quarta sezione civile, imprese e fallimentare del Tribunale di Catania. Le riunioni ex art. 47-quater O.G. e il workshop di esplosione delle criticità, dei contenuti e delle proposte.
La natura flessibile dell’UPP impone una modellizzazione specifica a seconda dell’ufficio\sezione, del contenzioso da definire e del contesto organizzativo concreto.
Tutto ciò impone uno sforzo di ideazione e modellizzazione degli UPP, anche nei casi in cui essi sono già attivi, in modo da:
Alla luce di questo quadro generale, si è inaugurato un percorso di progettazione organizzativa.
Si è avviato un percorso di autoanalisi (compiuto in vista dell’assegnazione dei nuovi funzionari UPP agli uffici giudiziari, previsto per i primi mesi 2022) in un’ottica sperimentale e incrementale presso la quarta sezione civile e fallimentare del Tribunale di Catania.
In fase di avvio si sono, quindi, organizzate riunioni ai sensi dell’art. 47-quater O.G.[2] tra i magistrati con la partecipazione di analisti di organizzazione di FormezPA nell’ambito di un progetto gestito dalla Regione Sicilia e finanziato dalla Fondo sociale europeo. Analisi che si è avviata con un workshop di ideazione e progettazione sul tema UPP.
Complessivamente, l’obiettivo ultimo del percorso è stato quello di definire un modello di UPP funzionale alle esigenze della Sezione.
Il 14 e il 19 luglio 2021 i consulenti hanno partecipato come osservatori alle riunioni art. 47-quater O.G. dei magistrati, rispettivamente dell’area civile e dell’area fallimentare della Sezione, successivamente progettando un workshop di ideazione sul tema UPP che si è tenuto il 20 luglio.
I lavori sono ancora in corso in vista dell’elaborazione del progetto organizzativo da sottoporre alla Presidenza del Tribunale.
Il workshop è stato un momento di lavoro fattivo e collaborativo tra tutti i magistrati della Sezione. Rispetto ad una normale riunione, dove il ragionamento viene espresso principalmente verbalmente e discutendo, un workshop deve enfatizzare alcuni aspetti particolari:
-sviluppare idee in modo sintetico
-anticipare e smorzare vincoli e limitazioni al ragionamento
-favorire idee innovative
-offrire spazio a tutti i partecipanti in modo uniforme evitando personalismi
Per rendere possibile questa modalità di lavoro da remoto, i consulenti hanno strutturato un workshop sulla piattaforma online Miro (www.miro.com), ovvero una piattaforma gratuita che offre uno spazio collaborativo senza limiti e tanti strumenti per lavorare e strutturare idee.
La scelta dello strumento è stata definita anche con finalità formative, dato che Miro può essere efficacemente utilizzato dai magistrati anche in altre occasioni, per il lavoro individuale o di gruppo, e nessuno dei giudici della Sezione conosceva lo strumento.
I consulenti hanno preconfezionato in una pagina Miro dedicata tutto il percorso di analisi e ideazione che si intendeva affrontare nel workshop. Alcuni schemi di ragionamento sono stati precompilati in base ai contenuti già emersi nelle riunioni di Sezione dei giorni precedenti.
Gli schemi e i grafici sono stati strutturati in modo da mettere in evidenza in modo differenziato i contributi per le due aree in cui sono divisi i magistrati della Sezione: civile e fallimentare.
3. Gli obiettivi del workshop.
Il workshop è stato ideato per raccogliere il maggiore numero di informazioni e dettagli, stimolando la discussione tra i partecipanti.
Complessivamente, l’obiettivo ultimo del percorso è quello di definire di un modello di UPP ideale per le esigenze della Sezione con il contributo di tutti i magistrati.
Si tratta di un obiettivo ambizioso in particolare per la presenza di due limiti di diversa natura. Il primo è la preesistenza di un UPP, che comporta naturalmente una tendenza a ricondurre il ragionamento verso forme di coordinamento e supporto già sperimentate. Il secondo è dato dai limiti normativi e dal dettato del PNRR: il supporto delle nuove unità di personale sembra dover essere ancorata alla riduzione dell’arretrato in modo da definire; non è sicuro che le risorse aggiuntive saranno destinate anche al settore fallimentare.
4. L’analisi strategica delle attività individuate.
A valle del primo quadro di attività del modello di UPP generato nel workshop, si è proceduto ad una analisi con l’obiettivo di definire quali aree di intervento sono ritenute più strategiche.
A tal fine si sono svolte due votazioni tra tutti gli elementi emersi su due direttrici: l’impatto positivo dell’attività sul lavoro dei giudici complessivamente inteso e lo sforzo necessario per raggiungere quell’impatto.
I risultati sono stati raccolti in un piano cartesiano disegnato dalle due variabili.
In esito stati elaborati degli output in termini di obiettivi, comportamenti, struttura organizzativa da assumere e strumenti di cui dotarsi in relazione alla nuova modalità di lavoro in staff di supporto alla giurisdizione.
5. Una prima checklist delle azioni per lo sviluppo del modello organizzativo sezionale.
Alla data del presente intervento si è sviluppata in una logica incrementale una prima sintesi metodologica del percorso intrapreso in questo periodo di sperimentazione progettuale permanente, sintetizzata nel documento di seguito richiamato realizzato dall’Ufficio innovazione e sviluppo organizzativo (U.I.S.O.), costituito in base ad una convenzione tra la Corte di appello e il Tribunale di Catania.
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Ufficio innovazione e sviluppo organizzativo
Oggetto: attuazione PNRR - progettazione ufficio per il processo - checklist sviluppo modello organizzativo sezione.
La IV Sezione Civile e fallimentare del Tribunale di Catania si confronta da luglio con un percorso di analisi e modellizzazione, svolto con l’utilizzo di metodologie composite e partecipative, con l’obiettivo di migliorare il supporto offerto al lavoro dei magistrati e sfruttare nel miglior modo possibile gli addetti ausiliari che nei prossimi mesi verranno messi a disposizione degli Uffici.
Sperando sia iniziativa utile, in conformità alle finalità istituzionali dell’Ufficio innovazione e sviluppo organizzativo – creato in esito alla stipula di una convenzione tra la Corte di appello e il Tribunale di Catania - viene proposto sulla base di questa esperienza, ancora in corso, uno schema metodologico indicativo, pensato per orientare facilitare le attività delle altre sezioni del Tribunale e del distretto.
Al percorso di analisi hanno preso parte tutti i giudici della quarta sezione civile, imprese e fallimentare, nonché gli analisti di organizzazione di FormezPA Simone Rossi, Giulio Michetti e Favorita Barra che hanno supportato l’ufficio nell’ambito del progetto di “CAPACITAZIONE ISTITUZIONALE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI” su regia della Regione Sicilia grazie ai finanziamenti del Fondo sociale Europeo (FSE): a tutti loro va un ringraziamento espresso per la disponibilità mostrata.
Lo schema – da considerarsi sperimentale e da utilizzarsi in un’ottica incrementale – divide le attività in tre macro-fasi: attività propedeutiche, modellizzazione, gestione.
Per ogni macro-fase sono descritte categorie di attività e attività di dettaglio.
Per ogni categoria di attività sono esplicitati gli output, intesi come i principali risultati utili per lo sviluppo del percorso nel suo insieme (l’analisi ha avuto riguardo in modo specifico il target iniziale di smaltimento dell’arretrato civile).
FASE 1: ATTIVITÀ PROPEDEUTICHE
La prima fase si concentra sui prerequisiti necessari per la creazione di un modello efficace e tarato sulle specifiche esigenze della Sezione, valorizzando le esperienze già in corso e il vissuto dei magistrati, elaborando un quadro informativo completo dell’assetto organizzativo nello status quo.
1. I presupposti per l’azione
1.1 Definire un obiettivo condiviso di medio periodo sfidante
1.2 Creare team di sviluppo
1.3 Comunicare l’urgenza e l’importanza della sfida in atto
output:
- uscire dalle logiche quotidiane e visualizzare un obiettivo ambizioso
- individuare primi temi critici da affrontare
2. Analisi delle esperienze e delle attività dell'UPP o, in mancanza dell'UPP, dei giudici onorari e/o dei tirocinanti impiegati
2.1 Definire i benefici attuali delle attività svolte dall’UPP o da altre figure ausiliarie del magistrato
2.2 Definire limiti, punti deboli e criticità delle attuali attività di supporto
2.3 Definire le “lezioni apprese”: cosa deve essere mantenuto e cosa deve essere cambiato dell'attuale approccio alle figure di supporto dei magistrati
2.4 Definire i gap delle attuali attività rispetto alle principali esigenze dei magistrati (valutare i gap in senso generale, per esempio anche rispetto ai flussi informativi con la cancelleria)
output:
- Analisi critica delle attuali prassi di gestione delle figure ausiliarie
- Emersione di criticità informative, organizzative e di coordinamento
FASE 2: MODELLIZZAZIONE
L’obiettivo della seconda fase è definire una serie di ipotesi di sviluppo in un ragionamento basato sulle evidenze e sui dati concreti. Nel concreto, nella seconda fase bisogna rispondere analiticamente a diverse domande che presuppongono scenari alternativi:
quali sono gli ambiti di attività che possono produrre i maggiori benefici?
quali sono le materie e i procedimenti su cui la Sezione riscontra i maggiori problemi?
è preferibile che gli addetti svolgano attività di supporto al singolo giudice o su più ruoli?
che obiettivi possono essere stabiliti a livello statistico nel medio periodo?
1.Creare scenari operativi
1.1 Elencare le attività ipotetiche dell'UPP, senza limitarsi a quelle già attive o più elementari
1.2 Esplicitare la connessione tra le ipotesi, i gap e gli obiettivi di lungo periodo
1.3 Valutare strategicamente le ipotesi individuate, per esempio ordinandole in base a due dimensioni (impatto e sforzo necessario)
output:
- Individuare gli ambiti prioritari
2 Analisi quantitativa delle estrazioni statistiche
Estrazioni disponibili tramite pacchetto ispettori su pendenze complessive e definizioni, da filtrare ed elaborare con tabelle pivot.
2.1 Valutare le pendenze complessive della Sezione, disaggregandole per ruolo, materia e oggetto
2.2 Valutare il peso delle pendenze, disaggregandole per anzianità di ruolo, rito e materia\oggetto
2.3 Valutare il peso e la distribuzione di specifiche materie e oggetti che possono essere oggetto di un'azione specifica
2.4 Analizzare le modalità definitorie utilizzate e le tempistiche medie di definizione disaggregate per ruolo, materia e oggetto
output:
-Dare alle ipotesi una maggiore profondità
-Analizzare con maggiore dettaglio lo stato delle pendenze della sezione
3. Analisi statistica prospettica
3.1 Stimare in modo ragionato e prudente il contributo fattivo che potranno prestare gli addetti
3.2 Ipotizzare l’aumento di produttività dei magistrati interessati dalle attività
3.3 Stimare gli obiettivi fattibili in base all’aumento di produttività ipotizzato
3.4Elaborare di un piano di raggiungimento degli obiettivi sul breve e medio periodo
output:
- Valutazione quantitativa degli obiettivi complessivamente raggiungibili e degli obiettivi intermedi da monitorare
- Determinazioni conseguenti sulla riorganizzazione dei ruoli dei giudici,
- valutando la costituzione di gruppi di funzionari PNRR (ambito giuridico) per singoli aree operative\specifici obiettivi e conseguenti decisioni di riorganizzazione dei ruoli dei giudici togati (con conseguente variazione tabellare): segnatamente costituzione di repertorio giurisprudenziale di sezione, analisi e smistamento nuove iscrizioni, studio e definizione dei giudizi per aree omogenee (per materia\rito\anzianità di ruolo)
FASE 3: ORGANIZZAZIONE E GESTIONE
Nella terza fase bisogna ricondurre l’analisi e le ipotesi alla struttura concreta e al contesto organizzativo, non sottovalutando le modalità con cui gli addetti dovranno coordinarsi con la Sezione e il ruolo di tutti i magistrati nello sviluppo del nuovo modello.
Nel concreto, nella terza fase bisogna rispondere a diverse domande:
Che ruolo avranno i magistrati nella gestione del nuovo modello? Che ruolo avranno le cancellerie?
Come verranno accolti ed addestrati i nuovi addetti? Come e dove lavoreranno i nuovi addetti?
Come e quando verrà effettuato un monitoraggio dei risultati del modello? Che strumenti useremo per rimodularne le attività?
1. Implementazione organizzativa dei prototipi organizzativi
1.1 Avviare confronto con gli stakeholders
1.2 Strutturare deleghe e responsabilità dei magistrati nello sviluppo e nel monitoraggio del nuovo modello organizzativo
1.3 Strutturare le modalità di coordinamento con gli addetti
1.4 Strutturare un percorso di formazione specifica e di affiancamento degli addetti, strutturare un kit formativo e informativo di benvenuto
1.5 Strutturare i supporti metodologici e informativi per le attività degli addetti (moduli, schemi, checklist, modelli, etc.)
1.6 Verificare la fornitura della strumentazione tecnologica e settaggio consolle magistrato\assistente
1.7 Rimodulare il ruolo e le attività dei giudici onorari e dei tirocinanti per evitare sovrapposizioni e valorizzare le rispettive competenze
1.8 Analisi dei CV degli addetti per determinare la migliore destinazione e tarare il percorso di formazione e affiancamento
output:
-Intervenire su tutti gli elementi in grado di facilitare l'inserimento dei nuovi addetti
-Adeguare il sistema organizzativo
2.Gestione dell'implementazione
2.1 Monitoraggio statistico degli obiettivi intermedi (elaborazione di un cruscotto gestionale, modello programma di gestione art. 37)
2.2 Confronto e verifica interna alla Sezione rispetto ai prototipi organizzativi sviluppati
2.3 Rimodulazione progressiva delle attività e valutazione di nuove attività da sviluppare
2.4 Confronto con gli addetti per valutare soddisfazione, proposte e criticità
output:
-Verificare la tenuta degli obiettivi individuati
-Adeguare le attività in base agli impatti osservati e alle nuove necessità
* Presidente della sezione specializzata diritto d’impresa e fallimentare del Tribunale di Catania, è coordinatore dell’Ufficio innovazione e sviluppo organizzativo (UISO), costituito su convenzione tra Corte d’appello e Tribunale di Catania, nonché referente degli uffici giudiziari catanesi per il progetto della Regione Sicilia di “Capacitazione istituzionale degli uffici giudiziari”, finanziato dal Fondo sociale Europeo.
Da componente del CSM tra il 2010 e il 2014 ha anche presieduto il tavolo paritetico col Ministero della Giustizia in tema di organizzazione giudiziaria, digitalizzazione, organici, best practices, modello CAF.
E’ autore di articoli e pubblicazioni in materia organizzativa e informatica.
[1] S. ZAN, Fascicoli e Tribunali: il processo civile in una prospettiva organizzativa, Bologna, 2003, 10 s., nel richiamare l’esperienza del laboratorio bolognese per la sperimentazione del Processo Civile Telematico, rileva come il merito del gruppo vada individuato nella «consapevolezza che solo l’interazione tra i saperi e le culture diverse di tipo giuridico, processuale, informatico e organizzativo può pensare di affrontare il tema del cambiamento della giustizia civile con qualche speranza di successo, laddove è storicamente evidente che interventi parziali e monodisciplinari hanno sistematicamente fallito».
[2] L’art. 47-quater, ord. giud., sulle attribuzioni del presidente di sezione recita «Il presidente di sezione, oltre a svolgere il lavoro giudiziario, dirige la sezione cui è assegnato e, in particolare, sorveglia l'andamento dei servizi di cancelleria ed ausiliari, distribuisce il lavoro tra i giudici e vigila sulla loro attività, curando anche lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all'interno della sezione. Collabora, altresì, con il presidente del tribunale nell'attività di direzione dell'ufficio».
In ricordo di Beniamino Caravita di Toritto
di Elisabetta Catelani
Troppo presto se ne è andato Beniamino Caravita di Toritto ed ha lasciato un grande vuoto negli allievi, studenti, amici, nei tanti colleghi che lo stimavano e che apprezzavano per le sue doti di disponibilità, curiosità, per l’intelligenza frizzante, veloce nel centrare ed analizzare un problema, per l’apertura al dialogo, anche con coloro che partivano da posizioni molto diverse dalle Sue, ma sempre alla ricerca di un punto d’incontro, là dove era possibile.
Era Professore di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Roma “La Sapienza”, noto non solo in ambiente Accademico grazie alle sue doti di costituzionalista poliedrico, ma molto ascoltato anche nelle Istituzioni, nel Parlamento, nel Governo, a livello regionale e, più in generale, in numerosi enti locali. Componente di tante commissioni governative, fra cui si può ricordare quella per le riforme istituzionali, istituita dal governo Letta. Importante e stimato Avvocato, spesso pronto a combattere le cause più complesse davanti alla Corte costituzionale, così come dinanzi agli altri giudici.
La sua vita è stata un insegnamento per molti e lo ricorderemo per l’intuito e la lungimiranza che ha dimostrato in tanti contesti: è stato uno dei primi, negli anni ’80, a studiare, da un punto di vista costituzionale, il tema dell’ambiente. Ed ancora oggi il suo volume su Il diritto pubblico dell’ambiente, pubblicato dal Mulino originariamente nel 1990, è il punto di riferimento per lo studio della materia, grazie agli aggiornamenti continui su un tema in continua evoluzione.
È stato uno dei primi a fondare nel maggio del 2003 una rivista di diritto costituzionale on line Federalismi.it, che è poi diventata una delle riviste più dinamiche, più aggiornate e di più ampio approfondimento in una pluralità di settori giuridici. Una rivista che ha avuto il pregio di consentire, all’inizio, un’analisi di questioni prevalentemente regionali in una fase storica, quella successiva alla riforma del Titolo V della Costituzione, in cui il regionalismo italiano era da costruire, cosicché il dibattito aperto in quella sede è sicuramente servito per contribuire all’interpretazione di norme in parte oscure o comunque suscettibili di una pluralità d’interpretazioni. L’autorevolezza che velocemente ha acquisito la rivista ha consentito un allargamento dei settori di intervento, dal diritto costituzionale in tutte le sue sfaccettature, al diritto amministrativo, al diritto dell’Unione europea, al diritto internazionale, ad ogni tema connesso alla vita delle Istituzioni. Insomma, una rivista eclettica, come era Lui, curioso ed interessato ad ogni profilo pubblicistico dello Stato. La rivista era e rimarrà sicuramente un luogo di dibattito aperto ad ogni interpretazione, indirizzo, orientamento culturale, senza preconcetti e senza ideologie, ma con metodo scientifico, come lui l’ha sempre voluta.
Ma lo ricorderemo, altrettanto, per il Suo carattere combattente in ogni occasione della vita, anche quelle più tristi e devastanti, come l’ultima che ha vissuto con tanta forza d’animo, a testa alta e senza mai compatirsi, lavorando fino a quando ha avuto l’ultima energia possibile. Grande forza, lucidità, capacità di approfondimento, emersa in modo netto nell’ultima e bellissima relazione sul sistema universitario svolta nel mese di ottobre scorso al seminario dell’Associazione dei costituzionalisti italiani, di cui era anche Vice Presidente, quando ormai la malattia l’aveva debilitato nel fisico, ma non nella mente e nella sua capacità di dimostrare sempre che il Suo apporto al dibattito costituzionalistico era essenziale.
Combattente in ogni iniziativa, nei tanti referendum che ha seguito nel periodo di grande attività dei radicali, fino al referendum sulla riforma costituzionale del 2016, in cui aveva creduto, pur consapevole dei limiti della riforma. Sempre pronto, comunque, a rialzare la testa, a ripartire con un altro progetto. Là dove c’era un nuovo tema di dibattito, c’era un’iniziativa di Beniamino Caravita, per la curiosità che lo caratterizzava e per il desiderio di capire, di studiare, di approfondire.
Lo ricorderemo anche per la Sua capacità di dubitare, di non avere un’idea preconcetta, ma aperta alle diverse soluzioni possibili, a cui poi arrivava anche ascoltando gli altri.
Avremo tempo per onorarlo nel modo giusto ed adeguato come merita, ma oggi lo ricordo con grande affetto e tanto rimpianto.
Un pensiero speciale alla famiglia con cui ha sempre condiviso i suoi progetti e le sue battaglie.
ROMA LOCUTA, CAUSA FINITA? SPUNTI PER UN’ANALISI DI UNA RECENTE ACTIO FINIUM REGUNDORUM, IN SENSO CENTRIPETO, DA PARTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE.
di Beniamino Caravita di Toritto
Nel ricordo di Beniamino Caravita di Toritto, ripubblichiamo lo scritto che riproduce il testo della Sua relazione tenuta al Convegno di Modanella l'8 e 9 giugno 2019 dedicato, nell'ambito delle Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, al tema "Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica".
Giuseppe Chiovenda (e i problemi attuali del nostro processo civile)
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Ricordo di Giuseppe Chiovenda - 2. I Capisaldi del suo sistema processuale - 3. Segue: L’azione nel sistema dei diritti - 4. Segue: Il rapporto giuridico processuale - 5. Giuseppe Chiovenda e i problemi attuali del nostro processo civile - 6. Giuseppe Chiovenda persona.
1. Ricordo di Giuseppe Chiovenda
Giuseppe Chiovenda nasceva a Premosello (oggi Premosello Chiovenda), un piccolo paese della provincia di Novara, nella Val d’Ossola, il 2 febbraio 1872, da una antica famiglia patrizia[1].
Terminati brillantemente gli studi liceali presso il collegio Rosmini di Domodossola, avrebbe voluto iscriversi alla facoltà di lettere, avendo mostrato fin dall’adolescenza attitudine e interessi per la poesia, ma la famiglia lo convinceva a indirizzarsi su giurisprudenza.
Si iscriveva allora alla Sapienza di Roma, su suggerimento del padre, che faceva l’avvocato, e si laureava in quella università con lode il 5 luglio 1893, discutendo con Vittorio Scialoja una tesi sulle spese nel processo civile romano.
Subito dopo la laurea otteneva l’abilitazione alla professione forense, apriva un proprio studio legale, e veniva nominato vice pretore onorario a Roma.
Sollecitato anche dal suo maestro Vittorio Scialoja, grande romanista e potente docente universitario, Giuseppe Chiovenda, tra il 1894 e il 1899 pubblicava ben quattro saggi di diritto romano, tutti sulle spese processuali.
Con essi, Giuseppe Chiovenda si rendeva difensore della tradizione romanista e degli studi storici, soprattutto attraverso l’uso e l’analisi della dottrina tedesca[2]; nel 1900, poi, trasformava quei saggi in una monografia e con essa chiedeva ed otteneva la docenza per titoli.
Nell’anno accademico 1900-1901 teneva il suo primo corso da libero docente a Roma, con una prolusione dal titolo Le forme nella difesa giudiziale del diritto, prolusione con la quale si faceva difensore del processo civile austriaco elaborato da Franz Klein, ovvero la Zivilprozessordnung del 1895.
Nel 1901 pubblicava in versione definitiva la sua monografia sulle spese giudiziali civili, e il 3 maggio dello stesso anno vinceva il concorso per la cattedra di Parma.
A Parma, il 5 dicembre 1901, teneva una nuova prolusione dal titolo Romanesimo e germanesimo nel processo civile.
Si trattava di un lavoro volto a valorizzare, sempre secondo gli insegnamenti di Vittorio Scialoja, l’influenza del diritto romano e della dottrina tedesca nel nostro processo civile, tanto che in quello studio Giuseppe Chiovenda arrivava a scrivere, fra le varie riflessioni, che: “la legislazione e la scienza ci hanno ricondotto al diritto romano puro”.
Sempre a Parma Giuseppe Chiovenda pubblicava poi un volume ad uso degli studenti dal titolo Lezioni di diritto processuale civile, e l’anno successivo, ovvero nel 1902, a seguito della morte di Giuseppe Manfredini, veniva chiamato ad insegnare Procedura civile e ordinamento giudiziario a Bologna, alla giovane età di 31 anni.
A Bologna teneva una nuova prolusione il 3 febbraio 1903 dal titolo L’azione nel sistema dei diritti, una prolusione diventata poi celebre, e considerata una svolta epocale nello studio del processo civile, anzi indicata come il passaggio dalla Procedura civile al Diritto processuale civile[3].
Nel 1905 Giuseppe Chiovenda veniva chiamato alla cattedra di Napoli e, subito dopo, infine, nel 1907, a quella di Roma, ove rimaneva fino alla morte.
Iniziava a pubblicare i Principi di diritto processuale civile, che, dopo una prima edizione del 1906, ne faceva seguire altre nei successivi anni, 1908, 1912, 1923, 1928.
Ai Principi seguivano poi le Istituzioni, che lo stesso Giuseppe Chiovenda, nella prefazione, considerava “derivazione dell’opera mia precedente, Principi di diritto processuale civile”.
1.1. Giuseppe Chiovenda si occupava, altresì, di alcuni progetti di riforma del processo civile in discussione in quell’epoca.
Nel 1918, subito dopo la grande guerra, veniva nominata una commissione ministeriale per la riforma del codice di procedura civile e Giuseppe Chiovenda, chiamato a presiederla, scriveva un articolato di 204 punti, raggruppati in cinque titoli, e una dotta relazione, del 1919, che oggi si trova nei Saggi[4].
Il modello ispiratore, di nuovo, era il processo civile austriaco, ma il progetto riformatore non andava in porto.
A seguito dell’avvento del fascismo, il nuovo Ministro della Giustizia Aldo Oviglio istituiva anch’egli una nuova commissione per la riforma dei codici, e la terza sottocommissione, che si occupava del codice di procedura civile, veniva posta sotto la presidenza di Ludovico Mortara; a Giuseppe Chiovenda veniva assegnato solo il ruolo di vicepresidente.
Ludovico Mortara dava incarico di redigere la bozza di un nuovo codice a Francesco Carnelutti e Giuseppe Chiovenda, mortificato dall’andamento delle cose, pochi mesi dopo, e sempre nell’anno 1924, dava le dimissioni.
Dopo il 1924 non avrà più alcun incarico, anche perché inviso al fascismo e al nuovo Ministro della Giustizia Alfredo Rocco, suo antico avversario accademico.
In quell’anno, tuttavia, insieme a Francesco Carnelutti, fondava a Padova la nuova Rivista di diritto processuale civile.
1.2. Giuseppe Chiovenda esercitava con successo l’avvocatura nel corso di tutta la sua vita, ed ebbe numerosi e valorosi allievi, che ne esaltarono l’opera e la personalità, anche dopo la sua morte, avvenuta il 7 novembre 1937.
Tra questi allievi ricordo Enrico Tullio Liebman, Antonio Segni e Virgilio Andrioli[5].
2. I Capisaldi del suo sistema processuale
Credo si possa affermare, senza timore di essere smentiti, che il Sistema di diritto processuale civile di Giuseppe Chiovenda, si basa, principalmente, da una parte sulla teoria dell’azione, e dall’altra su quello del rapporto giuridico processuale[6].
È lo stesso Chiovenda che ha la premura di sottolineare ciò.
Nella prefazione dei Principi di diritto processuale civile, Giuseppe Chiovenda avvertiva: ”Il concetto di azione, inteso come autonomo potere giuridico di realizzare per mezzo degli organi giurisdizionali l’attuazione della legge in proprio favore, e il concetto del rapporto giuridico processuale, o sia di quel rapporto giuridico che nasce fra le parti e gli organi giurisdizionali dalla domanda giudiziale, indipendentemente dall’essere fondata o no, sono i due capisaldi del mio sistema”.
Dunque, teoria dell’azione e rapporto giuridico processuale, sono, per lo stesso Chiovenda, i capisaldi del suo sistema; dal che è su questi due capisaldi, che peraltro mi sembrano colmi di spunti di riflessione con riferimento alla situazione attuale della nostra giustizia civile, che desidero aggiungere qualche piccola cosa[7].
3. Segue: L’azione nel sistema dei diritti
Il tema dell’azione interessava Giuseppe Chiovenda fin dalla più giovane età.
Egli infatti scriveva un primo contributo sull’argomento dal titolo Azione, sul Dizionario pratico del diritto privato diretto da Vittorio Scialoja[8], saggio che deve collocarsi agli inizi del ‘900, quando Giuseppe Chiovenda aveva appena 28 anni. Tornava poi sull’argomento nella stesura delle Lezioni di diritto processuale civile, scritte per l’anno accademico parmense del 1901/2[9], ove forniva una nozione dell’azione richiamando la posizione di Adolf Wach[10], e infine completava lo studio dell’argomento con la celeberrima prolusione bolognese del 3 febbraio 1903[11].
Giuseppe Chiovenda aveva all’epoca 31 anni, era quindi ancora giovanissimo, e la prolusione ha infatti le caratteristiche di un’opera giovanile.
Si pensi che il saggio è composto da un testo di 23 pagine, cui poi seguono ben 74 pagine di note, e le note sono scritte in forma assai più piccola rispetto al testo.
Il saggio trattava le “Varie significazioni di azioni nel diritto positivo”, e ripercorreva le discussioni dottrinali di Windscheid-Muther, di Hasse, di Bulow, di Degenkolb, di Wach, di Hellwig, per arrivare ad affermare che “L’azione è dunque a mio parere un diritto potestativo”, ed è “il diritto di porre in essere la condizione per l’attuazione della legge”[12].
Tale diritto, per Giuseppe Chiovenda, è autonomo rispetto al diritto sostanziale che viene fatto valere nel processo, ed è un diritto che l’attore ha nei confronti della controparte, e non dello Stato, come invece sostenevano Muther e Wach.
Infine, il saggio concludeva con frasi che avevano però poco, a mio sommesso parere, di conclusivo, o comunque dalle quali difficilmente poteva attribuirsi alla prolusione quel carattere rivoluzionario cui poi si è invece attribuito.
Queste le conclusioni: “Abbiamo anzi veduto come il processo sia lo svolgimento d’un rapporto di diritto pubblico, almeno tra il giudice e lo Stato. Ogni atto del processo ci presenta l’uno e il trino…attribuire il processo più all’uno che all’altro è rimpiccolirlo. Tutte le leggi giuridiche, da quelle che governano l’interesse del singolo a quelle che regolano il potere sovrano dello Stato, e le loro ragioni storiche e logiche, s’agitano e vivono nel processo civile: esso appare veramente nel mondo giuridico come il punto al qual si traggon d’ogni parte i pesi”[13].
3.1. Al suo esordio, L’azione nel sistema dei diritti trovò infatti scettici i processualisti del tempo[14], ma questo non impedì a Giuseppe Chiovenda di tornare alla teoria dell’azione in più occasioni successivamente; e, direi, egli perfezionava e chiariva la sua posizione nei Principi e poi nelle Istituzioni[15].
Dunque, se vogliamo farci una idea più precisa dell’azione chiovendiana, possiamo leggere i passi che egli vi dedicava proprio nei Principi, poi riportati anche nelle Istituzioni.
Scriveva Giuseppe Chiovenda: “Dominava allora una concezione tutta privata del processo, che veniva considerato come un semplice strumento a servizio del diritto soggettivo, come un istituto meramente pedissequo al diritto sostanziale, come un rapporto esso stesso di diritto privato. La prima conseguenza di questo modo generale d’intendere il processo si manifestava nella dottrina dell’azione. Si considerava l’azione come un elemento del diritto stesso dedotto in giudizio, come il potere, inerente al diritto stesso, di reagire contro la violazione. Si confondevano cioè due entità, due diritti assolutamente distinti fra loro. Al contrario, l’azione è un potere di realizzazione della volontà concreta della legge”[16].
Date, dunque, le ragioni per le quali era necessario voltare la pagina[17], ovvero quelle di superare la logica privatistica del processo civile tipica dell’800, Giuseppe Chiovenda le individuava nel passaggio tra l’azione quale diritto astratto di agire, all’azione quale diritto potestativo idoneo a provocare l’attuazione della volontà di legge.
Si riporta ancora quanto Giuseppe Chiovenda scriveva sul punto: “Devono invece considerarsi come una esagerazione non accettabile dell’idea dell’autonomia dell’azione quelle teorie che, in un modo o nell’altro, si ricollegano al concetto del c.d. diritto astratto di agire, inteso come semplice possibilità giuridica d’agire in giudizio, indipendentemente dall’esito favorevole. Non v’è dubbio che ognuno abbia la possibilità materiale e anche giuridica di agire in giudizio ma questa mera possibilità non è ciò che sentiamo come azione. Quanto a me, definii l’azione come un diritto potestativo….. e si dice che questo singolo ha azione intendendosi dire con ciò che egli ha il potere giuridico di provocare colla sua domanda l’attuazione della volontà di legge. L’azione è pertanto il potere giuridico di porre in essere la condizione per l’attuazione della volontà della legge. La quale definizione, a ben guardare, coincide con quella delle fonti nihil aliud est actio quam ius persequendi iudicio quod sibi debetur”[18].
3.2. Quindi, è vero che Giuseppe Chiovenda aveva una visione pubblica della funzione giurisdizionale, perché ciò è quanto emerge in modo chiaro dalle sue stesse parole; tuttavia questa visione non costituiva una svolta autoritaria in grado di limitare i diritti processuali delle parti e spostare il fulcro della tutela dei diritti dalla lite dei privati all’autorità dello Stato.
Seppur queste mie siano semplici, piccole riflessioni, prive di pretese, poiché è evidente che, altrimenti, l’argomento necessiterebbe di ben altri approfondimenti[19], ritengo tuttavia sia da escludere che il nome di Giuseppe Chiovenda possa esser utilizzato per giustificare concezioni pubblicistiche della funzione giurisdizionale civile oltre una certa misura.
In sostanza, se vogliamo sintetizzare il problema, Chiovenda spostava solo la funzione del processo dal c.d. diritto astratto di agire alla attuazione della volontà di legge.
È evidente che bisogna allora intendersi sul significato da attribuire al concetto di attuazione della volontà di legge:
a) se con questa espressione si intende solo rimarcare la natura pubblica del processo, che tuttavia mantiene la sua funzione ultima di attuazione dei diritti soggettivi delle parti in tutte le ipotesi di mancata cooperazione spontanea dell’obbligato (in quanto, appunto, dinanzi ad ogni lite, la volontà della legge è proprio quella di attribuire o negare i diritti soggettivi dei litiganti), allora la novità, si comprende, non ha particolare carattere rivoluzionario;
b) se al contrario alla frase si vuole attribuire un significato ulteriore, quasi a concepire il giudice in diretto contatto con la legge a prescindere dai diritti e dalle domande delle parti, sovrano di riconoscere o negare le loro pretese anche al di là del diritto privato e sulla base di ragioni pubbliche che, di volta in volta, il giudice possa determinare, questa impostazione è fuori dal sistema di Chiovenda, che direi certamente non ha mai ritenuto, nemmeno lontanamente, di immaginare una simile deriva.
Direi che deduzioni del genere, se a qualcuno ancora oggi venissero in mente, sono escluse dall’analisi dello stesso sistema di Giuseppe Chiovenda, per come ci ricorda anche Andrea Proto Pisani:
aa) in primo luogo è lo stesso Chiovenda che ci indica cosa si deve intendere con l’attuazione della volontà di legge, ed infatti egli sul punto precisa che: “Deve rilevarsi che ponendo lo scopo del processo nell’attuazione della volontà della legge, si esclude ch’esso possa porsi nella difesa del diritto soggettivo. Questa difesa sarà lo scopo, tutto individuale e soggettivo, che si propone l’attore; il processo invece ha lo scopo generale e obiettivo di attuare la legge, e lo scopo dell’attore e del processo coincideranno solo nel caso in cui la domanda sia fondata. Ma la sentenza è sempre attuazione della legge, sia fondata o infondata la domanda; tanto accogliendo quanto respingendo la domanda, la sentenza afferma una volontà positiva o negativa della legge. Così il processo non serve all’una o all’altra parte; serve alla parte che, secondo il giudice, ha ragione”[20]
Dunque, è vero che egli afferma che la volontà di legge si contrappone alla difesa del diritto soggettivo, ma è anche vero che questa contrapposizione, per Chiovenda, si ha solo nelle ipotesi di domande infondate, il che è del tutto evidente; ma se la domanda è fondata, una contrapposizione tra diritto soggettivo e concreta volontà di legge non può porsi, e dunque il processo, seppur funzione pubblica dello Stato, serve alla parte che ha ragione.
bb) In secondo luogo, e direi soprattutto, è noto il principio chiovendiano secondo il quale “Il processo deve dare, per quanto è possibile, praticamente a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”[21].
È chiaro, così, che per Giuseppe Chiovenda, scopo fondamentale del processo è proprio quello di attribuire alle parti l’attuazione dei diritti che questi vi facciano valere; dal che non è prospettabile che l’immagine pubblicistica dell’attuazione della volontà di legge scalfisca questo dato, in quanto il processo, attuando la legge, deve pur sempre e inevitabilmente avere per scopo quello di attribuire, ancora una volta, a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire.
cc) Infine, è valore del sistema chiovendiano quello dello strumentalità del processo al diritto sostanziale.
Lo ricorda di nuovo Proto Pisani, il quale riferendosi al sistema chiovendiano, osserva: “in quanto tutto centrato sulla massima strumentalità del processo e sull’esigenza oggi costituzionalmente doverosa della effettività della tutela giurisdizionale”[22].
E allora, se il processo è strumentale al diritto sostanziale, la volontà di legge non comprime i diritti delle parti, anche perché tale concreta volontà di legge, si ha, per Giuseppe Chiovenda, sempre “relativamente a un bene che l’attore pretende da questa volontà garantito”[23].
Ed ancora Giuseppe Chiovenda: “L’azione ha natura privata o pubblica secondo che la volontà di legge di cui produce l’attuazione ha natura privata o pubblica. Per lo più l’azione nasce per il fatto che colui che doveva conformarsi ad una volontà concreta di legge, che ci garantiva un bene della vita, ha trasgredito questa volontà, così che noi ne cerchiamo l’attuazione indipendentemente dalla volontà dell’obbligato”[24].
Quindi, l’attuazione della volontà di legge non pregiudica i diritti soggettivi delle parti, e lo scopo del processo resta quello di riconoscere o negare a chi agisce in giudizio un bene della vita.
4. Segue: Il rapporto giuridico processuale
L’altro caposaldo del sistema processuale, come abbiamo detto, è quello del rapporto processuale.
Giuseppe Chiovenda ci ricorda subito che da Hegel a Behtmann – Hollweg fino a Bulow “il processo civile contiene un rapporto giuridico”, e l’idea, scrive Chiovenda, era già propria del iudicium romano, nonché della definizione che ne davano i nostri processualisti medioevali “Iudicium est actus trium personaru, actoris, rei iudicis”.
Si tratta di un rapporto giuridico di diritto pubblico: “E’ un rapporto autonomo e complesso appartenente al diritto pubblico”[25], e: “durante il processo entrambe le parti hanno diritto al provvedimento, e il giudice è tenuto verso entrambe a questa prestazione”.
Aggiunge poi Giuseppe Chiovenda che se il provvedimento favorevole è per le parti solo una aspirazione: “è invece una vera e propria aspettazione giuridica, cioè un diritto, quella che ciascuna delle parti ha durante il processo relativamente al provvedimento del giudice” [26].
Fissata poi la distinzione tra azione e rapporto giuridico processuale[27], Giuseppe Chiovenda tiene a precisare quali siano i doveri dello Stato, nella persona del giudice, all’interno del rapporto giuridico processuale: “Il dovere fondamentale che forma come l’ossatura d’ogni rapporto processuale, è, come si è visto, il dovere del giudice di provvedere sulle domande delle parti. A questo corrisponde il dovere di fare tutto ciò che è necessario nel caso concreto per provvedere. Questo dovere fa parte dell’ufficio del giudice, spetta cioè certamente al giudice verso lo Stato. E’ poi praticamente ozioso discutere se il giudice è obbligato anche verso le parti, e se il giudice è obbligato di fronte alle parti come persona o come organo dello Stato. Certo le parti hanno di fronte al giudice, come persona, il potere giuridico di porlo con le loro domande nella giuridica necessità di provvedere”[28].
Dunque, per Giuseppe Chiovenda il giudice non ha solo il dovere di provvedere, ma ha altresì, come persona… il dovere di fare tutto ciò che è necessario nel caso concreto per provvedere.
5. Giuseppe Chiovenda e i problemi attuali del nostro processo civile
Il Parlamento ha approvato in questi giorni una legge delega di riforma del processo civile.
Questa riforma ha come scopo principale quella della riduzione del tempi del processo e come strumenti per raggiungere un simile obiettivo quelli dell’incentivazione delle procedure ADR, e soprattutto della mediazione, e quella del potenziamento dell’ufficio del processo, ovvero di un ufficio composto da giudici onorari e da giovani laureati assunti a tempo determinato, chi aiutino il giudice studiando i fascicoli, facendo ricerche di giurisprudenza, individuando i punti di mediabilità (è questa la parola usata dalla legge!) della lite, stendendo i verbali, aiutandolo nell’assunzione dei mezzi istruttori, e, infine, predisponendo bozze dei provvedimenti.
Precisamente:
- è stata estesa e rafforzata la mediazione, anche nella sua condizione di procedibilità della domanda, e anche nelle ipotesi in cui la stessa sia demandata al giudice; ad essa sono poi stati riconosciuti incentivi ed agevolazioni fiscali; inoltre si è di previsto che il giudice possa, oltreché mandare sempre in mediazione le parti, anche formulare proposte di conciliazione fino al momento in cui trattiene la causa in decisione.
- Si è prevista la necessità di dare nuove sanzioni contro chi “abusi” del diritto di azione e di difesa.
- Si sono ulteriormente ridotti i casi nei quali il Tribunale pronuncia in composizione collegiale, e si è potenziato e interamente ri-disciplinato, appunto, il c.d. Ufficio del processo.
Sostanzialmente, sembra che il processo civile non abbia più il compito di attuare i diritti soggettivi dei privati ma piuttosto quello di gestire e valutare le posizioni dei litiganti in un’ottica più generale.
La parte, precisamente - sembra e si ha la sensazione- non deve insistere oltre una certa misura nella tutela dei suoi diritti, ne’ avere sicuro e libero accesso alla decisione giurisdizionale, perché ciò costituisce atteggiamento in contrasto con lo spirito che oggi deve invece darsi tra litiganti.
La parte, infatti, e tutto al contrario, deve preferibilmente mediare, ovvero trovare un accordo che soddisfi l’esigenza del contenimento delle liti, e ciò anche a costo di qualche sacrifico.
Se poi, al contrario, la parte sceglie di volere in tutti modi il riconoscimento giudiziale del suo diritto, va da sé che questo non gli può essere impedito, tuttavia in questi casi la funzione giurisdizionale non potrà essere nella sua interezza resa da magistrati ordinari e togati, e vi provvederà, in gran parte, per ragioni di economia, l’ufficio del processo, ovvero un gruppo di giovani usciti dall’università, senza alcuna esperienza professionale, assunti a tempo determinato con compensi economici simbolici.
Quanto tutto questo sia in contrasto con il sistema processuale di Giuseppe Chiovenda, e quindi in contrasto con la nostra stessa storia, non v’è bisogno che io lo dimostri, e balza, credo, agli occhi, anche solo in base a quanto sopra ho cercato di riassumere:
a) in primo luogo, se il rapporto tra mediazione e tutela giurisdizionale è rovesciato, e ciò nel senso che la regola della tutela dei diritti è oggi la mediazione e l’eccezione la giurisdizione, allora la tutela dei diritti non è più normalmente in grado di porsi quale strumento dei diritti soggettivi sostanziali, e viene meno quella funzione del processo che Giuseppe Chiovenda aveva individuato con l’Azione nel sistema dei diritti.
Se infatti il “centro” è la mediazione e non il processo, allora la Attuazione della volontà di legge si perde, poiché la mediazione, per sua stessa natura, consistendo in reciproche rinunce tra le parti, non è mai in grado di attribuire a chi ha un diritto, praticamente tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire.
Se poi si pensa che v’è addirittura chi attribuisce un valore morale a questo atteggiamento rinunciatario, allora è del tutto evidente che la teorica dell’azione chiovendiana è saltata.
b) Ma se la centralizzazione della mediazione contrasta con L’azione nel sistema dei diritti, la nuova disciplina dell’ufficio del processo contrasta con i principi del Rapporto giuridico processuale.
Per Giuseppe Chiovenda, come abbiamo visto, l’azione instaura un rapporto processuale tra parti e giudice, e da questo rapporto processuale discendono “diritti e doveri tra loro”[29].
In particolare è chiaro che per Giuseppe Chiovenda il rapporto processuale attribuisce dei doveri al giudice, cosicché, appunto, il processo crea “il dovere del giudice di provvedere sulle domande delle parti”, e a questo “corrisponde il dovere di fare tutto ciò che è necessario nel caso concreto per provvedere”.
E che questo sia un dovere personale del giudice, Giuseppe Chiovenda lo dice in modo chiaro: è un dovere che il giudice ha come persona.
Del resto, la conclusione è del tutto evidente se solo si pensa che, in forza della nostra Costituzione, la giustizia è amministrata in nome del popolo, cosicché va da sé che la stessa non possa essere delegata; e relegare invece il giudice a sole funzioni di controllo di attività compiute da altri, così distanziandolo dalla lite e dai litiganti, è certamente un degrado della giurisdizione, ed è una rottura di quei diritti/doveri che discendono dal rapporto giuridico processuale per come Giuseppe Chiovenda, e poi tutta la dottrina processualistica, lo aveva posto.
6. Giuseppe Chiovenda persona
Non posso chiudere questo mio breve scritto senza ricordare Giuseppe Chiovenda persona.
La figlia Beatrice Canestro Chiovenda, in una lettera inviata ad Andrea Proto Pisani per la ristampa dei Saggi, ringraziava per la nuova edizione, ed aggiungeva: “emergerà così il lato umano, forse poco conosciuto dagli studiosi del diritto, della personalità di mio Padre, poeta, umanista e letterato, orgoglioso dei successi della scienza italiana, e testardo montanaro, come amava definirsi, ossolano sempre sollecito degli interessi della gente della sua Valle, che aiutò con opere e consigli”.
E Arturo Carlo Jemolo, per commemorare la scomparsa di Giuseppe Chiovenda presso l’Accademia dei Lincei nel 1938, usava queste parole: “La passione per l’arte -che, quasi bambino, gli aveva fatto scrivere una tragedia in versi, Corradino di Svevia, recitata al collegio rosminiano di Domodossola- lo accompagnò per tutto il cammino della sua vita”[30].
Dunque, Giuseppe Chiovenda non fu solo uno studioso del processo civile, non trascorse l’intera sua vita sui libri, ne’ impiegò tutta la sua gioventù, come qualcuno ha creduto, dietro il diritto romano e la dottrina tedesca; proprio Franco Cipriani ricordava che Giuseppe Chiovenda, dopo la laurea, a Roma, frequentava il cenacolo di Ugo Fleres, collaborava alla rivista Ariel. ed era un assiduo frequentatore del teatro Costanzi[31].
Se si pensa che Giuseppe Chiovenda ebbe la sfortuna di perdere presto i genitori, la madre addirittura nel corso dell’infanzia, e il padre, nel 1891, quando aveva solo 19 anni, ciò fa di questi aspetti qualcosa di ancora più prezioso e significativo.
6.1. Nell’anno della morte del padre, Giuseppe Chiovenda pubblicava una scelta di poesie, e poi, tre anni dopo, ovvero nel 1894, una ulteriore raccolta di versi, Agave.
La figlia raccontava del padre che, oltre il diritto e la poesia, amava la musica, l’equitazione e la scherma, tanto che, da studente universitario, fece una volta Premosello - Roma quasi interamente a cavallo, e che, ancor dopo i cinquant’anni, si teneva in forma tirando di scherma in una palestra romana.
Egli, inoltre, nel 1901, fu insignito della medaglia d’argento al valor civile per l’opera generosamente prestata in occasione dell’alluvione che colpì Premosello, e nel 1927, con una cospicua somma inaspettatamente ottenuta con la vincita di una causa, fondò l’ospedale di Premosello.
Si dice anche che Giuseppe Chiovenda amava fare escursioni sul monte Rosa, amava la pesca, la caccia, le fotografie (che sviluppava da sé), le bocce, il pianoforte, il violino, il teatro, le automobili: uno dei primissimi, infatti, ad ottenere la patente, e l’unico professore della facoltà giuridica di Roma a guidare la macchina, una rarità in quegli anni.
6.2. Nel 1992, ovvero a centoventi anni dalla nascita di Giuseppe Chiovenda, gli studiosi di storia patria della Val d’Ossola pubblicavano un volume, Scritti ossolani.
Quel volume contiene due scritti di Giuseppe Chiovenda.
a) Uno è del 1913 e s’intitola: La pesca nel Toce e i diritti degli ossolani.
Con quello scritto, un vero e proprio saggio giuridico, Giuseppe Chiovenda prendeva la difesa dei diritti degli ossolani di pescare nel Toce, come avevano sempre fatto, contro la Casa Borromeo, antica feudataria della Val d’Ossola, che al contrario pretendeva che i pescatori ottenessero da lei il permesso, secondo regole risalenti ai diritti feudali.
Per quel saggio, che negava l’esistenza delle pretese della Casa Borromeo, Giuseppe Chiovenda non si aspettava ne’ un onorario, ne’ un ringraziamento; tuttavia si racconta che un giorno sentì bussare alla sua porta e, apertala, vi trovò un folto gruppo di ossolani, che erano andati in delegazione a ringraziare il professore, donandogli un servizio di piatti commissionato espressamente per lui.
Giuseppe Chiovenda tenne quel servizio tra le cose più care, da usare solo per le grandi occasioni; quel servizio si trova ancor oggi conservato nella casa di Premosello – Chiovenda.
b) L’altro scritto è del 1917, Il diritto del Comune di Mergozzo sopra il lago omonimo.
Questo scritto fu occasionato da una contestazione del Genio civile di Novara, del 1912, il quale riteneva di dover considerare demaniale il lago, che viceversa, fino a quel momento, era sempre stato da tutti considerato di proprietà comunale.
Giuseppe Chiovenda decideva allora di occuparsi della questione, rispolverava due giudicati, avutisi nel ‘600: il primo del 19 dicembre 1615, che dichiarava il lago di proprietà del Comune di Mergozzo; il secondo, dell’8 gennaio 1691, il quale ribadiva solennemente il diritto del comune “di godersi del suo lago”.
Dimostrato, poi, che la legislazione italiana riconosceva la species dei laghi di proprietà privata, Giuseppe Chiovenda dimostrava che il lago in questione possedeva tutti i requisiti richiesti dalla legge affinché potesse considerarsi lago privato del Comune di Mergozzo.
Scrive Franco Cipriani in occasione della presentazione del volume Studi Ossolani: “Mi è chiaro infatti che essi (gli scritti) non si spiegano soltanto con la scienza di Giuseppe Chiovenda, ma anche e soprattutto con il suo amore per la sua Terra, per il suo fiume, il suo lago, le sue montagne e i suoi conterranei: in una parola, per la sua Ossola”[32]
6.3. Infine, l’altro aspetto che merita di essere ricordato è quello che Giuseppe Chiovenda si tenne, dal 1922 fino alla sua morte del 1937, lontano dal fascismo[33], ed anzi fu l’unico processualista che sottoscrisse il “Manifesto Croce”, su Il Mondo del 1 maggio 1925, ovvero il documento con il quale gli intellettuali antifascisti denunciavano solennemente al paese e alla comunità internazionale le gravi responsabilità del fascismo e l’abisso verso il quale stavano conducendo l’Italia[34].
Quel documento usciva all’indomani dell’assassinio di Giacomo Matteotti e del discorso tenuto da Benito Mussolini alla Camera dei Deputati il 3 gennaio 1925, ed era da considerare una risposta al precedente documento degli intellettuali fascista coordinati da Giovanni Gentile.
Si leggeva in tal documento che “non è nemmeno quello degl’intellettuali fascisti un atto che risplenda di amor di Patria. è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degli individui al tutto”.
Si deve, al contrario: “ravvivare e far intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali e a farli amare con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa, era uno stadio che l’Italia doveva percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile”.
Tra i firmatari, oltre Giuseppe Chiovenda, Giovanni Amendola, Carlo Cassola, Luigi Enauidi, Carlo Fadda, Guglielmo Ferrero, Matilde Serao.
Le conseguenze pregiudizievoli che quella firma arrecò a Giuseppe Chiovenda non sono note, tuttavia sempre Franco Cipriani ricorda una vicenda, che mi sembra importante richiamare, a chiusura di questo mio omaggio al maestro.
Nel 1928 Giuseppe Chiovenda veniva invitato a tenere un breve corso di lezioni nella facoltà giuridica di Barcellona.
Ricevuto l’invio il 9 marzo 1928, Giuseppe Chiovenda si rivolgeva al Rettore della propria università per chiedere, suo tramite, alla competenti autorità governative il permesso per potersi recare là.
Il 13 marzo 1928, la richiesta di autorizzazione veniva girata dal Rettore dell’Università al Ministro della Pubblica istruzione, ma questi, invece di autorizzare il trasferimento, contro il quale niente aveva eccepito il Rettore, lo trasmetteva, il 22 marzo 1928, ossia dopo averci pensato (evidentemente) una decina di giorni, addirittura alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, è cioè a Benito Mussolini, osservando che: “Il predetto professore è uno dei firmatari del c.d. manifesto degli intellettuali, tuttavia, a quel che mi consta, ha sempre tenuto una condotta molto riservata e non ha partecipato a contrasti di carattere politico. Dato ciò, io ritengo che, in considerazione dell’alto valore scientifico del prof. Chiovenda, lo si potrebbe autorizzare ad accogliere l’invito rivoltogli dall’Università di Barcellona, tanto più che la sua serietà di studioso dà affidamento che egli si asterrebbe dal fare qualsiasi cenno a questioni di natura politica durante la permanenza in Spagna”.
Benito Mussolini, probabilmente occupatissimo in altre faccende in quel periodo, non rispondeva.
Si arrivava ad aprile, ed ancora nessuna risposta.
Il 12 aprile 1928 il Ministro dell’Istruzione, Pietro Fedele, inviava una ulteriore lettera di sollecito, avvicinandosi i giorni nei quali Giuseppe Chiovenda doveva tenere le sue lezioni a Barcellona.
La risposta arrivava con un telegramma del Ministero degli interni del 27 aprile 1928, ovvero dopo ancora due settimane, ormai, diremmo, a tempo scaduto per potersi recare a Barcellona secondo il calendario didattico che quella università si era data.
Questo lo scarno testo del telegramma: “Questa Presidenza ritiene che non sia opportuno consentire al prof. Giuseppe Chiovenda di recarsi a Barcellona per tenervi corso lezioni”.
Il Ministro dell’Istruzione, quindi, in data 3 maggio 1928, rispondeva finalmente al Rettore dell’Università di Roma, avvertendolo che “non si ravvisa l’opportunità che il prof. Giuseppe Chiovenda si rechi a Barcellona”.
6.4. “Questo fu, in un oscuro periodo di servitù politica e di depressione morale, Giuseppe Chiovenda: grande mente di studioso e insieme altissima coscienza morale; e, per questa fusione di dottrina e di carattere, maestro esemplare di scienza e umanità.
Apparteneva a quella categoria di italiani austeri e pensosi, nemici dell’improvvisazioni dilettantesche, attaccati all’essere più che al parere, per i quali la vita ha un senso di intima serietà e di non ostentata dedizione al dovere”[35]
6.5. “Nel 1937, quando la sua salma si avviò verso il camposanto seguita dagli amici e dai discepoli piangenti, il rettore fascista dell’Università di Roma non partecipò al funerale, ne’ permise che il feretro sostasse nell’atrio dell’Università, per ricevere i tradizionali onori funebri”[36].
[1] Per ogni informazione sulla vita di Giuseppe Chiovenda può vedersi CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, 70 e ss.; TARUFFO, Giuseppe Chiovenda, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, Roma, 2013, I, 526; TARELLO, Giuseppe Chiovenda, in Dizionario biografico degli italiani, Treccani, Roma, 1981, vol. 25; MECCARELLI, Giuseppe Chiovenda, Il contributo italiano alla storia del pensiero – Diritto, Treccani, Roma, 2012.
[2] Chi scrive, allievo di allievi di Giuseppe Chiovenda (Virgilio Andrioli e Andrea Proto Pisani), conosce bene questa tradizione, e il valore che la processualistica italiana attribuisce agli studi storici e alla dottrina tedesca.
Io stesso, da giovane, fui mandato per queste ragioni a studiare in Germania, e la mia prima monografia La condanna con riserva, oltre infatti ad essermi stata assegnata perché già oggetto di attenzione da parte di Giuseppe Chiovenda (v. infatti CHIOVENDA, Azioni sommarie. La sentenza di condanna con riserva, ora in Saggi di diritto processuale civile, riedizione a cura di Andrea Proto Pisani, Milano, 1993, I, 121), era dedicata, per oltre la metà, proprio alla ricerca storica (v., infatti, su essa, il parere di Virgilio Andrioli, in L’affetto, l’umanità e l’intransigenza morale di un maestro: Virgilio Andrioli, a cura di Proto Pisani, Napoli, 2019, 150).
[3] GROSSI, Scienza giuridica italiana, Milano, 2000, 61; SATTA, Dalla procedura civile al diritto processuale civile, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, 1968.
[4] CHIOVENDA, Saggi di diritto processuale civile, riedizione a cura di Andrea Proto Pisani, Milano, 1993, II, 1 e ss.
[5] ANDRIOLI, Giuseppe Chiovenda tra Principi e Istituzioni, Scritti giuridici, Milano, 2007, III, 2011.
[6] PROTO PISANI, La tutela giurisdizionale dei diritti nel sistema di Giuseppe Chiovenda, Foro it., 2002, V, 125.
[7] Su questi due capisaldi di Giuseppe Chiovenda v. anche, in questa rivista, SPAZIANI, Chiovenda e il computer. Il processo da remoto e la teoria dell’azione.
[8] Chiovenda, Azione, ora in Saggi, cit., III, 1.
[9] Le Lezioni, sono richiamate da CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, 244.
[10] CHIOVENDA, “E’ la forma di attuazione autoritativa del diritto obiettivo, relativamente ad un rapporto ad esso soggetto, e allo scopo della tutela di interessi: di diritto privato” (pag. 42), per poi aderire alla posizione di Gierke, per il quale l’azione spetta solo a chi ha ragione “ogni altro uso è abuso” (pag. 70, in nota) (le citazioni sono richiamate da CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, cit., 244).
[11] CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, ora in Saggi, cit., I, 3.
[12] CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, ora in Saggi, cit., I, 14 e 23.
[13] CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, ora in Saggi, cit., I, 26.
[14] Piero Calamandrei ricordava che il suo maestro Carlo Lessona, a lezione, diceva agli studenti di non aver capito la teoria di Giuseppe Chiovenda sull’azione; e critiche a detta prolusione vennero da numerosi studiosi del periodo: da Vincenzo Simoncelli ad Alfredo Rocco, da Tommaso Siciliani a Vincenzo Galante (v. CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, cit., 256).
Per la posizione sul punto del processualista fiorentino può vedersi comunque CALAMANDREI, La relatività del concetto di azione, Studi sul processo civile, Padova, 1947, V, 1.
[15] Egli stesso, nella prefazione delle Istituzioni, riportando quanto già premesso nei Principi, scriveva: “Personale soprattutto è il mio concetto di azione, o, se così vuol dirsi, la formulazione da me data a quel concetto dell’autonomia dell’azione, che la dottrina germanica ha posto in luce con tanta efficacia. Questa formulazione esposta nella mia prolusione bolognese del 3 febbraio 1903, si ritrovò poi a concordare con quella del Weismann” (CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1933, pag. IX).
[16] CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1933, 17.
[17] Precisava infatti CHIOVENDA: “Più fattori concorsero alla formazione delle moderne teorie. Da un lato il rinnovamento degli studio di diritto pubblico e che avviò gli studiosi a considerare il processo come campo d’una funzione d ‘una attività statale, in cui prevale e domina la persona degli organi giurisdizionali e la finalità dell’attuazione, non tanto dei diritti dei singoli, quanto della volontà della legge. Dall’altro il rinnovamento degli studi di diritto romano: questi studi condussero a differenziare nettamente il diritto alla prestazione nella sua direzione personale determinata (Anspruch, ragione o pretesa), dal diritto di azione, come diritto autonomo tendente alla realizzazione della legge per via del processo. Il riconoscimento di questa autonomia fu completato con Adolf Wach, il quale dimostrò che l’azione è un diritto che sta a sé, e va chiaramente distinto dal diritto dell’attore che tende alla prestazione del convenuto obbligato” (v. ancora, Istituzioni, cit., 18).
[18] CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1933, pagg. 20, 21
[19] Per ogni approfondimento di questi aspetti v. TARELLO, L’opera di Giuseppe Chiovenda nel crepuscolo dello Stato liberale, in Dottrine del processo civile, preso in esame da TARUFFO, Sistema e funzione del processo civile nel pensiero di Giuseppe Chiovenda, Riv. trim. dir. proc. civ., 1986; 215; e LIEBMAN, Storiografia giuridica manipolata, Riv. dir. proc., 1988, 100.
[20] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pag. 40.
[21] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pag. 42.
[22] PROTO PISANI, La tutela giurisdizionale dei diritti nel sistema di Giuseppe Chiovenda, cit., 125
[23] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pag. 35.
[24] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pag. 21.
[25] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pagg. 50, 51.
[26] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 52.
[27] “Altro è dunque l’azione, altro il rapporto processuale; quello spetta alla parte che ha ragione, questo è fonte di diritti per tutte le parti. Altro è poi il rapporto giuridico processuale altro è il rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio. Questo è oggetto di quello” (CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 52).
[28] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 52.
[29] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 53.
[30] JEMOLO, Commemorazione di Giuseppe Chiovenda, Rendiconti dell’Accademia dei Lincei, XIV, Roma, 1938, 638.
[31] CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, cit., 226.
[32] CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, cit., 296.
[33] V. infatti TARUFFO, Giuseppe Chiovenda, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., 528.
[34] Scriveva CALAMANDREI, Giuseppe Chiovenda, Riv. dir. proc. 1947, 189: “Da allora, anche Giuseppe Chiovenda si trovò ad essere, a poco a poco, un sorvegliato e un isolato: mentre la sua fama era celebrata all’estero, egli, che era indubbiamente in Italia il maestro più insigne di diritto processuale, si trovava messo al bando, come tutti i professori che non avevano voluto iscriversi al partito fascista.
[35] CALAMANDREI, Giuseppe Chiovenda, cit., 293.
[36] CALAMANDREI, Giuseppe Chiovenda, cit., 285.
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