ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Gli approfondimenti della riforma Cartabia - 9. L’imputato del giusto processo (ovvero degli articoli 581, commi 1-ter e 1-quater, cod. proc. pen.) di Carlo Citterio
Il presente articolo si inserisce nella serie di approfondimenti dedicati da Giustizia Insieme (v. Editoriale) alle novità introdotte dalla riforma Cartabia nella materia penale. Di seguito i precedenti contributi:
1. Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità
3. Pensieri sparsi sul nuovo giudizio penale di appello (ex d.lgs. 150/2022)
6. Riforma Cartabia e pene sostitutive: la rottura “definitiva” della sequenza cognizione-esecuzione
8. Prime riflessioni sulla nuova “revisione europea”
Sommario: 1. I ‘tipi’ dei soggetti del procedimento secondo il giusto processo: qual è il tipo/imputato del giusto processo. - 2. La dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. - 3.1. Lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale (art. 571, comma 3, seconda parte, testo originario). - 3.2. La grande dimenticata: la procura speciale per l’impugnazione (571, comma 1). - 3.3. Le conseguenze del contrasto SU/Corte costituzionale sulla consumazione del diritto dell’imputato ad impugnare. - 4. Obbligo deontologico, responsabilità professionale e impugnazione in favore dell’imputato inconsapevole. Il ‘colloquio’ tra giudice e difensore sui contatti con l’imputato? - 5. L’imputato consapevolmente disinteressato e il giusto processo.
1. I ‘tipi’ dei soggetti del procedimento secondo il giusto processo: qual è il tipo/imputato del giusto processo.
Quando parliamo di giusto processo (art.111.1 Cost.) il pensiero corre subito alle norme del procedimento e del processo.
Credo utile anche una riflessione sui ruoli: imputato, pubblico ministero, difensore, giudice, persona offesa.
In particolare: esiste per ciascuno di questi ruoli un ‘tipo’ considerabile alla luce del giusto processo o, in termini diversi, quando enuncia i propri principi il giusto processo si parametra ad un determinato ‘tipo’ di imputato, pubblico ministero, difensore, giudice, persona offesa?
Ed allora, qual è l’imputato del giusto processo, in altre parole l’imputato/parametro che i principi del giusto processo presuppongono? Quali le sue caratteristiche ‘normali’? (e sarebbe interessante domandarsi poi quale sia il parametro/tipo di pubblico ministero, difensore, giudice, che i principi del giusto processo presuppongono).
2. La dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.
Uno dei punti della riforma Cartabia che ha suscitato le maggiori reazioni dell’Avvocatura è quello di due delle condizioni che i nuovi commi 1-ter e 1-quater dell’art. 581 pongono per l’ammissibilità dell’atto di impugnazione (appello e ricorso per cassazione). Con l’atto di impugnazione delle parti private e dei loro difensori deve essere depositata la dichiarazione o l’elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. Quando nel grado precedente del processo si è proceduto nei confronti dell’imputato ‘assente’ l’atto di impugnazione del difensore deve essere accompagnato sia dalla dichiarazione/elezione di domicilio che da un mandato specifico ad impugnare rilasciato dopo la pronuncia della sentenza (per tale dovendosi intendere ovviamente già la mera pubblicazione del dispositivo).
Per la dichiarazione/elezione di domicilio la norma non prevede invece che il rilascio sia successivo alla pronuncia della sentenza.
Le due norme dispongono quindi il deposito contemporaneo dei due documenti atto di impugnazione e dichiarazione o elezione di domicilio/mandato speciale ad impugnare), con la conseguenza che, in ogni caso, solo se il secondo documento sarà depositato entro la scadenza del termine per impugnare l’impugnazione sarà (quanto a questo aspetto) ammissibile.
Va preso atto che, condivisibilmente, la scelta del legislatore è stata quella di evitare alcun automatismo con una imposta/presunta elezione di domicilio presso il difensore che assiste l’imputato, quantomeno se di fiducia, dopo la proposizione dell’impugnazione, perché comunque foriero di potenziali problematiche sull’effettiva conoscenza della successiva citazione per quanto attiene all’evoluzione possibile del rapporto e ad un efficace contatto tra difensore (pur diligente) ed assistito.
Si è già ricordato che per la dichiarazione o elezione di domicilio (che appunto va depositata anche quando l’atto sia materialmente redatto e depositato dal difensore) non è prevista l’acquisizione dopo la pronuncia della sentenza. In realtà, per logica sistematica, essa dovrebbe essere successiva alla deliberazione della sentenza impugnata o, comunque, essere rilasciata da imputato consapevole della sua destinazione alla trattazione del processo di appello : infatti è appunto finalizzata a consentire la efficace e tempestiva citazione per quel giudizio di appello che proprio dall’imputato e nel suo interesse è espressamente richiesto.
È stato detto che nelle indagini preliminari e nel giudizio di primo grado è lo Stato che deve cercare la persona nei cui confronti si procede e informarlo dei passaggi essenziali in particolare della fase processuale, ma quando appellante è la parte privata, che è pertanto il soggetto processuale che attiva il secondo grado di giudizio, che era e rimarrebbe, ovviamente su tale piano sistematico, francamente poco comprensibile che l’ ‘attore’ possa discrezionalmente sottrarsi al tempestivo rintraccio per atti che sono indispensabili per giungere a quel giudizio rivisitante che proprio, ed eventualmente solo, lui ha chiesto. Si è risposto con il principio che difendendosi comunque da un esercizio di azione penale, anche nel giudizio di appello, sarebbe improprio richiedere la ‘collaborazione’ dell’imputato pur solo per la trattazione del secondo grado di giudizio.
Pare opportuno in proposito osservare che, depurata la questione da approcci sostanzialmente ideologici, qui il tema dell’imputato/tipo considerato dal giusto processo mostra tutta la sua attualità ed autonomia: la domanda infatti diviene se pretendere che chi propone appello o ricorso [i] indichi dove può essere trovato per la necessaria convocazione sia norma davvero incoerente, o addirittura ostile, ai principi del giusto processo nella prospettiva anche dei canoni e della giurisprudenza europei.
In realtà, la complessiva disciplina della citazione al e della trattazione del giudizio di appello rende palese che l’onere per chi chiede il giudizio di impugnazione di indicare il suo recapito effettivo ed efficace per l’ulteriore corso, oltre che pretesa certo non palesemente illogica è la precondizione del funzionamento del complesso del nuovo articolato sistema. Si pensi infatti al deposito solo informatico dell’atto di impugnazione o sua presentazione cartacea a cura della parte o suo incaricato presso l’ufficio che ha pronunciato la sentenza che si impugna [ii]; all’aumento di quindici giorni dei termini per impugnare nel caso di imputato assente; ai quaranta giorni quale termine per comparire; ai due anni o all’anno – a regime – entro i quali tendenzialmente deve intervenire la definizione; al fatto che l’inizio del decorso di tale termine di durata massima del giudizio di impugnazione probabilmente avverrà spesso quando il fascicolo non è ancora pervenuto al giudice di appello o di cassazione. Sono tutte norme e previsioni che presuppongono la possibilità di immediato contatto dell’appellante.
È noto che sul tavolo del ministro Nordio pende già un’articolata richiesta di modifica di tale disciplina. Sul punto quindi quanto mai attuali degli approfondimenti.
3.1. Lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale (art. 571, comma 3, seconda parte, testo originario).
È utile ricordare che il codice Vassalli prevedeva, già dal testo originario, proprio lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale [571, comma 3, seconda parte: “Tuttavia, contro una sentenza contumaciale, il difensore può proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato, rilasciato con la nomina o anche successivamente nelle forme per questa previste]. Si tratta quindi di esigenza già sentita e condivisa fin dall’impostazione di quello che avrebbe dovuto essere il nuovo avanzato processo di parti, il processo accusatorio: nell’impostazione teorico sistematica di quel processo accusatorio quindi si era considerato pienamente coerente l’onere per l’imputato di conferire il mandato speciale per l’impugnazione che apriva un nuovo grado del giudizio su sua richiesta.
È significativo che la ragione dell’introduzione del mandato speciale ad impugnare, nel caso di impugnazione in favore dell’imputato contumace, era stata indicata nella relazione accompagnatoria, e da alcuna dottrina, nell’intento di evitare effetti preclusivi in danno dell’imputato per la sua volontà di impugnare autonomamente la sentenza (Commento al nuovo codice di procedura penale, Utet, 1991, sub 571, p.46).
La necessità del mandato speciale venne esclusa dopo dieci anni, dall’art. 49 della legge 479/1999.
È interessante rilevare che la ragione addotta nei lavori parlamentari dalla Relazione non fu un ripensamento della correttezza sistematica dell’istituto ma, solo, di consentire la possibilità dell’impugnazione della sentenza contumaciale anche al difensore d’ufficio, oltre che al difensore di fiducia, operando la soppressione dell’ultima parte del comma 3 dell’articolo 571 del codice di procedura penale, in base alla quale il difensore può proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale solo se munito di apposito mandato. Quindi non venne affatto messa in discussione la coerenza sistematica del principio che il difensore di fiducia per impugnare le sentenze contumaciali dovesse munirsi di un mandato speciale ma, pare evincersi, si ritenne che ciò finisse per discriminare potenzialmente i difensori di ufficio, per i quali l’acquisizione di un mandato speciale, sia pure limitato alla legittimazione ad uno specifico atto di impugnazione altrimenti inibito (mandato che, pertanto, poteva non modificare la natura ufficiosa dell’assistenza legale limitandosi a legittimare il difensore al singolo atto), appariva almeno potenzialmente difficoltosa. Da qui l’eliminazione del mandato per tutti i difensori, anche nominati di fiducia [iii].
3.2. La grande dimenticata: la procura speciale per l’impugnazione (571, comma 1).
Credo davvero utile che il confronto sul tema si apra anche a considerare l’impatto, su di esso, della procura speciale tuttora prevista dall’art. 571, primo comma.
Tale norma, riprendendo del resto la disciplina dell’art. 192, primo comma, del codice di procedura penale del 1930, stabilisce che l’imputato possa proporre impugnazione anche per mezzo di un procuratore speciale, nominato anche prima della emissione del provvedimento.
Quindi, oggi, l’appello, nel caso di imputato presente, può essere proposto dall’imputato personalmente o dall’imputato a mezzo procuratore speciale o dal difensore. Nel di imputato nei cui confronti si è proceduto in assenza, dall’imputato personalmente o dall’imputato a mezzo procuratore speciale nonché dal difensore se munito di mandato speciale [iv].
Già nel 1995 la Corte di cassazione aveva evidenziato la differenza tra mandato speciale a proporre impugnazione, rilasciato al difensore, e procura speciale per proporre (in proprio) impugnazione.
Sez. 6, Sentenza n. 2320 del 07/06/1995 Cc. (dep. 17/08/1995), imp. Pirani, aveva infatti precisato che “Mentre il mandato speciale a proporre impugnazione non può essere rilasciato dall'imputato al difensore con riferimento all'eventuale mandato di contumace in un momento anteriore all'emissione della sentenza, analogo limite non sussiste per la procura speciale, la quale può essere rilasciata in via preventiva, in epoca anteriore alla pronuncia del provvedimento e per l'eventualità che si verifichino le condizioni per l'espletamento dell'atto che della procura medesima costituisce l'oggetto”.
È importante evidenziare che mai si è dubitato che la procura speciale ad impugnare, diversa dal mandato specifico ad impugnare, potesse essere rilasciata anche al difensore [v].
Evidenti le implicazioni, se la ricostruzione proposta è condivisibile: oggi in favore dell’assente in realtà il difensore, di fiducia o anche d’ufficio, può proporre appello o in ragione del mandato specifico ad impugnare rilasciato dopo la pronuncia del pur solo dispositivo ovvero perché nominato procuratore speciale ai sensi dell’art. 571, comma 1, con atto anche precedente tale pronuncia purchè indicante specificamente l’ambito impugnatorio della procura.
Ciò significa, in concreto, che il difensore, anche d’ufficio, che dubiti della possibilità di farsi rilasciare dall’assistito lo specifico mandato ad impugnare del comma 3 dell’art. 571, dopo la pronuncia della sentenza, o anche solo per cautela organizzativa, può proporre all’assistito di essere destinatario di una procura speciale rilasciata prima della deliberazione del primo grado per l’eventualità che, sulla base di criteri spiegati e concordati sia opportuno o necessario impugnare la pronuncia di primo grado.
Si tratta di riflessione che appare avere una rilevanza tutt’altro che secondaria quando si vanno ad esaminare le ragioni della contrarietà alla disciplina dell’art. 571, comma 3, che vengono dedotte.
3.3. Le conseguenze del contrasto SU/Corte costituzionale sulla consumazione del diritto dell’imputato ad impugnare.
L’appello proposto dal difensore quale procuratore speciale ai sensi dell’art. 571, comma 1 (quindi esercitando il potere proprio dell’imputato) avrebbe questa peculiarità importante: impedirebbe la vanificazione dei gradi del giudizio che si produce invece con la sua nuovamente sollecitata e richiesta possibilità di una sua impugnazione autonoma anche nel caso in cui l’assistito nulla sappia della presentazione dell’impugnazione, quindi impugnazione proposta quale difensore senza procura e senza mandato speciale di imputato che ignori la pendenza dei giudizi di appello e di cassazione.
La previsione del mandato speciale ad impugnare introdotto per l’imputato processato in assenza dall’art. 581, comma 1-quater, è stata determinata anche dalle ancora attuali conseguenze cui ha condotto il contrasto Sezioni Unite/Corte costituzionale: la sistematica sostanziale vanificazione dei gradi di giudizio di impugnazione attivati per iniziativa autonoma dei difensori, quando questi apparentemente non avevano avuto, e non hanno, previo contatto con gli assistiti in favore dei quali propongono l’atto di impugnazione.
Come noto il contrasto è intervenuto sul tema dell’unicità del diritto di impugnazione e quindi sulla sua possibile definitiva consumazione da parte del difensore (di fiducia o di ufficio). Le Sezioni Unite (sentenza 6026/2008) avevano affermato che l’impugnazione proposta dal difensore nell’interesse dell’imputato contumace (o latitante) precludeva alcuna restituzione in termini dell’imputato per (ri)proporre l’impugnazione già proposta e deliberata. Corte costituzionale sent. 317/2009 prende atto di tale diritto vivente e giudica la soluzione contraria alle regole costituzionali, concludendo che “è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 24, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., l'art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente la restituzione dell'imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato”.
Orbene, nel caso di impugnazione proposta dal difensore quale procuratore speciale ai sensi dell’art. 571, comma 1, la giurisprudenza di legittimità ha già insegnato che con tale procura speciale l’imputato consuma il proprio diritto ad impugnare (L'imputato che, dopo una sentenza emessa in contumacia nei suoi confronti, conferisce al proprio difensore procura speciale per proporre impugnazione, è privo di legittimazione a chiedere o a far chiedere dal suo fiduciario di essere rimesso in termini per impugnare autonomamente la decisione, nonostante la mancata notifica dell'estratto contumaciale, essendosi spogliato, mediante il rilascio della delega, del proprio diritto all'impugnazione: Sez.6, sent. 10537/2017).
Quindi, la soluzione della procura speciale rilasciata per l’impugnazione ai sensi dell’art. 571, comma 1, impedisce che i successivi giudizi di impugnazione attivati per iniziativa (delegata e nei termini di una discrezionalità di azione concordata al momento del rilascio di tale procura) possano essere messi poi nel nulla.
4. Obbligo deontologico, responsabilità professionale e impugnazione in favore dell’imputato inconsapevole. Il ‘colloquio’ tra giudice e difensore sui contatti con l’imputato?
Obbligo deontologico/etico avverso la sentenza ritenuta comunque ingiusta e timore di responsabilità professionale indifendibile sono sostanzialmente i nuclei essenziali delle ragioni del forte dissenso.
4.1.1. È certo apprezzabile l’impostazione deontologica che la classe forense richiama per sostenere una propria anche esclusiva competenza a contestare una sentenza ritenuta ‘ingiusta’, nell’interesse obiettivo pure dell’assistito non reperito e non consapevole.
Ma occorre tuttavia prendere atto quantomeno:
- della già commentata potenziale inutilità del complesso dell’attività giurisdizionale e amministrativa cui si dà in tal modo seguito ogni qualvolta le impugnazioni non siano state giudicate fondate (la casistica è ricca di vanificazione di entrambi i gradi di impugnazione, merito e legittimità, con il conseguente ripetuto mero impiego a vuoto delle non adeguate risorse, di uomini e mezzi, disponibili; né francamente si potrebbero richiedere maggior risorse per giustificare processi che poi evaporano per quelle che sono le norme vigenti);
- della ulteriore importante stretta che la disciplina dell’assenza riceve sia per il primo grado [nuovi 420-bis, 420-ter.1, 420-quater, 604.5-bis] che per il giudizio di appello [604.5-ter e 604.5-quater]. Proprio tale articolata disciplina, volta ad aumentare esponenzialmente l’aspettativa che alla regolarità formale della citazione al giudizio di primo grado corrisponda l’effettiva consapevolezza dell’interessato relativa alla trattazione processuale, contribuisce a creare le premesse fattuali per sollecitare l’attivazione dei difensori ad un contatto personale con l’assistito, che sia caratterizzato dall’articolata spiegazione del seguito procedimentale e della necessità di una non sostituibile responsabilizzazione dello stesso interessato;
- del fatto che la rivisitazione della disciplina in primo grado ha un’immediata ricaduta in quella delle questioni di nullità nel giudizio di appello [vi];
- dell’incisività della giurisprudenza di legittimità sull’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario d’ufficio e l’indagata o imputato (SU sent. 23948/2020, così massimata: Ai fini della dichiarazione di assenza non può considerarsi presupposto idoneo la sola elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio, da parte dell'indagato, dovendo il giudice, in ogni caso, verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata l'effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l'indagato, tale da fargli ritenere con certezza che quest'ultimo abbia avuto conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla stessa(Principio affermato in relazione a fattispecie precedente all'introduzione dell'art. 162, comma 4-bis, cod. proc. pen. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103));
- dell’introduzione dell’art. 162, comma 4-bis (con la necessità dell’assenso alla domiciliazione).
In realtà, va riconosciuto che nel giudizio di primo grado occorre ormai e quindi un’accurata conoscenza e valutazione di cosa è accaduto nel corso del procedimento e dall’epoca delle notificazioni della citazione a imputato e difensore/i e al loro rapporto. Perché non penso sia sbagliato, o eccessivo, affermare che è difficile che il giudizio di primo grado si possa dopo il d. lgs. 150/2022 ritualmente celebrare se il difensore, anche d’ufficio, non ha mai potuto avere un contatto con l’assistito, salvo forse il caso della notifica all’imputato a mani proprie e del rifiuto di costui ad avere contatto alcuno con il difensore.
Ma, in tal caso, ritorna la centralità del tema di quale sia l’imputato/tipo considerato dai principi del giusto processo: il rifiuto al contatto con il difensore che conduca all’impossibilità di impugnare una sentenza sfavorevole è condotta che, avuto riguardo all’imputato/tipo del giusto processo impone tutela anche quando conduca alla trattazione di processi di impugnazione poi vanificabili? Il rifiuto ad ogni responsabilizzazione pur nella consapevolezza delle conseguenze dannose possibili, merita o addirittura impone tutela? Si consideri che già ora il tema della colpevole mancata conoscenza è oggetto di specifiche previsioni normative (629-bis, primo comma ultima parte ed è stato oggetto della giurisprudenza di legittimità per l’applicazione dell’art. 175).
4.1.2. Le considerazioni che precedono rendono ineludibile confrontarsi con una tematica peculiare. Infatti l’esigenza di accertare l’effettiva instaurazione di un rapporto professionale biunivoco, o le ragioni della sua mancanza, pone o accentua un problema che presenta profili delicati.
Il giudice di primo grado [e quello di appello che deve valutare se sussista questa sorta di condizione ostativa alla possibilità di eccepire o rilevare la nullità] non ha né può consultare il fascicolo del pubblico ministero, per cui diviene onere del rappresentante della parte pubblica, nei due gradi, acquisire e rappresentare i fatti di possibile pertinente rilievo procedimentale che si sono verificati nella fase delle indagini preliminari e fino all’eventuale udienza preliminare. Ma, e a me pare soprattutto, nel nuovo sistema diviene nevralgica la comprensione di quale sia stato il rapporto tra l’imputato ed il suo difensore, di fiducia o di ufficio che sia, in particolare dal momento della ricezione dell’avviso di fissazione dell’udienza da parte dello stesso difensore.
E questo aspetto, essenziale nell’economia della disciplina al fine di poter affermare o escludere anche la conoscenza della pendenza del processo, è nella conoscenza del solo difensore, quando l’imputato non sia presente ovvero manchino gli elementi documentali (una nomina, un’istanza, la presentazione di un certificato medico, ecc.) dal cui contenuto si possa evincere esaustivamente, anche solo sul piano logico, il dato della conoscenza della pendenza del processo (e non già del solo procedimento), se non specificamente della data dell’udienza.
Ed allora diviene fisiologia della relazione tra giudice e parti, con la nuova disciplina, che il primo nelle situazioni di incertezza possa, o debba in realtà, interpellare il difensore su quali siano stati i suoi contatti con l’imputato dalle notifiche, per applicare correttamente la norma? Ovvero che debba essere riconosciuto uno speculare obbligo del difensore, di fiducia o di ufficio, di rappresentare al giudice di primo grado (e dedurre specificamente e analiticamente nell’eventuale motivo di appello) l’assenza di ogni rapporto e le ragioni che la hanno determinata? [vii].
Si obietta che si tratterebbe di violazione della sacralità della segretezza del rapporto tra difensore ed assistito. Ma, si dovrebbe osservare, la ‘pretesa’ non sarebbe quella di informazioni sul contenuto del rapporto, bensì solo sul fatto procedimentale dell’effettivo contatto.
Si tratta comunque e appunto di tema delicato, meritevole di approfondimento davvero ineludibile [viii], nel quale ancora una volta emerge la nuova centralità del tema del ‘tipo’ di soggetti del processo che i principi del giusto processo orientato ai principi costituzionali e di norme e giurisprudenza Cedu considerano come presupposto della loro applicazione e del loro ambito di operatività.
4.2. Da ultimo, quale responsabilità professionale potrebbe mai configurarsi quando l’imputato informato da autorità giudiziaria e polizia giudiziaria degli oneri informativi specifici che ha nei confronti del difensore (157.8-ter ultima parte e 161.01 ultimo periodo), informato specificamente dal difensore in ordine alle tematiche del processo e della sua possibile evoluzione e degli oneri per impugnare (tutto documentabile agevolmente), si sia disinteressato al proprio processo e si sia comunque e in concreto sottratto al contatto del difensore? La previsione dell’art. 157, comma 8.quater lo conferma pienamente (“L'omessa o ritardata comunicazione da parte del difensore dell'atto notificato all'assistito, ove imputabile al fatto di quest'ultimo, non costituisce inadempimento degli obblighi derivanti dal mandato professionale”).
5. L’imputato consapevolmente disinteressato e il giusto processo Torniamo alla domanda iniziale. No, l’imputato che consapevolmente si disinteressa del proprio procedimento dopo essere stato informato di contenuto e prospettive e dell’obbligo di mantenere contatto e reperibilità non è l’imputato/tipo parametro su cui il giusto processo tara i propri principi. E lo scostamento “a lui imputabile” (157.8-quater) rimane a suo danno.
[i] Va ricordato che nel caso di difensore d’ufficio anche in Corte di cassazione si procede con le notifiche personali all’imputato (613, comma 4).
[ii] Si noti, unica soluzione per evitare l’ingovernabile ‘limbo’ della spedizione per posta o dell’invio, per posta sempre, da altro ufficio, e così acquisire all’effettiva scadenza del termine per impugnare la tempestiva informazione se la sentenza è stata impugnata o è divenuta irrevocabile.
[iii] Fin d’ora è opportuno ricordare, ci si ritornerà, quanto sia cambiata da allora la disciplina e la legislazione della difesa d’ufficio e della sua relazione con l’imputato.
[iv] Per il ricorso per cassazione, stante l’esclusione del ricorso personale dell’imputato, l’impugnazione può essere proposta solo dal difensore munito di mandato speciale, se l’imputato nel giudizio di appello era assente (e quindi per tutti i giudizi celebrati con rito a contraddittorio scritto), o autonomamente se l’imputato era presente.
[v] Commento al nuovo codice di procedura penale, Utet, 1991, sub 571, p.41, 42 e giurisprudenza lì richiamata.
[vi] La dichiarazione di assenza quando mancavano le condizioni dei primi tre commi dell’art. 420-bis determina la nullità della sentenza di primo grado, che però deve essere eccepita con specifico motivo di appello altrimenti è sanata [604, nuovo 5-bis]: non può pertanto essere rilevata d’ufficio. Quando dichiara la nullità il giudice di appello dispone la trasmissione degli atti al giudice che procedeva quando la nullità si è verificata. Non sussiste comunque nullità [604, nuovo 5-bis, ultima parte] se risulta che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo ed era nelle condizioni di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata.
[vii] In proposito potrebbe rilevare anche il peculiare dovere di verità indicato dal n. 5 dell’art. 50 del codice deontologico forense: 5. L’avvocato, nel procedimento, non deve rendere false dichiarazioni sull’esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato. In altri termini, il tema del contatto informativo con l’assistito in relazione alla fissazione e trattazione del processo costituisce “fatto di cui si ha diretta conoscenza e presupposto di un provvedimento del magistrato”?
[viii] Così come quello del contenuto della discussione nel giudizio d’appello in presenza e della possibilità che il giudice indichi al difensore appellante punti e aspetti dell’impugnazione da chiarire o approfondire senza rischiare ricusazioni, ma questo è un altro tema.
Misure di prevenzione contro il dissenso: no grazie (nota a decreto Tribunale di Milano 10-19.1.2023, sez. misure di prevenzione, F.)
di Vittorio Gaeta
“Lo sforzo di tutti i poteri costituiti, dopo le esperienze della Rivoluzione francese, per accrescere i mezzi di mantenimento dell'ordine nelle strade, culmina finalmente con la soppressione delle strade stesse”
Guy Debord, La società dello spettacolo
Sommario: 1. Il caso e la sua soluzione - 2. Il foglio di via per gli antagonisti o presunti tali - 3. L'uso antidemocratico dell'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11 - 4. Le misure di prevenzione e il neofascismo: conseguenze per l'oggi - 5. Conclusione: per la libertà delle strade.
1. Il caso e la sua soluzione
Ha destato un certo scalpore, all'inizio di questo 2023, il gesto di alcuni attivisti del gruppo ambientalista “Ultima generazione” che hanno gettato vernice lavabile rossa sul portone di Palazzo Madama per sensibilizzare l'opinione pubblica. L'episodio, ultimo di vari analoghi anche internazionali, ha finito per sovrapporsi alla trattazione da parte della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano di una richiesta di sorveglianza speciale, formulata dal Questore di Pavia nei confronti di S.F., noto attivista di quel gruppo.
All'esito dell'udienza del 10 gennaio, con il provvedimento che si commenta il Tribunale di Milano ha respinto la richiesta del Questore, condivisa dalla Procura, di ritenere la pericolosità sociale del proposto ai sensi dell'art. 1 lett. c) d.lgs 159/11.
Il decreto del Tribunale di Milano richiama diffusamente gli episodi per i quali l'attivista è stato denunciato, quasi tutti consistenti in assembramenti improvvisi in luoghi pubblici di varie città, realizzati per lo più sedendosi per terra e bloccando il traffico per brevi periodi di tempo.
Il Tribunale evidenzia che nessuno degli episodi sembra avere implicato l'uso di violenza, tanto che dalle numerosissime denunce sono finora scaturiti soltanto un decreto penale di condanna per violazione di foglio di via obbligatorio (FVO) e un'iscrizione sul registro degli indagati per un'ipotesi di danneggiamento aggravato consistente nell'avere incollato uno striscione con la dicitura “Ultima generazione” al basamento di una statua posta in un museo. Di conseguenza, il giudice della prevenzione ha ritenuto che un giudizio di pericolosità non potesse fondarsi su gravi fatti accertati di rilievo penale e che in ogni caso fossero sufficienti le misure in corso, e cioè i FVO notificati all'attivista da ben sei Questure e l'avviso orale del Questore di Pavia.
La decisione, sicuramente condivisibile nel risultato finale, non elimina i motivi di inquietudine che sussistono per lo stato delle libertà civili riconosciute dal nostro Paese agli attivisti di orientamento politico, ambientale o sindacale non convenzionale – o, come suol dirsi, antagonista[1].
2. Il foglio di via per gli antagonisti o presunti tali
A un lettore non specialistico del decreto balza subito agli occhi la sproporzione tra la quantità di denunce e di iniziative di prevenzione e l'evanescenza dei fatti che ne sono oggetto.
In passato, il ricorso massiccio al foglio di via obbligatorio era contestato da gran parte della dottrina ed era oggetto di interpretazioni giurisprudenziali che lo legittimavano per le sole persone per le quali fosse possibile, in caso di reiterazione delle condotte, la sorveglianza speciale per “traffici delittuosi” (poi dichiarata illegittima da Corte Cost. nr. 24/19) o per vivenza con proventi di delitti: non quindi, ad es., per le persone dedite alla prostituzione in assenza di pubblico adescamento.
Ben diversa è la realtà attuale, nella quale il FVO è diventato uno strumento ordinario di gestione dell'ordine pubblico nei confronti di attivisti sindacali[2] e ambientalisti[3] non conformisti, insieme o in alternativa alla sorveglianza speciale di P.S. Come nel noto caso Marcucci, oggetto di Cass. pen. nr. 32903/21, la cui massima ufficiale è: “In tema di misure di prevenzione, può ritenersi socialmente pericoloso per la sicurezza e la tranquillità pubblica, ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. c), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il soggetto che risulti dedito, in maniera non occasionale, alla commissione di fatti criminosi la cui offensività sia proiettata verso beni giuridici non meramente individuali, ma connessi alla preservazione dell'ordine e della sicurezza della collettività, quali condizioni materiali necessarie alla convivenza sociale. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto indicativi di pericolosità fatti di reato di cui agli artt. 336 e 337 cod. pen.)”.
Di fatto, si è creata una sorta di senso comune di normalità e correttezza del ricorso a misure di prevenzione per i problemi di ordine pubblico che possano derivare dal dissenso politico. La stessa apprezzabile remora ad adottare la più gravosa e stigmatizzante sorveglianza speciale c.d. non qualificata (che viene iscritta sul casellario giudiziale), percepibile nel provvedimento in esame, non tocca la prassi dei FVO, la cui applicazione pure è ancorata agli stessi presupposti normativi (art. 1 lett. b)-c) d.lgs. 159/11). Anche se non appare casuale l'accenno del Tribunale di Milano a possibili future assoluzioni dal reato di contravvenzione al FVO che si fondino su un giudizio di illegittimità del provvedimento amministrativo.
Non è sempre stato così. Manifestazioni di tipo politico che creassero disagi e fastidi ai non partecipanti vi sono sempre state nella storia repubblicana, e in tempi passati in forme ben più disturbanti (per usare un eufemismo) degli eventi-happening degli ambientalisti di oggi. Ma i pubblici poteri non credevano di poterle e doverle affrontare con fogli di via o sorveglianze speciali, misure che richiamavano periodi poco luminosi della nostra storia.
Per quanto democratica possa autodefinirsi e per quanto sia legittimata da un giudice, infatti, una sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per attivisti politici non è sostanzialmente diversa dal confino di polizia che veniva somministrato a certi oppositori durante la monarchia e anche prima del fascismo, specie ai tempi di Francesco Crispi.
Sin dalla seminale sentenza nr. 2/56 della Corte Costituzionale, per la quale “la pericolosità in riguardo all'ordine pubblico non può consistere in semplici manifestazioni di natura sociale o politica, le quali trovano disciplina in altre norme di legge”, l'ordinamento repubblicano ha dato per assodata la possibilità di colpire il dissenso radicale verso gli orientamenti politici dominanti solo con il diritto penale, se si concretizza in reati, e non con misure di prevenzione fondate su un giudizio di pericolosità.
Al contrario, oggi si tende a dare per scontato che la contestazione radicale del sistema si giustifichi solo nei confronti di regimi autoritari, mentre sarebbe intrinsecamente antigiuridica nell'ambito di uno Stato democratico che garantisce i diritti fondamentali.
Sia sul piano concettuale che su quello storico, tuttavia, il discrimine tra dittatura e democrazia non è sempre netto ed evidente, e viene ridefinito ogni giorno nella vita pubblica: si pensi alla democratura turca, nella quale pesanti misure repressive della minoranza curda e di certe opposizioni coesistono con l'amministrazione delle principali città da parte di sindaci avversi al presidente Erdoğan.
Che lo si voglia o no, un sistema politico che espella preventivamente tutte le forme radicali di contestazione si trasforma inevitabilmente in una più o meno soave dittatura.
3. L'uso antidemocratico dell'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11
Lo strumento normativo con il quale si attua la distorsione antidemocratica delle misure di prevenzione è costituito dall'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11, norma alla quale - dopo che Corte Cost. nr. 24/19 ha dichiarato l'illegittimità della prevenzione per i soggetti dediti a “traffici illeciti” - si fa crescente ricorso. E' netta la sensazione che parte delle Questure e della magistratura vogliano tenersi le mani libere per applicare restrizioni della libertà personale e di circolazione in assenza di rigorosi presupposti normativi.
Di per sé, il testo dell'art. 1 lett. c) non sembrerebbe autorizzare prassi disinvolte: esso si riferisce a “coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, comprese le reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio di cui all'articolo 2, nonché dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla vigente normativa, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”.
Non si ha tuttavia notizia di misure di prevenzione applicate a imprenditori o faccendieri dediti alla commissione di reati contro l'ambiente, che pure offendono la sanità pubblica, mentre è sempre più frequente la tutela di “sicurezza o tranquillità pubblica” mediante l'applicazione di tali misure a persone denunciate o condannate per reati di violenza privata, lesioni, resistenza/minaccia a pubblico ufficiale, anche quando espressivi di un dissenso politico e sociale.
Eppure la norma non richiama l'offesa o messa in pericolo dell'ordine pubblico, e questo dovrebbe far pensare: il testo dell'art. 1 lett. c) si preoccupa di garantire solo i beni giuridici ben meno pregnanti della “sicurezza o tranquillità pubblica”. Difficile pensare che si sia trattato di un'omissione, anziché di una precisa scelta di un legislatore repubblicano che riteneva di poter colpire con misure di prevenzione non il dissenso radicale politico-sociale, ma solo manifestazioni di antisocialità extrapolitica.
Ancora nel recente passato la dottrina[4] segnalava il rischio della dilatazione della fattispecie dell'art. 1 lett. c) mediante l'applicazione “nei confronti di persone che esprimono il dissenso o il disagio sociale”, facendo l'esempio di richieste di sorveglianza speciale, poi rigettate, per disoccupati organizzati napoletani o anarchici bolognesi.
Sull'involuzione attuale, invece, sembra calato il silenzio. Ma non per questo si può rinunciare all'analisi critica di questi temi mediante il metodo dell'interpretazione sistematica, che pure oggi sembra soppiantato dalla mimesi rassegnata dei pulviscoli normativi. Rassegnazione della quale la realtà si vendica: la previsione ad opera del secondo comma dell'art. 5 del D.L. nr. 162/22 (c.d. anti-rave, in realtà anti-raduni) di una specifica figura di sorveglianza speciale per gli indiziati della nuova figura criminosa è stata soppressa solo a seguito del confronto parlamentare che ha saputo eliminare l'obbrobrio, senza alcun significativo contributo della scienza giuridica.
4. Le misure di prevenzione e il neofascismo: conseguenze per l'oggi
Per il legislatore repubblicano, il tabù del ricorso alle misure di prevenzione per la gestione dell'ordine pubblico e il controllo del dissenso politico-sociale era così forte che, per contenere determinati gravi fenomeni di violenza politica degli anni Settanta (di certo più allarmanti delle resistenze passive delle quali si è dovuto occupare adesso il Tribunale di Milano)[5], fu istituita con l'art. 18 co. 1° nr. 3 legge c.d. Reale nr. 152/75 una figura qualificata di pericolosità riguardante “coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista (…), in particolare con l'esaltazione o la pratica della violenza“. Norma poi trasfusa nel vigente art. 4 lett. f) d.lgs. 159/11, che ha aggiunto l'ipotesi degli atti “esecutivi” diretti alla ricostituzione del partito fascista.
Pur disponendo di una norma analoga all'attuale art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11, quindi, il legislatore repubblicano degli anni della guerra civile strisciante non la considerava applicabile agli estremisti neofascisti (e, evidentemente, agli estremisti di opposto orientamento), sì da ritenere necessaria, per il contenimento dei soggetti più pericolosi, l'introduzione di una specifica ipotesi di sorveglianza speciale, peraltro riguardante coloro che, senza limitarsi ad atti pur gravi di violenza politica, intendessero addirittura preparare la ricostituzione del partito fascista vietata dalla XII disposizione transitoria della Costituzione.
In proposito, occorre tener conto della non estraneità del principio di specialità sancito dall'art. 15 del codice penale, espressione di quello che Mantovani chiamava il ne bis in idem sostanziale, alla materia comunque collegata della prevenzione.
La sorveglianza speciale “antifascista”, prevista oggi dall'art. 4 lett. f) d.lgs. 159/11, non è di certo una species di quella generica prevista dall'art. 1 lett. c), per il semplice fatto che pur riguardando condotte all'evidenza più gravi non è maggiormente afflittiva: ha la medesima durata “edittale”, comporta le medesima possibilità di misure patrimoniali e può essere seguita da riabilitazione per buona condotta dopo il trascorrere del medesimo tempo. Anzi, l'attività preparatoria della ricostituzione del partito fascista non consente neppure l'applicazione del foglio di via obbligatorio o dell'avviso orale che invece sono possibili per le persone indicate dall'art. 1 lett. c).
Doveroso è infatti il distinguere i due casi di fatto possibili:
a) se all'estremista di destra che prepari la ricostituzione del partito fascista potesse applicarsi, in alternativa, sia la misura specifica prevista dall'art. 4 lett. f) che quella generica prevista dall'art. 1 lett. c), si rischierebbe un'ingiustificata duplicazione (bis in idem), rispetto alla quale l'estremista avrebbe anzi convenienza a dedurre l'attività preparatoria di ricostituzione del partito fascista, che essa sola non gli farebbe rischiare il FVO o l'avviso orale, ma “solo” la sorveglianza speciale;
b) se all'estremista di destra che pratichi la violenza senza progettare la ricostituzione del partito fascista si applicasse la misura generica dell'art. 1 lett. c), si rischierebbe di praticargli un trattamento identico se non più deteriore - attesa la possibilità di applicazione di FVO e di avviso orale - rispetto agli estremisti più pericolosi, portatori di quel progetto.
Bisogna ricordare che la ricostituzione del partito fascista è l'unica attività politica che nel nostro Paese è vietata anche se non esercitata con metodi terroristici o apertamente eversivi, perché pone in pericolo il sistema democratico configurato dalla Costituzione. L'esaltazione e la pratica sistematica della violenza che la caratterizzano consentono quindi di prevenirla con specifiche misure, che invece – come affermato da Corte Cost. nr. 2/56 - sono precluse per ogni altra espressione sociale o politica, nessuna delle quali è oggetto di divieto o di prevenzione, fatta salva la punizione degli autori di singoli reati.
E, sia bene evidenziarlo, neppure l'attività politica di ispirazione neofascista come tale è vietata - al di là di eventuali reati dei quali rispondono gli autori secondo le regole del diritto penale - se non si traduce in quella ricostituzione del partito fascista. Come del resto comprovato dal fatto che nessuna iniziativa giudiziaria per l'ipotesi di ricostituzione formulata in passato contro il MSI è mai pervenuta neppure alla fase del dibattimento.
La stessa attività preparatoria, poi, è soggetta a prevenzione solo se svolta con l'esaltazione o la pratica della violenza che risultino obiettivamente rilevanti: non bastano quindi condotte apologetiche o violente non finalistiche, né tanto meno manifestazioni nostalgiche come saluti romani e simili. La prassi applicativa della sorveglianza speciale “antifascista” è stata del resto saggiamente misurata e ha riguardato soprattutto soggetti attivi tra gli hooligan del calcio; di recente, si è parlato di sorvegliati speciali neofascisti in occasione dell'assalto squadristico romano dell'ottobre 2021 alla CGIL.
Ora, se è lo stesso sistema normativo formatosi negli anni Settanta e tuttora vigente a dimostrare che, in omaggio a quanto sancito da Corte Cost. nr. 2/56, i problemi di ordine pubblico creati dal dissenso politico di orientamento neofascista possono essere oggetto di misure di prevenzione solo se sfociano in atti preparatori di ricostituzione del partito fascista, e non soltanto in reati violenti come tali, non si vede perché a diversa conclusione si possa o si debba arrivare per i problemi di ordine pubblico creati dal dissenso politico di diverso orientamento, che all'evidenza non potrebbe mai sfociare in ricostituzione del partito fascista.
Quando è in gioco la libertà personale, infatti, la logica giuridica non può cedere a esigenze puramente sostanziali, magari perché ispirata - per stare al caso esaminato dal decreto in commento - al comprensibile fastidio degli automobilisti per gli eventi ambientalisti. Non sembra il caso di somministrare FVO e sorveglianze speciali a chi rallenta il traffico delle strade urbane di scorrimento, non è questo che vuole la Costituzione.
5. Conclusione: per la libertà delle strade
Il decreto in commento pone un punto fermo sull'uso delle misure di prevenzione contro il dissenso politico e sociale ma, anche a causa del suo oggetto delimitato, lascia aperti una serie di interrogativi. Il testo dell'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11 non menziona l'ordine pubblico, che nella logica della Costituzione è estraneo alle valutazioni di pericolosità quando riguarda conflitti sociali e politici, con l'unica eccezione della preparazione della ricostituzione del partito fascista, e ovviamente del terrorismo e dell'aperta eversione. I reati vanno perseguiti, ma le strade dovrebbero tornare occupabili senza rischio di foglio di via obbligatorio anche per la dimensione pubblica, e non per il solo scorrimento delle merci e dei loro portatori. Come avevano immaginato, alla fine del periodo più confuso e vivace della storia repubblicana, gli inni di cantanti popolari come Baglioni e Gaber.
[1] Di questo e di altri temi collegati mi sono occupato nel saggio Il ritorno del diritto di classe, reperibile in https://www.giustiziainsieme.it/it/news/74-main/93-diritto-ed-economia/2453-il-ritorno-del-diritto-di-classe
[2] Attivi nei sindacati c.d. conflittuali come ad es. i Cobas
[3] Si veda ad es. la sua applicazione (in parte poi revocata dalla stessa Questura) ad attivisti ambientalisti che il 25.7.2022 scalarono il palazzo della Regione Piemonte per esporre uno striscione e incatenarsi, perché dediti a reati che mettono in pericolo la sicurezza/tranquillità pubbliche. A seguire tali criteri, chissà quali misure si sarebbero prese nei confronti degli attivisti guidati dalla cantante Gianna Nannini che nel 1995 scalarono l'ambasciata di Francia a Roma per protestare contro degli esperimenti nucleari.
Un vivido ritratto della peculiare situazione torinese è fornito dalla giornalista Selvaggia Lucarelli sul Fatto quotidiano del 7.2.2023, nell'articolo La sindrome Pd: lotta per Cospito e ignora i ragazzi coi megafoni.
[4] Menditto, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali, vol. I, pagg. 133-134, ed. Giuffré, 2019.
[5] Anche se il Questore di Pavia è giunto a parlare, per la protesta davanti all'ingresso del teatro alla Scala di Milano (cfr. pag. 9 del decreto), nientemeno che di “sacralità del luogo”.
La lenta partenza della riforma della giustizia tributaria e la necessità di cambiarne l’inerzia - Editoriale
di Enrico Manzon
Sommario: 1. Una partenza al rallentatore - 2. Cambiare l’inerzia della riforma - 3. Una scelta politica.
1. Una partenza al rallentatore
La legge 130 del 2022, recante Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari, a pochi mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale sta muovendo i primi passi.
Lentamente, molto lentamente.
Prorogati, con il decreto legge milleproroghe 2022, i termini di “pensionamento” dei giudici tributari più anziani di età anagrafica (parecchi dei quali in ruoli direttivi o semidirettivi), entrate in vigore alcune misure processuali, alla data del 14 febbraio 2023 sono alfine scaduti i termini del bando per l’opzione dei giudici tributari “togati”. Risultato: 37 optanti, poco più di un terzo. Un risultato ampiamente insoddisfacente.
Ma è una “falsa partenza” ? dipende. Se queste risorse verranno impiegate come previsto dal bando del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria (delibera n. 1559/2022), senz'altro sì. 70 posti in primo grado, 30 in appello, sparsi qua e là sul territorio nazionale. Un secchio di acqua per irrigare un ettaro di terra, non servirà pressoché a nulla.
Questa però era una pietra angolare del nuovo edificio disegnato dalla legge 130, che così mostra subito una crepa importante e perciò pare già pericolante. In un quadro generale di innovazioni ordinamentali, tanto ambiziose, quanto aleatorie, se non addirittura velleitarie, l’idea di avere subito cento magistrati “di professione” e giudici tributari ormai consolidati da destinare «prioritariamente» alle Corti di secondo grado doveva essere la prima – fondamentale – manovra di “atterraggio” del nuovo aereomobile o, se si preferisce, il primo modo per passare dalle parole ai fatti.
Ma così non sarà, con tutto il dovuto rispetto per la buona volontà e la capacità degli "optanti", dei dirigenti delle Corti e del CPGT. In ogni caso, ne rimane sicuramente inevasa la ratio funzionale delle disposizioni legislative che disciplinano l’opzione.
Allo stato, quindi, uniche prospettive certe sono la tempistica biblica dei concorsi associata alla coesistenza pluridecennale dei magistrati e dei giudici tributari (si comprende a malapena il senso di questa distinzione lessicale, oscillando la stessa tra la sinonimia ed il rapporto di genere/specie).
Dunque il “treno” della riforma è partito; non è un TGV, ma non è neanche un “regionale veloce”.
È una sorpresa? No, non lo è affatto. Era stato previsto, da più parti, a partire dalla Commissione della Cananea e comunque bastava una pur minima riflessione sulle disposizioni della legge 130.
Le riforme non si fanno così, non si fanno con le ideologie, non escono dalla “mente di Giove”.
Si fanno seguendo principi, ma con i piedi per terra. Sono infatti “treni” che viaggiano sulla superficie terrestre (che genera attrito) che vanno costruiti per non deragliare, con sapienza, vagone per vagone, con una buona locomotiva.
Fuor di metafora, costruire ex novo un corpus magistratuale è un'operazione complessa, che implica una riflessione profonda, idee chiare sui tempi e sui mezzi. Tutto ciò è mancato nel percorso di studio e di progettazione normativa che ha portato alla normativa varata dal Parlamento. La legge di riforma, scritta in tutta fretta prima a livello governativo e poi rimestata nel convulso periodo del “governo assembleare” di un fine legislatura imprevisto, aveva ed ha talmente tante black holes che il suo successo era, è e sarà poco più di una scommessa sul rosso e sul nero.
Davvero un cattivo esempio di legislazione.
Poiché ripartire da zero non è ipotesi politicamente praticabile, realisticamente, occorre provare a trasformare questo "treno locale", se non in uno ad “alta velocità”, almeno in un intercity.
2. Cambiare l’inerzia della riforma
E’ possibile "cambiare l'inerzia" di questa riforma? Sì, lo è ed è necessario. Ed anche urgente: ci sono i tempi del PNRR, cui si associano le -giuste- aspettative pluridecennali dell'utenza e degli addetti ai lavori.
Inutile nascondere però che si tratta di una “manovra correttiva” complessa, di una riconversione (in corsa) indubbiamente impegnativa. Che ha una precondizione: idee chiare sugli obiettivi e sui mezzi della riforma, ma, soprattutto, una ancor più chiara cognizione dei termini concreti di fattibilità – non solo e non tanto finanziaria, ma operativa – delle soluzioni normative.
Il limite “costruttivo” della legge 130 è infatti piuttosto evidente: manca completamente un –chiaro- disegno organizzativo con un cronoprogramma definito e, soprattutto, praticabile.
Se il postulato è costruire la quinta magistratura professionale, allora bisogna anzitutto essere consapevoli che si tratta di un corpus complesso, da strutturare “verticalmente” ed “orizzontalmente”.
Dalla geometria alla normativa di ordinamento giudiziario, ciò significa che: a) è necessario chiarire la dinamica costitutiva della dirigenza; b) è ugualmente indispensabile determinare come acquisire e dove allocare le risorse di personale giudicante.
La legge 130 considera queste “tessere” del mosaico, ma le butta letteralmente sul tavolo, senza nessuna idea precisa di come nella sua attuazione queste “tessere” devono combinarsi, integrarsi, per poi dissolversi tutte nel corpus quale sarà definitivamente (tra non pochi anni). La delibera n. 1559/2022 del CPGT ha "fatto il resto". Risultato: acqua nella sabbia.
Fatta questa premessa, in concreto e per punti tematici:
A) secondo la road map dell’art. 1, comma 10, legge 130/2022, al netto dei 37 “optanti”, le procedure di assunzione dei magistrati tributari ad un ritmo di un concorso annuale di 68 posti, andranno a completare l’organico di 576 nel 2030. Non sarà comunque così perché si tratta di una previsione semplicemente irrealizzabile. E comunque sbagliata.
Che senso ha fare “mini concorsi” ? perché non concentrarli ? I concorsi costano e durano. Quindi non 7 concorsi, ma due, massimo tre, da almeno 100/150 l’uno. Allora diverrebbe concreta la prospettiva di arrivare al “numero magico” in cinque/sei anni. Ad una condizione imprescindibile: bisogna almeno raddoppiare la Commissione di concorso. Con dieci componenti ci si mette troppo, anche perché è più che ragionevole prevedere che il numero dei partecipanti sarà elevato, trattandosi pur sempre dell’appetibile accesso ad una magistratura professionale, addirittura specializzata.
Ma c’è anche una via breve, comunque praticabile: valorizzare le risorse esistenti. Degli “optanti” e comunque dei giudici tributari togati si dirà appena oltre. Si può –utilmente- attingere dall’ampio bacino dei giudici tributari “non togati”. Un reclutamento straordinario (non, come previsto dalla normativa attuale, una quota di riserva concorsuale, misura inutilmente penalizzante e verosimilmente destinata ad un largo insuccesso) di 100/150 unità, per titoli (professionali + adeguata anzianità di ruolo) e per verifica (semplificata, ad esempio come quella appena fatta per i giudici onorari di tribunale).
Così si otterrebbero a breve (un anno massimo) gli effetti di una procedura concorsuale. E non sarebbe per nulla poco, se solo si pensa oltre al dato “quantitativo/temporale”, a quello “qualitativo”, essendo indiscutibile che si tratta di giudici già formati e non di “uditori giudiziari con funzioni”, come saranno i magistrati tributari assunti per concorso. Così, nel medio periodo si sommerebbe un capitale di esperienza alla freschezza (e si spera la “motivazione”) di una nuova classe professionale che via via costituirà -nel lungo periodo- la quinta magistratura.
B) la dirigenza è una necessità insopprimibile per far funzionare –bene- un’Istituzione giudiziaria, ovviamente sul piano della sua organizzazione, indiscutibili per tutte le funzioni giurisdizionali i principi di autonomia ed indipendenza, di “soggezione soltanto alla legge”.
La legge 130/2022 non ha nessun “disegno” chiaro al riguardo, se non quello della coesistenza tra magistrati tributari e giudici tributari non regolata in via di norma primaria (quindi tutto nelle mani del CPGT, ma allora con forti riserve quantomeno sul piano della costituzionalità).
Ed è altrettanto evidente che non si può aspettare il tempo lungo necessario (10/15 anni) affinchè i magistrati tributari assunti per concorso acquisiscano formalmente i titoli abilitanti e, ancor più - sostanzialmente- l’esperienza per poter assumere ruoli di dirigenza/semidirigenza.
Oltre alla possibilità di valorizzare gli eventuali giudici tributari “non togati cooptati”, appare indubbio che, fino a che (lungo periodo), la quinta magistratura non sarà “a regime” questo, fondamentale, segmento della struttura operativa non può essere “coperto” se non con i giudici tributari “togati”.
Questo è il "terreno operativo" sul quale può acquisire un senso l'opzione di questi magistrati.
In questo lungo interregno, l'imprescindibile esigenza della dirigenza giudiziaria della nuova magistratura tributaria può essere soddisfatta – essenzialmente o almeno principalmente – con i giudici tributari togati optanti. Ed optandi: occorre tenere conto del turn over.
La misura del transito di questi magistrati – in via di normazione primaria e quindi cogente – va perciò limitata ai ruoli direttivi/semidirettivi. Così, per un verso, la nuova magistratura tributaria avrebbe una solida spina dorsale di tempopienisti, per altro verso, si potrebbe "alleggerire" il peso di questa scelta normativa, senza renderla evanescente, anche con disposizioni più precise e stringenti per la destinazione degli "optanti" e dei "cooptati" al grado di appello.
Serve molto di più dell'avverbio prioritariamente utilizzato nella legge 130 e del tutto disatteso dal CPGT. In tal modo, oltre che vertebrare il nuovo corpus magistratuale, si può dargli più peso specifico nel grado che chiude "in revisione" il giudizio di merito ed apre le porte a quello di legittimità.
Per tali fini è tuttavia necessario fare scelte attentamente ponderate sull’allocazione di queste, pregiate, ma limitate, risorse, secondo il principio di “buona amministrazione” ossia in base ad un razionale disegno organizzativo generale. Ed è inevitabile in questa direzione tenere conto dei flussi territoriali degli affari e dei relativi valori di stock, per non versare acqua sulla sabbia.
3. Una scelta politica
Quelli esposti – in breve- sono soltanto indirizzi generali, linee-guida per una, razionale, revisione della legge di riforma della giustizia tributaria. Chiaro che attuarli implica una produzione normativa tecnicamente raffinata, tutt’affatto semplice, con rilevanti riflessi di finanza pubblica (copertura finanziaria, anche in revisione delle previsioni della legge 130/2022).
E’ tuttavia altrettanto evidente che chi dovrebbe agire in tal senso ha tutti i mezzi per farlo al meglio. Il tempo c’è, anche se non è molto: a Bruxelles hanno il faro sempre acceso sul PNRR.
In ultima analisi, come è ovvio, si tratta esclusivamente di una questione di volontà politica.
Vedremo se ci sarà.
L’acquisizione gratuita al demanio statale delle opere realizzate dai concessionari uscenti: un nuovo rinvio alla Corte di Giustizia per le concessioni “balneari” (nota a Cons. Stato, Sez. VII, 15 settembre 2022, n. 8010)
di Marco Calabrò
Sommario: 1. La vicenda. – 2. La ratio della disciplina speciale di cui all’art. 49 cod. nav. – 3. Perduranti criticità interpretative nell’individuazione dell’ambito applicativo dell’acquisizione gratuita dei beni al patrimonio dello Stato. – 3.1. Il prospettato contrasto con il principio di proporzionalità in ipotesi di rinnovo della concessione. - 3.2. Il regime derogatorio ed il rinvio all’autonomia contrattuale. - 4. Riflessioni conclusive.
1. La vicenda.
Con ordinanza n. 8010 del 15 settembre 2022 il Consiglio di Stato ha rinviato alla Corte di Giustizia UE il giudizio circa la conformità al diritto eurounitario di alcuni profili relativi alla disciplina della concessione delle aree demaniali marittime.
La vicenda da cui origina il contenzioso si inquadra nell’ambito del più ampio e complesso contesto della disciplina dell’affidamento delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative e della applicabilità alle stesse della c.d. direttiva servizi[1]. Come noto – alla luce dell’introduzione di un ulteriore regime di proroga ad opera della l. n. 145/2018 e della relativa apertura di una ennesima procedura di infrazione nei confronti dell’Italia da parte della Commissione europea – è intervenuta l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con due sentenze gemelle (nn. 17 e 18 del 2021): in esse, da un lato, è affermata l’assoluta incompatibilità con il diritto europeo della proroga ex lege dei titoli concessori sino al 2033, con consequenziale inapplicabilità di tale disposizione sia da parte dei giudici che delle stesse amministrazioni e, dall’altro lato, viene estesa l’efficacia delle concessioni in essere fino al 31 dicembre 2023, al fine di evitare gli impatti socio-economici derivanti da una immediata e generalizzata decadenza delle stesse[2].
Alle pronunce della Plenaria è, poi, seguita la l. n. 118/2022 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021) che – nel recepire l’indicazione pretoria della proroga sino al dicembre 2023 – non ha tuttavia compiutamente definito il nuovo sistema di affidamento delle concessioni, limitandosi a rinviare al Governo il compito di adottare uno o più decreti legislativi volti, tra l’altro, ad individuare i principi e le modalità delle nuove procedure di affidamento delle concessioni demaniali marittime[3]. La perdurante assenza di una normativa attuativa della direttiva Bolkestein in grado di risolvere i diversi dubbi interpretativi che connotano ormai da decenni il settore, nonchè il contestato ruolo di “supplente” del legislatore ricoperto dalle pronunce della plenaria, conducono, tra l’altro, alla circostanza che non può dirsi ancora posto un punto definitivo alla questione. Di ciò ne è prova una (ulteriore) recente chiamata in causa della CGUE[4] da parte del T.A.R. Puglia, Lecce, la cui ordinanza n. 743/2022 sottopone al vaglio interpretativo del Giudice Europeo primariamente la stessa natura auto-esecutiva della direttiva Bolkestein, e, in secondo luogo, la vigenza nel caso di specie (data per scontata dalla Plenaria) dei requisiti dell’interesse transfrontaliero certo e della limitatezza delle risorse[5].
Nella fattispecie in esame, tuttavia, non si discute degli aspetti dell’assoggettabilità o meno delle concessioni balneari alla direttiva servizi, della durata delle concessioni e dei limiti ai provvedimenti di proroga, bensì di un profilo più specifico (seppur connesso a quello generale) relativo all’applicazione dell’art. 49 del Codice della navigazione, ai sensi del quale “Salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato”.
La società ricorrente – titolare sin dal 1928 di uno stabilimento balneare – aveva negli anni realizzato una serie di manufatti di difficile rimozione, alcuni dei quali già acquisiti al demanio statale mediante atto di incameramento formalizzatosi nel 1958, ed altri edificati successivamente e nei confronti dei quali era stato nel 2007 solo avviato ma mai concluso un secondo procedimento di incameramento. Nel 2014 l’amministrazione comunale, in sede di rinnovo della precedente concessione, qualificava pertinenze demaniali (perché acquisite ai sensi dell’art. 49 cod. nav.) i fabbricati realizzati in epoca successiva al 1958 e, di conseguenza, procedeva alla rideterminazione, in aumento, dei canoni concessori[6]. Avverso tale decisione, la società balneare presentava ricorso al T.A.R. Toscana, che tuttavia veniva respinto (T.A.R. Toscana, sez. III, 10 marzo 2021, n. 380), e, poi, appello al Consiglio di Stato.
Il ricorso in appello si fonda essenzialmente sulla considerazione che l’amministrazione avrebbe erroneamente ritenuto già acquisiti al patrimonio statale i manufatti edificati dal 1958 in poi: da un lato, il relativo procedimento di incameramento non era mai stato portato a termine e, dall’altro, l’art. 49 cod. nav. non avrebbe potuto trovare applicazione al caso di specie in quanto risulterebbe mancante il presupposto della “cessazione” del rapporto, essendo stato il titolo concessorio rinnovato senza soluzione di continuità.
Di contro, il comune – premessa la natura meramente dichiarativa e non costitutiva dell’atto di incameramento – sosteneva la piena applicabilità dell’art. 49 cit. al caso di specie nella misura in cui il titolo concessorio, prima di essere rinnovato, era formalmente cessato, il che avrebbe prodotto l’automatica acquisizione dei beni inamovibili da parte del demanio e la conseguente applicazione del canone maggiorato in sede di rinnovo.
In sede di appello l’impresa balneare eccepiva altresì che – se si dovesse ritenere applicabile l’art. 49 cod. nav. anche alle ipotesi di rinnovo automatico del titolo concessorio – si configurerebbe una violazione degli artt. 49 TFUE (libertà di stabilimento) e 56 TFUE (Libertà di prestazioni di servizi), nella misura in cui l’effetto dell’acquisizione dei beni al patrimonio statale risulterebbe sproporzionata rispetto all’obiettivo della norma, consistente nell’esigenza di assicurare che le opere non amovibili destinate a restare sul territorio finiscano nella piena disponibilità dell’ente proprietario dell’area, ai fini di una corretta gestione dei beni demaniali per prevalenti finalità di interesse pubblico[7].
Ebbene, risultando necessario ai fini della soluzione della controversia affrontare profili connessi alla corretta interpretazione del diritto europeo, il Consiglio di Stato ha ritenuto di dover rinviare la questione alla CGUE, sottoponendole il seguente quesito: “Se gli artt. 49 e 56 TFUE ed i principi desumibili dalla sentenza Laezza (C-375/14) ove ritenuti applicabili, ostino all’interpretazione di una disposizione nazionale quale l’art. 49 cod. nav. nel senso di determinare la cessione a titolo non oneroso e senza indennizzo da parte del concessionario alla scadenza della concessione quando questa venga rinnovata, senza soluzione di continuità, pure in forza di un nuovo provvedimento, delle opere edilizie realizzate sull’area demaniale facenti parte del complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa balneare, potendo configurare tale effetto di immediato incameramento una restrizione eccedente quanto necessario al conseguimento dell’obiettivo effettivamente perseguito dal legislatore nazionale e dunque sproporzionato allo scopo”. Ad oggi la questione pende innanzi alla Corte di Giustizia UE (causa C-598/22).
2. La ratio della disciplina speciale di cui all’art. 49 cod. nav.
Prima di procedere all’esame del profilo specificamente indagato dalla pronuncia in commento, appare opportuno inquadrare brevemente la ratio della disciplina di cui all’art. 49 cod. nav., ai sensi del quale, come detto, – salvo che nell’atto di concessione non venga diversamente stabilito – al momento della cessazione del rapporto, le opere non amovibili realizzate su area demaniale sono automaticamente devolute a titolo gratuito allo Stato, a meno che quest’ultimo non decida di ordinarne la demolizione allo stesso concessionario uscente.
Posto che la formulazione della norma non fornisce alcun criterio in base al quale l’amministrazione dovrebbe optare per la demolizione dell’opera o per l’incameramento della stessa[8], è evidente che la p.a. opterà per tale seconda scelta ogniqualvolta lo riterrà vantaggioso: da un lato, la realizzazione di manufatti funzionali all’uso turistico del litorale conduce (almeno potenzialmente) ad un aumento del valore dell’area demaniale, arricchita da opere; dall’altro lato, la presenza di strutture recettive, ristoranti, bar, attrezzature sportive, etc., porta ad un incremento del canone demaniale che il concessionario subentrante sarà tenuto a corrispondere.
Ulteriore profilo dirimente per comprendere appieno la portata della disposizione è rappresentato, poi, dalla circostanza che – attesa l’assenza di una disciplina specifica relativa alla realizzazione di opere su area demaniale marittima – trova applicazione la disciplina del diritto di superficie e, per quanto maggiormente rileva in questa sede, il consequenziale acquisto della proprietà superficiaria a titolo originario da parte di colui che costruisce il manufatto, ovvero l’impresa balneare concessionaria[9].
Il trasferimento della proprietà delle opere dal soggetto privato al patrimonio statale sancita dall’art. 49 cit. al momento della cessazione del rapporto concessorio (e, quindi, del relativo diritto di superficie), configura, pertanto, una applicazione settoriale dell’istituto dell’accessione, di cui all’art. 934 c.c. Tale applicazione, tuttavia, si accompagna ad una deroga, relativa alla connessa previsione del pagamento di un indennizzo, di cui al successivo art. 936 c.c., in base al quale, qualora il proprietario del fondo intenda non optare per l’abbattimento delle opere, egli è tenuto a versare una cifra pari al valore dei materiali e della mano d’opera oppure, a sua scelta, all’aumento di valore recato al fondo. E’ bene sin d’ora osservare che la ratio della deroga, ovvero la mancata previsione di un ristoro rispetto ad investimenti consistenti nella realizzazione di strutture e manufatti spesso di notevole valore, era (sino ad oggi) riscontrabile nella circostanza che i sacrifici economici affrontati dall’impresa balneare rinvenivano una loro adeguata “contropartita” nella lunga durata del rapporto concessorio, attesa la prassi (ormai da considerarsi non più operativa) dei rinnovi automatici dei titoli[10].
3. Perduranti criticità interpretative nell’individuazione dell’ambito applicativo dell’acquisizione gratuita dei beni al patrimonio dello Stato.
La corretta perimetrazione dell’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 49 cod. nav. soffre una serie di criticità, tra le quali la principale è rappresentata dalla individuazione della categoria di “opere non amovibili”, attesa l’assenza di una definizione di tale categoria sia nel Codice della navigazione che in altri testi normativi.
Diverse circolari del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nonché dell’Agenzia del Demanio, legano la nozione di “non amovibilità” alla struttura stabile del manufatto, tale da comportare la necessaria demolizione dello stesso in sede di rimozione[11]. Anche la giurisprudenza sembra aderire al criterio distintivo operato dalla prassi amministrativa, ritenendo, ad esempio, non amovibili strutture metalliche che – pur non essendo fissate direttamente al terreno – risultano ancorate mediante bulloni ad una base di cemento armato (a sua volta incorporata al suolo)[12] o, al contrario, sancendo l’illegittimità della valutazione di inamovibilità di un manufatto fondata sulla sola complessità delle operazioni di smontaggio dei pannelli prefabbricati, “posto che tale circostanza non esclude sul piano logico che l’operazione sia comunque effettuabile senza distruzione dell’opera, sia pure con successiva necessità di ripristinarne gli elementi accessori”[13].
Può osservarsi, tra l’altro, come l’art. 49 cit. non faccia riferimento (come invece avviene in ambito edilizio) al carattere della “non facile” amovibilità del bene, bensì a quello (maggiormente restrittivo) della “non amovibilità” in senso assoluto, il che sembrerebbe restringerne notevolmente il raggio di azione. Di contro, la centralità della individuazione di criteri certi in base ai quali qualificare amovibile o meno un manufatto riposa nella circostanza che la fragilità del terreno e l’assenza di opere di protezione da eventi atmosferici in cui versa gran parte del tratto costiero italiano, in molti casi non consentono la realizzazione di strutture con materiali leggeri e non stabilmente ancorate al terreno; spesso, quindi, l’impiego di cemento armato e l’edificazione di manufatti infissi al suolo non rappresenta una libera scelta del concessionario, quanto piuttosto una necessità tesa a garantire adeguate condizioni di sicurezza agli utenti.
Nei fatti, pertanto, sono numerose le costruzioni potenzialmente riconducibili alla nozione di non amovibilità presenti sulle coste nazionali ed è evidente che, in assenza di un intervento chiarificatore da parte del legislatore, si configura una situazione di incertezza non solo foriera di probabili contenziosi, ma a causa della quale i concessionari non sono nemmeno messi nelle condizioni di prevedere con sicurezza ex ante le opere destinate ad essere acquisite al patrimonio dello Stato ai sensi dell’art 49 cod. nav., e, di conseguenza, di modulare adeguatamente i relativi investimenti.
3.1. Il prospettato contrasto con il principio di proporzionalità in ipotesi di rinnovo della concessione.
La pronuncia in esame, invero, non si occupa del tema della “non facile amovibilità”, vertendo piuttosto su altri due profili che contribuiscono anch’essi a rendere piuttosto incerta l’applicazione della disciplina de qua.
L’impresa ricorrente risulta titolare della concessione di un determinato tratto demaniale da quasi cento anni e rientra, pertanto, pienamente nella categoria di quei soggetti in capo ai quali – attesa la prassi (amministrativa e normativa[14]) dei rinnovi automatici – si discute circa la riconoscibilità o meno dell’insorgere di un affidamento sulla prosecuzione del rapporto. Nel caso di specie, tuttavia, la pronuncia non affronta il profilo della legittima aspettativa dell’incumbent che si vede “prematuramente” scadere la concessione (originariamente prorogata ex lege fino al 2033). I giudici di Palazzo Spada sono chiamati, piuttosto, a decidere sulla posizione del soggetto che – pur vedendosi rinnovata la concessione – subisce le conseguenze dell’applicazione dell’art. 49 cod. nav., ovvero la maggiorazione del canone, atteso che il nuovo titolo concessorio “trasferisce” al privato, insieme all’area demaniale, anche le opere edificate dal concessionario, poi acquisite dallo Stato (una volta cessato il rapporto) e quindi subito dopo “ri-concesse” nuovamente al medesimo operatore economico (che le aveva realizzate).
Il nodo della questione è da rinvenire nella circostanza che nel caso di specie l’amministrazione non ha riconosciuto al concessionario la proroga del precedente titolo, bensì ha nuovamente attribuito la gestione di quel tratto costiero alla medesima impresa balneare attraverso un provvedimento di rinnovo. Come noto, con l’atto di proroga l’amministrazione si limita a posticipare il termine di scadenza del rapporto concessorio, che resta tale, laddove, al contrario, il rinnovo automatico comporta la chiusura del precedente rapporto ed un nuovo momento di negoziazione tra le parti[15]. Entrambe le fattispecie, invero, sono viste con sfavore dal legislatore, in quanto – seppure con modalità differenti – conducono comunque al risultato di limitare il principio della concorrenza e l’accesso al mercato da parte di nuovi operatori economici[16].
Ciò posto, l’art. 49 cod. nav. lega la devoluzione delle opere al patrimonio dello Stato al momento della cessazione della concessione e l’interrogativo è se con l’uso di tale termine il legislatore abbia inteso riferirsi – oltre alle ipotesi “classiche” di estinzione del rapporto (scadenza, revoca, decadenza, rinuncia) – anche al rinnovo del titolo. Sul punto si registra un contrasto giurisprudenziale. Secondo una prima “formalistica” interpretazione della norma, l’acquisizione gratuita si verificherebbe anche in caso di rinnovo automatico, nella misura in cui quest’ultimo, a differenza della proroga, comporta in ogni caso l’estinzione del precedente rapporto ed il contestuale rilascio di una nuova concessione[17]. Al momento dello scadere della concessione, pertanto, ancorchè rinnovata, si verificherebbe la suddetta devoluzione al patrimonio statale dei beni non facilmente amovibili[18].
Secondo un diverso orientamento, invece, propendendo per una interpretazione sostanzialistica della nozione di cessazione, la devoluzione delle opere non amovibili non troverebbe applicazione in ipotesi di rinnovo automatico senza soluzione di continuità del titolo concessorio, configurandosi quest’ultimo, “al di là del nomen iuris, come una piena proroga dell’originario rapporto senza soluzione di continuità”[19]. In tale prospettiva, del resto, può essere utile ricordare come la stessa Corte di Giustizia, con la sentenza Promoimpresa, abbia a contrario individuato tra le ragioni violative dell’art. 12 della direttiva Bolkestein proprio la sostanziale equiparazione che esiste tra le proroghe ex lege dei rapporti concessori ed un eventuale rinnovo automatico degli stessi[20].
Per quanto condivisibile sotto il profilo sostanziale, tale secondo indirizzo finisce per bypassare il problema della automaticità dell’effetto ex lege dell’acquisizione dei beni al patrimonio dello Stato alla scadenza della concessione. Secondo costante giurisprudenza, infatti, l’art. 49 cod. nav. individuerebbe il tempo dell’acquisto in mano pubblica delle opere nel momento in cui “venga a cessare la concessione”, senza ulteriori precisazioni in relazione alle relative cause, esprimendo in tal modo un principio di ordine generale, in base al quale le opere costruite sull'area demaniale verrebbero acquisite ipso iure[21]. Coerentemente, al successivo atto amministrativo di incameramento viene riconosciuta natura meramente ricognitiva, atteso l’immediato ed automatico trasferimento della titolarità dei beni in capo all’amministrazione[22].
Tale ricostruzione ha spinto parte della dottrina, come ricorda la stessa pronuncia in commento, a parlare di “surrettizia espropriazione senza indennizzo”. Non deve dimenticarsi, infatti, che le opere legittimamente edificate dal concessionario su area demaniale non assumono sin da subito la qualifica di beni demaniali: esse sono riconducibili, al contrario, alla categoria dei beni di proprietà privata, destinati ad essere trasferiti nell’ambito del demanio statale unicamente alla cessazione del rapporto concessorio[23]. Come già osservato, il titolare della concessione, laddove autorizzato a trasformare l’area demaniale, agisce in forza di un diritto di superficie[24]: la natura “reale” dell’atto concessorio rende il privato, pertanto, proprietario dei beni immobili legittimamente realizzati su di esso, “proprietà superficiaria, sia pure avente natura temporanea e soggetta ad una peculiare regolazione in ordine al momento della sua modificazione, cessazione o estinzione”[25].
Ebbene, ai fini della questione oggetto specifico della pronuncia in commento, l’eventuale non riconducibilità della fattispecie del rinnovo tacito alle ipotesi di cessazione di cui all’art. 49 cod. nav. avrebbe la rilevante conseguenza di dover considerare ancora in titolarità privata i manufatti realizzati sulla base del precedente titolo: per essi, pertanto, non sarebbe dovuto un canone ulteriore, essendo tenuto il concessionario a corrispondere un canone commisurato unicamente alla occupazione del suolo demaniale[26].
Più in generale, parte della dottrina ha affermato come l’art. 49 cod. nav. – nel determinare l’incameramento dei beni in proprietà superficiaria del concessionario in assenza di indennizzo – violerebbe gli artt. 3 e 42 Cost., nonchè l’art. 1 del Protocollo Addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e l’art. 17 della Carta di Nizza (entrambi dedicati alla tutela della proprietà): l’acquisizione gratuita al patrimonio dello Stato di un complesso di manufatti privati realizzati per effetto dell’attività (legittima) e degli investimenti dei concessionari uscenti configurerebbe una ipotesi di espropriazione sostanziale, priva del corrispettivo pagamento della giusta indennità[27].
La pronuncia in commento, tuttavia, esclude la possibilità di aderire a tale orientamento, ritenendo che il profilo problematico della disciplina in questione – sul quale finisce per fondare il rinvio alla Corte di Giustizia – sarebbe piuttosto la prospettata violazione del principio di proporzionalità, in merito alla quale richiama espressamente il precedente rappresentato dalla sentenza Laezza[28]. In quel caso la disposizione contestata imponeva ai concessionari di attività di scommesse l’obbligo di cedere gratuitamente i beni usati per la raccolta delle scommesse una volta terminato il rapporto concessorio e il giudice europeo ritenne la misura proporzionale unicamente nelle ipotesi di cessazione “sanzionatoria” del rapporto (revoca o decadenza), atteso che la finalità della disposizione era contrastare la diffusione del gioco irregolare e illegale. Di contro, la CGUE stabilì che la devoluzione dei beni a titolo gratuito nelle ipotesi di cessazione dell’attività per scadenza naturale della concessione configurava una restrizione delle libertà di cui agli artt. 49 e 56 del TFUE, che non trovava idonea giustificazione nelle finalità della norma e, pertanto, risultava sproporzionata rispetto all’effetto di impedire all’impresa di trarre profitto dai propri investimenti[29].
Medesimo ragionamento sarà quindi chiamata a porre in essere la Corte di Giustizia nel valutare la questione sottopostale in questa sede, ovvero verificare se l’obbligo imposto al concessionario di cedere a titolo non oneroso – all’atto della cessazione del rapporto seguita da rinnovo dello stesso senza soluzione di continuità – la proprietà delle infrastrutture realizzate per l’esercizio dell’attività, soddisfi o meno il test di proporzionalità rispetto alla finalità della disposizione, consistente nell’esigenza di assicurare che le opere non amovibili destinate a restare sul territorio finiscano nella piena disponibilità dell’ente proprietario dell’area ai fini di una loro corretta gestione.
3.2. Il regime derogatorio ed il rinvio all’autonomia contrattuale.
L’art. 49 cod. nav., nell’introdurre la regola dell’acquisizione gratuita al demanio statale delle opere non amovibili realizzate nel corso del rapporto concessorio, contempla un regime derogatorio, desumibile dall’inciso con il quale principia la norma: “salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione”. Il legislatore, invero in maniera piuttosto ermetica, ha evidentemente inteso stabilire che l’operatività della regola generale (devoluzione automatica e gratuita dei beni al patrimonio dello Stato) è condizionata al consenso delle parti, le quali – in sede di negoziazione – potrebbero prevedere un diverso regime giuridico[30]. Evidentemente la deroga non può contemplare il permanere della titolarità dell’opera in capo al concessionario uscente (una volta “recisa” la relazione di quest’ultimo con l’area demaniale), il che implica che la previsione difforme rispetto al dettato normativo può riguardare unicamente l’eventuale riconoscimento di un indennizzo teso a remunerare gli investimenti effettuati.
Al riguardo, si può osservare come anche di recente innanzi al Consiglio di Stato sia stata eccepita l’illegittimità costituzionale dell’art. 49 cod. nav. per violazione degli artt. 3 e 41 Cost. nella misura in cui non prevede l’obbligo di indennizzare il concessionario per gli investimenti realizzati, anche nel caso in cui gli stessi siano stati autorizzati dall’Amministrazione in ragione della loro conformità all’interesse pubblico. Con la pronuncia in commento, tuttavia, i giudici di Palazzo Spada – nel confermare quanto già affermato dal giudice di prime cure[31] – hanno ritenuto di non poter sollevare la questione di legittimità costituzionale per manifesta infondatezza, proprio in quanto la norma non escluderebbe in assoluto la possibilità per il concessionario di ottenere un compenso per le opere non amovibili realizzate, rimettendo piuttosto alla contrattazione tra le parti l’inserimento o meno di una specifica pattuizione al riguardo. “La scelta, quindi, dell’appellante di subentrare in un rapporto concessorio già precostituito in cui non era prevista la corresponsione di alcun indennizzo per le opere in questione non legittima la censura sull’applicazione di una norma dispositiva non derogata per volontà delle parti. In tal senso, quindi, l’appellante patisce un pregiudizio di fatto non idoneo ad incidere sulla costituzionalità della norma in esame”[32].
E pertanto, l’attuale formulazione dell’art. 49 cod. nav. – non escludendo in assoluto la previsione di un indennizzo – già conterrebbe in sé, almeno in chiave teorica, una possibile soluzione al problema della mancata remunerazione degli investimenti dei soggetti concessionari. In tale prospettiva, se, in una fase anteriore alla formulazione dell’atto concessorio, il privato non esprime avviso contrario all’applicazione della regola generale della devoluzione gratuita dei beni alla cessazione del rapporto, viene a configurarsi una ipotesi di acquiescenza per facta concludentia. Tuttavia, tale ricostruzione, seppur legittima su di un piano formale, rischia di “infrangersi” una volta calata nella realtà delle dinamiche che generalmente connotano l’aggiudicazione di una concessione demaniale marittima: l’azienda balneare individuata come affidataria dell’area molto difficilmente è messa nelle condizioni di poter incidere sul contenuto dell’atto concessorio, con la conseguenza che, nei fatti, non vi è un reale “spazio” per una effettiva negoziazione (il che del resto trova riscontro nella sostanziale assenza di concessioni contenenti clausole derogatorie dell’effetto devolutivo di cui all’art. 49 cod. nav.).
4. Riflessioni conclusive.
Alla luce delle considerazioni svolte, appare quasi “surreale” ritenere che l’effetto devolutivo della proprietà dei beni, di cui all’art. 49 cod. nav., debba esplicarsi anche in caso di rinnovo del titolo concessorio senza soluzione di continuità. Essendo i manufatti destinati a continuare per diversi anni ad essere gestiti dallo stesso operatore economico che li ha realizzati, una spoliazione seguita da immediata restituzione (avente, però, l’effetto di incrementare il canone) non trova alcuna giustificazione[33] e si auspica verrà considerata violativa del principio di proporzionalità dalla Corte Giust UE, il cui necessario ruolo “chiarificatore” sembra non vedere un epilogo. Nel richiamare l’ennesimo rinvio alla Corte di Giustizia di recente posto in essere dal T.A.R. Puglia sull’applicabilità o meno della direttiva servizi alle concessioni balneari – nonostante le di poco precedenti decisioni della Plenaria sul punto – si aderisce alla posizione di chi ha osservato che si sta “assistendo al proiettarsi a livello eurounitario di un contrasto giurisprudenziale prettamente interno al giudice amministrativo e, in larghissima misura, dovuto all’inerzia del legislatore statale a riordinare la materia”[34].
In effetti, pare ormai chiaro che un netto e (si auspica) definitivo intervento del legislatore non sia più procrastinabile, e non solo in ordine all’acquisizione o meno dei beni al patrimonio statale in caso di rinnovo senza soluzione di continuità del titolo concessorio, ma, più in generale, in merito alla portata applicativa dell’art. 49 cod. nav. Tale disposizione, che trovava una sua “contropartita” nel precedente contesto giuridico connotato dal diritto di insistenza e dal regime delle proroghe ex lege, oggi sembra non più rinvenire una adeguata giustificazione.
Le sentenze dell’Adunanza Plenaria nn. 17 e 18 del 2021 accennano, in effetti, all’esigenza di prevedere forme di indennizzo parametrate agli investimenti effettuati dai concessionari uscenti “essendo tale meccanismo indispensabile per tutelare l’affidamento degli stessi”. Tuttavia – a prescindere dalla considerazione che nulla è indicato in merito ai criteri circa l’an ed il quantum di tale ristoro – se ci si limitasse a riconoscere un ristoro pecuniario ai soli incumbents che ad oggi vedono scadere anticipatamente (rispetto a quanto era stato loro prospettato dallo stesso legislatore) il rapporto concessorio, si finirebbe per tutelare il solo legittimo affidamento di questi ultimi[35], senza in alcun modo prendere in considerazioni i profili della tutela della proprietà[36] e della eventuale configurazione di una ipotesi di indebito arricchimento in capo all’amministrazione[37].
In ordine al profilo della tutela della proprietà, se il Governo – in sede di elaborazione della nuova disciplina degli affidamenti delle concessioni demaniali marittime – dovesse prevedere una modalità di affidamento che non contemplasse una durata standard delle concessioni[38], si potrebbe in effetti “salvare” l’istituto dell’acquisizione gratuita: occorrerebbe – in ossequio al principio che parametra la durata delle concessioni al tempo necessario al recupero degli investimenti[39] – prevedere di volta in volta una diversa durata della concessione, parametrata all’entità e alla rilevanza degli investimenti programmati e autorizzati[40].
A ben vedere, tuttavia, l’attuale formulazione della disposizione ha l’ulteriore effetto di “mortificare” ingiustificatamente la libera iniziativa economica privata (restringendo le libertà garantite dagli artt. 49 e 56 TFUE) nella misura in cui rende meno allettante l’accesso ad un mercato nel quale non è consentito al concessionario trarre profitto dal proprio investimento[41], con ricadute negative anche in termini di interesse pubblico. Perché mai, ad esempio, un concessionario al quale è stata autorizzata la realizzazione di un ristorante dovrebbe prospettare investimenti maggiori (uso di materiali eco-compatibili, attenzione alla tradizione architettonica locale, ecc.) nella consapevolezza che ciò non inciderà minimamente sulla futura remunerazione dell’investimento?[42].
Resterebbe in piedi, pertanto, in ogni caso la necessità di prevedere un indennizzo, in ragione della circostanza che il concessionario uscente restituisce il “bene concesso” (l’area demaniale) non così come ricevuto, bensì “trasformato” mediante la realizzazione di infrastrutture non solo destinate ad essere utilizzate dal subentrante, ma anche idonee a far incremento il valore di quanto originariamente concesso[43]. I criteri in base ai quali calcolare l’indennizzo dovrebbero, pertanto, concernere il valore dell’opera realizzata, l’incremento di valore dalla stessa (eventualmente) apportato all’area demaniale, nonché il valore commerciale dell’impresa, ovvero il c.d. avviamento (il cui “peso” andrebbe evidentemente trasferito sul concessionario subentrante mediante un ponderato incremento dell’ammontate del canone concessorio)[44]. Tale incremento non può non essere ristorato, anche alla luce della circostanza che – come è stato condivisibilmente osservato – nella specie non si tratterebbe di un indennizzo di espropriazione per pubblica utilità, ma di acquisizione di un bene da parte di un altro privato per ragioni imprenditoriali, sicchè non vi sarebbero neppure “quelle esigenze del giusto equilibrio tra la tutela del diritto sul bene e interessi generali che talvolta possono consentire una riduzione delle entità dell’indennizzo”[45].
La previsione di un ristoro nei confronti del concessionario uscente, del resto, non configurerebbe una assoluta novità nell’ambito dello stesso Codice della navigazione, il cui art. 703 prevede l’obbligo di corrispondere il “valore di subentro” da parte del concessionario entrante, in caso di realizzazione di impianti o immobili fissi (anche a carattere commerciale), realizzati, con l’autorizzazione dell’ENAC, in quanto strumentali all’erogazione del servizio ed alla valorizzazione dell’aeroporto.
In tale direzione, in effetti, sembra orientato il legislatore, laddove nella legge delega n. 118/2022 dispone che i decreti chiamati ad individuare la nuova disciplina in conformità ai principi europei della concorrenza dovranno tenere in adeguata considerazione gli investimenti effettuati dal concessionario e il valore aziendale dell’impresa, nonché definire criteri per la quantificazione di un indennizzo da riconoscere al concessionario uscente da parte di quello subentrante, in un’ottica di remunerazione del cd. “avviamento”[46]. Preme segnalare come la disposizione non introduca un ristoro “eventuale”, in tal modo facendo intendere che esso debba essere sempre riconosciuto al concessionario uscente, anche nelle ipotesi nelle quali l’ammortamento e l’equa remunerazione degli investimenti effettuati si siano già perfezionati nel corso del rapporto concessorio. Al riguardo, poi, non si può non tenere in conto anche della specificità dell’attività economica de qua: si tratta di piccole imprese, nella maggior parte dei casi a conduzione familiare, la cui attenzione alla persona è in grado negli anni di fidelizzare l’utente del servizio con quella specifica località, con la conseguenza che il “valore” dell’attività imprenditoriale non può basarsi unicamente su elementi di tipo economico, ma anche sulla “capacità di creare empatia tra turista fruitore e luogo che lo accoglie […] senza vanificare altresì il know how acquisito e la connessione con il sistema turistico locale nel suo complesso”[47].
[1] Sul tema, ex multis, M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia. Profili procedimentali e contenutistici delle concessioni balneari, Torino, 2020; C. Benetazzo, Il regime giuridico delle concessioni demaniali marittime tra vincoli U.E. ed esigenze di tutela dell’affidamento, in Federalsimi.it, 25/2016; M. Calabrò, Concessioni demaniali marittime aventi finalità turistico-ricreativa e diritto europeo della concorrenza, in Munus, 2/2012, 453 ss.
[2] Sono diversi i profili di rilievo, oltre che di criticità, che emergono dalla lettura delle sentenze dell’Adunanza Plenaria nn. 17 e 18 del 2021. Ad essi è stato dedicato il numero monografico della rivista Diritto e Società n. 3/2021 La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, con contributi di M. A. Sandulli, F. Ferraro, G. Morbidelli, M. Gola, R. Dipace, M. Calabrò, E. Lamarque, R. Rolli-D. Sammarro, E. Zampetti, G. Iacovone, M. Ragusa, P. Otranto, B. Caravita di Toritto-G. Carlomagno. Numerosi sono anche gli scritti dedicati alle suddette pronunce pubblicati in questa Rivista: M.A. Sandulli, Sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, 2022; F. Francario, Se questa è nomifilachia. Il diritto amministrativo 2.0. secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 2022; E. Zampetti, Le concessioni balneari dopo le pronunce Ad. Plen. 17 e 18 2021. Definito il giudizio di rinvio innanzi al C.G.A.R.S., 2022; E. Cannizzaro, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Ad. Plen., 2021; F. P. Bello, Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 2021; R. Dipace, All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, 2021.
[3] Con l’art. 4, co. 2, lett. b) della l.n. 118/2022, il legislatore statale è stato in ogni caso categorico nello stabilire che l’affidamento delle concessioni demaniali marittime deve comunque avvenire “sulla base di procedure selettive, nel rispetto dei principi di imparzialità, non discriminazione, parità di trattamento, massima partecipazione, trasparenza e adeguata pubblicità”.
[4] Esamina criticamente il tema del sempre più frequente ricorso al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia da parte del giudice amministrativo, indagando sugli eventuali limiti all’obbligo del g.a. di effettuare il rinvio ogniqualvolta gli venga prospettato ex parte M.A. Sandulli, Rinvio pregiudiziale e giustizia amministrativa: i più recenti sviluppi, in questa Rivista, 2022.
[5] Per un commento all’ordinanza del T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 11 maggio 2022, n. 743 v. M. Timo, Le proroghe ex lege delle concessioni “balneari” alla Corte di Giustizia: andata e ritorno di un istituto controverso, in questa Rivista, e R. Dipace, Concessioni “balneari” e la persistente necessità della pronuncia della Corte di Giustizia, in questa Rivista, il quale – nell’affermare la non condivisibilità di alcuni passaggi argomentativi delle decisioni gemelle dell’Adunanza Plenaria, in quanto fondate su elementi meramente presuntivi – osserva come “la persistente incertezza in ordine alla disciplina della materia, soprattutto con riferimento ad alcuni punti come il tema dell’accertamento della scarsità della risorsa e il legittimo affidamento per il concessionario uscente, induce a ritenere che un pronunciamento della Corte di giustizia sia quanto mai attuale oltrechè opportuno”. Il giudice pugliese si era già in passato espresso (in maniera invero isolata) sul carattere non self-executingdella direttiva 2006/123/CE: cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 1 febbraio 2021, n. 164; Id., 15 febbraio 2021, n. 263, per le quali si rinvia alle osservazioni critiche di E. Chiti, False piste: il TAR Lecce e le concessioni demaniali marittime, in Giorn. dir. amm., 6/2021, 801 ss.
[6] Ai sensi dell’art. 1, co. 251 e 252 della l. n. 296/2006 (Finanziaria 2007), i criteri di calcolo dei canoni concessori hanno subito una rimodulazione, in base alla quale, accanto al valore tabellare dell’area, è prevista una quota commisurata al valore di mercato dei manufatti destinati ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi.
[7] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27 settembre 2018, n. 5556, in www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Cfr. T.A.R. Toscana, sez. III, 30 gennaio 2012, n. 224, in Foro amm. TAR, 1/2012, 129.
[9] Cass. civ., sez. un., 13 febbraio 1997, n. 132.
[10] M. Conticelli, Il regime del demanio marittimo in concessione per finalità turistico-ricreative, in Riv. trim. dir. pubbl., 4/2020, 1071.
[11] Cfr. la Circolare MIT, 24 maggio 2001, n. 120 e la Circolare prot. 2007/62/DAO del 21 gennaio 2007 dell’Agenzia del Demanio.
[12] Cass. civ., sez. I, 22 ottobre 2009, n. 22441.
[13] Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 2010, n. 3348, in Riv. giur. edilizia, 5/2010, I, 1623.
[14] Cfr. le proroghe ex lege introdotte negli ultimi quindici anni: art. 1, co. 253, l. n. 296/2007 (prima proroga di venti anni); art. 34 d.l. n. 179/2012 (proroga al 2020); art. 1, co. 682, l. n. 145/2018 (proroga al 2033).
[15] T.A.R. Campania, Salerno, sez. III, 21 gennaio 2022, n. 176, in Foro amm., 1/2022, 139; Cons. Stato, sez. VI, 3 dicembre 2018, n. 6852, in Foro amm., 12/2018, 2161.
[16] Sul punto, da ultimo, è d’obbligo il richiamo al PNRR, ove – nell’ambito delle azioni da intraprendere al fine di incrementare il livello di semplificazione nel settore dei contratti pubblici – è indicato il “tendenziale divieto di clausole di proroga e di rinnovo automatico nei contratti di concessione” (p. 70). In generale, sugli effetti che la valorizzazione del principio della concorrenza presente all’interno del PNRR è destinata a produrre nel settore delle concessioni demaniali marittime si rinvia a E. Amante, PNRR e concorrenza nelle concessioni di beni demaniali: sunt facta verbis difficiliora, in Riv. giur. urbanistica, 4/2021, 1116 ss.
[17] Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2010, n. 7505, in Riv. giur. edilizia, 1/2011, 228; Cass. civ., sez. III, 24 marzo 2004, n. 5842, in Foro amm. CDS, 2004, 682; Cons. Stato, sez. VI, 8 aprile 2000, n. 2035, in Riv. giur. edilizia, 2000, I, 656; Cons. Stato, sez. VI, 27 aprile 1995, n. 365, in Foro amm., 1995, 987.
[18] Di recente, in termini, cfr. T.A.R. Toscana, sez. III, 10 marzo 2021, n. 380 e Cons. Stato, sez. VI, 3 dicembre 2018, n. 6850, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Cons. Stato, sez. IV, 13 febbraio 2020, n.1146, in www.giustizia-amministrativa.it. In termini cfr. Cons. Stato, sez. VI, 2 settembre 2019, n. 6043, in Riv. giur. edilizia, 5/2019, I, 1348; T.A.R. Campania, Napoli, sez. VII, 6 giugno 2017, n. 3018, in Foro amm., 6/2017, 1406; Cons. Stato, sez. VI, 17 marzo 2014, n. 1307, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. VI, 1° febbraio 2013, n. 626, in Foro amm. CDS, 2/2013, 491; Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 2010, n. 3348, in Riv. giur. edilizia, 5/2010, I, 1623; T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 31 gennaio 2008, n. 100, in Foro amm. TAR, 1/2008, I , 223.
[20] “Una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede una proroga ex lege della data di scadenza delle autorizzazioni equivale a un loro rinnovo automatico, che è escluso dai termini stessi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2006/123” (Corte Giust. UE, C-458/14 e C-67/15, 14 luglio 2016, Promoimpresa Srl c. Consorzio dei Comuni della Sponda Bresciana del Lago di Garda e del Lago di Idro, Regione Lombardia; Mario Melis e altri c. Comune di Loiri Porto San Paolo, Provincia di Olbia Tempio).
[21] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27 settembre 2018, n. 5556, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. VI, 28 settembre 2012, n. 5123, in Riv. giur. edilizia, 5/2012, 1184.
[22] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 17 febbraio 2017, n. 729, in Foro amm., 2/2017, 317; Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2010, n. 7505, in Riv. giur. edilizia, 1/2011, 228.
[23] Cfr. Corte cost., 27 gennaio 2017, n. 29.
[24] E. Sartor, L’acquisizione di opere inamovibili da parte della pubblica amministrazione ex art. 49 c. nav.: un’inversione di rotta del Consiglio di Stato, in Dir. trasporti, 4/2014, 573.
[25] Cass. civ., sez. VI, 18 febbraio 2014, n. 3761. La correttezza di tale ricostruzione trova, altresì, diretta conferma in quelle disposizioni del Codice della navigazione che consentono al concessionario di atteggiarsi rispetto ai terzi in qualità di titolare del bene, ad esempio costituendo ipoteca (art. 41), affidando ad altri la gestione dell’attività (art. 45-bis) o, addirittura, vendendo il manufatto (art. 46), fatta salva la necessità del previo gradimento da parte dell’ente concedente, giustificato in ragione della natura fiduciaria del rapporto concessorio. Sul punto v. F. Fracchia, Concessione amministrativa (voce), in Enc. dir., I, Milano, 2007, 250 ss.
[26] Cons. Stato, sez. VI, 13 gennaio 2022, n. 229, in Riv. giur. edilizia, 1/2022, 227.
[27] Parla di “esproprio larvato” G. Morbidelli, Sulla incostituzionalità dell’art. 49 cod. nav., in D. Granara (a cura di), In litore maris: poteri e diritti in fronte al mare, Torino 2019, 189.
[28] Corte Giust. UE, 28 gennaio 2016, causa C-375/14.
[29] M. Rospi, Il nuovo assetto costituzionale della materia di giochi e scommesse tra competenza dello Stato e competenza delle Regioni e degli altri Enti locali alla luce del principio di proporzionalità, in Federalismi.it, 2020, 171 ss.
[30] T.A.R. Toscana, sez. III, 10 marzo 2021, n. 380, in www.giustizia-amministrativa.it.
[31] T.A.R. Liguria, sez. I, 18 febbraio 2020, n. 133, in www.giustizia-amministrativa.it, ove si argomenta ulteriormente, attribuendo all’art. 49 cod. nav. la natura di norma “avente carattere suppletivo perché interviene, con la disciplina contestata, solo laddove le parti non abbiano concordato diversamente, esclusivamente in tal caso imponendo, quindi, una soluzione che, proprio per la sua residualità, non risulta irragionevole, perché dettata a tutela dell’interesse pubblico senza distingue tra miglioramenti e mere addizioni e valorizzando l’eventuale interesse al mantenimento delle opere senza alcun costo per la P.A.”.
[32] Cons. Stato, sez. VII, 28 ottobre 2022, n. 9328, in www.giustizia-amministrativa.it.
[33] In termini T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, sez. II, 10 settembre 2020, n. 570, in Foro amm., 9/2020, 1745.
[34] M. Timo, Le proroghe ex lege delle concessioni “balneari” alla Corte di Giustizia: andata e ritorno di un istituto controverso, in questa Rivista, 13.
[35] In tema di legittimo affidamento nel settore delle concessioni demaniali turistico-ricreative v. M. Magri, «Direttiva Bolkestein» e legittimo affidamento dell’impresa turistico balneare: verso una importante decisione della Corte di Giustizia Ue, in Riv. giur. edilizia, 4/2016, 359 ss.
[36] Da ultimo, si interroga se l’automatica applicazione dell’art. 49 cod. nav. “risulti compatibile con la tutela di diritti fondamentali, come il diritto di proprietà, riconosciuti come meritevoli di tutela privilegiata nell’Ordinamento dell’U.E. e nella Carta dei Diritti Fondamentali”, T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 11 maggio 2022, n. 743, cit.
[37] Su tale ultimo punto, invero, di recente il Consiglio di Stato ha escluso la possibilità che il concessionario possa invocare l’applicazione dell’art.2041 c.c. (Azione generale di arricchimento), in quanto difetterebbe l'elemento della residualità. “Il ricorso all'azione generale di indebito arricchimento è consentito, per costante giurisprudenza, soltanto a condizione che la parte interessata non abbia a sua disposizione un'azione titolata […] Nel caso in esame, il rapporto tra l’Amministrazione e l’appellante è regolamento da una concessione demaniale marittima che, in quanto tale, soggiace alla disciplina di cui all’art.49 cod. nav. e, quindi, alla libera scelta delle parti di concordare o meno un indennizzo per le opere non amovibili presenti sul bene demaniale alla scadenza della concessione stessa. Il che esclude la possibile applicazione dell’art.2041 c.c., in quanto norma sussidiaria applicabile soltanto quando non lo sia altra disposizione” (Cons. Stato, Sez. VII, 28 ottobre 2022, n. 9328, in www.giustizia-amministrativa.it).
[38] C. Burelli, Le concessioni turistico-ricreative tra vincoli “comunitari” e normativa italiana: criticità e prospettive, in Il diritto dell’Unione Europea, 2/2021, 247 ss., osserva che la durata delle concessioni “dovrebbe individuarsi in misura differenziata e proporzionata all’entità e alla rilevanza economica degli investimenti e delle opere che devono essere realizzate dal concessionario”, 278.
[39] E. Zampetti, La proroga delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa tra libertà d’iniziativa economica e concorrenza. Osservazioni a margine delle recenti decisioni dell’adunanza plenaria, in Dir. e società, 3/2021, 515.
[40] In tal senso sembra essere orientato il legislatore laddove, tra i criteri individuati nella delega al Governo in materia di affidamento delle concessioni demaniali marittime (l.n. 118/2022, art. 4), contempla la “previsione della durata della concessione per un periodo non superiore a quanto necessario per garantire al concessionario l’ammortamento e l’equa remunerazione degli investimenti autorizzati dall’ente concedente”.
[41] Tale ricostruzione si ricava, tra l’altro, anche dalla stessa sentenza Laezza (Corte Giust. UE, 28 gennaio 2016, causa C-375/14), cui sembrano fare riferimento anche le Plenarie nn. 17 e 18 del 2021. In tal senso v. F. Ferraro, Diritto dell’Unione Europea e concessioni demaniali: più luci o più ombre nelle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria?, in Dir. e società, 3/2021, 359 ss.
[42] “Sicchè l’assenza di indennizzo non solo determina un pregiudizio per l’incumbent, ma o riduce la platea dei concorrenti per la considerazione che i loro investimenti non avranno alcun riconoscimento, oppure riduce al minimo gli investimenti dei subentranti, in entrambi i casi con conseguenze anticompetitive”, G. Morbidelli, Stesse spiagge, stessi concessionari?, in Dir. e società, 3/2021, 394.
[43] La giurisprudenza amministrativa ha in più occasioni evidenziato come la disciplina dell’accessione gratuita risulti “fortemente penalizzante” per i concessionari, a fronte degli “investimenti, che potrebbero contribuire alla valorizzazione del demanio marittimo” (Cons. Stato, sez. VI, 1° febbraio 2013, n. 626, in Foro amm. CDS, 2/2013, 491).
[44] Sul punto sia consentito rinviare a M. Calabrò, Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e acquisizione al patrimonio dello Stato delle opere non amovibili: una riforma necessaria, in Dir. e società, 3/2021, 470.
[45] G. Morbidelli, Stesse spiagge, stessi concessionari?, cit., 395-396.
[46] Per un primo commento al nuovo panorama normativo che emerge dalla legge delega n. 118/2022 v. C. Volpe, Le concessioni demaniali marittime: una fine o un inizio? Correzioni di rotta e nuovi approdi, in www.giustizia-amministrativa.it, 2022
[47] M. Gola, Il Consiglio di Stato, l’Europa e le “concessioni balneari”: si chiude una – annosa – vicenda o resta ancora aperta?, in Dir. e società, 3/2021, 414-415. L’autrice, nel soffermarsi sulle diverse peculiarità che connotano la dimensione economica delle attività legate alla gestione di un bene demaniale marittimo, parla di un vero e proprio “conflitto interno” che viene a crearsi tra obiettivi europei: “da un lato, l’apertura del mercato, cardine essenziale sin dall’origine per le Istituzioni europee, dall’altro lato la tutela di quella che è una delle caratteristiche proprie del mercato stesso, particolarmente evidente in Italia, data dalla natura familiare della gran parte del sistema imprenditoriale balneare, riscontrabile con evidenza nel segmento del turismo balneare”, 412.
Il soccorso istruttorio e l’omologazione del concordato in continuità nelle procedure ad evidenza pubblica (nota a Cons. St., Sez. III, n. 9147/2022)
di Tania Linardi
Sommario: 1. Fatto e vicenda processuale. 2. Sulla portata applicativa del soccorso istruttorio della stazione appaltante. Brevi cenni: casistica giurisprudenziale. 2.1. La posizione del Consiglio di Stato sull’operatività del soccorso istruttorio in caso di mancata presentazione della domanda di partecipazione. 3. Sugli effetti dell’omologazione del concordato: il dibattito giurisprudenziale e la soluzione adottata nel caso in esame. 4. Rilievi conclusivi: verso l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici.
1. Fatto e vicenda processuale.
I fatti da cui scaturisce la vicenda posta alla base del presente commento riguardano gli esiti di una procedura indetta per l’affidamento del servizio di vigilanza attiva e passiva di un’Azienda ospedaliera sita in Campania, da aggiudicarsi secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Nel particolare, la società classificatasi in seconda posizione presentava ricorso avverso la deliberazione del Direttore generale con cui veniva aggiudicato il lotto numero 1 della suddetta procedura negoziata. Le censure ivi enucleate concernevano l’asserita sussistenza di tre ordini di ragioni in grado di comportare l’esclusione della società dalla procedura: (a) la mancata presentazione della domanda di partecipazione alla gara; (b) il mancato ottenimento dell’autorizzazione di cui all’art. 186 –bis, comma 4, R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare); (c) una situazione di grave irregolarità contributiva dell’operatore aggiudicatario. Inoltre, la ricorrente deduceva la presenza di un’erronea valutazione delle offerte tecniche, l’illegittima modifica dei criteri di valutazione delle offerte, nonché l’incompetenza dei componenti della commissione di gara.
Sul punto, il Tribunale Amministrativo Regionale competente, con la sentenza n. 4325 del 24 giugno 2022, disponeva il rigetto di tutti i motivi di ricorso.
Quanto al primo motivo, il Collegio chiariva che, alla luce della formulazione dell’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, dovesse ritenersi attratta nel perimetro applicativo della norma anche l’ipotesi della mancata presentazione della domanda di partecipazione “allorquando, come nella specie, non risulti affatto pregiudicato l’interesse sostanziale dell’amministrazione, in ragione della possibilità di desumere – dall’offerta tecnica ed economica del concorrente, nonché dal DGUE (comunque presentati nel rispetto dei termini di scadenza e dei requisiti partecipativi richiesti a tale data) – non solo la sicura manifestazione di volontà, sia pure non formalmente espressa, riferibile ad un preciso operatore economico, di partecipare alla gara, ma anche il complesso delle informazioni rilevanti ai fini della partecipazione (…).
Ancor più nel particolare, il Tar precisava che dovesse ritenersi esclusa l’applicazione della sanzione espulsiva, invece invocata dalla ricorrente, in ragione della natura meramente formale e non sostanziale riconducibile all’ipotesi della mancata presentazione della domanda di partecipazione da parte dell’operatore economico. Si riteneva, infatti, sproporzionata siffatta sanzione, ponendosi essa in contrasto con la logica della massima partecipazione nell’ottica della più ampia concorrenza nel mercato di riferimento.
Ulteriormente, per quel che rileva ai fini della presente trattazione, il Collegio respingeva anche il motivo di ricorso concernente la sussistenza di un motivo di esclusione per non aver l’aggiudicataria richiesto al giudice delegato l’autorizzazione alla partecipazione alla gara, pur essendo coinvolta in una procedura di concordato preventivo con continuità aziendale.
In proposito, il Collegio evidenziava che, a seguito dell’intervento dell’omologa del concordato preventivo, l’operatore economico dovesse ritenersi collocato nella separata fase di esecuzione, quale momento non riconducibile alla procedura concordataria propriamente intesa ormai già conclusa, come desumibile anche dall’art. 181, l. fallimentare. In termini, testualmente si precisava che, dopo l’omologazione, “(…) l’impresa riacquista la piena capacità di agire ai fini del compimento di tutti gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, in ragione della restituzione della capacità di disporre del proprio patrimonio e di gestire l’azienda in capo all’organo gestorio, che deve operare nel rispetto del piano, senza necessità di autorizzazione, ferma restando la vigilanza degli organi della procedura”. Nel solco di tali rilievi, i Giudici ponevano in luce la funzione meramente di “controllo” ascritta al commissario giudiziale, ragion per cui l’impresa non avrebbe necessitato di alcuna specifica autorizzazione ai fini della regolare partecipazione alle gare pubbliche. In altri termini, si riteneva non applicabile l’art. 186 bis, co. 4, l. fallimentare, in quanto riferibile alla differente ipotesi in cui non vi fosse l’omologazione del concordato.
Così, veniva proposto appello avverso la suesposta decisione, evidenziandosi taluni profili di contraddittorietà. Dall’analisi della stessa giurisprudenza richiamata dai giudici di prime cure ai fini della risoluzione della questione giuridica, infatti, si desumeva che il soccorso istruttorio non avrebbe consentito “all’offerente di formare atti in data successiva a quella di scadenza del termine di presentazione delle offerte”.
Inoltre, si osservava che, in ossequio a quanto previsto dal Disciplinare di gara, la controinteressata avrebbe dovuto inserire alcune specifiche “dichiarazioni integrative”, non desumibili nemmeno implicitamente dagli altri documenti prodotti.
Secondo quanto sancito da parte della giurisprudenza civile[1], si precisava che l’omologazione non fosse di per sé sola idonea ad attribuire al debitore la piena disponibilità del patrimonio, essendo quest’ultimo in ogni caso “vincolato all’attuazione degli obblighi da lui assunti con la proposta omologata”, ai sensi degli artt. 180 e 185 della legge fallimentare. Si evidenziava, altresì, anche la posizione di quella giurisprudenza del Consiglio di Stato[2] a detta della quale, a seguito dell’omologazione, l’operatore economico non riacquisterebbe la piena capacità di agire, che sarebbe, invece, ottenibile in sede di adozione del decreto teso ad accertare l’adempimento del piano concordatario.
Quindi, ai sensi degli indirizzi giurisprudenziali sopra richiamati, la parte appellante sosteneva che, nella fase successiva alla pronuncia di omologazione, l’operatore avrebbe dovuto richiedere (ed ottenere) una specifica autorizzazione da parte del giudice delegato ai fini della regolare partecipazione alle gare pubbliche.
2. Sulla portata applicativa del soccorso istruttorio della stazione appaltante. Brevi cenni: casistica giurisprudenziale.
L’istituto del soccorso istruttorio, specie con riferimento alle procedure ad evidenza pubblica, svolge un ruolo essenziale nella graduazione dei poteri espulsivi dell’Amministrazione, imponendo, alle condizioni normativamente previste, l’attivazione di quel “dialogo procedimentale”[3] con gli operatori economici teso a colmare talune carenze o errori nella produzione dei documenti di gara. [4]
In via generale, il meccanismo del c.d. soccorso istruttorio procedimentale è rinvenibile nell’art. 6, co. 1, lett. b), legge n. 241 del 1990, ascrivendosi tra i compiti del responsabile del procedimento, il quale, secondo la formulazione letterale della norma in esame, “può chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete e può esperire accertamenti tecnici ed ispezioni ed ordinare esibizioni documentali”.
Sul punto, la dottrina ha evidenziato la valenza molto ampia di tale istituto, tanto da qualificarlo alla stregua di un vero e proprio principio di portata generale inserito nel contesto di un’ottica collaborativa[5], essendo ravvisabile un potere-dovere in capo alla P.A. di chiedere le integrazioni documentali o delle dichiarazioni fornite dal privato nell’ambito della fase istruttoria del procedimento amministrativo[6].
Ciò emerge anche dall’analisi sistematica delle norme collocate nel Capo II, rubricato Responsabile del procedimento, della Legge generale sul procedimento amministrativo, ove dalla lettura degli artt. 4, 5, 6 si desume l’assoluta centralità della fase istruttoria e delle attività connesse, in quanto prodromiche all’adozione del provvedimento finale[7]. Per tale ragione, anche a livello terminologico, si assiste, con riferimento ai compiti assegnati al responsabile del procedimento, all’utilizzo da parte del Legislatore di talune formule lessicali spesso molto ampie e dal contenuto indeterminato, in grado di abbracciare un’ampia varietà di ipotesi concrete, sempreché finalisticamente orientate a garantire l’adeguatezza e la ragionevole celerità dell’istruttoria ai fini dell’adozione del provvedimento finale [8], in ossequio ai criteri di economicità ed efficacia dell’azione amministrativa, di cui all’art. 1, legge n. 241 del 1990.
In sede pretoria, l’istituto de quo è stato qualificato come uno strumento in grado di incentivare la leale collaborazione tra i privati e l’Amministrazione procedente, quale corollario del canone del buon andamento amministrativo cristallizzato nell’art. 97 della Carta costituzionale[9]. Tuttavia, si è evidenziato come la valenza operativa del c.d. soccorso istruttorio procedimentale non abbia, in realtà, una portata assoluta ed illimitata, dovendosi effettuare, specie nelle procedure selettive, un ragionevole bilanciamento con il principio di “autoresponsabilità” gravante sui candidati. Essi, infatti, sono tenuti a rispettare quegli obblighi minimi di cooperazione nella presentazione e compilazione dei documenti, ove ciò sia richiesto in modo chiaro dalla legge di gara e non comporti particolari oneri o difficoltà tecnico informatiche, nell’ottica del rispetto del principio della par condicio tra i concorrenti[10]. Tali obblighi di correttezza, come noto, troverebbero specifica copertura costituzionale negli artt. 2 e 97 Cost., che costituiscono il fondamento sostanziale del principio della solidarietà[11] e della autoresponsabilità[12].
In concreto, le problematiche connesse all’attività interpretativa di bilanciamento tra i suddetti principi talvolta venivano risolte ritenendo ammissibile il ricorso al meccanismo del soccorso istruttorio soltanto nelle ipotesi in cui fosse necessario effettuare una mera attività di regolarizzazione documentale.[13] Invece, si escludeva l’operatività del soccorso in caso di integrazione di documenti non prodotti dal privato e richiesti a pena di esclusione[14] oppure nelle ipotesi di carenza non sanabile, laddove afferente ad un elemento essenziale della domanda[15].
Circa la natura giuridica del potere di soccorso, pur non registrandosi unanimità di vedute nella giurisprudenza, di recente appare prevalere quell’indirizzo interpretativo che qualifica l’invito del responsabile del procedimento alla regolarizzazione non già in termini di mero potere[16], bensì quale vero e proprio “dovere”[17].
Quest’ultima impostazione appare rinvenibile soprattutto nel settore delle procedure ad evidenza pubblica, anche nella vigenza del codice del 2006[18], specie a far data dalle modificate apportate agli artt. 46 e 38, d. lgs. n. 163 del 2006, dalla l. n. 114 del 2014. È stato, infatti, introdotto un meccanismo dal contenuto più ampio che presenta i caratteri della doverosità, essendo esperibile il soccorso istruttorio anche per consentire integrazioni di documenti non prodotti dai concorrenti. In tal modo, infatti, è stata valorizzata maggiormente la portata applicativa del principio del favor partecipationis e la prevalenza della “sostanza” (quanto alla verifica della effettiva sussistenza dei requisiti di partecipazione, nonché della capacità tecnica ed economica degli operatori), rispetto alle esigenze di mero formalismo, potenzialmente idonee ad introdurre talune barriere all’ingresso nel mercato contrattuale di riferimento.[19]
Il carattere doveroso[20] dell’attivazione del soccorso istruttorio da parte della stazione appaltante è evincibile anche dall’attuale formulazione dell’art. 83, co. 9[21], d.lgs. n. 50 del 2016[22], ove si prevede che “le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio (…)”. La disposizione in commento prosegue, poi, enucleando più nel dettaglio le differenti ipotesi mediante le quali tali “carenze” potrebbero manifestarsi, richiamando la più grave forma della “mancanza”, nonché quella della “incompletezza” degli elementi prodotti. Il carattere non tassativo dell’elenco presente nella norma in esame si desume dal successivo riferimento ad “ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all’art. 85”. L’ampiezza di tale “clausola aperta”, idonea a ricomprendere potenzialmente al suo interno una varietà indefinita di situazioni suscettibili di ricadere nel perimetro applicativo del soccorso istruttorio, ha consentito alle elaborazioni pretorie di chiarirne, di volta in volta, la concreta operatività. L’unico limite espressamente previsto dal Legislatore quanto all’ambito oggettivo di applicazione del soccorso istruttorio concerne, infatti, i casi di carenze relative all’offerta economica e tecnica, nonché quelle in grado di compromettere “l’individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa”, qualificate in termini di irregolarità essenziali non sanabili.
In giurisprudenza, le numerose problematiche interpretative emerse in subiecta materia hanno riguardato, a titolo meramente esemplificativo, le ipotesi di irregolarità afferenti alla domanda partecipazione alle procedure ad evidenza pubblica. Come anticipato, il comma 9 dell’art. 83 cit. sancisce espressamente, nell’incipit, che mediante il soccorso istruttorio possono essere sanate le “carenze di qualsiasi elemento formale della domanda”, lasciando aperta la questione interpretativa relativa all’esatta perimetrazione delle tipologie di vizi formali suscettibili di ricadere nello spazio di operatività della norma. Appare desumibile, effettuando un’interpretazione a contrario della disposizione, che i vizi sostanziali inficianti la domanda non potrebbero essere sanati dal meccanismo del soccorso istruttorio. La disposizione in commento sembrerebbe sancire, a livello letterale, che l’operatività del soccorso sia subordinata alla presenza di una carenza di un elemento della domanda, non già della domanda di partecipazione tout court. [23] Tuttavia, la giurisprudenza più recente appare tendenzialmente orientata ad adottare un approccio di stampo eminentemente sostanzialistico, a seconda delle specificità del singolo caso concreto, ritenendo che l’operatore economico che non abbia allegato la domanda di partecipazione non possa, solo per tale ragione, automaticamente essere escluso dalla procedura se la volontà di partecipare alla gara sia comunque desumibile in modo inequivoco dagli altri documenti prodotti[24] e se ciò non si traduca in un’incertezza sulla provenienza dell’offerta o sul suo contenuto.
Ulteriore ipotesi analizzata recentemente dalla giurisprudenza concerne la valutazione delle conseguenze derivanti dalla mancata produzione, da parte di un operatore economico, di un attestato di equipollenza di un titolo di studio estero nell’ambito della procedura di gara. Nel particolare, nell’ambito del giudizio di appello[25] è stata ritenuta illegittima l’esclusione dell’impresa dal procedimento di gara per il solo fatto di non aver prodotto tale attestato. Invero, si evidenziava come la stazione appaltante avrebbe potuto dare seguito al soccorso istruttorio, anche sollecitando la produzione del certificato, nonché prendere in considerazione alternativamente il curriculum di altra risorsa che la società aveva prodotto. In ogni caso, si precisava che il documento de quo dovesse includersi tra la documentazione amministrativa a comprova dei requisiti che, se incompleta come nel caso di specie, era suscettibile di integrazione in sede di soccorso istruttorio, nel solco del principio del favor partecipationis. Sussistendo in concreto i requisiti richiesti, infatti, si evidenziava come nessun vulnus dovesse rintracciarsi al principio della par condicio tra i concorrenti. [26]
Viene in rilievo anche la questione sulla mancata iscrizione di un operatore economico ad una piattaforma telematica, in termini di esclusione dalla procedura, nel caso in cui ciò sia previsto ai fini della regolare partecipazione alla gara. Interessanti taluni dei rilievi effettuati nel caso di specie dal Collegio, che precisava come: “a prescindere dal fatto che l’iscrizione alla piattaforma informatica Me.PA sia stata qui intesa quale mera modalità procedimentale ovvero come requisito di qualificazione o di idoneità professionale, va comunque sempre data sostanziale prevalenza, rispetto alla mera procedimentalizzazione formale, alla garanzia della piena concorrenzialità e massima partecipazione alle gare, cui la stessa digitalizzazione è preordinata”. [27]
Così, dalle suddette pronunce passate in rassegna emerge la prevalenza di quegli orientamenti “estensivi” sulla portata applicativa dell’istituto del soccorso istruttorio di cui all’art. 83, co. 9, d.lgs. n. 50 del 2016, assistendosi, in via generale, ad una valorizzazione del dato sostanziale e ad una riduzione dell’incidenza dei vizi meramente formali della produzione documentale nell’ambito delle procedure di gara, nonché nelle ipotesi delle procedure comparative e di massa.[28]
2.1. La posizione del Consiglio di Stato sull’operatività del soccorso istruttorio in caso di mancata presentazione della domanda di partecipazione.
Poste tali premesse su alcuni dei recenti orientamenti giurisprudenziali registratisi sul tema, occorre ora soffermarsi sulle considerazioni effettuate dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 9147 del 2022.
In primo luogo, viene in rilievo il motivo di appello finalizzato a contestare la mancata esclusione dell’operatore economico aggiudicatario per non aver prodotto la domanda di partecipazione alla procedura di gara, ipotesi asseritamente ritenuta insuscettibile di integrazione postuma mediante l’istituto del soccorso istruttorio. Ciò in ragione della circostanza che il soccorso istruttorio non consentirebbe all’offerente di “formare atti in data successiva a quella di scadenza del termine di presentazione delle offerte”.
Preliminarmente, il Collegio evidenzia l’ampiezza del tema relativo alla distinzione delle ipotesi integranti mere imperfezioni della documentazione prodotta dall’operatore concorrente, rientrante nel perimetro applicativo del soccorso istruttorio, rispetto a quelle idonee ad escludere dalla gara il concorrente.
Più nel particolare, nell’ambito dell’analisi esegetica dell’art. 83, co. 9, d.lgs. n. 50 del 2016, il Consiglio di Stato pone l’attenzione sull’assoluta centralità del criterio discretivo tra le due categorie di vizi poc’anzi illustrate: il carattere formale, o meno, dell’errore inficiante la documentazione di gara. Al riguardo, si sancisce espressamente che “le carenze formali, emendabili mediante il soccorso istruttorio, sono, in senso ampio, tutte quelle attinenti alla estrinsecazione della dichiarazione partecipativa e di quelle accessorie, come ad esempio le dichiarazioni aventi ad oggetto il possesso dei requisiti di partecipazione, comprese le lacune, di carattere più radicale, consistenti nella mancanza stessa della dichiarazione o di sue componenti essenziali (…)”.
Ulteriormente, si precisa che la distinzione tra i vizi dei requisiti partecipativi meramente formali e quelli più gravi aventi natura sostanziale debba rinvenirsi nella contrapposizione, rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 83, co. 9, in commento, tra “esistenza ab initio del requisito medesimo (riconducibile, appunto, all’aspetto “sostanziale” della fattispecie partecipativa ed insuscettibile di venire ad esistenza a posteriori, veicolato dal soccorso istruttorio) e sua dichiarazione (attinente all’aspetto “formale” della stessa e in quanto tale, in base alla citata disposizione, sempre regolarizzabile).
Così, al fine di comprendere quali siano le conseguenze imputabili all’operatore aggiudicatario per non aver prodotto la domanda di partecipazione alla procedura di gara, il Collegio ritiene utile chiarire che il contenuto essenziale della domanda è quello riconducibile agli elementi che debbono preesistere alla scadenza del termine di presentazione delle offerte. Nel caso in cui questi venissero tardivamente prodotti, infatti, si evidenzia come si darebbe luogo ad una inammissibile partecipazione tardiva dell’operatore stesso, ipotesi verificabile ad esempio ove una domanda di partecipazione non risulti assolutamente rilevabile “nemmeno de relato da altre componenti della documentazione di gara (…)”. [29]
Invece, si ritiene che possa considerarsi sanabile quella “carenza strettamente formale della sua manifestazione esteriore, come accade nel caso in cui la suddetta volontà, pur non consacrata in un documento all’uopo destinato, conforme al modello eventualmente predisposto dalla stazione appaltante, sia comunque desumibile da altri documenti di gara, come nella specie – secondo il ragionamento svolto dal T.A.R. – dal DGUE”.
Sulla scorta di tali considerazioni, la Sezione ha, quindi, disposto il rigetto del corrispondente motivo di appello, per l’effetto confermando in parte qua la sentenza del giudice di prime cure.
3. Sugli effetti dell’omologazione del concordato: il dibattito giurisprudenziale e la soluzione adottata nel caso in esame.
Come anticipato, altro nodo problematico affrontato dal Consiglio di Stato nella sentenza oggetto della presente trattazione concerne la quaestio iuris relativa alla discussa necessità di ottenere una specifica autorizzazione giudiziale, ai fini della partecipazione ad una gara pubblica, per l’impresa coinvolta in un concordato preventivo con continuità aziendale[30], anche nel segmento temporale successivo all’intervento del decreto di omologazione[31], di cui all’art. 180, co. 3, R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare)[32].
Il Consiglio di Stato si sofferma, in particolare, sull’analisi esegetica della disposizione di cui all’art. 186 bis L.F., riscontrando talune criticità, stante l’assenza di un’espressa indicazione del dies ad quem di operatività dell’obbligo di acquisire la suddetta autorizzazione giudiziale.[33] Da ciò si fa, infatti, discendere la prospettazione di due differenti opzioni interpretative.
Secondo una ricostruzione più rigorosa[34], l’obbligatorietà del possesso dell’autorizzazione per partecipare alle gare pubbliche sussisterebbe sino al momento della completa esecuzione del piano concordatario, ai sensi dell’art. 136 L.F. A sostegno di tale tesi, si evidenzia che l’intervento del decreto di omologazione del concordato non risulterebbe di per sé idoneo a consentire il ritorno in bonis del debitore, dovendosi ritenere pienamente applicabili le norme di cui agli artt.186 bis L.F. ed 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016. Ciò in quanto, si precisa, anche successivamente alla chiusura del concordato, di cui all’art. 181 L.F., il debitore non acquista la piena capacità di disporre del proprio patrimonio, su cui gravano i vincoli assunti con la proposta omologata. Ulteriore argomento a suffragio di tale orientamento sarebbe rinvenibile nella funzione stessa della fase di esecuzione, essendo finalizzata all’adempimento del concordato nel solco degli obiettivi previamente stabiliti nel decreto di omologazione e sotto la sorveglianza del Commissario giudiziale.
Diversamente, altra opzione interpretativa[35] ritiene che l’obbligo di ottenere l’autorizzazione giudiziale non opererebbe successivamente all’adozione del decreto di omologazione, stante quanto evincibile dall’art. 181 L.F, il quale sancisce che “la procedura di concordato preventivo si chiude con il decreto di omologazione ai sensi dell’art. 180”. Si precisa che, secondo la disposizione in commento, a seguito dell’omologazione l’impresa non potrebbe qualificarsi né “in stato”[36] né “in corso” di procedura di concordato, dovendosi, quindi, escludere l’operatività degli obblighi documentali ed i divieti di legge relativi alla partecipazione alle gare pubbliche, sanciti dall’art. 186 bis, co. 4 e 5, L.F. Altro elemento invocato a sostegno della riferita opzione ermeneutica concerne le differenti funzioni spettanti al giudice delegato dopo l’intervento dell’omologazione del concordato, titolare di poteri di mera vigilanza e controllo sull’esecuzione del piano concordatario, non già dei più ampi poteri autorizzatori come avveniva nella precedente fase della procedura. [37]Tali rilievi sarebbero desumibili anche dall’art. 110, d.lgs. n. 50 del 2016 che, nel richiamare l’art. 186 bis L.F., chiarisce che la normativa che subordina, per le imprese in concordato con continuità aziendale, l’ottenimento di un’autorizzazione del giudice delegato ai fini della partecipazione alle gare pubbliche, non troverebbe applicazione dopo l’omologazione, in virtù dei poteri di mero controllo del Tribunale.
Di talché, la tesi in commento sostiene che l’omologazione del concordato con continuità aziendale dispieghi taluni importanti effetti sul piano della “riacquisizione”[38], da parte dell’impresa, della piena capacità giuridica ed operativa dal punto di vista finanziario ed economico, non essendo più necessario, in questa fase, richiedere specifiche autorizzazioni o valutazioni giudiziali[39].
La riferita impostazione si avvale anche di un argomento di carattere generale per giungere a tali conclusioni, sottolineando il fatto che la capacità di agire e, nel particolare, quella di contrarre, possano essere limitate soltanto per espressa previsione normativa. Da qui la constatazione che, dopo l’intervento dell’omologazione, non vi sarebbe alcuna copertura normativa in grado di giustificare l’operatività degli obblighi e delle limitazioni invece letteralmente riferite, dall’art. 186 bis, L.F., alle “imprese ammesse al concordato”. Diversamente opinando, infatti, si darebbe luogo ad una inammissibile interpretazione estensiva della disposizione in commento, con la conseguente violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione[40].
Poste tali premesse in ordine ad alcuni degli orientamenti giurisprudenziali presenti in subiecta materia, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 9147 del 2022, ritiene preferibile aderire alla tesi meno restrittiva, tuttavia, effettuando talune precisazioni.
Si evidenzia, infatti, che il dies ad quem di operatività degli obblighi autorizzativi, di cui all’art. 186 bis L.F., non potrebbe implicitamente desumersi “dal fatto che, una volta che l’impresa abbia ottenuto l’omologazione, essa non si troverebbe più in stato di concordato preventivo, ex art. 80, comma 5, lett. b), d.lvo n. 50/2016”. Ciò in ragione del fatto che gli effetti promananti dall’omologazione del concordato non sarebbero tali da comportare una “cesura netta” tra la fase della procedura di concordato e quella della relativa esecuzione.
Nonostante tali preliminari considerazioni, il Collegio ritiene che, ad ogni modo, debba escludersi l’esistenza di un regime di “ultrattività” delle limitazioni alla capacità di agire del debitore a seguito della chiusura della procedura di concordato e, conseguentemente, dell’intervento della omologazione. Tale affermazione troverebbe conferma, nel particolare, dall’analisi testuale dell’art. 161, co. 7, L.F., specie nella parte in cui si individua il limite temporale di operatività dell’obbligo di ottenere l’autorizzazione del tribunale in un momento precedente rispetto all’intervento della omologazione[41].
Ciò detto, la Sezione si sofferma sull’analisi interpretativa delle disposizioni concernenti la fase “post-omologazione” del concordato, evidenziando che l’art. 185 della legge in esame, diversamente dall’art. 186 bis, co. 4, sancisce l’imputazione del potere di sorveglianza (quanto all’adempimento del concordato) al Commissario giudiziale, non già al Tribunale o al Giudice delegato.
Per tale ragione, si deduce, da un lato, che i poteri autorizzatori di questi ultimi organi non possano essere esercitati dopo l’intervento dell’omologazione; dall’altro lato, che gli obblighi gravanti sul debitore nella fase esecutiva abbiano natura “attiva”. Essi, come sottolineato dai giudici amministrativi, risulterebbero finalisticamente orientati alla corretta esecuzione del piano concordatario, non involgendo divieti all’esercizio di attività imprenditoriali del debitore, tra le quali può annoverarsi la partecipazione ad una gara pubblica[42].
Del pari, il Collegio si sofferma sulla natura dell’omologazione del piano di concordato preventivo con continuità aziendale che, rappresentando il fulcro di una ponderata “valutazione della sostenibilità economico-finanziaria della stessa oltre che della sua utilità per i creditori”, secondo quanto previsto dall’art. 186 bis, co. 2, L.F., presuppone un accertamento della capacità del debitore di svolgere utilmente l’attività di impresa nel libero esercizio dell’attività economica.
Sulla scorta di tali rilievi, la Sezione ritiene di non aderire alle prospettazioni della parte appellante, disponendo il rigetto del corrispondente motivo di appello diretto a contestare la mancata esclusione dell’aggiudicataria per non aver ottenuto apposita autorizzazione alla partecipazione alla gara.
4. Rilievi conclusivi: verso l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici.
La posizione espressa dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 9147 del 2022 concerne, come evidenziato nei precedenti paragrafi, una duplice questione. La prima tematica riguarda la portata applicativa del soccorso istruttorio nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica. La seconda, invece, attiene alla necessità, o meno, per l’operatore economico in concordato preventivo con continuità aziendale, di ottenere un’autorizzazione giudiziale ai fini della partecipazione alle gare pubbliche, nella specifica ipotesi in cui sia intervenuta l’omologazione del concordato.
La sentenza in commento evidenzia, anzitutto, come non sia meritevole di accoglimento il motivo di appello teso a contestare, per ciò che qui rileva, la mancata esclusione dalla gara pubblica dell’impresa aggiudicataria per non aver prodotto la relativa domanda di partecipazione, sul presupposto dell’asserita inapplicabilità dell’istituto del soccorso istruttorio nella fattispecie de qua.
A tale proposito, dal decisum si evince che la quaestio iuris relativa all’individuazione delle lacune della domanda emendabili in via postuma ai sensi dell’art. 83, co. 9, Codice dei contratti pubblici, debba essere risolta indagando principalmente sul carattere “formale”, o meno, delle carenze, come evincibile dall’incipit del primo periodo della disposizione in commento. Nel particolare, il Collegio chiarisce che la distinzione rispetto alla categoria delle carenze o irregolarità di natura sostanziale, invece non sanabili, risiederebbe nella riferibilità di queste ultime alle ipotesi in cui la dichiarazione o la documentazione mancante riguardi il possesso di un requisito partecipativo non esistente in rerum natura alla scadenza del termine di presentazione delle offerte. Da ciò si fa discendere la conseguenza che, pur rappresentando la mancata presentazione della domanda di partecipazione ad una gara una condizione necessaria per il perfezionamento della fattispecie partecipativa stessa, non possa in modo automatico disporsi l’esclusione dell’operatore economico se la volontà di partecipare sia, in concreto, desumibile da altri documenti di gara, come il DGUE tempestivamente prodotto. Nel qual caso, infatti, si sostiene trattasi di una carenza meramente formale concernente soltanto le modalità di manifestazione esteriore (della volontà partecipativa), non anche l’esistenza ab initio del requisito stesso.
Siffatti rilievi ermeneutici, nel solco di una lettura “estensiva” della portata applicativa del soccorso istruttorio nella fattispecie de qua, sembrerebbero porsi in linea anche con l’art. 101 dello Schema definitivo del nuovo Codice dei contratti pubblici, ove, in particolare alla lett. b), è sancito che è possibile “sanare ogni omissione, inesattezza o irregolarità della domanda di partecipazione (…)”.[43]
Sempreché tale formulazione risulti confermata sino all’entrata in vigore del nuovo Codice, si profila interessante osservare come sia stata espressamente prevista nella disposizione de qua la fattispecie relativa alla “omissione della domanda di partecipazione”, superandosi, in tal modo, eventuali dubbi circa la riconducibilità di essa nel perimetro applicativo del soccorso istruttorio. Invece, non appaiono rinvenibili nell’art. 101 cit. riferimenti al carattere “formale” degli elementi della domanda sanabili, diversamente da quanto sancito dall’attuale formulazione dell’art. 83, co. 9, D.lgs. n. 50 del 2016.
Dall’analisi dell’art. 101, lett. a), Schema di Codice dei contratti pubblici, sembrerebbe invece potersi desumere il riferimento a quel concetto di matrice pretoria legato al carattere “sostanziale” dei requisiti che debbono sussistere in rerum natura prima della scadenza della presentazione delle offerte.[44]
Da qui la constatazione che, in via generale, lo sviluppo della tipizzazione e della procedimentalizzazione delle fattispecie emendabili con l’attivazione del soccorso potrebbero incidere positivamente sul funzionamento del mercato, consentendo sia agli operatori privati di agire in un quadro connotato da maggiore chiarezza sia all’Amministrazione di perseguire il migliore risultato economico in un mercato maggiormente efficiente sotto il profilo della corretta circolazione delle informazioni.[45]
Infine, per ciò che attiene alla seconda tematica affrontata dalla sentenza in commento, il Collegio, nel disporre il rigetto del correlativo motivo di appello, ha specificato l’insussistenza di uno specifico obbligo di ottenere l’autorizzazione giudiziale ai fini partecipativi per l’impresa concorrente che abbia ottenuto l’omologazione del concordato ex art. 180, co. 3, L.F.
A sostegno di tali rilievi, si è evidenziato che l’impresa coinvolta nella procedura concordataria di cui all’art. 186 bis, l. cit., pur in assenza di una espressa indicazione del dies ad quem dell’obbligo di acquisire l’autorizzazione del giudice ai fini partecipativi, non possa essere esclusa dalla gara pubblica. Ciò sulla base dell’interpretazione delle disposizioni relative alla fase dell’esecuzione “post-omologazione” del concordato, tra cui è possibile citare, in particolare, l’art. 185 sui poteri di “sorveglianza” del commissario giudiziale (diversamente dai poteri autorizzatori contemplati nell’art. 186 bis, co. 4).
Elemento ulteriore posto a fondamento del ragionamento del Collegio risiede nella ritenuta riacquisizione della “legittimazione dell’imprenditore al libero esercizio della sua iniziativa economica”[46], sul presupposto della preventiva valutazione di sostenibilità economico-finanziaria, quanto al soddisfacimento degli interessi dei creditori, effettuata con l’adozione del decreto di omologazione.
Nel delineato contesto, quindi, assumono una funzione centrale la portata applicativa del principio di tassatività delle cause di esclusione, da un lato, e l’omologazione giudiziale del concordato, dall’altro, rappresentando uno strumento di “controllo” e “vaglio preliminare” della capacità dell’impresa quanto alla sana prosecuzione dell’attività economica. Di talché, la constatazione che il debitore riacquisti la libera disponibilità del suo patrimonio[47], condivisibilmente con quanto sancito dai Giudici amministrativi, impone di effettuare una lettura in chiave restrittiva del potere autorizzatorio e dei relativi presupposti ex art. 186 bis, co. 4, L.F., valorizzandosi la libertà di iniziativa privata economica, di cui all’art. 41 della Carta costituzionale, nonché il principio generale del favor partecipationis.
[1] Sul tema, cfr., tra le altre, Cass. civ., Sez. VI, n. 2656/2021; Cass. civ., Sez. I, n. 380/2018.
[2] Cons. St., Sez. V, n. 4302/2021; Cons. St., Sez. V, n. 69/2019, nonché n. 3938/2019.
[3] Cfr. M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2015, p. 238; nonché, sul tema, v. S. TARULLO, Il divieto di aggravamento del procedimento amministrativo quale dovere codificato di correttezza amministrativa, in Dir. amm., 2008, 437 ss.; F. GAMBARDELLA, Le regole del dialogo e la nuova disciplina dell’evidenza pubblica, Torino, 2016, p. 89 ss.
[4] Per approfondimenti sul tema, cfr. F. APERIO BELLA, S. CALDARELLI, E.M. SANTORO, S. TRANQUILLI, Verifica dei requisiti e soccorso istruttorio, in Trattato sui contratti pubblici, v. II, diretto da M.A. SANDULLI, R. DE NICTOLIS, 2019, Giuffré, p. 1468 ss.; E. FREDIANI, Il soccorso della stazione appaltante tra fairness contrattuale e logica del risultato economico, in Diritto Amministrativo, fasc. 3, 2018, p. 623 ss. In giurisprudenza, tra gli altri, v. Tar Lazio, Roma, Sez. III, n. 15232.2022, pubblicata il 17.11.2022.
[5] F. LEVI, L’attività conoscitiva della pubblica amministrazione, Torino, 1967, 384 ss.
[6] F. APERIO BELLA, L’istruttoria procedimentale, in Princìpi e regole dell’azione amministrativa, a cura di M.A. SANDULLI, Giuffrè, 2020; N. SAITTA, Sul c.d. soccorso istruttorio nel procedimento e nel processo, in Giustamm.it, 2013; E. FREDIANI, Il dovere di soccorso procedimentale, Napoli, 2016.
[7] Sul tema dell’istruttoria procedimentale, cfr., per approfondimenti, C. MARZUOLI, Il principio di buon andamento e il divieto di aggravamento del procedimento, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, 2011, p. 206 ss.; F. MANGANARO, Il principio di non aggravamento del procedimento amministrativo, ivi, 2017, p. 261 ss.; M.P. VIPIANA, La sospensione del procedimento amministrativo per finalità istruttorie, in GDA, 8, 2010p. 869 ss.; A. ZITO, Compiti del responsabile del procedimento, in N. PAOLANTONIO, A. POLICE, A. ZITO (a cura di) La pubblica amministrazione e la sua azione. Saggi critici sulla legge n. 241/1990 riformata dalle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Torino, 2005, 190; M.A. SANDULLI, L. MUSSELLI, Articoli 4, 5 e 6 in V. ITALIA (a cura di) L’azione amministrativa. Commento alla l. 7 agosto 1990, modificata dalla l. 11 febbraio 200, n. 5 e dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, Milano, 2005; F. SAITTA, Interrogativi sul c.d. divieto di aggravamento: il difficile obiettivo di un’azione amministrativa “economica” tra libertà e ragionevole proporzionalità dell’istruttoria, in D SOC, 2001, 507 ss.
[8] A tale proposito, vedasi l’art. 4, l. n. 241 del 1990, nella parte in cui prescrive la necessità di individuare “l’unità organizzativa responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale (…)”; nonché l’art. 5, ove richiama “ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento”; infine l’art. 6 che, alla lett. b), sancisce che il responsabile del procedimento debba adottare “ogni misura per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria”.
[9] In tal senso, tra le altre, v. Cons. St., Sez. V, 3 giugno 2010, n. 3486.
[10] Cons. St., Sez. III, 22 febbraio 2019, n. 1236.
[11] Per un’ampia ricostruzione del principio di solidarietà, anche in chiave storica, cfr. F.P. CASAVOLA, Dalla proprietà alla solidarietà: appunti per una riflessione in tema di diritti individuali e sociali, Prolusione all’Anno Accademico 1993/94, Padova, 6 dicembre 1993; F. CASAVOLA, Assimilazione e pluralismo come modelli giuridici di rapporto con le minoranze, in Dalla tolleranza alla solidarietà, Angeli, Milano, 1990, p. 87 ss.
[12] Cfr. Cons. St. Sez. III, 4 gennaio 2019, n. 96; Id., 26 febbraio 2016, n. 796.
[13] Per approfondimenti sulla distinzione tra integrazione e regolarizzazione documentale, v. Cons. St., Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 9, in Foro amm., 2014, II, 387.
[14] Cfr. Tar Abruzzo, Pescara, Sez. I, 28 marzo 2019, n. 94.
[15] In tal senso, cfr. Tar Umbria, Sez. I, 9 giugno 2016, n. 483.
[16] Sulla tesi della mera facoltà, invece, v. Tar Lazio, Roma, Sez. II quater, 8 ottobre 2008, n. 8825; Cons. St., Sez. V, 17 settembre 2008, n. 4397.
[17] Sulla tesi della doverosità dell’invito alla regolarizzazione, v., tra le altre, Cons. St., Sez. VI, 17 febbraio 2017, n. 6427; Tar Lazio, Roma, Sez. III-bis, 16 luglio 2015, n. 9540; Tar Umbria, Sez. I, 15 gennaio 2015, n. 20; Cons. St., Sez. VI, 6 settembre 2010, n. 6463. Inoltre, per la individuazione delle diverse declinazioni del potere di soccorso istruttorio nei procedimenti amministrativi, v. anche Cons. St., Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 9.
[18] Sulla precedente formulazione, di cui all’art. 46, co. 1, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, v., in dottrina, F. VENTURA, Commento all’art. 46, in Commentario breve alla legislazione sugli appalti pubblici e privati, a cura di A. CARULLO e G. IUDICA, Padova, Cedam, 2008; S. MONZANI, L’integrazione documentale nell’ambito di un appalto pubblico tra esigenze di buon andamento e di tutela della par condicio dei concorrenti, in Foro amm. – TAR, 2009, n. 10, 2346 ss.; F. DELFINO, Commento all’art. 46, in Codice degli appalti pubblici, a cura di R. GAROFOLI e G. FERRARI, I, Roma, Neldiritto, 2013; R. CARANTA, I contratti pubblici, Torino, Giappichelli, 2012, sub art. 46; E. FREDIANI, Il soccorso istruttorio: un istituto in cerca di identità, in Giorn. dir. amm., 2014, n. 5, 503 ss.; F. LACAVA, La richiesta di integrazioni e chiarimenti documentali da parte della stazione appaltante, in Il nuovo codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, a cura di F. SAITTA, Padova, Cedam, 2008; M. MONTEDURO, Dichiarazioni non conformi a clausole del bando sanzionate con l’esclusione: il labile discrimen tra ‹integrazione› e ‹modificazione›, in Foro amm.- TAR , 2007, 3667 ss.; I. PAGANI, Integrazione documentale e tutela della par condicio, in Urb. app. , 2006, 1185 ss.; D. SPINELLI e M. PECORARI, Chiarimenti ed integrazioni documentali e offerta, in Repertorio degli appalti pubblici, a cura di L.R. PERFETTI, I, Padova, Cedam, 2005, 420 ss.
[19] Cfr. E. FREDIANI, Il soccorso della stazione appaltante tra fairness contrattuale e logica del risultato economico, in Diritto Amministrativo, fasc. 3, 2018, 623 ss.; G. GUARINO, Atto amministrativo, organizzazione e giustizia amministrativa, in Riv. amm., 1984, 774 ss.; V. CERULLI IRELLI, Considerazioni in tema di sanatoria dei vizi formali, in V. PARISIO (a cura di) Vizi formali, procedimento e processo amministrativo, Milano, 2004, 101 ss.; A. PAJNO, Giustizia amministrativa ed economia, in Dir. proc. amm., 2015, 952 ss.
[20] Per alcuni rilievi comparatistici sulla doverosità, o meno, dell’attivazione del soccorso istruttorio per le stazioni appaltanti, v. P. PATRITO, La regolarizzazione documentale: dal diritto europeo ai diritti nazionali (Belgio, Francia e Italia), in Urb. app., 2015, 137.
[21] Come noto, la norma in esame rappresenta il frutto del recepimento dell’art. 55, par. 3, della direttiva 2014/24/UE, ove si prevede che “Se le informazioni o la documentazione che gli operatori economici devono presentare sono o sembrano essere incomplete o non corrette, o se mancano documenti specifici, le amministrazioni aggiudicatrici possono chiedere, salvo disposizione contraria del diritto nazionale che attua la presente direttiva, agli operatori economici interessati di presentare integrare, chiarire o completare le informazioni o la documentazione in questione entro un termine adeguato, a condizione che tale richiesta sia effettuata nella piena osservanza dei principi di parità di trattamento e trasparenza.”
[22] Per approfondimenti, v. F. APERIO BELLA, S. CALDARELLI, E. M. SANTORO, S. TRANQUILLI, Verifica dei requisiti e soccorso istruttorio, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M. A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, II, 2019, Milano, Giuffrè, 1467 ss.; R. DAMONTE, E. MORO, Il soccorso istruttorio e fase di verifica dei requisiti di idoneità, in Urb. app., 2017, 246 ss.; A. GIANNELLI, P. PROVENZANO, A. GIUSTI, Commento all’art. 83, in Codice dei contratti pubblici. Commentario di dottrina e giurisprudenza, a cura di G.M. ESPOSITO, I, Milano, Utet, 2017, 1043 ss.; F. MASTRAGOSTINO, Motivi di esclusione e soccorso istruttorio dopo il correttivo al codice dei contratti pubblici, in Urb. app., 2017, n. 6, 745 ss.; P. PROVENZANO, Il soccorso istruttorio nel nuovo Codice degli appalti: pre e post D.Lgs. n. 56 del 2017, in Dir. econ., 2017, n. 3, 817 ss.
[23] Sui rilievi critici della dottrina quanto alla non perfetta sovrapponibilità dell’ipotesi dei vizi formali della domanda a quella contemplata nel secondo periodo della norma, cfr. F. APERIO BELLA, S. CALDARELLI, E. M. SANTORO, S. TRANQUILLI, Verifica dei requisiti e soccorso istruttorio, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M. A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, II, 2019, Milano, Giuffré, in particolare p. 1489 ss.
[24] In tal senso, oltre alla sentenza (oggetto del presente commento) del Cons. St., Sez. III, n. 9147, pubblicata il 27.10.2022, cfr., tra le altre, TAR Lombardia, Brescia, n. 1304 del 2 novembre 2017; TAR Puglia, Bari, n. 815 del 14 luglio 2017.
[25] Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di prime cure che, con la sentenza n. 2563 del 13 settembre 2022, TAR Sicilia, Sez. III, disponeva il rigetto del ricorso.
[26] Cfr. CGARS, sentenza n. 4 del 2023, pubblicata il 2.01.2023.
[27] In tal senso, v. Cons. St., Sez. V, n. 68.2023, pubblicata il 3.01.2023.
[28] Sugli orientamenti estensivi, cfr., tra gli altri, TAR Lazio, Roma, Sez. II quater, n. 17537 del 2022, pubblicata il 24.12.2022; Cons. St., Sez. V, n. 10241 del 21 novembre 2022; Cons. St., Sez. VI, n. 3664 del 10 maggio 2022; TAR Lazio, Roma, Sez. III bis, n. 11880 del 16 settembre 2022; Cons. St., Sez. VI, n. 1308 del 24 febbraio 2022.
[29] A tal proposito, il Collegio evidenzia che in casi analoghi non possa ritenersi perfezionata alcuna fattispecie partecipativa rispetto alla procedura di gara.
[30] Sul tema relativo al rapporto tra l’istituto del concordato preventivo “in bianco” e la partecipazione alle gare pubbliche, cfr. Ad. Plen., n. 9 del 2021, nonché i numeri 10 ed 11, su cui sia consentito rinviare a T. LINARDI, Il concordato in bianco fra genesi della disciplina del “decoctor” e codice dei contratti pubblici (nota a Ad. Plen. n. 9/2021), in Giustizia insieme, 3 febbraio 2022.
[31] Per approfondimenti sul procedimento di omologazione del concordato preventivo, vedasi G. LO CASCIO, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, Giuffrè, Milano, 2017, p. 627 ss.; G. BOZZA, L’omologazione della proposta (i limiti alla valutazione del giudice), in Fallimento, 2006, p. 1067; I. PAGNI, Il nuovo concordato preventivo, Il procedimento di omologa (profili processuali), ivi 2006, p. 1074 ss.; Id., Contratto e processo nel concordato preventivo in AA.VV. Trattato di diritto fallimentare, a cura di V. BUONOCORE – A. BASSI, Padova, 2010, p. 558 ss.; S. AMBROSINI, Il sindacato in itinere sulla fattibilità del piano concordatario nel dialogo tra dottrina e giurisprudenza, in Fallimento, 2011, p, 941; P. BRENCA, Osservazioni a margine dei poteri del tribunale in fase di omologa e del reclamo avverso il decreto di revoca dell’ammissione al concordato preventivo, in Dir. fall., 2011, II, p. 259; V. CALANDRA BONURA, Disomogeneità di interessi dei creditori concordatari e valutazione di convenienza del concordato, in Giur. comm., 2012, I, p. 14; A. D’AMBROSIO, Il sindacato del tribunale sulla fattibilità del piano concordatario e sugli ‹altri atti di frode› ai sensi dell’art. 173 legge fallim., ivi, 2012, II, p. 220; G. FAUCEGLIA, Brevi considerazioni sui poteri del tribunale in tema di concordato preventivo, in Dir. fall., 2011, II, p. 18; I. PAGNI, Il controllo di fattibilità del piano di concordato dopo la sentenza 23 gennaio 2013 n. 1521: il richiamo alla “causa concreta”, come funzione economico –individuale del concordato, in Fallimento, 2013, p. 286; P. VELLA, L’affinamento della giurisprudenza di legittimità dopo le Sezioni Unite sulla “causa concreta” del concordato: distinzione tra fattibilità giuridica ed economica?, in Fallimento, 2015, pp. 435, 438; D. BONACCORSI DI PATTI, Sui poteri del tribunale in ordine alle modalità di esecuzione del concordato preventivo in continuità omologato, e sulla pubblicità del provvedimento di chiusura ex art. 181 legge fallim. Della procedura concordataria, in nota a Trib. Padova 16 luglio 2015, decr., in Dir. fall., II, p. 330 ss.
[32] Applicabile ratione temporis alla fattispecie sottoposta allo scrutinio del Consiglio di Stato. Come noto, dopo numerosi rinvii, il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza è entrato in vigore il 15 luglio 2022. Per approfondimenti, cfr. A. NIGRO-D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, Il Mulino, Bologna, 2021, in particolare p. 33 ss.
[33] Diversamente da quanto, invece, previsto rispetto all’indicazione del dies a quo, coincidente con il “deposito della domanda di cui all’art. 161”.
[34] Per la tesi più rigorosa, cfr., tra le altre, Cons. St., Sez. V, 7 giugno 2021, n. 4302; Cass. civ., Sez. VI, 4 febbraio 2021, n. 2656; Cons. St., Sez. V, 3 gennaio 2019, n. 69; Cass. civ., Sez. I, ord. 10 gennaio 2018, n. 380.
[35] Per differente opzione interpretativa, cfr. Cons. St., Sez. V, 24 agosto 2022, n. 7445; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 3 gennaio 2022, n. 14; Cons. St., Sez. V, 22 ottobre 2018, n. 6030; Cons. St., Sez. V, 29 maggio 2018, n. 3225; Cons. St., Sez. III, 19 aprile 2012, n. 2305; Cass. civ., Sez. I, 15 novembre 2007, n. 23638.
[36] Nel particolare, il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza del 29 maggio 2018, n. 3225, evidenzia come la dizione “in stato” debba riferirsi alla “fase precedente all’omologazione del concordato, la quale chiude definitivamente la procedura iniziata con il decreto di ammissione adottato ai sensi dell’art. 163 legge fallimentare (…)”.
[37] In dottrina, sui poteri del commissario giudiziale e del giudice delegato dopo l’intervento dell’omologazione del concordato, v. G. LO CASCIO, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, cit. p. 679 ss.; nonché, in generale sulla fase esecutiva del concordato preventivo, cfr., tra molti, AA.VV. (G. PIZZOLI), Trattato delle procedure concorsuali diretto da L. GHIA- C. PICCININI- F. SEVERINI, Vol. IV, 2011, Torino, Utet giuridica, p. 549; V. BUONOCORE – A. BASSI, coordinato da G. CAPO- F. DE SANTIS, B. MEOLI, G. RACUGNO, Concordato preventivo, Accordi di ristrutturazione e transazione fiscale, Padova, 2010, p. 541; AA.VV. (G. DI CECCO), La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di A. NIGRO e M. SANDULLI, in Le nuove leggi del diritto dell’economia, collana diretta da A. NIGRO- M. SANDULLI- V. SANTORO, Tomo III, artt. 160-215, Torino, 2010, p. 2232; AA.VV. (G. FAUCEGLIA), Fallimento e altre procedure concorsuali, a cura di G. FAUCEGLIA – L. PANZANI, Torino, Utet giuridica, 2009, p. 1757.
[38] Sugli effetti dell’omologazione del concordato preventivo e sulla considerazione che “il debitore riacquista la libera disponibilità del suo patrimonio”, si consulti: G. LO CASCIO, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, ivi, in particolare p. 681.
[39] A tal proposito, si profilano interessanti taluni rilievi espressi in Cass. civ., Sez. I, 15 novembre 2007, n. 23638, ove si afferma che: “la sentenza di omologazione del concordato preventivo determina la cessazione della relativa procedura, liberando il debitore da ogni vincolo, che non sia quello dell’osservanza delle condizioni del concordato, facendogli riacquistare in tal modo la capacità giuridica e la piena libertà di esercizio della sua impresa (…)”.
[40] Sul punto, cfr. Cons. St., Sez. V. 29 maggio 2018, n. 3225; nonché, tra le altre, v. TAR Lazio, Roma, Sez. III, 3 gennaio 2022, n. 14.
[41] In disparte la qualificazione della partecipazione ad una procedura ad evidenza pubblica (nonché della successiva stipulazione del contratto con la Pubblica Amministrazione) in termini di atto di “straordinaria” od “ordinaria” amministrazione, peraltro oggetto di numerosi dibattiti giurisprudenziali.
[42] Sempreché tali iniziative non risultino in conflitto con gli obblighi previamente assunti dal debitore concordatario.
[43] Cfr. Schema definitivo del nuovo Codice dei contratti pubblici, consultabile su Giustizia insieme, 14 dicembre 2022. Sul tema, in dottrina, v. M.A. SANDULLI, Prime considerazioni sullo Schema del nuovo Codice dei contratti pubblici, in l’Amministrativista, 19 dicembre 2022, pubblicato anche su Giustizia insieme, 21 dicembre 2022.
[44] Ci si riferisce, nel particolare alla parte in cui si ammette la sanabilità “mediante documenti aventi data certa anteriore al termine fissato per la presentazione delle offerte”.
[45] Per approfondimenti, si consulti G. NAPOLITANO – A. ABRESCIA, Analisi economica del diritto pubblico, Bologna, 2009, 67 ss.
[46] Tenuto conto delle eventuali condizioni limitative apposte nella omologazione.
[47] Cfr. G. LO CASCIO, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, cit., p. 681.
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