ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario[1]: 1.Il giudice nazionale e la rule of law. Spunti di riflessione. 2. Lo Stato di diritto nella prospettiva della formazione giudiziaria. La naturale vocazione della Scuola alla tutela della rule of law. 2.1 Il nuovo ruolo della SSM nell’accesso alla magistratura. 2.2. Formazione centrale e decentrata, risorse e indipendenza della Scuola 2.3. La SSM come garante del pluralismo interpretativo e dei suoi limiti. 2.4 Alcuni fronti in divenire. La possibile separazione delle carriere e la formazione unitaria o separata di giudici e P.M. Quid iuris? 2.5 Etica, deontologia e “cultura della giurisdizione”. 2.6 Intelligenza artificiale e ruolo della SSM. 2.7 Conclusioni.
1. Il giudice nazionale e la rule of law. Spunti di riflessione
La premessa, non formale, che le riflessioni seguenti hanno carattere personale e, dunque, non possono in alcun modo riferirsi alle funzioni in atto ricoperte è al contempo necessaria e molto rassicurante per chi le rappresenta, proprio nel convincimento, che ogni contributo personale all’interno dei ruoli ricoperti costituisce un frammento di un più ampio e variegato contesto nel quale le diversità non vanno individuate come inciampi ma, piuttosto, come riserve vitali.
Detto questo, il ruolo del giudice nazionale nello Stato di diritto si presenta intrinsecamente ambivalente. Il giudice è, al contempo, attore e convenuto, parte attiva e passiva del processo di garanzia, bersaglio e presidio, per usare le felici e assai evocative espressioni utilizzate da Marta Cartabia proprio in occasione di un incontro organizzato presso l’Accademia dei Lincei per presentare un piccolo volume sullo Stato di diritto edito dalla SSM[2].
Da un lato, infatti, il giudice si pone come artefice della rule of law, traducendo in pratica i principi costituzionali e sovranazionali che ruotano attorno ai concetti di democrazia, persona, tutela dei diritti fondamentali con il suo stesso manifestarsi nella società attraverso il prodotto della sua attività. Il suo agire è, peraltro, sempre più innervato dal ricorso ad altri giudici e dall’uso di strumenti non propriamente decisori ma integrativi della decisione, quali il rinvio pregiudiziale, le questioni di legittimità costituzionale – sul piano interno il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione ai sensi dell’art.363 bis c.p.c.- e l’interpretazione conforme al diritto UE, alla CEDU e alla Costituzione.
Il giudice comune nazionale, in questo modo, alimenta il dialogo tra Corti e contribuisce a costruire un sistema multilivello di tutela dei diritti. Ruolo, quest’ultimo, delicato e complesso. La sua funzione assume, a volte, secondo alcuni tratti di supplenza legislativa e costituzionale, con il rischio di incidere profondamente sull’equilibrio tra i poteri e di oltrepassare i confini propri dell’attività giurisdizionale. Da un lato il giudice rivendica l’autonomia e l’indipendenza che sono alla base dello Stato di diritto. Dall’altro lato viene individuato come potere dello Stato capace di sovvertire l’ordine stesso che sta alla base della rule of law.
Ne deriva un equilibrio precario e sempre da ricercare, nel quale il giudice è al tempo stesso custode della legalità e potenziale fattore di instabilità della rule of law.
Tale dinamica si innesta in un contesto di pluralismo normativo e giurisdizionale: legislatori nazionali e sovranazionali, giudici comuni, Corti costituzionali e sovranazionali sono chiamati a cooperare in una rete complessa, fatta di convergenze e divergenze, nella quale gli strumenti del dialogo — rinvio pregiudiziale, incidente di costituzionalità, interpretazione conforme alle Carte ed al diritto di matrice sovranazionale, richiesta di parere preventivo alla Corte edu in base al Protocollo n.16 annesso alla CEDU, non ancora ratificato dall’Italia — diventano essenziali. Ma questi strumenti, lungi dall’essere neutrali, implicano scelte di campo su chi sia legittimato a fornire la parola definitiva. In linea di principio, il giudice comune nazionale resta il volto dello Stato “nel caso concreto”, la Corte costituzionale è il giudice delle leggi nazionali e la Corte di giustizia il custode del diritto dell’Unione, mentre la Corte EDU continua ad arricchire i diritti ed il diritto vivente della Convenzione.
Le tensioni quotidiane fra giudici comuni e Corte costituzionale- mi riferisco, senza svolgerlo, al tema del c.d. tono costituzionale affrontato in altra sede- e fra giudici nazionali e Corti sovranazionali – sul quale altre volte ho provato ad esprimere il personale avviso quanto al ruolo proattivo del giudice nazionale rispetto alle Corti sovranazionali[3] - dimostrano, da qualunque prospettiva si parta, la fragilità di questo equilibrio. Il sovranismo crescente all’interno di esperienze europee rischia di avvolgere UE e CEDU nel mantello delle identità nazionali, come dimostrano i recenti contrasti sulla designazione dei Paesi sicuri in materia d’asilo e sulla funzione della Corte EDU. Eppure, proprio in questa fase, diventa necessario che i giudici nazionali, a tutti i livelli, utilizzino e rafforzino gli strumenti di dialogo, assumendo fino in fondo il ruolo di garanti democratici di un diritto sempre più fondato su principi costituzionali interni, europei e convenzionali. Solo un metodo dialogico, come osserva Guido Calabresi[4], consente al giudice di rimanere inserito in un contesto di confronto e di limiti reciproci, evitando derive solitarie e restituendo alla rule of law quella prudenza mite e graduale che lo rende un progetto condiviso e durevole.
Tutto questo richiede che al giudice sia garantito il suo status e che tale status sia protetto internamente ed esternamente.
L’attuale assetto costituzionale affida al CSM il compito dell’autogoverno e della “protezione” del giudice rispetto ad ingerenze esterne capaci di minarne il ruolo di garante della rule of law. Ma non sono solo del CSM le prerogative della difesa dell’indipendenza della magistratura.
Proprio la Presidente della SSM ha recentemente ricordato che essa spetta alle Corti costituzionali ed alle Corti europee, aggiungendo testualmente che “When they defend the independence of the judiciary, they act as responsible guardians of the rule of law and adopt a semantics of power in preserving democracy.”[5] Il che ancora di più evidenzia profili di complessità del sistema, partecipando le giurisdizioni costituzionali e sovranazionali alla protezione del ruolo del giudice nazionale nello Stato di diritto. Questo conclama come il tema sia denso di complessità, in un contesto storico nel quale il ruolo giudiziario risulta spesso attaccato dal potere politico, di qualunque matrice esso sia – destra, sinistra o centro-.
Il recente saggio di Elisabetta Grande[6] e le recenti sanzioni applicate ad un giudice del Tribunale superiore del Brasile in esito al procedimento penale a carico dell’ex Presidente Bolsonaro[7] sono lì a ricordarcelo, in modo drammatico in tutta la sua dimensione planetaria e non solamente legata al contesto nazionale.
Del resto, proprio il rapporto della Commissione europea sulla rule of law nell’anno 2025 ha avuto modo di chiarire, con riferimento alla situazione italiana, che secondo le norme europee, anche se criticare le decisioni giudiziarie è un aspetto normale del dibattito democratico, i poteri esecutivo e legislativo dovrebbero evitare critiche tali da minare l'indipendenza della magistratura o la fiducia dei cittadini nella stessa. È lo stesso monito contenuto nella Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (2010) CM/Rec (2010)12, punto 18, e nel Rapporto della Commissione di Venezia (2013), CDL-AD (2013)038, punti 21 e 22 che dovrebbe anche valere come auto-limite rispetto a critiche che spesso provengono dallo stesso mondo giudiziario rispetto a decisioni assunte da altri giudici.
2. Lo Stato di diritto nella prospettiva della formazione giudiziaria. La naturale vocazione della Scuola alla tutela della rule of law
La SSM è stata istituita con la finalità di garantire un livello alto e omogeneo di formazione per tutti i magistrati, rafforzando la loro preparazione tecnica ma anche la consapevolezza del ruolo di garanti della legalità costituzionale ed europea. La Scuola rappresenta «un presidio istituzionale indispensabile per la difesa dello Stato di diritto» perché intende alimentare incessantemente l’autonomia, l’indipendenza e l’imparzialità del giudice che, appunto, è chiamato a svolgere il ruolo sopra succintamente individuato. Il tutto in piena coerenza con i principi enunciati dall’art. 2 TUE. La SSM, dunque, non è/dovrebbe essere solo un luogo di apprendimento giuridico, ma un centro culturale in cui si coltivano e rafforzano i valori di indipendenza, imparzialità e responsabilità democratica.
Questa vocazione è anche riflessa nelle figure che hanno rappresentato fin dalla sua istituzione la SSM. Dal 2012 vengono eletti come Presidenti del Comitato Direttivo ex Presidenti della Corte costituzionale: Valerio Onida (2012-2016), al quale è stata intitolata appena pochi giorni fa l’aula che accoglie i giovani magistrati nel periodo di tirocinio iniziale. Successivamente, Gaetano Silvestri (2016-2020), Giorgio Lattanzi (2020-2024) e, dal marzo 2024, Silvana Sciarra, anch’essa Presidente emerita della Corte costituzionale.
Questa continuità funzionale, lungi dall’apparire frutto occasionale di una convergenza all’interno dell’organo chiamato all’elezione del Presidente, riflette una scelta istituzionale forte e finora condivisa tanto dal Ministro della Giustizia quanto dal CSM, i quali, nell’indicare quale membro della compagine della SSM una personalità di alto profilo che aveva presieduto negli anni la Corte costituzionale. Dacché la guida della Scuola è stata affidata dai Comitati direttivi via via succedutisi a personalità di comprovata esperienza costituzionale proprio per garantire che la formazione mantenesse un orientamento costante verso il rispetto dello Stato di diritto, delle libertà fondamentali e delle norme sovranazionali. Una scelta, quella dei Comitati direttivi, con la quale non si è dunque semplicemente attribuito il ruolo di rappresentanza a quelle figure istituzionali ritenute indispensabili all’interno del Comitato direttivo, ma si è, a mio personale avviso, certificata la necessità di riconoscerne e garantirne, nei diversi cicli, il valore rappresentativo tanto “dentro la SSM” quanto nella affatto secondaria funzione comunicativa e di rappresentanza della stessa. Dimensione, quest’ultima che è parimenti necessaria per alimentare e proteggere lo Stato di diritto, alimentare la fiducia della collettività verso un sistema giudiziario capace di improntare la sua formazione a quel grumo di valori attorno ai quali si svolge la democrazia del Paese. Il che, cambiando il punto di osservazione dalla funzione della carica alla responsabilità, chiama la figura del Presidente a un ruolo interno certo non semplice di mediatore di una compagine generalmente espressiva di prospettive ed opinioni diverse che, tuttavia, esige ed impone il pieno rispetto della funzione da parte di tutti i componenti.
Non è dunque un caso che tutti i presidenti della Scuola Superiore della Magistratura abbiano negli anni sottolineato come la formazione dei magistrati rappresenti non soltanto un momento tecnico di aggiornamento, ma una condizione essenziale per la tenuta dello stato di diritto e per lo sviluppo di un'autentica cultura della giurisdizione.
Già Valerio Onida aveva insistito sulla necessità che la formazione promuovesse “una cultura dell’attività giurisdizionale rispettosa non soltanto della legge ma, ancor prima, dei principi costituzionali”, a garanzia dell’indipendenza della magistratura e della sua legittimazione democratica[8]. Sulla stessa linea, Gaetano Silvestri ha più volte affermato che la formazione è un “servizio istituzionale fondamentale” e, pur senza menzionarlo espressamente, parte integrante dello Stato di diritto, poiché volta a costruire “giudici intelligenti, capaci di orientarsi nel complesso sistema delle fonti e di comprendere le dinamiche sociali”[9]. Giorgio Lattanzi, nel suo intervento al Quirinale davanti ai magistrati ordinari in tirocinio, ha ribadito, ricordando alcuni periodi bui della nostra democrazia- terrorismo e criminalità mafiosa-, che “in tutti questi casi… l’ordinamento e lo stato di diritto hanno tenuto”, poi aggiungendo “… È la Costituzione che rappresenta la garanzia dei diritti e dell’assetto ordinamentale della Repubblica e i giudici, da quelli comuni alla Corte costituzionale, hanno un ruolo fondamentale per rendere effettiva questa garanzia.” Ancora Lattanzi non ha mancato di ricordare come la formazione deve curare non solo gli aspetti tecnici, ma anche l’“etica del magistrato” e l’acquisizione di una “cultura giuridica condivisa”[10].
Infine, Silvana Sciarra ha collegato la missione formativa della SSM alla “difesa dello stato di diritto” nel quadro dell’Unione europea, precisando che il cammino della SSM “muove dalla sede del più alto organo di garanzia della nostra Repubblica e proprio per questo è un cammino senza inciampi, che assicura a chi lo percorre un passo certo e cadenzato. La cadenza del passo si deve alla autorevolezza con cui giungono ai magistrati italiani messaggi istituzionali che esaltano i valori del nostro sistema democratico, saldamente collegato all’Unione europea nella difesa dello stato di diritto, nel rispetto dei diritti umani e, anche per questo, attivo nel promuovere la cooperazione giudiziaria oltre i confini nazionali e nell’affermare il primato del diritto europeo, come interpretato dalla Corte di Lussemburgo[11].”
2.1. Il nuovo ruolo della SSM nell’accesso alla magistratura
Il nuovo ruolo della SSM nella preparazione degli aspiranti magistrati non è un mero aggiustamento organizzativo, una tra le tante “competenze” aggiunte rispetto a quelle individuate nelle varie lettere contemplate dall’art.2 del d.lgs. n. 26/2006, ma una scelta politica e istituzionale di grande rilievo. La competenza attribuita dal d.lgs. 44/2024 segna, infatti, la rottura del monopolio di fatto detenuto dalle scuole private di preparazione al concorso, portando sotto l’egida di un’istituzione pubblica parte dell’offerta formativa in favore delle possibili nuove leve della magistratura. Si tratta di un intervento che sembra volere rafforzare la trasparenza, garantire l’eguaglianza nell’accesso e promuovere l’idea che la preparazione al concorso sia un investimento pubblico a tutela della democrazia[12]. Da qui, ancora una volta, è agevole cogliere un nesso inscindibile fra il tema accennato e la Rule of law, quale elemento che fa da volano, fra i tanti che pure possono individuarsi per giustificare la scelta di campo adottata.
Del resto, la grande innovazione voluta dal legislatore sul tema della preparazione al concorso in magistratura emerge con chiarezza nelle modifiche alle prove scritte, che oggi richiedono un più marcato sforzo di ragionamento sistematico e di inquadramento dei principi. Non si tratta più di formare meri conoscitori di giurisprudenza, ma futuri magistrati capaci di collocare il caso concreto entro l’orizzonte costituzionale ed europeo dei diritti. In questa prospettiva viene sottolineata la necessità di una solida conoscenza della Costituzione, dei principi fondamentali del diritto dell’Unione europea e della stessa Carta dei diritti fondamentali UE, che si pone essa stessa come strumento diretto di consolidamento della rule of law. L’obiettivo è dunque quello di valorizzare la capacità critica, il metodo argomentativo, la chiarezza espositiva e l’attenzione al pluralismo delle fonti, nazionali e sovranazionali, che costituiscono l’architrave dell’indipendenza della magistratura del domani e, al contempo, della nostra democrazia.
In questa prospettiva, va sottolineato che la modifica del sistema di concorso riguarda non soltanto la SSM, ma tutte le organizzazioni che tradizionalmente si occupano della preparazione al concorso e che si troveranno ad affiancarsi alla Scuola. Si tratta, dunque, di una vera e propria riforma culturale complessiva, destinata a incidere anche sul piano della concorrenza, che ancora una volta sembra orientata a rafforzare la rule of law attraverso un innalzamento qualitativo e valoriale della formazione dei futuri magistrati. Questa competizione dovrà essere raccolta dalla SSM in modo da garantire nel modo migliore possibile la riuscita del progetto di riforma, così facendosi volano e propulsore di un nuovo modo di approcciarsi al concorso in magistratura e, dunque, diventare modello e protagonista e non mero comprimario che, strada facendo, si inserisce su un percorso già tracciato e fissato da altri cercando di non sfigurare. La missione potrebbe e dovrebbe essere quella di diventare apripista per un nuovo modo di immaginare la formazione, capace di mettere a frutto l’esperienza del già fatto con la prospettiva di chi ha ben chiaro come e cosa serve ad un magistrato per assolvere la propria funzione ed è chiamato ad immaginare il DNA dei magistrati del futuro.
Questo disegno alto, visto dal lato delle nuove competenze attribuite alla SSM, si delinea proprio in ragione della “specialità” del ruolo istituzionale ricoperto dal prestatore dell’attività formativa, inserito appunto in un contesto assolutamente omogeneo rispetto a quello che offre la formazione ai magistrati in servizio. In questo senso, l’essere la SSM al servizio della giurisdizione, della sua indipendenza e, dunque, della rule of law non può che riflettersi sull’altro braccio formativo ora attribuito alla SSM.
Si tratta, tuttavia, di compiti che non possono realizzarsi senza un adeguato investimento di risorse umane e finanziarie da parte della SSM. Affidare alla Scuola compiti che in passato erano svolti in via esclusiva da soggetti privati che, comunque, continuano ad occuparsi della preparazione di aspiranti magistrati significa ampliare enormemente il suo raggio d’azione e, di conseguenza, avere una prospettiva di suo rafforzamento nella struttura della SSM, mettendone alla prova le capacità di modulare in modo adeguato l’offerta formativa tradizionalmente “tarata” su discenti già magistrati. La mancanza di un organico amministrativo adeguato ai nuovi compiti e la scarsità di fondi e di strutture appositamente destinate alla nuova competenza rischiano, all’evidenza, di compromettere la sostenibilità del progetto e di limitarne l’efficacia, indirettamente indirizzando verso scelte di prudenza, soprattutto nella fase iniziale, tanto più necessarie per evitare che l’immagine interna ed esterna della SSM possa anche solo impercettibilmente appannarsi. Preoccupazioni che in qualche modo dovranno mediare l’istanza di chi intende allestire un’organizzazione ambiziosa di ampie dimensioni e chi, invece, può rimanere sopraffatto dai dubbi circa la concreta fattibilità dell’iniziativa formativa al punto da preferire scelte attendiste.
Altrettanto decisivo sarà il tema del come fare i corsi e con chi. Quando si porrà il problema dell’attivazione, la Scuola sarà chiamata a verificarne la fattibilità, a decidere se realizzarli in presenza, da remoto o in modalità mista e a individuare il corpo docente, le forme di collaborazione da attivare, nonché a verificare se i “modelli” fin qui adottati per la formazione dei magistrati possano essere in tutto o in parte utilizzati, ovviamente adattandoli alle ben diverse finalità di un corso di preparazione all’accesso in magistratura. Percorso, quest’ultimo, destinato ad accompagnare in modo stabile e continuativo i discenti in un percorso temporale che non può in alcun modo paragonarsi a quello “tipico” dei corsi di formazione dedicati ai magistrati anche rispetto al tirocinio iniziale. La SSM sarà ancora chiamata a verificare se questi corsi dovranno essere svolti in tutto o in parte avvalendosi delle strutture decentrate della formazione che costituiscono, come si tornerà a dire nel prosieguo, un autentico fiore all’occhiello del modello formativo della magistratura italiana che, tuttavia, in tanto possono operare in quanto anch’esse sostenute da un apparato amministrativo che, già oggi, spesso manca, malgrado le spinte ad una considerazione sistematica del problema più volte indirizzate a CSM e Ministero della giustizia.
In questa scelta ci si dovrà chiedere se la SSM non potrà prescindere dal criterio già stabilito dal d.lgs. n. 26/2006 per i corsi destinati ai magistrati neonominati, secondo cui «i corsi sono tenuti da docenti di elevata competenza e professionalità, nominati dal Comitato direttivo al fine di garantire un ampio pluralismo culturale e scientifico» - corsivo aggiunto n.d.r.-. È una previsione, quest’ultima, che sembra illuminare la strada anche per i nuovi corsi. La formazione dell’aspirante magistrato dovrebbe essere aperta al confronto e al dialogo, capace di misurarsi con la complessità delle fonti e delle esperienze, così da forgiare una figura autonoma e indipendente di futuro magistrato. Solo un magistrato educato al pluralismo, radicato nella Costituzione e consapevole dei principi fondamentali dell’Unione e della Carta dei diritti, può incarnare quel modello di giudice che, nel concreto della sua funzione, assicura la tenuta dello Stato di diritto. Il che vuol dire che il corpo docente individuato non potrà che partecipare di queste stesse caratteristiche. Ma come garantire tutto questo, con quali modalità la SSM potrebbe assicurare che la formazione degli aspiranti magistrati si atteggi con queste coordinate?
Sono dunque queste solo alcune, fra le molte altre, delle complessità che potranno essere affrontate solo in una prospettiva di cooperazione con i naturali interlocutori istituzionali della SSM- CSM e Ministero della Giustizia- e che, allo stato, appaiono ex se capaci di spiegare i rilievi critici espressi a suo tempo da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, che ebbe a sottolineare, in sede di varo della riforma, il rischio che la limitazione dei posti disponibili e l’assenza di un sistema stabile di borse di studio potrebbe trasformare la formazione in un percorso elitario e poco accessibile. In questo quadro, il ruolo della SSM diventa particolarmente delicato. Da un lato è tenuta ad innalzare la qualità della preparazione dei futuri magistrati, rafforzando il patrimonio tecnico e culturale necessario a garantire un corpo giudiziario all’altezza delle sfide europee e globali. Dall’altro dovrà salvaguardare il carattere aperto e inclusivo dell’accesso alla magistratura, evitando che la formazione diventi un privilegio per pochi.
La vera sfida è dunque quella di coniugare eccellenza e uguaglianza, assicurando che la funzione selettiva dei corsi non comprometta ma anzi rafforzi la rule of law, quest’ultima nutrendosi di una magistratura indipendente, preparata ma anche rappresentativa della società che è chiamata a giudicare.
2.2. Formazione centrale e decentrata, risorse e indipendenza della Scuola
L’allargamento delle competenze della SSM si scontra con un cronico problema di risorse: organico ridotto, budget insufficiente, strutture decentrate deboli, esoneri dall’attività lavorativa non adeguati ai compiti onerosi attribuiti via via ai formatori decentrati. Molte attività formative poggiano ancora sull’impegno volontaristico dei magistrati formatori. Questa fragilità, ancor più manifesta in relazione a quanto espresso nel precedente paragrafo rispetto al possibile coinvolgimento delle strutture decentrate nel progetto formativo per gli aspiranti magistrati, rischia di riflettersi sull’indipendenza stessa della SSM, che deve poter contare su un’autonomia organizzativa e finanziaria adeguata, senza dipendere eccessivamente da decisioni politiche contingenti. Rafforzare la Scuola significa rafforzare lo Stato di diritto.
Ora, l’attivismo delle formazioni decentrate solo qui accennato rafforza l’idea che tali strutture, pur operando in condizioni spesso di scarsità di mezzi, restino il presidio più prossimo e tangibile per la diffusione di una cultura della giurisdizione, confermando la necessità di un loro sostegno strutturale e duraturo. Il tema degli esoneri dall’attività giurisdizionale del quale godono i formatori decentrati, in misura davvero non proporzionata rispetto ai compiti notevoli che agli stessi sono stati nel tempo affidati, dimostra che sia davvero imprescindibile un’attività di leale cooperazione fra SSM e CSM per individuare in temi rapidi soluzioni che, depotenziando la formazione, incidono negativamente sull’autonomia e indipendenza del giudice e, dunque, sulla protezione effettiva della Rule of law. Si tratta dunque di compiere un’opera di disseminazione e capillare informazione di tali attività anche presso i dirigenti oltre che all’interno del CSM per aumentare la consapevolezza che ridurre lo spazio della formazione è aggredire ingiustificatamente la rule of law. E ciò senza che il punto di bilanciamento indubbiamente necessario fra la produttività dei magistrati e lo sgravio possa rimanere avviluppato dal crampo mentale che spesso prende chi si lascia sopraffare dalla logica dei numeri lasciando da canto quella, parimenti indispensabile per salvaguardare l’immagine della magistratura, di un corpo preparato, aggiornato e capace di rispondere con prontezza a domande di giustizia sempre più complesse.
2.3. La SSM come garante del pluralismo interpretativo e dei suoi limiti
La SSM, nel corso degli anni, ha inteso rafforzare la formazione sulle capacità organizzative e gestionali, ma sempre nel rispetto dell’autonomia interpretativa del giudice. Custodire il pluralismo delle interpretazioni significa mantenere viva la funzione critica della giurisdizione, evitando che l’attività giudiziaria venga ridotta a mera performance quantitativa.
Il che vuol dire impegnarsi verso il continuo e costante sviluppo di una prospettiva che dia il senso dell’esistenza di un sistema di tutela giurisdizionale nel quale i valori -di matrice nazionale e sovranazionale- di certezza e prevedibilità assumono sì valore centrale per il sistema e che, in ogni caso, convivono e si bilanciano con altri valori fondamentali, fra i quali quelli dell’effettività della tutela giurisdizionale e della soggezione del giudice soltanto alla legge.
Se è dunque vero che il giudice dello Stato costituzionale non possa più essere inteso quale mero applicatore meccanico della legge, ma sia chiamato ad assumere un ruolo di interprete dei principi e dei diritti fondamentali, entro un contesto inevitabilmente pluralistico, la giurisdizione diventa così funzione diffusa e non monolitica, nella quale il confronto di diverse visioni costituisce esso stesso una garanzia contro derive autoritarie.
La riflessione sul ruolo del giudice nazionale nello Stato di diritto si completa, del resto, guardando al quadro europeo, che ne definisce la cornice di riferimento. Per un verso, l’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea stabilisce che l’Unione si fonda sul rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dei diritti umani e, soprattutto, dello Stato di diritto, riconosciuto come valore comune a tutti gli Stati membri. L’art.19 TFUE, d’altra parte, è attuativo di tale previsione e nello stesso contesto si muove la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, all’art.47, richiama il diritto di ogni persona ad avere un giudizio pubblico “da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge”. Parametro che, per questo verso, diventa lo strumento operativo attraverso il quale i valori scolpiti nelle Carte si traducono in diritti concreti, azionabili direttamente davanti ai giudici nazionali. Ma è all’interno di quello stesso art.47 che si precisa come “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice”. Si tratta, probabilmente, di un’ulteriore dimostrazione di quanto sia la stessa attività giudiziaria, il modo con il quale essa è esercitata, i tempi con i quali è dispensata a garantire, ancora una volta, lo Stato di diritto. Ed ecco riproporsi la duplicità delle diverse facce della medaglia che, in modo polare, vedono al tempo stesso il giudice garante dello Stato di diritto ma anche “responsabile”, con la sua attività, della tenuta del sistema e della fiducia che in quel sistema ripongono le persone.
Ora, approfondendo questo punto di osservazione, è proprio in questo spazio giuridico multilivello che l’azione della Scuola Superiore della Magistratura è chiamata a formare giudici capaci non solo di applicare il diritto interno, ma anche di muoversi con consapevolezza tra Costituzione, diritto dell’Unione e Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In questo stesso scenario, assumono un rilievo decisivo le strutture di formazione territoriale esistenti presso la Corte di cassazione ed i singoli distretti di Corte di appello, le quali portano la cultura dei diritti e dei doveri fondamentali – categorie, queste ultime, anch’esse polarmente destinate a convivere - direttamente nei territori e garantiscono un radicamento concreto dei valori della CEDU e della Carta UE. Proprio queste strutture, insieme alla SSM centrale, saranno protagoniste, alla fine del 2025, delle iniziative celebrative per il 75° anniversario della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e per il 25° anniversario della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Si tratta di momenti celebrativi dotati di un’evidente carica simbolica che si affianca a quella, di particolare significato contenutistico, collegata a quanto esposto all’inizio di queste riflessioni.
La SSM, attraverso l’incessante opera di disseminazione garantita fin dalla formazione iniziale sulla cultura giuridica dell'UE e dei diritti fondamentali protetti dalla Carte internazionali, intende sviluppare la comprensione pratica del ruolo del diritto dell'UE negli ordinamenti giuridici nazionali, dell'acquis in materia di Stato di diritto e del ruolo dei magistrati in qualità di operatori europei della giustizia.
Vi è certamente il pericolo che nel pluralismo giudiziario, che arricchisce la rule of law, si annidi la mancanza di consapevolezza che ogni potere ha un suo limite.
Gaetano Silvestri ebbe per tali ragioni a ricordare che «Il compito principale di un ente formativo come la Scuola della magistratura è quello di mantenere vivo nei magistrati, giovani e meno giovani, il rapporto costante tra potere e limite. Solo una profonda e moderna cultura giuridica, vivificata da un’ampia e diversificata cultura generale, può dare sostegno a chi deve decidere casi difficili, sia dal punto di vista tecnico-giuridico, sia dal punto di vista istituzionale e sociale. L’insufficiente consapevolezza dell’estensione dei propri poteri e delle proprie garanzie può rendere il magistrato timido, timoroso… Simmetricamente, la non chiara percezione dei limiti delle proprie funzioni può produrre … pericolose sensazioni di onnipotenza…»[13]. È dunque l’approfondimento culturale di queste due facce della medesima medaglia a dovere costituire l’ossatura della formazione, in piena sintonia con gli interventi del Presidente Matterella in occasione degli incontri avuti con i magistrati presso la Scuola[14].
2.4. Alcuni fronti in divenire. La possibile separazione delle carriere e la formazione unitaria o separata di giudici e P.M. Quid iuris?
Il dibattito sulla separazione delle carriere e sulla conseguente separazione della formazione fra giudici e pubblici ministeri che secondo alcuni costituirebbe un seguito scontato ed obbligato apre le porte ad una riflessione che si porrà con forza domani, qualora la riforma costituzionale venisse approvata. Da una parte, si potrà sostenere che percorsi distinti rappresentino un arricchimento per la rule of law, in quanto rafforzerebbero l’autonomia e l’indipendenza del giudice, separandolo dalla funzione requirente e rendendolo più impermeabile a possibili condizionamenti. Dall’altra, si dovrà misurare il rischio di una perdita secca della cultura della giurisdizione che la Scuola superiore della magistratura ha costruito in oltre un decennio, proprio formando insieme giudici e pubblici ministeri.
Finora, infatti, la SSM ha rappresentato il luogo nel quale si è sviluppata una crescita culturale comune della giurisdizione, che fin qui sembra avere contribuito a dare coesione al corpo magistratuale e a rafforzare il presidio delle garanzie costituzionali e convenzionali. Per tali ragioni i programmi di formazione iniziale, nati dalla “cooperazione” fra SSM e CSM, oggi particolarmente impegnativi di fronte all’ingresso nei ruoli di oltre 1500 nuovi magistrati, sono stati concepiti per offrire un orizzonte unitario a futuri giudici e futuri pubblici ministeri. In quella stessa aula della Scuola di Scandicci di recente dedicata alla memoria di Valerio Onida si è dunque cercato di alimentare nel corso degli anni un senso di appartenenza ad una “cultura” comune che non elide affatto la diversità di ruoli e di funzioni ma, anzi, la individua con precisione proprio per darne senso e misura, come hanno di recente ricordato gli stessi magistrati ordinari in tirocinio e nella quale è la stessa Avvocatura, con i suoi docenti relatori, a dare un rilevante contributo[15]. In questa chiave si colloca anche il richiamo della Prima Presidente emerita Cassano all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 sul ruolo del P.M.: “il pubblico ministero [è sollecitato], al pari del giudice, al rigoroso rispetto delle garanzie fondamentali, al rifiuto di tesi precostituite all’elaborazione di tesi di accusa che conseguano ad accertamenti completi basati anche sulla raccolta di elementi favorevoli alla persona indagata tali da consentire alla persona accusata di operare una scelta informata e consapevole sull’accesso ai c.d. riti alternativi, a prognosi approfondite sul prevedibile futuro esito del processo, ad un attento utilizzo dei diversi modelli definitori sì da selezionare quelli che, soli, meritano il passaggio alla fase successiva e da porre rimedio al patologico iato temporale attualmente esistente tra la chiusura delle indagini e il successivo controllo giurisdizionale. In altri termini, il pubblico ministero concorre a realizzare la complessiva razionalità del processo che, in un’ottica tendenzialmente accusatoria, è incentrato sul corretto e realistico rapporto tra fase procedimentale e vaglio dibattimentale. Al contempo è garante, insieme con il giudice, del rispetto dei principi costituzionali di dignità della persona, di presunzione di non colpevolezza, di ragionevole durata delle procedure.”
Le considerazioni appena espresse non intendono affatto offrire una verità sul tema, quanto evidenziare il senso di quel che è stato fin qui fatto, in modo che esso possa avere un senso anche per il futuro, qualunque esso sarà.
Domani, se la riforma costituzionale andrà in porto porrà l’alternativa, qualcuno potrà ipotizzare certo percorsi formativi anche differenziati all’interno della magistratura. Si dovrà, tuttavia, essere ben consapevoli del patrimonio che dal momento in cui è stata istituita la SSM ha continuato ad offrire allo Stato di diritto.
2.5. Etica, deontologia e “cultura della giurisdizione”
Nel disegno formativo della SSM l’etica del magistrato non è mero sfondo retorico, ma un asse portante e stabile che accompagna il magistrato sin dall’ingresso in ruolo e prosegue nella formazione permanente.
La SSM insiste sul fatto che i principi di indipendenza, imparzialità e credibilità debbano essere tradotti in comportamenti verificabili: dai rapporti con le parti e con i media alla gestione dei conflitti d’interesse, dalla sobrietà del linguaggio nei provvedimenti giurisdizionali all’uso responsabile degli strumenti digitali. Il Presidente Mattarella, nel discorso pronunziato nel 2023 a Castelcapuano[16], aveva del resto già sottolineato che “La Scuola Superiore, sin dalla sua istituzione, ha accompagnato i giudici e i pubblici ministeri nella loro formazione iniziale e in quella permanente, avendo cura di elaborare percorsi di alta qualità, anche in tema di etica giudiziaria.”
In un’ottica di formazione dei magistrati, diventa dunque indispensabile insistere sulla connessione tra etica giudiziaria, fiducia dei cittadini e rule of law, facendo tesoro anche della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Lo ha ricordato Guido Raimondi in occasione di una lectio magistralis rivolta ai giovani magistrati europei, sottolineando che l’autorevolezza della giustizia non può prescindere dalla condotta etica di chi la amministra, osservava che “As a guarantor of justice, a fundamental value in a rule of law, [the judge’s] action needs the trust of citizens in order to be fully implemented.”[17]
Raimondi ha richiamato la giurisprudenza di Strasburgo per dimostrare come la fiducia nella magistratura non sia un bene individuale, ma un requisito strutturale del sistema convenzionale europeo: “The issue of the trust that the courts must enjoy so that the rule of law functions regularly, and therefore the objectives of the Convention are adequately achieved, (…) transcends Article 6 of the Convention, rising to the rank of the fundamental principles that underpin the protection system set up by the European Convention.”
Questa prospettiva mette in evidenza come la formazione dei magistrati debba non solo trasmettere competenze tecniche, ma anche rafforzare la consapevolezza del loro ruolo etico e istituzionale, perché – come ribadisce Raimondi – “The judiciary, as a guarantor of justice, a fundamental value in a rule of law, must enjoy the trust of citizens to fully carry out its mission.” La conoscenza della giurisprudenza della Corte EDU diventa allora parte integrante della formazione, perché consente di tradurre principi astratti in standard concreti di comportamento e di indipendenza, indispensabili per mantenere viva la fiducia dei cittadini e quindi per il funzionamento dello Stato di diritto.
È da sottolineare la straordinaria sinergia tra quanto appena esposto e le parole del compianto Vladimiro Zagrebelsky quando, in occasione di un suo intervento alla SSM all’indomani dello scandalo dell’Hotel Champagne[18] ebbe a ricordare, delineando le sfide che il giudice ordinario sarebbe stato chiamato ad affrontare per ritrovare credibilità nel sistema, che “Alla dignità dell’esser “servo della legge”, deve sostituirsi quella di essere voce del potere giudiziario autonomo, tutto insieme garante dei diritti delle persone e, nella continuità dell’ordinamento, della realizzazione del disegno costituzionale. Di un potere giudiziario che è parte della comunità dei giuristi. All’individualismo e alla settorialità culturale deve sostituirsi il senso di appartenenza all’istituzione. Quando un giudice pronuncia una sentenza non parla con la voce sua, ma dà voce alla istituzione giudiziaria. Potente può essere l’opera della Scuola della magistratura, nel sollecitare uno spirito istituzionale, che non è di corporazione, ma appunto di una istituzione che vive nelle persone che la compongono. È necessario allora che venga stimolata, come qualità professionale, la disponibilità a ricercare (e mantenere) soluzioni che possano dirsi espressione della istituzione giudiziaria nel suo complesso.”
Quell’invito, esplicitamente indirizzato alla SSM, a sollecitare attraverso la sua attività uno spirito istituzionale e non corporativo dei magistrati di ogni ordine e grado può, a ragione, costituire un input costante per chi è chiamato ad un compito assai complesso qual è quello appena indicato. Compito al quale non sembra nemmeno estranea la funzione di “comunicare all’esterno” le attività formative dei magistrati proprio per alimentare e rafforzare quel senso di fiducia della società nei confronti dei magistrati che è anch’esso alla base dello Stato di diritto.
2.6. Intelligenza artificiale e ruolo della SSM
La Scuola Superiore della Magistratura dovrebbe assumere un ruolo centrale nel garantire che l’introduzione dell’intelligenza artificiale nel sistema giustizia non comprometta, ma rafforzi lo Stato di diritto. La rule of law, fondata su trasparenza, responsabilità, diritto al contraddittorio e indipendenza del giudice, rischia infatti di essere messa in crisi dall’opacità e dall’autonomia degli algoritmi come da atteggiamenti superficiali ed entusiasticamente rivolti ad immaginare una giustizia predittiva come elemento risolutore dei problemi che affliggono la giustizia, non ultimo quello del numero rilevante di procedimenti e del ritardo nei tempi di definizione dei processi. In questo contesto, la formazione dovrebbe rappresentare lo strumento principale per trovare il giusto bilanciamento fra parimenti rilevanti aspettative. Da un lato preservare il primato del giudizio umano, che resterebbe insostituibile perché legato alla responsabilità, alla ragionevolezza e alla capacità di bilanciare principi e diritti fondamentali. La SSM dovrebbe, in cooperazione con istituzioni nazionali e sovranazionali (CSM, Ministero della Giustizia, CEPEJ, Consiglio d’Europa, Commissione Europea, ecc.), progettare percorsi formativi capaci di sviluppare nei magistrati competenze critiche sulla natura degli algoritmi, sulla spiegabilità delle decisioni automatizzate e sui rischi di discriminazione o di lesione dei diritti fondamentali. Non si tratterebbe di formare giudici “informatici”, ma giuristi in grado di interagire con l’IA senza subirla, mantenendo il controllo democratico e giuridico sugli strumenti digitali. In questa prospettiva, la missione della SSM dovrebbe configurarsi non solo come tecnica ma come costituzionale: assicurare che ogni innovazione tecnologica sia integrata nel sistema giustizia come supporto e non come sostituto del giudice, rafforzando l’effettività dei diritti e la qualità della giurisdizione. In tal modo, la SSM si confermerebbe presidio della rule of law perché capace di trasmettere ai magistrati la capacità di governare le trasformazioni digitali rimanendo ancorati ai principi della dignità umana, dell’eguaglianza e della giustizia costituzionale[19].
Il che, ovviamente, non vuol dire affatto rifiutare ideologicamente l’idea che l’AI possa rappresentare un ausilio per l’efficienza ed effettività della giurisdizione ma, tutto al contrario, offrire gli strumenti che possano rendere la funzione giurisdizionale sempre più orientata verso standard di conoscibilità ed effettività capaci di alimentare quei valori parimenti imprescindibili di efficienza, prevedibilità e certezza del diritto dai quali non è dato ormai più prescindere[20].
È dunque questo il contesto che si apre innanzi a chi istituzionalmente ha il compito di “formare” i magistrati su tematiche, come già accennato, variamente conosciute, variamente utilizzate e variamente considerate come utili, pericolose, dannose per il futuro stesso del sistema giustizia. Una responsabilità ancora più elevata se si considera il tema dell’immagine e della forma assunta dalla giurisdizione a seconda del “modello” di AI che si intende ammettere e giustificare[21].
2.7. Conclusioni
In conclusione, nessuna pretesa di verità rispetto alle considerazioni espresse, ma semmai un auspicio personale ed esplicito a cooperare, camminare insieme, dialogare sulla direttrice del rispetto e della fiducia.
La direzione che, dunque, una scuola di formazione della magistratura è chiamata ad intraprendere rispetto alle tante sfide che si pongono davanti a sé dovrebbe essere quella di non alimentare l’approccio dell’aut–aut per abbracciare invece convintamente quella dell’et–et. Et–et tra indipendenza e responsabilità, tra giudice e pubblico ministero, tra SSM centrale e formazioni decentrate[22], tra SSM, CSM e Ministero della Giustizia, Accademia e Avvocatura, tra diritto interno, UE e CEDU. Ancora, et–et tra esigenza di prevedibilità e pluralismo interpretativo; et–et tra innovazione tecnologica e primato del giudizio umano; et–et, soprattutto, rispetto alle scelte che all’interno della Scuola stessa devono essere adottate proprio per garantire quel pluralismo culturale che a parole è valore condiviso ma che, nei fatti, è difficile da coniugare se prevalgono personalismi e contrapposizioni chiuse al confronto costruttivo[23].
Una agorà, dunque, nella quale le scelte decisionali quanto i contenuti della formazione abbiano come prerequisiti leale cooperazione[24] rispetto e fiducia reciproci, mancando i quali la missione stessa della Scuola, faticosamente attuata fin dalla sua istituzione e dalle personalità che hanno costruito una struttura importante, rischierebbe di appannarsi agli occhi dei magistrati tutti i quali, ciascuno portatore di patrimoni culturali e personali plurali, vantano un diritto pieno al rispetto di quelle prerogative scolpite dalle fonti normative rilevanti che si è qui cercato di rappresentare.
Le opinioni espresse sono personali e non impegnano l’Istituzione di appartenenza
[1] L’intervento ha costituito la base di alcune riflessioni esposte in occasione della settimana dottorale 2025 organizzata dal Dottorato di ricerca in Scienze giuridiche dell’Università di Perugia il 19 settembre 2025.
[2] M. Cartabia, I giudici e lo Stato di diritto, in Il giudice e lo Stato di diritto. Indipendenza della magistratura e interpretazione della legge nel dialogo tra le Corti, a cura di G. Lattanzi, M. Maugeri, G. Grasso, 2024, 17.
[3] V. da ultimo, volendo, R. Conti, Tono costituzionale e certezza del diritto: in memoria dell’interpretazione conforme al diritto UE, in Riv.cont. eur., 4 settembre 2025. V., anche R. Conti, Dall’uso alternativo del diritto all’uso cooperativo nell’esperienza di un giudice comune, in Sistemapenale, 25 giugno 2024.
[4] V., volendo, R. Conti, Un’intervista impossibile a Guido Calabresi, in questa Rivista, 13 settembre 2021: “...Ora, in questo stato di cose, che cosa tiene legati i giudici al rispetto dei limiti? Che cosa impedisce loro di arrogarsi un potere eccessivo? Che cosa li aiuta a conservare qualcosa della metodicità e cautela dei loro omologhi del passato in un mondo tanto accelerato e proteiforme? Il metodo dialogico è la soluzione moderna affinché il giudice sia inserito in un contesto di costante confronto, conforto, ispirazione, influenza, scambio e limite con altre Corti, altre giurisdizioni, altri Stati, altri interlocutori istituzionali. Il dialogo attenua la ferocia repentina e drastica con cui il giudice assolverebbe il suo ruolo nel contesto giuridico moderno, riaccostandolo alla prudenza mite, incessante ma graduale, che apparteneva ai suoi predecessori della common law al fine di aggiornare e migliorare il diritto.”
[5] S. Sciarra, Intervento presentato all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2023 presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, https://www.echr.coe.int/documents/d/echr/Speech_20230127_Sciarra_JY_ENG?utm_source=chatgpt.com
[6] E. Grande, Il giudiziario sotto attacco negli Stati Uniti ed in Italia: dalla rule of law alla rule by law, in Questione giustizia, 12 settembre 2025.
[7] MEDEL, Statement on Brazil, 23 settembre 2025, in https://medelnet.eu/statement-on-brazil/
[8] V. Onida, Questione Giustizia, 25 gennaio 2015
[9] G. Silvestri, Discorso inaugurale anno formativo 2019, SSM, in Questione Giustizia, 16 ottobre 2019.
[10] G. Lattanzi, Discorso, Quirinale, 15 aprile 2024, pp. 4, 7–8.
[11] S. Sciarra, Saluto ai MOT, Quirinale, 15 aprile 2024, in www.ssm.it
[12] Sulla genesi della riforma v. C. De Robbio, I corsi di preparazione al concorso e il futuro ruolo della Scuola Superiore della Magistratura, in questa Rivista, 15 maggio 2023, nonché, di recente, volendo, Pensando al ruolo della SSM nella preparazione al concorso in magistratura. Interviste a cura di Roberto Giovanni Conti, ib., 19 maggio 2025.
[13] G. Silvestri, Inaugurazione dell’anno formativo 2019, in https://www.scuolamagistratura.it/documents/20126/564830/Discorso%2BPresidente%2BSilvestri%2B2019.pdf?utm_source=chatgpt.com.
[14] V. Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i Magistrati ordinari in tirocinio nominati con i D.M. 15/04/2024 e D.M. 22/10/2024, 28 maggio 2025; Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al decennale della Scuola superiore della magistratura, 24 novembre 2021, entrambi in www.quirinale.it
[15]V. Sciopero dei magistrati: l’intervento di Francesca Frazzi, in La Magistratura, 27 febbraio 2025: “…frequentiamo le settimane di formazione alla nostra Scuola superiore dove futuri giudici e futuri PM condividono lo stesso percorso, sviluppando un’unica cultura della giurisdizione. È il senso di appartenenza a un ordine comune quello che respiriamo nelle aule di Scandicci confrontandoci con colleghi di tutta Italia”.
[16] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia d’inaugurazione della terza sede della Scuola Superiore della Magistratura e di presentazione dell’anno formativo 2023, 15 giugno 2023, inwww.quirinale.it.
[17] V. G. Raimondi,
[18] V. Zagrebelsky, Nozione e portata dell’indipendenza dell’Ordine giudiziario e dei giudici Ruolo del Consiglio superiore della magistratura. Relazione svolta il 5 novembre 2019 nel Corso di formazione della Scuola superiore della magistratura, dal titolo Garanzie istituzionali di indipendenza della magistratura in Italia.
[19]Sul tema, sia consentito rinviare a R. Conti, Prolegomeni sulla formazione del magistrato-giurista in tema di intelligenza artificiale, diritto, scienza e giudizio umano, in Giustizia Insieme, 15 settembre 2025.
[20] V., sul punto, G. Amoroso, Riflessioni in tema di diritto vivente e intelligenza artificiale e di D. Micheletti, Algoritmi nomofilattici a confronto: ufficio del massimario vs. intelligenza artificiale, entrambi in AA.VV., Giocare con altri dadi Giustizia e predittività dell’algoritmo, a cura di V. Mastroiacovo, Torino, 2024, rispettivamente pagg.176 e 185.
[21] Sia consentito sul tema il rinvio a R. Conti, Prolegomeni sulla formazione del magistrato-giurista in tema di intelligenza artificiale, diritto, scienza e giudizio umano, in questa Rivista, 15 settembre 2025.
[22] V., Intervento, in www.quirinale.it
[23] Cfr. G. Silvestri, Formazione dei magistrati e attività della Scuola di magistratura, cit., nel rispondere alla seguente domanda (Il comitato da Lei presieduto, che programma e dirige le molteplici attività formative della Scuola, è un organismo che comprende in sé membri laici e magistrati, componenti nominati dal Csm e componenti designati dal Ministro della giustizia, tra cui avvocati e professori universitari. Una tale composizione, voluta dal legislatore, ha dato vita a un effettivo pluralismo delle culture e delle esperienze?): “Certamente sì. Abbiamo avuto la fortuna di avere componenti “laici” che hanno preso sul serio l’impegno nella Scuola. Naturalmente, l’approccio “esterno” è diverso da quello “interno”. Ancora diverso è, tra gli “esterni”, quello dei professori e degli avvocati. Le differenti provenienze e le molteplici esperienze hanno consentito, nel complesso, di evitare chiusure autoreferenziali, di evitare la logica burocratica delle “caselle riempite” e di guardare costantemente al servizio giustizia dai differenti punti di vista dello spessore culturale, dell’attenzione ai diritti delle parti e della buona fattura dei provvedimenti giudiziari. A volte, le nostre discussioni interne risentono di qualche incomprensione, ma tutto viene superato dal confronto e dall’approfondimento. Non posso nascondere che, in qualche caso, emergono conflittualità non del tutto necessarie, che vengono risolte con molta pazienza. Nella valutazione del contributo di tutte le categorie cui appartengono i componenti del Comitato direttivo, occorre tener presente che i professori non vengono, per legge, sgravati, neppure in parte, del loro carico didattico e che gli avvocati finiscono per registrare, con l’intensa partecipazione ai lavori della Scuola, una perdita secca in termini professionali”.
[24] A. Ruggeri, La “fondamentalità” dei diritti fondamentali, in Diritticomparati, n.3/2023, 161.
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Le disposizioni del presente articolo in tema di preavviso minimo [dieci giorni] e di indicazione della durata non si applicano nei casi di astensione dal lavoro in difesa dell'ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell'incolumità e della sicurezza dei lavoratori.
Art. 2, comma 7, Legge 12 giugno 1990, n. 146 “Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati”.
Le ipotesi previste dall'articolo 2, comma 7, cit. sono accomunate dal coinvolgimento di “interessi fondamentali della comunità, come tali suscettibili di prevalere su quelli tutelati con gli obblighi di preavviso e indicazione della durata”
M. Dell'Olio, Sciopero e preavviso nei servizi pubblici essenziali (nota a C. Cost. n. 276 del 1993), in G. Cost, 1993, 1957.
Per sciopero generale deve intendersi l'azione collettiva proclamata da una o più confederazioni sindacali dei lavoratori, coinvolgente la generalità delle categorie del lavoro pubblico e privato.
Delibera n. 134 del 2003 Commissione di garanzia sugli scioperi:
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Art. 2 e 11 Costituzione
La Commissione di garanzia sugli scioperi, riunitasi oggi, ha valutato illegittimo lo sciopero generale proclamato per domani, 3 ottobre, in violazione dell’obbligo legale di preavviso, previsto dalla Legge 146/90. Nel provvedimento adottato, il Garante ha ritenuto inconferente il richiamo dei sindacati proclamanti all’art. 2, comma 7, che prevede la possibilità di effettuare scioperi senza preavviso solo “nei casi di astensione dal lavoro in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori”.
Comunicato stampa della Commissione di garanzia sugli scioperi, 2 ottobre 2025
“In occasione dell'intervento militare NATO in Jugoslavia, la Commissione [di garanzia sugli scioperi] è stata chiamata a valutare l'impatto di astensioni collettive sui servizi essenziali, a tal proposito, con le dell. nn. 00/43 del 27 gennaio 2000, 00/90 del 17 febbraio 2000, 00/137 del 9 marzo 2000, 00/162 del 23 marzo 2000 i garanti hanno adottato una linea assolutoria, la quale, sostanzialmente, riconosce ai soggetti collettivi proclamanti, per tale avvenimento, la possibilità in astratto che in tali situazioni possa ricorrere l'applicazione del comma 7 dell'art. 2, l. n. 83/2000, per giustificare un'ipotesi di violazione del termine legale di preavviso, oltre che la violazione di un periodo indicato di franchigia, durante il quale, come è noto, non si dovrebbe dar luogo ad azioni di sciopero. …È interessante rilevare come tali interventi assumano, in motivazione, «l'innegabile fatto che azioni di lotta in difesa della pace rientrano storicamente nella tradizione dei sindacati».
G. Pino, Sciopero generale, servizi essenziali e Commissione di garanzia. Alcuni spunti di riflessione, in Dir. relaz. ind., fasc.2, 2003.
“Da questo punto di vista, ai fini della ponderazione con i diritti della persona salvaguardati dall'art. 1, comma 1, della legge n. 146 del 1990, lo sciopero economico-politico è avvicinabile allo sciopero economico-contrattuale. L'analogia di natura degli interessi, a sostegno dei quali lo sciopero nell'una e nell'altra ipotesi viene proclamato, giustifica l'assoggettamento di entrambe alla disciplina dell'art. 2 anche per quanto concerne l'obbligo di preavviso e di indicazione della durata dell'astensione dal lavoro, tenuto conto che la forza di pressione dello sciopero nei pubblici servizi essenziali si esplica più attraverso il danno inflitto agli utenti che attraverso il danno arrecato alle amministrazioni o alle imprese erogatrici.
Di tutt'altra natura sono gli interessi difesi dai lavoratori nei casi previsti dall'ultimo comma dell'art. 2: poichè ineriscono alla persona e a interessi fondamentali della collettività, il bilanciamento con i diritti degli utenti di cui all'art. 1, comma 1, della legge deve avere un esito diverso e meno incisivo sull'esercizio del diritto di sciopero”.
Corte Costituzionale, sentenza n. 276 del 1993
La Corte [Costituzionale n. 276/2023] - pur senza porre una definizione della nozione di "ordine costituzionale" a difesa del quale può essere proclamato uno sciopero che nei servizi pubblici essenziali può essere senza preavviso e predeterminazione di durata - ha comunque considerato come sciopero (tipicamente per fini non contrattuali), rientrante in questa prima delle due fattispecie dell'ultimo comma dell'art. 2 della legge n. 146 del 1990, quello che sia inerente ad "interessi fondamentali della collettività". I quali - può ora rilevarsi - vanno ricercati innanzi tutto tra i "principi fondamentali" del Preambolo della Costituzione. Tra questi l'art. 11 Cost. stabilisce che l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionale.
La collocazione del ripudio della guerra tra i principi fondamentali della Costituzione consente di affermare che esso costituisce un "interesse fondamentale della collettività" e quindi la legittimità dello sciopero contro la guerra è riconducibile - oltre che in generale alla fattispecie dello sciopero per fini non contrattuali quale "mezzo idoneo a favorire il perseguimento dei fini di cui all'art. 3, secondo comma, Cost." (così C. cost. n. 276/93 e prima ancora C. cost. n. 290/74,oltre che C. cost. n. 165/83, tutte sopra cit.) - anche in particolare alla specifica previsione dell'art. 2, ultimo comma, della cit. legge n. 146 del 1990, in disparte peraltro …il pieno riscontro, o meno, della fattispecie contemplata da tale disposizione in riferimento alla necessità dell'immediatezza della possibile compromissione dell'ordine costituzionale affinché anche l'iniziativa dello sciopero possa essere senza preavviso e senza previa indicazione di durata..
In conclusione deve affermarsi in diritto il principio che lo sciopero per fini non contrattuali consistenti nel contrasto e nell'opposizione all'invio di un contingente militare dello Stato italiano sul territorio di altri popoli è legittimo e lecito sul piano non solo penale, ma anche civile, e conseguentemente atti o comportamenti del datore di lavoro diretti a contrastare l'iniziativa del sindacato che tale sciopero abbia proclamato, quale la valutazione come assenza ingiustificata dal lavoro della partecipazione dei dipendenti allo sciopero con conseguente possibile idoneità di tale condotta ad essere sanzionata disciplinarmente, possono costituire condotta, antisindacale assoggettabile, nel concorso degli altri prescritti requisiti, al procedimento di repressione di cui all'art. 28 legge 20 maggio 1970 n. 300.
Corte di Cassazione lavoro, sentenza n. 16515/2004
L'ordine costituzionale, invece, attiene a quei principi fondamentali che formano il nucleo intangibile destinato a contrassegnare la specie di organizzazione statale, cui si è voluto dare vita; tali principi sono contenuti, prevalentemente, nei primi cinque articoli della Costituzione, la cui norma chiave è quella prevista dall'art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili sia del singolo sia delle formazioni sociali e prevede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Corte di Cassazione penale, sentenza n. 46340/2012
“Giustizia Insieme”, fin dalla sua fondazione, si propone l’ambizioso progetto di realizzare una piattaforma permanente dedicata al confronto tra magistrati, avvocati, studiosi del diritto e società civile. È dunque per offrire delle chiavi di lettura dell'attualità, nonché un inquadramento tecnico-scientifico di tematiche anche complesse e molto dibattute, che riteniamo utile riproporre alle lettrici e ai lettori alcuni contributi in materia di diritto di sciopero e precettazione nei servizi pubblici essenziali, apparsi nel corso del 2024 su Questa Rivista.
di Maria Spanò
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il diritto di sciopero nell’art. 40 Cost. - 3. La delibera della Commissione di Garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali - 4. L’ordinanza di precettazione ex art. 8 L. 146/1990.
Lo sciopero (generale) nei servizi essenziali tra percorsi giuridici e insidie politiche
di Antonello Zoppoli
Sommario: 1. Lo sciopero del 17 novembre 2023. - 2. Il problematico silenzio sullo “sciopero generale” (non una “lacuna”) della l. n. 146 del 12 giugno 1990. - 3. La possibile soluzione, non realizzata, della regolazione tramite le tecniche normative della l. n. 146/1990. - 4. La soluzione seguita: l’interpretazione della Commissione di garanzia nella delibera n. 03/134 del 24 settembre 2003. - 5. La delibera della Commissione di garanzia dell’8 novembre 2023 e la fattispecie dello sciopero generale. - 6. La fattispecie dello sciopero generale: peculiari modalità dello sciopero, nessuna appropriazione “definitoria”. - 7. Altre ragioni di solidità della delibera n. 03/134; il motivo di debolezza della delibera dell’8 novembre 2023. - 8. Precettazione e Commissione di garanzia, piani distinti ma comunicanti. - 9. L’illegittimità dell’ordinanza di precettazione del 13 novembre 2023.
La precettazione come strumento di gestione del conflitto sociale?
di Monica Mc Britton
L’ordinanza del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti del 14.11.2023, relativa all’astensione dal lavoro proclamata da CGIL e UIL per il giorno 17.11.2023, rappresenta un fattore di forte discontinuità nel quadro delle relazioni sindacali. L’esame degli elementi di antinomia del provvedimento rispetto alla tradizione giuridica fondata sull’elaborazione dottrinale e sulle decisioni della Corte costituzionale porta alla luce un risultato estremo: la messa in discussione, da parte dell’autorità governativa, della nozione stessa di sciopero all’interno del nostro ordinamento.
Sommario: 1. Premesse. 2. Il settore dei trasporti. 3. La precettazione prima dell’intervento legislativo. 4. La Commissione di Garanzia. 5. L’ordinanza di “precettazione” nella l. n. 146/1990. 6. Il caso concreto: l’ordinanza del Ministro dei Trasporti 7. Considerazioni conclusive.
Gli attacchi notturni alla Global Sumud Flotilla hanno riacceso la protesta. Il 22 settembre decine di città italiane sono scese in piazza contro la complicità del governo con il massacro in corso a Gaza e in sostegno incondizionato alla Flotilla, ed in risposta alla continua ipocrisia dimostrata dalle forze politiche. A Montecitorio si è formato un presidio permanente, mentre cortei e iniziative hanno movimentato più di 77 città da nord a sud. A Milano, i manifestanti hanno provato a entrare nella stazione centrale scontrandosi con la polizia. A Bologna sono stati bloccati incroci strategici e tratti autostradali; a Torino l’accesso all’aeroporto è rimasto chiuso per ore. Roma ha visto oltre 100.000 persone paralizzare il Raccordo Anulare tra l’appoggio (impensabile) di automobilisti e passanti, prima di occupare la facoltà di Lettere della Sapienza.
Il 4 ottobre è attesa una nuova mobilitazione nazionale che promette di riempire ancora le strade della capitale a suon dell’ormai slogan: se bloccano la Flotilla, blocchiamo tutto.
Interessante è che per seguire i dati dei cortei è sufficiente aprire il sito del Ministero per gli Affari della Diaspora e per la Lotta all’Antisemitismo Israeliano, che in collaborazione con il J-soc National Center for Combating Antisemitism, ha pubblicato un rapporto capillare con orari, luoghi di concentrazione, coordinate geografiche, livelli di rischio attribuiti a ogni piazza, e l’elenco delle pagine social che hanno promosso le proteste.[1] Da quasi tutte le testate italiane, invece, si parla di un problema di ordine pubblico, più che sul perchè e quanti/e abbiano partecipato ai cortei, mettendo a nudo l’incapacità sia dei media che delle istituzioni di rispondere politicamente ed eticamente alle richieste di giustizia e solidarietà provenienti da grandi parti della popolazione.[2]
Sulla terraferma, navighiamo in un mare di confusione e contraddizioni. In Italia, il ministro della Difesa Guido Crosetto da una parte ha prima confermato l’impiego di una fregata Virginio Fasan per proteggere la Flotilla dopo gli attacchi notturni, salvo ritirarla dopo poche ore dichiarando che in acque israeliane non può garantire nulla, confondendo ancora una volta il nodo centrale della legittimità del blocco navale imposto da Israele nelle acque di fronte a Gaza. Difatti, seppure la flotta superasse la linea d’inizio del blocco navale non si troverebbe comunque in acque territoriali isrealiane, dettaglio su cui il Ministro Crosetto come il Ministro Nordio e molti altri continuano a insistentemente a confondersi. Ed invece è un passaggio fondamentale.
In acque internazionali solo le marine degli Stati di bandiera possono legalmente salire a bordo. israele sostiene di poterlo fare se le barche intromettono il blocco che si estende oltre 20 miglia nautiche dalla costa, in virtù del Manuale di Sanremo, ma la legalità del blocco imposto nel Gennaio 2009 fino ad oggi è molto dibattuta da giuristi e politici, come emerge da un’accurato approfondimento di ISPI[3]. Per essere legittimo un blocco navale non deve infliggere danni sproporzionati alla popolazione civile, affarmala ed impedire l’aiuto di aiuti umanitari (come affermato dallo stesso Manuale di Sanremo). Ad essere puntigliosi/e, una nave disarmata potrebbe in ogni caso attraversare quelle acque seppure fossero acque israeliane, ma che così non sono, perchè le acque territoriali davanti a Gaza sono acque sotto il controllo di Israele ed in nessun modo le sue acque territoriali. Inoltre, secondo la Convenzione di Ginevra, un blocco navale non può mai essere funzionale ad affamare una popolazione civile, cosa che contraddice la realtà di Gaza.[4]
Continuando sull’onda della confusione, all’Assemblea generale dell’ONU Giogia Meloni ha accusato Israele di aver “superato il limite del principio di proporzionalità” nella risposta ad Hamas, arrivando a “infrangere le norme umanitarie e causando una strage tra i civili”, per poi rivolgersi criticamente alla flottiglia: “Tutto questo è gratuito, pericoloso, irresponsabile. Non c’è bisogno di rischiare la propria incolumità infilarsi in un teatro di guerra per consegnare aiuti a Gaza che il governo italiano avrebbe potuto consegnare in poche ore”.[5] La proposta a cui fa riferimento sarebbe di affidare la consegna degli aiuti alla CEI e al Patriarcato Latino di Gerusalemme di Cipro, subordinando esclusivamente la distribuzione degli aiuti al governo israeliano, lo stesso che ha lo scopo di affamare il popolo palestinese (bloccando anche i biscotti al miele se troppo nutrienti)[6] e spopolarlo (come affermano i suoi stessi ministri).[7] Oltre che essere in contatto diretto con il Cardinale, Tony la Piccirella spiega che “la nostra missione ha lo scopo di aprire una canale permanente via terra e via mare che possa raggiungere aiuti reali e sufficienti alla popolazione, dunque la nostra rotta non può cambiare”, ribadendo che “la percolosità della missione non dipende da noi ma dalla violenza del governo israeliano” e dalla libertà lasciata ad israele di agire al di sopra della legge internazionale e della morale umana, senza alcuna conseguenza, e non da chi fa parte di una missione umanitaria pacifica protetta dal diritto internazionale.[8] Di fatto, così come è più facile concentrare l’attenzione sui disordini in piazza piuttosto che riconoscere il successo di una mobilitazione pacifica e diffusa in tutto il Paese, allo stesso modo è difficile ammettere il senso profondo della mobilitazione via mare, prendere il rischio di esporsi per creare un corriodoio umanitario permanente (al contrario di aiuti una tantum), diretto (per la consegna reale degli aiuti senza farse e mediatori), denunciare il genocidio in atto contando sul rispetto del diritto internazionale e dimostrarsi Stato civile. “Risparmiateci le lezioni di morale sulla pace se il vostro obiettivo è l’escalation. E non strumentalizzare la popolazione civile di Gaza se non vi interessa davvero il loro destino” ha detto Meloni.[9]
Anche il Presidente Mattarella ha ricevuto critiche relative all’ atteggiamento attendista dell’Italia e complicità con la strage dopo che, incontrando i rappresentanti israeliani al Quirinale, ha evitato ogni riferimento diretto al massacro e l’affamamento in corso, per rivolgere la stessa poker face invece alla Flotilla: rinunciate se volete salvarvi. Critiche sono arrivate anche in una lettera al Ministro Tajani da circa 700 dipendenti della Farnesina: lavorare con Israele durante una “guerra di sterminio” è un “profondo disagio etico e professionale”. I firmatari chiedono azioni immediate: riconoscimento dello Stato di Palestina, sospensione dell’accordo UE–Israele, nuove tariffe sui prodotti israeliani e perfino una “apartheid tax” come risarcimento ai palestinesi. Tutto questo avrà mica scosso il Ministro, che la mattina dell’avvicinamento della Flotilla alle coste di Gaza si è finalmente invece rivolto ad Israele chiedendo, almeno, di non usare violenza in caso di fermo di cittadini italiani che non sono li per motivi bellici.[10]
Oltreoceano, il 29 Settembre è stato annunciato il piano in 20 punti presentato da Trump e Netanyahu in conferenza stampa come peace in the Middle East (in perfetto stile sensazionalista-giullare trampiano).[11] ll piano prevede un cessate il fuoco immediato e lo scambio, entro 72 ore, di tutti gli ostaggi detenuti da Hamas (circa 20 vivi e 28 morti), con i 250 ergastolani e 1.700 prigionieri palestinesi detenuti in Israele. Seguirebbe un ritiro graduale delle forze israeliane da Gaza (senza alcuna tempistica definita), insieme al disarmo di Hamas e un’amnistia per chi decidesse di abbandonare la Striscia. La distribuzione degli aiuti sarebbe affidata a Nazioni Unite, Mezzaluna Rossa e ad alcune organizzazioni internazionali fino ad oggi escluse, mentre la farsa della Gaza Humanitarian Foundation verrebbe esclusa. Secondo il piano, Israele non dovrebbe né occupare né annettere la Striscia, ma il ritiro delle truppe avverrebbe progressivamente, con il trasferimento del potere a una “commissione palestinese tecnocratica e apolitica”. Quest’ultima sarebbe a sua volta posta sotto la supervisione di un nuovo organismo internazionale, il Consiglio della Pace, guidato direttamente da Trump e composto da leader palestinesi e figure internazionali, tra cui l’ex primo ministro britannico Tony Blair. Nella terza fase, il documento prevede che:
19. Con il progredire dello sviluppo di Gaza e l’attuazione fedele del programma di riforma dell’Autorità Nazionale Palestinese, potranno crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e lo Stato palestinese, che riconosciamo come legittima aspirazione del popolo palestinese.
20. Gli Stati Uniti avvieranno quindi un dialogo tra Israele e palestinesi per concordare un orizzonte politico di coesistenza pacifica e prospera.
Come ha commentato il segretario generale della Jihad Islamica Palestinese, Ziad Nakhaleh[12], il piano non affronta minimamente la questione della Cisgiordania e prevede una Palestina disarmata, priva di rappresentanza reale, commissariata da potenze esterne scelte da Israele, senza disinnescare l’imposizione di rapporti di forza. Non c’è chiarezza neache sulla garanzia che l’attacco da parte di Israele non riprenda dopo la resa, di esilio volonario per i combattenti di Hamas che lo vorranno e sulla tempistica della ritirata delle truppe israeliane dalla Striscia. Nethanyau ha poi invitato Hamas ad accettare concludendo che Israele “finirà il lavoro, con le buone o le cattive”.
Tempo perso forse per me a scriverne, e per chi a leggerne, che la prima cosa che ha fatto Netanyahu tornato in israele è stata negare che il documento preveda una possibilità di creazione di uno Stato Palesinese, a cui si oppone fermamente, ed affermare che l’IDF rimarrà nella maggior parte della Striscia di Gaza. E così chi detta le regole disegna il gioco in modo da non poter mai perdere. Anzi, potrebbe persino trarre vantaggio dall’accordo sul fronte interno, sia continuando il massacro con l’appoggio delle parti più radicali del suo governo, sia firmando l’accordo, con l’appoggio delle fasce più moderate, cosa che diventerebbe anche un trampolino per la sua rielezione futura.
E allora, passare in rassegna i fatti di questa soap opera dell’orrore (fatti reali di politica contemporanea) serve più oggi a costruire una consapevolezza più completa che nei futuri libri di storia come quando non ci andava di dover studiare ogni data, nome, passaggio degli accaduti delle atrocità della storia. Sarà meglio domandarsi, indignarsi, decidersi oggi se parlare de "La guerriglia dei ProPal" e limitarsi al "non ve ne fotte niente di aiutare le persone", come direbbe un Bruno Vespa qualunque? Davanti a questa realtà, con molte più delle calcolate 65.000 vittime genocidate in Palestina dal 7 Ottobre 2023, quante volte si continuerà a nominare questa data come condizione preventiva per osare dire altro? Quante volte sarvirà criminalizzare chi protesta, rompendo delle vetrine, per evitare di formulare una risposta politica ed etica all’altezza delle richieste di un popolo sotto assedio?
Mancano 100 miglia a Gaza. È tempo di dissenso per costruire la pace.
Per seguire le barche: https://globalsumudflotilla.org/tracker/
[1] https://www.gov.il/BlobFolder/reports/italy_nationwide_demonstrations_general_strike_solidarity_gaza_2025-09-22/en/mashlat_half2_2025_italy_nationwide_demonstrations_general_strike_solidarity_gaza_2025-09-22.pdf
[2] https://www.instagram.com/p/DO3SgLOjMlY?img_index=1
[3] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/gaza-flotilla-e-tensioni-217895
[4] Nicola Ghittoni su Morning, https://www.ilpost.it/podcasts/morning/, Ep. 1053: La Flotilla in zona ad alto rischio e le altre storie di oggi
[5] https://www.ilsole24ore.com/art/meloni-flotilla-sta-facendo-qualcosa-pericoloso-e-irresponsabile-AHfcRboC
[6] https://www.youtube.com/shorts/D4zd6MDEG2E
[7] https://www.corriere.it/esteri/25_settembre_18/smotrich-ministro-israele-ritratto-b8a17060-5200-466c-9757-637111c07xlk.shtml; https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/02/25/israele-vicepresidente-knesset-uccidere-tutti-adulti-gaza/7892177/
[8] https://www.instagram.com/reel/DPEuUIZDHWq/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA==
[9] https://www.progetto-radici.it/2025/10/01/caso-flotilla-meloni-risparmiateci-lezioni-morale/
[10] https://www.middleeastmonitor.com/20250929-italys-foreign-ministry-in-revolt-over-israels-war-of-extermination-in-gaza/?utm_campaign=feed&utm_medium=referral&utm_source=later-linkinbio
[11] https://www.ilsole24ore.com/art/il-piano-20-punti-trump-testo-completo-AHjhIEuC
[12] https://www.middleeastmonitor.com/20250930-palestine-pij-leader-rejects-trumps-plan-warns-it-will-ignite-the-region/?utm_campaign=feed&utm_medium=referral&utm_source=later-linkinbio
Sommario: 1. Le Spine e il Garofano di Yaya Sinwar - 2. Un romanzo non presentabile alla Sapienza e la censura della storia del popolo palestinese - 3. Il tentativo di impedire la cronaca dello sterminio del popolo palestinese - 4. La crisi del diritto internazionale - 5. La definizione di terrorismo - 6. Conclusioni.
1. Le Spine e il Garofano di Yaya Sinwar
Il romanzo di Yahya Sinwar, Le Spine e il Garofano, ha un titolo simbolico le spine shawkah rappresentano la sofferenza – era di spine la corona di Cristo crocifisso in Palestina emblema dell’afflizione nell’ultimo frangente della Sua vita terrena-; il garofano, qurunful o, meglio, il chiodo di garofano, rappresenta la dolcezza e il sollievo alla sofferenza.
Nel romanzo di Sinwar sofferenza e dolcezza si intrecciano nella storia di una famiglia palestinese rifugiata nel campo profughi di Khan Yunis – campo oggi raso al suolo.
È la storia della famiglia di Ahmad e, al tempo stesso, la storia del popolo palestinese, popolo profugo a seguito della Nakba, che in arabo significa catastrofe, l’espulsione di 700 mila persone – la maggioranza dell'allora popolazione della Palestina – che seguì alla fondazione di Israele.
La storia è ambientata tra il 1967 e il 2004.
L’immagine che apre il romanzo è evocativa di una popolazione in lotta per la sopravvivenza, la voce narrante è quella di Ahmad, un bambino di cinque anni. La prima evocazione della sumud è quella che fa Ahmad della madre che nella baracca raccoglie, con pentole poggiate a terra la pioggia, che entra dal tetto, e solleva le lenzuola dei letti dove dormono i figli per evitarne l’inzuppamento.
La baracca è un rifugio precario che i componenti adulti della famiglia, fuggita dalla città di Falluja, credono temporaneo.
La mamma accudente, tenera e dignitosa, è l’aroma dolce del chiodo di garofano, il sollievo alla sofferenza, come l’aroma dei poveri dolci preparati per le feste di famiglia; così come odorano di chiodo di garofano: l’accoglienza dei parenti di Hebron e il calore della resilienza dignitosa che tiene insieme la famiglia del piccolo Ahmad così come tiene insieme il popolo dei rifugiati.
La seconda immagine che colpisce il lettore è quella del tunnel che il padre di Ahmad, e lo zio, scavano per nasconderci dentro le proprie famiglie, prima di partire per la guerra dalla quale entrambi non torneranno. Un tunnel per la salvezza di donne e bambini (un altro modo di considerare i famigerati tunnel di Hamas).
È la primavera del 1967.
La guerra dei sei giorni in arabo è indicata come la Naksa, è la seconda sconfitta a seguito della quale Israele ha occupato la penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est e le Alture del Golan.
La seconda diaspora dei palestinesi.
Quando la famiglia, finiti gli scontri nel campo, uscirà dal tunnel troverà, al posto degli Egiziani, che offrivano le caramelle ad Ahmad e a suo fratello, soldati israeliani che portano via, con i camion, gli uomini del campo che hanno scelto di non fucilare.
La vita di Ahmad, dopo il ritorno nella baracca, prosegue, scandita per mesi dai megafoni che dalle Jeep militari, che girano incessantemente per il campo, impartiscono l’ordine di non uscire di casa senza autorizzazione.
I rifugiati che speravano di tornare a casa, dopo la sconfitta del 1967, diventano prigionieri di un campo di concentramento. “Gli arabi erano precipitati, in sei giorni, dal pinnacolo di un’autointossicazione di entusiasmo, al fondo del baratro dell’avvilimento”[1]
La storia si snoda tra il calore degli affetti della famiglia e dei rapporti vicinali e il dignitoso accesso all’istruzione e ai beni di prima necessità offerti dall’UNWRA[2].
La vita di Ahmad e dei suoi familiari, nella resilienza, dalla Naksa del 1967, va avanti tra gli studi universitari dei fratelli, la narrazione del diverso percorso dei cugini, i matrimoni e il riscatto economico, nei limiti consentiti in un campo profughi. Per chi si trasferisce dai parenti nella Westbank, a Hebron, il riscatto economico è più significativo.
La casa di Khan Yuinis, quella vicina al tunnel costruito dal padre di Ahmad, poco prima della guerra dei sei giorni, viene consolidata, il tetto che non riparava della pioggia, è sostituito da un tetto di amianto; l’unico stanzone centrale è stato diviso, il perimetro della baracca consolidata è stato esteso, quel minimo necessario ad accogliere le famiglie dei fratelli e del cugino di Ahmad.
La fortunata collocazione dell’originaria baracca in una via larga del campo la salva dalle distruzioni che invece subiscono, periodicamente, ad opera dei bulldozer israeliani, le case che si affacciano su vicoli stretti; l’esercizio del controllo è insensibile alla disperazione delle famiglie che assistono inermi alla distruzione dei loro rifugi.
I fratelli di Ahmad si diplomano, si laureano, si sposano in una situazione di precaria normalità; è la normalità del campo profughi, una normalità in cui i rifugiati subiscono detenzioni amministrative senza processo, sono ristretti in carceri ove, tra torture, angherie e privazione, elaborano programmi politici e piani di resistenza contro gli occupanti; carceri nelle quali i più deboli si vendono agli occupanti, divengono informatori del Mussad dando il via al fenomeno del collaborazionismo.
La narrazione di Sinwar ci restituisce un popolo palestinese proiettato agli studi, all’arte, alla cultura (si pensi all’enorme quantità di artisti, scrittori e registi palestinesi); un popolo orgoglioso, desideroso di riscatto sul piano intellettuale, impegnato nelle arti manuali così come in quelle intellettive; un popolo oppresso, ma resiliente e, al tempo stesso, determinato a resistere anche attraverso la diffusione della sua storia.
Le vicende dei componenti della famiglia e la storia del popolo palestinese sono contestualizzate in base agli accadimenti storici narrati dal punto di osservazione della Palestina. Da quel punto di osservazione le cause e gli effetti sono capovolti ciò stimola nel lettore la curiosità di conoscere il suono dell’altra campana e ricercare fonti documentali che spieghino la molla iniziale di questa sanguinosa faida tra due popoli, uno destinato a vincere sistematicamente con un Dio che lo protegge e l’altro destinato – come nel mito di Tantalo- a perdere, con un Dio che lo destina al martirio.
Sotto tale profilo è interessante richiamare quanto scritto da Jacob Talmon nel 1969 “Gli arabi agiscono sotto l'impulso dell'ira, di un bruciante senso di insulto ricevuto, di odio, di invidia. Gli ebrei sotto la spinta della paura e del sospetto. Le neurosi di entrambi nascono da una visione fissa e paranoica della storia. Invece d'essere una fonte di ispirazione, la preoccupazione per la storia si è trasformata per entrambi in catene. Gli arabi sono presi dalla visione di un impero arabo resuscitato dai tempi del Medioevo. Proprio nel momento in cui la visione sembrava prendere corpo, gli ebrei, con l'aiuto delle grandi potenze, si sono intrufolati tra gli arabi dell'Asia e quelli dell'Africa, senza chiedere il consenso. Nell'istante preciso in cui, così essi affermano, le potenze coloniali cominciarono a ritirarsi dalle altre parti del mondo il colonialismo trionfa su di loro” [3]
La vita della famiglia di Ahmad è scandita dalla guerra dello Yom Kippur del 1973, dall’incessante penetrazione dei coloni israeliani nel westbank, dalla prima Intifada, dalla rappresaglia contro Hebron, dalla strage di Abramo, dall’inizio degli attentati suicidi con bombe realizzate con fertilizzanti e detersivo, dagli accordi di Oslo e dalla seconda Intifada.
È descritto il fenomeno endemico del collaborazionismo che trae le sue radici profonde nella povertà e nell’offerta da parte di Israele di libertà, riscatto e denaro.
Viene fatto cenno alla tecnica israeliana degli omicidi mirati[4], raccontati attraverso la storia del chimico inventore di esplosivi fabbricati con detersivi e fertilizzante.
Nel romanzo di Sinwar le intifade sono raccontate come tentativi di riscatto del popolo palestinese, o come reazione di provocazioni sottili ma percepite come particolarmente odiose, come quella del 28 settembre 2000: la visita da parte di Sharon alla Moschea Al-qusa che scatenò la seconda Intifada.
Nel racconto delle discussioni tra i fratelli di Ahmad emerge, chiara, la percezione della pericolosità del Likud[5], la delusione per la caduta di Barak seguita dalla nomina come primo ministro di Ariel Sharon, e poi di Netanyahu; momento che segna il tramonto degli Accordi di Oslo[6]; la fine della speranza di una convivenza pacifica tra israeliani e rifugiati palestinesi.
Il terzo piano della storia è quello della riflessione politica che si snoda nel confronto tra i fratelli e i cugini di Ahmad. Il fratello Mahmud, laico e socialista propende per l’OLP e per Al Fatha, festeggia la firma dei Patti di Oslo e sostiene l’Autorità palestinese; il fratello Hassan e il cugino Ibrahim, divenuti religiosi osservanti, propendono per la fratellanza mussulmana; il cugino, fratello Ibrahim, diventerà invece un collaborazionista.
La rappresentazione dei fatti è resa con tecnica narrativa che ricorda il verismo italiano; l'autore scompare dalla narrazione, e lascia che i fatti si sviluppino naturalmente, senza commenti o giudizi. Il lettore è indotto a individuare l’autore in Ahmad, perché nel 1967, come Sinwar, aveva cinque anni. Ahmad non emette mai giudizi ma si limita a descrivere i fatti.
Le spine e il garofano ci racconta il virare dell’aspirazione al ritorno a casa dei profughi del 1948[7] nell’aspirazione a di vincere l’assedio e vivere come cittadini liberi in uno stato sovrano.
L’ultimo capitolo è dedicato a Netanyahu al potere, con fasi alterne, dal 2004
Nelle spine e il garofano, come nei Malavoglia di Verga, la prospettiva dominante è quella della lotta per la vita; “la roba” nel romanzo di Sinwar è la “Terra di Palestina”, the land, la terra del documentario vincitore dell’Oscar 2025 “No other land”.
Sinwar nella prefazione del libro scrive: “Questa non è la mia storia personale né la storia di un individuo in particolare anche se tutti gli eventi sono reali ogni evento riguarda ogni palestinese l'unico elemento fittizio di quest'opera è la sua trasformazione in un romanzo che ruota attorno a personaggi specifici per soddisfare la forma e i requisiti di un'opera romanzesca tutto il resto è reale l'ho vissuto e gran parte di ciò proviene dalle testimonianze di coloro che hanno trascorso con le loro famiglie e i loro vicini decenni della loro vita nell'amata terra di Palestina dedico questo romanzo a tutti quelli che hanno il cuore legato alla terra dell'Israa e del Mi’raj” .
Il libro è stato scritto durante la detenzione nelle carceri Israeliane, durata ventitré anni, successiva a due detenzioni amministrative. Sinwar è stato liberato nel 2011, con altri mille palestinesi, in cambio del rilascio di Gilad Shalit[8]. Una vita contro mille a conferma che, in certi momenti della storia e in certi luoghi, le vite umane hanno un valore diverso. Yahya Sinwar è stato un politico palestinese, dal febbraio 2017 a capo di Hamas nella Striscia di Gaza e dal 6 agosto 2024, a seguito dell'omicidio mirato di Isma'il Haniyeh [9], e presidente dell'ufficio politico del partito. Dal settembre 2015 era ricercato per terrorismo dal governo degli Stati Uniti. Il 16 gennaio 2024 è stato aggiunto anche alla lista dei terroristi redatta dal Consiglio dell'Unione europea.
A seguito del suo coinvolgimento nell'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, per il ruolo nei massacri di civili svoltesi in tale occasione e nella presa di ostaggi (e nei crimini da essi subiti a Gaza), nel maggio 2024 il procuratore capo della Corte penale internazionale (CPI) ha chiesto il suo arresto assieme agli altri capi di Hamas Mohammed Deif e Isma'il Haniyeh per crimini di guerra e crimini contro l'umanità.
Il 16 ottobre 2024 Sinwar è morto a Rafah in uno scontro a fuoco con soldati israeliani.
2. Un romanzo non presentabile alla Sapienza e la censura della storia del popolo palestinese
Il libro, oltre che la storia di un popolo profugo evoca un’altra storia: quella del silenzio calato in occidente sui palestinesi, sui campi profughi sull’invasione colonialista in atto in Cisgiordania.
Un esempio della consegna al silenzio si rinviene – con le dovute proporzioni- nella revoca dell’autorizzazione alla presentazione, presso la facoltà di Fisica dell'Università La Sapienza di Roma, del romanzo Le spine e il garofano.
La Sapienza dopo il divieto della presentazione alla facoltà di Fisica ha vietato anche l'evento del 5 marzo scorso ( 2025). Evento di presentazione che doveva svolgersi presso la facoltà di Lettere. L’autorizzazione alla presentazione è stata revocata dalla Rettrice prof.ssa Polimeni su richiesta della Comunità ebraica. Sulla presentazione del libro è intervenuto anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che ha dichiarato: “La libera manifestazione del pensiero è sacra, però non bisogna superare il segno”, ha dichiarato, sottolineando che il diritto di espressione non può diventare “uno strumento per eludere i principi del nostro vivere civile e democratico”.
Il 6 maggio 2024 Davide Piccardo, editore del libro, è stato invitato dal prof. Marco Di Branco, docente della facoltà di lettere dell’Università la Sapienza per un intervento nell’ambito del suo corso di insegnamento.
E così, alla fine, all’Università La Sapienza si è potuto parlare del romanzo di Sinwar.
Diversamente da quanto è stato scritto per motivare la revoca dell’autorizzazione alla presentazione, il romanzo - scritto peraltro oltre venti anni prima della strage del 7 ottobre 2023 -non contiene alcun incitamento all’odio.
La revoca dell’autorizzazione alla presentazione del libro è la dimostrazione che non si vuole che si parli delle condizioni dei rifugiati palestinesi.
La censura alla storia ha impedito alle società occidentali di conoscere le dinamiche dell’occupazione israeliana, le condizioni di apartheid in cui vivono i palestinesi in Cisgiordania e in Israele, le condizioni dei rifugiati ristretti nei campi profughi[10].
La sorte del libro di Sinwar è analoga a quella di altre opere artistiche. Il film «Farha» del 2021, della regista giordana Darin Sallam che, attraverso gli occhi di un’adolescente, racconta di una strage a opera uomini della milizia israeliana avvenuta nel 1948, durante le fasi che portarono alla nascita dello Stato di Israele, non è visibile su canali pubblici o piattaforma internazionali in Italia[11]. Su Netflix è stato bloccato perché ritenuto di incitamento all’odio[12].
È di non facile reperibilità sulle piattaforme statunitensi anche il documentario vincitore dell’Oscar 2025 e del 74° Festival di Berlino “No other land” dei registi Yuval Abraham, Basel Adra, Hamdan Ballal, Rachel Szor. Quanto alla proiezione in Rai sembra vi siano state pressioni per togliere il film dal palinsesto o quanto meno posticiparne la programmazione[13].
Il 26 febbraio 2024, al Festival di Berlino Yuval Abraham, quando ha ricevuto il premio, ha evocato incisivamente la condizioni della popolazione palestinese nei paesi occupati: «Io e Basel abbiamo la stessa età. Io sono israeliano, Basel è palestinese. E tra due giorni torneremo in una terra dove non siamo uguali. Io sono sottoposto al diritto civile, Basel al diritto militare. Viviamo a 30 minuti di distanza, ma io posso votare e Basel no. Io sono libero di andare dove voglio, Basel come milioni di palestinesi è rinchiuso nella Cisgiordania occupata. Questa situazione di apartheid tra di noi, questa disuguaglianza, deve finire.» Basel Adra ha proseguito nella descrizione riferendo: «La mia comunità, la mia famiglia hanno filmato la cancellazione della nostra società per mano di questa occupazione brutale. Sono qui che celebro questo premio, ma mi è molto difficile mentre decine di migliaia di persone vengono trucidate e massacrate da Israele a Gaza. Masafer Yatta, la mia comunità, sta venendo rasa al suolo da bulldozer israeliani. Chiedo soltanto una cosa: alla Germania, visto che mi trovo qui a Berlino, di rispettare la volontà dell'ONU e smettere di mandare armi ad Israele.»
Per queste dichiarazioni Yuval Abrham e la sua famiglia sono stati perseguitati dai connazionali e costretti al trasferimento. Basel Adra[14] e l’altro coregista palestinese Hamdan Ballal[15], tornati in Palestina sono stati vittime di pestaggi da parte dei coloni israeliani. Mentre Odeh Awdah Muhammad Hadalin, attivista e insegnante palestinese noto per il suo contributo al documentario è stato ucciso da un colono.
La censura dei romanzi e dei film, attuata con diverse modalità, si rileva così in tutta la sua perniciosità come è uno strumento per perpetuare il nascondimento della Nakba e della Naksa o, quanto meno oscurare un punto di vista della storia, quello narrato dagli sconfitti e per perpetuare il nascondimento delle condizioni del popolo profugo palestinese.
Nel 1948, durante il conflitto, milizie ebraiche come Haganah e Irgun, e poi l’esercito israeliano, condussero operazioni che portarono alla distruzione di oltre 500 villaggi palestinesi.
Il massacro di Deir Yassin è tra gli avvenimenti storici più significativi della Nakba, strage della quale gli occidentali sono rimasti nella quasi totalità all’oscuro. Il 9 aprile del 1948 a Deir Yassin furono uccisi circa 100 civili[16], la strage terrorizzò la popolazione araba, composta di pastori e agricoltori, al punto da convincerla a fuggire. In quegli anni da Giaffa, uno dei più importanti porti del Medio Oriente e storica città araba, fuggirono circa 120mila palestinesi. Oggi Giaffa è un quartiere di Tel Aviv. In una lettera al New York Times pubblicata il 4 dicembre 1948 Albert Einstein, Hannah Arendt, Sidney Hook e altri esponenti della comunità ebraica statunitense condannarono il massacro di Deir Yassin e definirono “Fascisti, nazisti, terroristi” nell'ideologia, nell'organizzazione e nei metodi sia Menachem Begin[17], comandante dell'Irgun che aveva perpetrato la strage, sia il partito Tnuat Haherut (del Partito della Libertà), di cui lo stesso Begin era leader[18].
La storia del popolo profugo della Palestina evoca così la dolorosa domanda “Ma nessuno si è accorto di noi?”, ma in questo caso la risposta comporta anche un’analisi circa la costante attenzione al nascondimento delle notizie.
3. La cronaca dello sterminio del popolo palestinese e la strage dei giornalisti
Dopo il 7 ottobre 2023 in Palestina sono stati uccisi 268 tra giornalisti e operatori dei media. Il 25 agosto scorso, presso l’ospedale di Nasser di Khan Yunis, il campo profughi in cui è ambientato il romanzo di Sinwar, nel sud della Striscia di Gaza, ne sono stati uccisi cinque; in questo caso la strage è stato realizzato con una particolare tecnica di guerra: la tecnica dei due colpi dopo un primo missile che colpisce un obiettivo, solo apparentemente primario, viene lanciato un secondo missile che colpisce l’obbiettivo realmente primario ovvero coloro che si sapeva che primo missile sarebbero accorsi: medici e giornalisti.
La strage dei giornalisti e degli operatori dei media è funzionale a non mostrare la pulizia etnica in atto contro il popolo palestinese; i giornalisti stranieri non possono entrare a Gaza e con la strage dei giornalisti palestinesi si impedisce la cronaca quotidiana, si censura la narrazione della pulizia etnica in atto con l’obiettivo confessato da Bezalel Smotrich di trasformare la striscia in “un'Eldorado immobiliare da spartire con gli Usa" e altresì di appropriarsi dei giacimenti di gas di Gaza Marine.
Colpire giornalisti significa cancellare il diritto all’informazione, un diritto umano universale che in guerra è baluardo di civiltà. Senza giornalisti, i civili restano senza voce. “Quando muore un giornalista, muore una parte di civiltà”.[19]
Antoine Bernard, direttore di Reporter senza frontiere (Rsf) ha scritto: «prendere di mira i giornalisti palestinesi non significa solo ostacolare il presente, ma cancellare il futuro» e ha aggiunto «Il mondo dovrebbe tenere presente che un tale, incessante livello di crimini internazionali contro i giornalisti a Gaza ha innalzato la soglia di tolleranza al crimine a livelli senza precedenti».
A questo si aggiunge la doppia vittimizzazione: giornalisti uccisi e definiti terroristi[20].
4. La crisi del diritto internazionale
“Nulla sarà più come prima” ha scritto Anna Foa se il mondo civile e gli organismi internazionali si mostreranno non in grado di fermare lo sterminio in atto.
È la prima volata nella storia dell’umanità, come ha detto Massimo Cacciari, che un esercito combatte contro la popolazione civile; in tutte le guerre della storia l’uccisione dei civili è un’eventualità, un effetto collaterale da evitare; l’IDF in questo momento combatte invece contro donne e bambini in fuga, logorati da due anni di guerra e da una carestia indotta dalla medesima Nazione che li combatte.
L’umanità uscirà irrimediabilmente segnata da questo massacro.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 è stato terribile, il più devastante atto terroristico della storia di Israele così come la cattura dei 250 ostaggi, dei quali 50 sono ancora nelle mani di Hamas ma, per usare le parole di Grossman, "Davanti a tanta sofferenza, il fatto che questa crisi sia stata iniziata da Hamas il 7 ottobre è irrilevante".
I crimini contro il popolo palestinese graveranno sull’umanità intera così come l’olocausto e come le atomiche su Hiroshima e su Nagasaki.
Il diritto internazionale è in pericolo, “Israele sta demolendo anche quello” ha scritto Anna Foa.
Le organizzazioni internazionali istituite nel 1945 per impedire crimini contro l’umanità analoghi a quelli perpetrati dai regimi nazi-fascisti, sono anche loro sotto attacco.
I componenti della Corte internazionale dell’Aja sono destinatari di sanzioni da parte dell’USA[21]. La vicenda della mancata esecuzione da parte dell’Italia – uno dei paesi promotori dello Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale[22] - del mandato di cattura di Al Masri è uno dei tasselli che segna una drastica delegittimazione.
Le difficoltà – pratiche oltre che accademiche - all’esecuzione di mandato di arresto quali quelli contro Putin e contro Netanyahu[23] assegnano agli organi internazionali a un ruolo attendista. Le violazioni del diritto internazionale in atto in questo momento contro gli equipaggi delle imbarcazioni della Sumud Flotilla nei mari internazionali evidenziano un ritardo nell’attivazione in tempo utile di strumenti di azione ma, al tempo stesso, ricordano l’importanza del consenso e della comunità di intenti che deve caratterizzare il lavoro degli organismi sovraordinati i termini di collaborazione con le nazioni che li compongono o dalle quali hanno ricevuto mandato, con un potere di azione indubbiamente limitato dalle sovranità nazionali nonché dall’impossibilità di azioni in prevenzione. Il blocco navale del mare davanti a Gaza attuato nel 2009 dallo Stato di Israele è stato oggetto di approfondimento quanto alla legittimità solo a seguito dell’attacco di Israele dalla Maia mar nel corso del quale furono uccisi dieci attivisti[24].
Il riconoscimento dello Stato di Palestina costituisce senz’altro un importante passo avanti. Al 23 settembre 2025, 157 dei 193 stati membri delle Nazioni Unite hanno riconosciuto lo Stato della Palestina, ad essi sono da aggiungersi la Città del Vaticano Città del Vaticano e Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi. Tra essi manca all’appello l’Italia.
5. La definizione di terrorismo nel diritto internazionale
Nel diritto internazionale non esiste una definizione universalmente accettata di terrorismo, ma generalmente la nozione di terrorismo è correlata all'uso o alla minaccia dell’uso di violenza finalizzato a incutere terrore nella popolazione, e a costringere governi, organizzazioni internazionali o altri soggetti a compiere o astenersi da specifici atti, per ragioni politiche o ideologiche. Trattasi di nozione che include atti criminali di grande impatto, come attentati, rapimenti e dirottamenti.
In sostanza, ciò che accomuna le diverse definizioni è la condanna di azioni violente e ingiustificabili mirate a diffondere terrore per scopi politici, anche se il concetto rimane complesso e oggetto di continue discussioni internazionali, mentre sarebbe fondamentale l’elaborazione di una definizione univoca.
Solo organismi internazionali terzi attraverso un’istruttoria fondata su prove legittimante acquisite a carico e a discarico e verificate quanto all’autenticità e nell’ambito di un procedimento garantito possono emettere provvedimenti atti a inserire una persona o una associazione nell’elenco dei terroristi con validità internazionale. In questo senso in ambito internazionale non dovrebbe essere attribuito alcun valore alla dichiarazione proveniente da un singolo governo contro uno stato o una popolazione nemica.
In questo contesto mondiale di espansione dell’aggressività di taluni capi di governo preoccupa la leggerezza nell’uso dell’epiteto terrorista; uso leggero del quale purtroppo sono molti gli esempi: secondo il Ministro israeliano Itamar Ben Gvir vanno trattati come terroristi gli attivisti umanitari della Sumud flotilla [25]; Donald Trump ha emesso un ordine esecutivo con il quale designa Antifa come “organizzazione terroristica interna” con l’effetto che gli antifascisti saranno trattati come terroristi[26]; Su X il portavoce del governo ungherese Zoltan Kovacs, con riferimento alla decisione dell’eurocamere di non revocare l’immunità alla Salis, ha menzionato Terrorismi di estrema sinistra [27].
L’utilizzo improprio della nozione di terrorismo oltre che legittimare, nei confronti di taluni soggetti o associazione, deroghe - non giustificate - alle normali garanzie di difesa universalmente riconosciute nei paesi civili quale presidio del rispetto dei diritti umani, snatura la nozione stessa di terrorismo, la svuota del contenuto proprio creando una perniciosa confusione tra pericolosità reale e rappresentazione strumentale di pericolosità; l’utilizzo dell’attribuzione della qualità di terrorista a fini persecutori ne svilisce il significato.
In questa confusione lessicale, fondata su scelte arbitrarie e di comodo, si enfatizzano alcuni pericoli e se ne disconoscono altri invece reali come il blocco del mare di Gaza del 2009, l’assedio della popolazione palestinese iniziato nel 2006 con la vittoria elettorale di Hamas o gli attacchi dei coloni israeliani contro gli agricoltori e gli allevatori palestinesi in Cisgiordania.
La storia tra Hamas e Israele può essere raccontata come il confronto tra il piccolo naviglio e la flotta ove è la dimensione il tratto distintivo tra il bandito e il condottiero [28] ma anche come al storia dell’ultimo colonialismo occidentale che mette in conto lo sterminio dei nativi – analogo a quello degli indiani d’America e degli aborigeni australiani – davanti a una comunità internazionale che nonostante i principi consacrati nelle convenzioni e nei trattati sottoscritti dal 1945 a oggi resta paralizzata dall’assenza di strumenti di azione, quando non piegata da interessi economici che valgono più della sopravvivenza di un popolo.
6. Conclusioni
Il fatto che Sinwar sia stato dichiarato terrorista, come il partito di Hamas del quale è stato leader[29], non giustifica il diniego dell’autorizzazione alla presentazione del libro. Per chi conosce la storia della Palestina, come la conosceva Giulio Andreotti, ma anche come la conoscevano Amintore Fanfani, Aldo Moro e Bettino Craxi la contestualizzazione della definizione di terrorista è d’obbligo. La conoscenza della storia dei popoli e la storia delle persone che li compongono aiuta a evitare giudizi incoerenti con la realtà.
“Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista” ha detto Giulio Andreotti in un discorso tenuto in Senato l’8 luglio 2006, l’immagine fa pensare al piccolo Amhad del romanzo di Sinwar. Andreotti era il teorico della politica dell’equivicinanza – neologismo da lui introdotto- verso palestinesi e israeliani, seguita anche da Moro, da Fanfani, da d’Alema e da Craxi[30], politica purtroppo dimenticata dai governi italiani che si sono succeduti negli ultimi vent’anni.
Quello che sta accadendo in Palestina compresa la proposta di tregua in venti punti di Trump del 30 settembre 2025, la cui genericità e inidoneità risolutiva anche con riguardo la riconoscimento dello Stato di Palestina[31] è sotto gli occhi di tutti a conferma l’attualità che di quello che ci ha ricordato la Licia Fierro citando Tucidide “ Noi crediamo che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi prima, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza”. [32]
Quanto a Netanyahu, al potere dal 2004, non resta che auspicare che il mandato di arresto emesso nei suoi confronti dalla Corte penale internazionale il 21 novembre 2024[33] sia eseguito e inizi il processo a su carico, affinché si accerti la sua responsabilità in merito a condotte in violazione dl diritto umanitario e ciò affinché il diritto internazionale sia riaffermato e ribadita la fondamentale importanza dello Statuto di Roma.
[1] V.D. Segre, “Israele una società in evoluzione Rizzoli, 1973.
[2] L'UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) è un'agenzia delle Nazioni Unite istituita nel 1949 per fornire assistenza e protezione ai profughi palestinesi registrati in Giordania, Libano, Siria e nei territori palestinesi occupati. I suoi servizi includono istruzione, assistenza sanitaria, aiuti di emergenza, infrastrutture e microcredito, con l'obiettivo di garantire una vita dignitosa ai rifugiati in attesa di una soluzione duratura alla loro situazione.
Il 28 ottobre 2024 la Knesset - il parlamento monocamerale d'Israele -ha votato due proposte di legge riguardanti UNRWA per la definitiva criminalizzazione ed espulsione di fatto dell'agenzia per i rifugiati palestinesi. Una approvata il 22 settembre 2025 con una maggioranza di 92 voti a 10 stabilisce che l’Unrwa non potrà più «gestire alcuna istituzione, fornire alcun servizio o condurre alcuna attività, direttamente o indirettamente» all’interno del territorio controllato da Israele. Il che include i territori palestinesi occupati dal 1967, dove quasi tre milioni di palestinesi sono registrati come rifugiati e centinaia di migliaia di questi beneficiano di servizi di sostegno primario. L’altra – in corso di approvazione - abroga l’accordo del 1967 tra le Nazioni Unite e Israele, che consentiva all’Unrwa di estendere il proprio operato all’interno dei territori palestinesi occupati, con l’impegno di Israele a facilitare il lavoro dell’Agenzia. Tale misura priva l’Unrwa anche dell’immunità diplomatica.
[3] J Talmon “History as a Fixation and Guide", New Outlook.
[4] Sugli omicidi mirati ha scritto un saggio Ronen Bergman. «Se qualcuno viene per ucciderti, alzati e uccidilo per primo» recita una frase del Talmud, il testo fondamentale dell'ebraismo, e fin dalla sua nascita, nel 1948, Israele pare aver fatto di questo insegnamento la propria parola d'ordine, forse a causa del trauma della Shoah e della sensazione, condivisa dai suoi leader e cittadini, che il paese e l'intero popolo ebraico siano in costante pericolo di annientamento. Per tutelare la propria sicurezza, Israele ritiene dunque che la prevenzione e la deterrenza siano le armi vincenti, tanto che molto spesso i suoi capi politici hanno scelto di ricorrere agli omicidi mirati di potenziali nemici, affidandone l'incarico a quello che, probabilmente, è il più formidabile apparato di intelligence esistente., Bergman racconta le fasi cruciali e le sofisticatissime tecniche di una campagna di esecuzioni extragiudiziali (senza tacere i brucianti interrogativi etici che essa pone) la cui escalation ha plasmato il volto attuale di Israele, del Medio Oriente e del mondo intero. https://www.mondadoristore.it/uccidi-per-primo-la-storia-segreta-degli-omicidi-mirati-di-israele-libro-ronen-bergman/p/9788804801528.
Dall'inizio della Seconda Intifada, il 29 settembre 2000, all'inizio di novembre 2003, almeno 126 civili palestinesi sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane in esecuzioni extragiudiziarie, che il governo israeliano definisce "omicidi mirati" per motivi di sicurezza. 67 di questi omicidi sono stati perpetrati dall'aviazione e 59 dalle forze di terra. (www.btselem.org. Nel corso di queste operazioni, altri 86 palestinesi hanno perso la vita come "effetto non voluto", semplicemente perché si trovavano a passare nel posto sbagliato al momento sbagliato o per aver tentato di portare soccorso alle vittime dell'operazione stessa. Il 3 luglio 2003 il Segretario Générale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha pubblicamente condannato «quelli che sono diventati note come "omicidi mirati"», dicendosene profondamente turbato Omicidi mirati – Caritas Jerusalem ove si trova anche il documento di dissociazione dei veterani «Noi, veterani e piloti attivi che abbiamo servito e continuiamo a servire e ancora serviremo lo Stato d'Israele per lunghe settimane ogni anno, ci opponiamo a eseguire ordini di attacco che sono illegali e immorali come quelli che lo Stato di Israele sta conducendo nei Territori. Noi che siamo stati cresciuti per amare lo Stato d'Israele e contribuire all'impresa sionista, rifiutiamo di prendere parte agli attacchi dell'Air Force sui centri della popolazione civile. Noi, che sentiamo l'esercito israeliano e l'Air Force come parte inalienabile di noi stessi, ci rifiutiamo di continuare a infliggere sofferenze ai civili innocenti. Queste azioni sono illegali e immorali, e sono il diretto risultato dell'occupazione in atto che sta corrompendo tutta la società israeliana. Il perpetrarsi dell'occupazione minerà fatalmente la sicurezza dello Stato di Israele e la sua forza morale. Noi che prestiamo servizio come piloti attivi, combattenti, dirigenti e istruttori della prossima generazione di piloti, da questo momento dichiariamo che continueremo a servire l'Esercito israeliano e l'Air Force solo per le missioni in difesa dello Stato israeliano» (25/09/03). Brigadiere Generale Yiftah Spector, Colonnello Yigal Shohat, Colonnello Ran, Tenente Colonnello Yoel Piterberg, Tenente Colonnello David Yisraeli, Tenente Colonnello Adam Netzer, Tenente Colonnello Avner Ra'anan, Tenente Colonnello Gideon Shaham, Maggiore Haggai Tamir, Maggiore Amir Massad, Maggiore Gideon Dror, Maggiore David Marcus, Maggiore Professor Motti Peri, Maggiore Yotam, Maggiore Zeev Reshef, Maggiore Reuven, Capitano Assaf, Capitano Tomer, Capitano Ron, Capitano Yonatan, Capitano Allon, Capitano Amnon
http://s2ew.caritasitaliana.it/caritasitaliana/allegati/958/10_omicidi.pdf
Sulla (il)legittimità degli omicidi mirati mediante i droni e i possibili ricorsi alle corti* di Chantal Meloni https://www.ecchr.eu/fileadmin/Gutachten/Gutachten_Sulla_il_legittimita_degli_omicidi_mirati_mediante_i_droni_e_i_possibili_ricorsi_alle_corti.pdf
Dal 2004 a oggi sono stati uccisi con omicidio mirato 14 leder di Hamas.
Costituisce uno sviluppo della tattica difensiva dell’omicidio mirato l’applicazione dell’A.I. attraverso droni programmati a individuare la vittima e a decidere l’entità dell’effetto collaterale accettabile ( ovvero il numero dei civili estranei che possono essere uccisi insieme all’”obiettivo”). Nel 2021, è stato pubblicato “The Human-Machine Team: How to Create Synergy Between Human and Artificial Intelligence That Will Revolutionize Our World” (Come creare una sinergia tra intelligenza umana e artificiale che rivoluzionerà il nostro mondo) sotto lo pseudonimo di “Brigadier General Y.S.”. L’autore si dice sia l’attuale comandante dell’unità d’élite israeliana 8200. Nel libro si sostiene la necessità di progettare una macchina speciale in grado di elaborare rapidamente enormi quantità di dati per generare migliaia di potenziali “bersagli” da colpire in guerra. In un’inchiesta di +972 Magazine e Local Call si rivela che, in effetti, l’esercito israeliano ha sviluppato un programma basato sull’intelligenza artificiale noto come “Lavender”. Lavender sembra abbia svolto un ruolo centrale nei bombardamenti senza precedenti contro i palestinesi, soprattutto durante le prime fasi della guerra. ( vedi https://pagineesteri.it/2024/04/05/primo-piano/lavender-la-macchina-di-intelligenza-artificiale-che-dirige-i-bombardamenti-di-israele-su-gaza/ “Lavender”: La macchina di intelligenza artificiale che dirige i bombardamenti di Israele su Gaza di redazione | 5 Apr 2024 | Medioriente, Primo Piano Di Yuval Abraham – +972 Local Call 3 aprile 2024 (traduzione di Federica Riccardi).
[5] Il Likud trae le sue radici nel movimento sionista riformista di Vladimir Žabotinskij (dal 1923 Partito revisionista sionista o Hatzohar), liberale, e nella sua ala militare (Irgun Zvai Leumi o Etzel), nazionalista. Subito dopo la nascita di Israele questa ala si trasformò nel partito Herut (Libertà), che prosciugò il seguito di Hatzohar e nel 1961 si unì ai Libralim (Liberali) nel blocco elettorale Gahal, la maggiore forza di opposizione. Grazie a una nuova serie di convergenze il Likud fu fondato nel 1973 da Menachem Begin, che lo condusse alla storica vittoria del 1977, la prima volta in cui i laburisti andarono all'opposizione. Solo nel 1988 il Likud divenne un partito unitario.
[6] Gli accordi di Oslo, ufficialmente chiamati “Dichiarazione dei Principi riguardanti progetti di auto-governo ad interim o Dichiarazione di Principi”, sono stati ratificati il 13 settembre 1993 Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sotto l’egida di Bill Clinton. Gli accordi di Oslo hanno portato all'istituzione dell'Autorità Nazionale Palestinese – con il compito di autogovernare, in modo limitato, parte della Cisgiordania e la striscia di Gaza – e hanno riconosciuto l'OLP come partner di Israele nei negoziati sulle questioni in sospeso. I negoziati proseguirono portando nel 1995 ai cosiddetti accordi di Oslo 2, che ampliavano l'autogoverno ad altre parti della Cisgiordania. Malgrado le grandi speranze suscitate dagli accordi e dalle successive intese, che s'impegnavano alla normalizzazione delle relazioni d'Israele col mondo arabo, il conflitto non è stato risolto. Le questioni più importanti che gli accordi non risolvevano erano: i confini di Israele e Palestina, i territori occupati da Israele, la presenza militare di Israele nei territori palestinesi. Yitzhak Rabin, osteggiato personalmente dalla destra nazionalista e conservatrice e dai leader del Likud che consideravano gli accordi di Oslo come un tentativo di abbandonare i territori occupati primo ministro di Israele e ministro della difesa, fu assassinato da Digal Amir, un colono ebreo estremista e sionista di destra - fermamente contrario all'iniziativa di pace di Rabin e particolarmente alla firma dei trattati
[7] la risoluzione 194 dell'Assemblea Generale dell'ONU approvata l'11 dicembre 1948, esprime apprezzamento per gli sforzi dell'Inviato delle Nazioni Unite Folke Bernadotte dopo il suo assassinio da parte dei membri della Banda Stern. Si occupa della situazione nella regione della Palestina, al momento, stabilire e definire il ruolo di una Commissione di Conciliazione delle Nazioni Unite come organizzazione per facilitare la pace nella regione. La risoluzione si compone di 15 articoli, i più citati dei quali sono:Articolo 7: protezione e il libero accesso ai Luoghi Santi, Articolo 8: la smilitarizzazione e il controllo delle Nazioni Unite su Gerusalemme; Articolo 9: il libero accesso a Gerusalemme; Articolo 11: chiede il ritorno dei profughi
[8] https://www.avvenire.it/mondo/pagine/chi-era-sinwar
[9] Haniyeh è stato ucciso nel suo alloggio gestito da militari dei Pasdaran dopo aver partecipato alla cerimonia di insediamento del presidente iraniano Masoud Pezeshkian. Il 23 dicembre 2024, Israele ha ammesso di essere dietro all'assassinio di Ismail Haniyeh. Un omicidio mirato.
[10] https://popcorntv.it/cinema/film-palestinesi-stanno-scomparendo-da-netflix/75073
[11] La Nakba per Israele non è mai esistita .
[12] Si veda il video in calce.
[13] Slitta la messa in onda di No Other Land, il film sull’occupazione israeliana rinviato su “richiesta politica”
[14] https://it.euronews.com/2025/09/14/cisgiordania-coloni-israeliani-fanno-irruzione-nella-casa-del-regista-premio-oscar-basel-a
[15] https://it.euronews.com/cultura/2025/03/25/il-regista-palestinese-premio-oscar-hamdan-ballal-aggredito-da-coloni-israeliani-e-poi-arr
[16] Memories of a massacre linger with a Palestinian, with war in Gaza as a reminder https://www.youtube.com/watch?v=O7ggLpJ-zQU
[17] Menachem Begin ha fondato il partito Likud definito terrorista da Albert Einstein, Hannah Arendt, Sidney Hook e altri esponenti della comunità ebraica statunitense
[18] https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallarete/la-lettera-di-albert-einstein-e-hannah-arendt-sulla-deriva-fascista-di-israele/
[19] il Prof. Foad Aodi da medico e giornalista richiama con forza la dichiarazione congiunta di Carlo Bartoli e Filippo Anelli: “Hanno espresso con chiarezza un principio che facciamo doverosamente nostro: non si possono colpire giornalisti e medici, perché significa spegnere contemporaneamente il diritto alla salute e il diritto all’informazione. Sono due pilastri dei diritti umani universali, che in guerra diventano la prima linea di civiltà. Senza medici e senza giornalisti, i civili restano senza cure e senza voce. Ringraziamo Bartoli e Anelli per la loro presa di posizione netta e ribadiamo che la comunità internazionale deve tradurre queste parole in azioni concrete, immediate e verificabili.”
[20] Il 10 agosto 2025, cinque reporter palestinesi di Al Jazeera sono stati uccisi presi di mira nei pressi dell'ospedale Al-Shifa di Gaza City. Uno di loro era Anas al-Sharif, corrispondente di 28 anni, che è stato ucciso insieme a Mohammed Qreiqeh, e ai cameramen Ibrahim Zaher, Mohammed Noufal e Moamen Aliwa. Si trovavano in una tenda dedicata alla stampa vicino all'ingresso principale dell'ospedale.
Le autorità israeliane hanno confermato di aver ucciso volutamente proprio Anas al-Sharif, accusandolo di essere il capo di una cellula di Hamas coinvolta in attacchi missilistici contro civili e forze israeliane..
Questa accusa è sempre stata negata da Al Jazeera e da organizzazioni per i diritti umani, che denunciano come infondate le accuse contro i giornalisti, considerato un tentativo di giustificare l'aggressione verso gli operatori della stampa.
[21] Il culmine della battaglia intrapresa dagli USA contro la Corte penale è stato raggiunto nello scorso mese di giugno con la promulgazione, da parte del Presidente Trump, dell’Executive Order on Blocking Property of Certain Persons Associated with the International Criminal Court, cui ha fatto seguito, il 2 settembre, l’imposizione di specifiche sanzioni a carico del Procuratore della Corte penale, la signora Fatou Bensouda, e del capo della Divisione Jurisdiction, Complementarity and Cooperation, Phakiso Mochochoko. In particolare, l’Executive Order prevede la possibilità di assumere misure come il congelamento di fondi e beni, presenti negli Stati Uniti, di proprietà di funzionari della Corte penale, nonché di ogni cittadino straniero che abbia collaborato con la Corte nelle indagini contro personale degli USA o di Stati “alleati” degli USA4 ; è, altresì, prevista la restrizione dei visti di ingresso negli Stati Uniti per i funzionari della Corte, coinvolti in siffatte indagini o destinatari dei suddetti provvedimenti sanzionatori, e per i loro familiari. Su tali basi, il provvedimento attuativo ha disposto l’iscrizione dei suddetti nominativi nella black list elaborata dal Treasury Department’s Office of Foreign Assets Control (OFAC) e la conseguente imposizione delle misure restrittive nei loro confronti. https://www.osorin.it/uploads/model_4/.files/40_item_2.pdf?v=1602149227 Le sanzioni statunitensi contro la Corte penale internazionale Egeria Nalin
[22] lo Statuto di Roma è il trattato internazionale adottato il 17 luglio 1998 che ha istituito la Corte Penale Internazionale (CPI). La CPI è un'istituzione permanente con sede all'Aia, competente a perseguire e giudicare competente a perseguire e giudicare il genocidio, i crimini contro l'umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione, ma solo quando le autorità nazionali non sono in grado o non intendono perseguire tali reati
[23] In data 21 novembre 2024, la I Camera predibattimentale della Corte penale internazionale ha respinto i ricorsi presentati dallo Stato di Israele ex artt. 18 e 19 dello Statuto di Roma per ottenere una nuova notifica dell’avvio dell’indagine da parte del Procuratore e per far valere il difetto di giurisdizione della Corte. Inoltre, sono stati emessi i mandati di arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant per crimini contro l’umanità (omicidio, persecuzione e altri atti disumani) e crimini di guerra (fame come metodo di guerra e direzione intenzionale di un attacco contro la popolazione civile) commessi (almeno) dall’8 ottobre 2023 fino ad (almeno) il 20 maggio 2024. https://images.processopenaleegiustizia.it/f/sentenze/documento_e7qj4_ppg.pdf
[23] https://www.avvenire.it/mondo/pagine/chi-era-sinwar
[24] ll diritto internazionale impone che non si possano riconoscere effetti giuridici ad annessioni territoriali illecite, di conseguenza è illecito qualsiasi riconoscimento di sovranità territoriale israeliana sul mare antistante Gaza. A riguardo la Corte internazionale di giustizia (International Court of Justice, Legal Consequences arising from the Policies and Practices of Israel in the Occupied Palestinian Territory, including East Jerusalem, Avisory Opinion, 19 July 2024), ha chiarito che «Israele non ha diritto alla sovranità su alcuna parte del Territorio palestinese occupato e non possa esercitarvi poteri sovrani in virtù della sua occupazione» (§ 254). La Corte ha così ha affermato l’obbligo di Israele di «mettere fine alla sua presenza illecita nel più breve tempo possibile» (§ 267), ma ha anche affermato per tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, e quindi ovviamente anche per lo Stato Italiano, l’obbligo di non riconoscere in alcun modo la presenza illecita di Israele nei Territori Palestinesi e di non attribuire alcuna conseguenza giuridica alla situazione creata da Israele con l’occupazione illecita; inoltre tutti gli Stati devono «vigilare affinché sia posto fine a ogni ostacolo all’esercizio del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione derivante dalla presenza illecita di Israele nel Territorio palestinese occupato» (§§ 278, 279). Facendo seguito a tali conclusioni l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con Risoluzione del 13 settembre 2024 (A/ES-10/L.31/Rev.1) ha imposto ad Israele un termine massimo di 12 mesi (scaduti quindi il 13 settembre 2025) per cessare l’occupazione illecita, ribadendo il divieto per tutti gli Stati di riconoscere effetti legali all’occupazione.
[25] È arrivata la sanzione ufficiale del ministero degli Esteri israeliano, che ha scritto su X: «Questa non è una missione umanitaria. È un’iniziativa jihadista a servizio dell’agenda del gruppo terrorista ». Il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, ha presentato ieri alla stampa i piani israeliani per la gestione della Global Sumud flotilla. I volontari che tentano di rompere il blocco israeliano su Gaza, navigando in maniera pacifica in acque internazionali, verranno trattati come fossero terroristi. Il leader suprematista di estrema destra ha minacciato di arrestare tutti i partecipanti alla missione e gettarli nelle prigioni di massima sicurezza di Ketziot e Damon. Crede che privarli della libertà e tenerli in isolamento possa spezzare la loro volontà e insieme impedire che altre imbarcazioni seguano l’esempio. «Non permetteremo alle persone che sostengono il terrorismo di vivere nell’agiatezza – ha dichiarato il capo di Potere ebraico – Affronteranno tutte le conseguenze delle loro azioni».
[26] Un gruppo politico che non esiste. Un reato che non esiste. Sono questi gli oggetti dell’ultimo ordine esecutivo di Donald Trump, che designa Antifa come “organizzazione terroristica interna”, accusata di aver organizzato una serie di violenze – tra cui rivolte, attacchi alle forze dell’ordine e doxing (diffusione di dati sensibili) – con l’obiettivo di “rovesciare il governo degli Stati Uniti”. L’ordine chiede a tutte le agenzie federali competenti di “indagare e smantellare” qualsiasi attività illegale associata ad Antifa o a coloro che la sostengono. La genericità del linguaggio utilizzato nell’ordine, i suoi scarsi fondamenti legali, creano in queste ore particolare preoccupazione. L’ordine, che di fatto renderebbe illegale ogni forma di antifascismo negli Stati Uniti, appare a molti come un passo ulteriore nell’offensiva dell’amministrazione contro dissenso e avversari politici.
[27] “È incomprensibile e scandaloso che l’Eurocamera legittimi il terrorismo di estrema sinistra – ha scritto su X il portavoce del governo ungherese Zoltan Kovacs -. Salis e i suoi si sono recati in Ungheria con l’obiettivo premeditato di picchiare a caso la gente per strada, per convinzione politica. Non è una questione politica, ma di terrorismo” Balazs Orban, direttore politico dell’ufficio del premier Viktor Orban, legando la critica alla decisione di Donald Trump di dichiarare “terrorista” il movimento Antifa. “Antifa non è un movimento politico, ma un’organizzazione violenta. L’obiettivo dell’Ungheria è chiaro: pace e sicurezza per i nostri cittadini. I gruppi Antifa rappresentano l’opposto: in tutta l’Europa e negli Stati Uniti abbiamo visto l’attivismo trasformarsi in violenza di strada, intimidazioni e caos. Ecco perché abbiamo deciso, seguendo l’esempio degli Stati Uniti, di designare Antifa come organizzazione terroristica in Ungheria”, ha scritto Orban su X.
[28] Il prof. Branco nel corso dell’iniziativa nella quale alla Sapienza è stata data voce all’editore del libro di Yahya Sinwar ha ricordato il dialogo tra Alessandro Magno e il Pirata nel De civitate Dei di Agostino: «Il re gli chiese che idea gli era venuta in testa per infestare il mare. E quegli con franca spavalderia: “La stessa che a te per infestare il mondo intero; ma io sono considerato un pirata perché lo faccio con un piccolo naviglio, tu un condottiero perché lo fai con una grande flotta”».
[29] Nel maggio 2024 la Corte Penale Internazionale ha chiesto l'arresto dei leader di Hamas Yahya Sinwar, Ismāʿīl Haniyeh e Mohammed Deif, per crimini di guerra e contro l'umanità, nella stessa occasione in cui analoga richiesta veniva fatta per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant.[42][43]
Lo status di Ḥamās varia a seconda dei i Paesi: è considerata un'organizzazione terroristica da Unione europea,[79] Stati Uniti,[80] Israele,[81] Canada,[82] Regno Unito,[83] Australia,[84] Nuova Zelanda,[85] Giappone,[86] l'Organizzazione degli Stati Americani,[87] Argentina[88] e, a seguito del 7 ottobre 2023, dalla Svizzera,[89] mentre il Paraguay classifica come tale solo la sua ala militare.
[30] Andreotti nel discorso al Senato ha esposto una posizione che ha ispirato quasi mezzo secolo di politica estera «realista» all’italiana. La linea italiana di politica estera disse in quell’occasione Andreotti, «prescinde dal carattere strutturale del governo, perché è nata nel ‘70 a Venezia, quando per la prima volta si parlò della necessità di dialogo tra israeliani e palestinesi». Andreotti ha ricordato che nel ‘48 l’Onu ha creato lo Stato di Israele e lo stato arabo, ma «lo stato di Israele esiste, lo stato arabo no».
[31] https://www.affarinternazionali.it/il-piano-di-pace-in-20-punti-di-trump-per-gaza/
[32] Licia Fierro, C’è un modo per liberare gli uomini dalla “fatalità della guerra”?, su Questa Rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3620-liberare-gli-uomini-dalla-fatalita-della-guerra-licia-fierro
[33] La Camera preliminare I della Corte penale internazionale (CPI) ha emesso due decisioni cruciali per la situazione nello Stato di Palestina. All’unanimità, la Camera ha respinto le richieste presentate da Israele ai sensi degli articoli 18 e 19 dello Statuto di Roma e ha emesso mandati di arresto per il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant.
Israele aveva contestato la giurisdizione della Corte sulla situazione in Palestina e sui cittadini israeliani, richiedendo anche che la Procura notificasse nuovamente l’avvio dell’indagine. Tuttavia, la Camera ha stabilito che la giurisdizione territoriale della Corte si estende alla Palestina, come precedentemente deciso, e ha ritenuto prematura la contestazione di Israele, poiché lo Statuto non consente tale ricorso prima dell’emissione di un mandato di arresto.
Quanto alla richiesta di una nuova notifica dell’indagine, la Corte ha ricordato che Israele era stato informato nel 2021 e aveva scelto di non agire in quella fase. Pertanto, non vi erano ragioni per sospendere i procedimenti in corso, inclusi i mandati di arresto per Netanyahu e Gallant.
I mandati di arresto emessi riguardano presunti crimini commessi dai due esponenti politici israeliani, tra l’8 ottobre 2023 e il 20 maggio 2024, durante il conflitto in Gaza. La Camera preliminare ha riscontrato fondati motivi per accusare Netanyahu e Gallant di crimini contro l’umanità e crimine di guerra.
Secondo la Corte, Netanyahu e Gallant hanno agito consapevolmente per impedire aiuti umanitari, violando il diritto internazionale umanitario. Tali azioni avrebbero causato malnutrizione, disidratazione e sofferenze gravi alla popolazione civile, con un impatto devastante su ospedali e infrastrutture essenziali. La Camera ha sottolineato che le restrizioni erano motivate politicamente e non da necessità militari.
Queste decisioni segnano un importante sviluppo nei procedimenti della CPI e pongono ulteriori interrogativi sulla responsabilità e il rispetto del diritto internazionale nel conflitto israelo-palestinese.
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