ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Consiglio giudiziario, questo sconosciuto
di Marcello Basilico
Sommario: 1. Premessa - 2. C’era una volta l’autogoverno “dal basso e condiviso” - 3. La riforma del 2006 nei fatti - 4. Ritornelli irrisolti e potenzialità inespresse - 5. La partecipazione allargata - 6. Il Consiglio giudiziario del futuro.
1. Premessa
Nella visione del legislatore il Consiglio giudiziario rappresenta lo snodo generale di collegamento tra territorio e vertice centralizzato delle decisioni in materia ordinamentale. Quanto agli incarichi direttivi e semidirettivi, in particolare, nel momento in cui il parametro dell’anzianità è stato fortemente ridimensionato, divenendo criterio di legittimazione e non più di selezione, si è reso necessario acquisire in sede locale una pluralità di elementi di conoscenza sulla figura del candidato, per consentire al Consiglio Superiore della Magistratura di valutare appieno l’attitudine e il merito.
Questi due parametri hanno esteso da un lato la discrezionalità della scelta di conferimento e avviato dall’altro la messa in discussione della concezione tradizionale della dirigenza nell’ambito giudiziario.
Il Consiglio giudiziario, identificato come l’organo consultivo deputato alla raccolta del materiale informativo essenziale, si è trovato al centro di questo mutamento normativo e prospettico. Esso, attraverso le proprie scelte istruttorie e le tecniche di redazione dei pareri, ha avuto l’occasione per rendersi interprete della riforma intrapresa nel 2005[1].
Nell’iter per il conferimento o la conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi, la funzione consultiva è resa particolare dal fatto che per lo stesso incarico direttivo o semidirettivo le candidature possono provenire – e di fatto solitamente provengono – da candidati di territori diversi. Regola vuole pertanto che il relativo procedimento sia partecipato da più Consigli giudiziari: i pareri confluiscono dunque al Consiglio Superiore della Magistratura da sedi differenti. La consultazione è dunque plurale.
Ci si potrebbe attendere pertanto che una delle principali difficoltà che incontri il CSM nell’esprimere la preferenza per il candidato più idoneo all’incarico venga dalla comparazione di profili professionali delineati diversamente, perché prevedibilmente diversa è risultata l’impostazione del parere attitudinale specifico per ciascun organo di provenienza, influenzato da prassi istruttorie e inclinazioni valutative eterogenee.
Vi sarebbe quindi da sorprendersi appurando che questo è invece l’unico problema insussistente: grazie al modello predisposto dal CSM, i pareri sono improntati tutti alla stessa logica ricognitiva, alla stessa selezione delle fonti, persino allo stesso lessico, indipendentemente dalla provenienza. Ci si potrebbe dunque compiacere del rigore con cui ciascun Consiglio giudiziario abbia saputo adattare tecnica e contenuti all’impronta uniformante centralizzata. Se però il risultato finale è quello di un’uniformità tendente all’appiattimento, così da rendere quasi indistinguibili i giudizi sui diversi candidati, al compiacimento non possono che subentrare lo sconcerto e, nel corso degli anni, la frustrazione per un’attività tanto laboriosa quanto improduttiva.
Un’analisi realistica del ruolo del Consiglio giudiziario nella valutazione attitudinale per le funzioni direttive e semi-direttive non può che muovere da una simile, amara constatazione, le cui cause sono difficili da comprendere, per la molteplicità dei fattori che vi hanno concorso nel corso di decenni di applicazione di un corpo normativo complesso, stratificatosi nel tempo.
2. C’era una volta l’autogoverno “dal basso e condiviso”
La riforma del biennio 2006-2007[2] ha incrementato notevolmente le competenze del Comitato Direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari, in collegamento con le verifiche individuali imposte dal nuovo ordinamento, a cominciare dalle valutazioni quadriennali[3]. E’ stato così attuato un decentramento in sé auspicato da tempo.
Lo stesso Consiglio Superiore aveva da tempo riconosciuto che “il modello di autogoverno della magistratura sin qui sperimentato, imperniato su un centro unico ed assolutamente preminente – il Csm – non è più sufficiente, da solo, a soddisfare le molteplici esigenze di una moderna ed efficiente amministrazione della giurisdizione”[4].
Tra le principali novità della riforma sulle valutazioni di professionalità vanno ricordate l’enumerazione puntigliosa dei “parametri oggettivi” su cui motivare i pareri, l’acquisizione obbligatoria di provvedimenti e verbali a campione del magistrato nonché dell’auto relazione dell’interessato e l’individuazione, per ciascuna funzione, di standard medi di definizione dei procedimenti; l’integrazione possibile dell’istruttoria mediante fonti non tipizzate nonché con l’assunzione d’informazioni, comprese segnalazioni su fatti specifici provenienti dal consiglio dell’ordine degli avvocati, tramite il rapporto del dirigente dell’ufficio o su iniziativa del Consiglio giudiziario stesso.
Soppressa nel 2007 la competenza specifica relativa alla vigilanza sul comportamento dei magistrati, con obbligo di segnalazione dei fatti rilevanti ai fini disciplinari, della riforma dell’anno precedente è rimasta la più generale e qualificante vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari del distretto, orientata evidentemente ai profili dell’organizzazione, tanto da giustificare, in caso di “disfunzioni nell’andamento di un ufficio”, la segnalazione al Ministero della giustizia[5].
In questo quadro s’innesta il controllo devoluto al Consiglio giudiziario sui provvedimenti organizzativi periodici o modificativi degli assetti ordinari, i quali comprendono i dati sui carichi di lavoro e sui flussi degli affari nei singoli uffici.
Per il numero delle competenze e l’ampiezza dei poteri di accertamento attribuiti il Consiglio giudiziario (e non di meno il Comitato direttivo presso la Cassazione) catalizza insomma un complesso di conoscenze inestimabili sul profilo dei magistrati addetti o aspiranti alla direzione di un ufficio, giudicante e requirente, o di una sezione del suo distretto.
La centralità conferita all’auto relazione e la possibilità di avvalersi di fonti informative individuali, anche con un’attività istruttoria che ammette l’audizione di singoli componenti dell’ufficio, hanno indotto a suo tempo i più a formulare previsioni di evoluzione del governo autonomo locale nella direzione di una diffusa partecipazione, che avrebbe coinvolto in varia misura i magistrati del territorio, oltre alle categorie che hanno trovato rappresentanza nel Consiglio.
L’ampliamento delle sue conoscenze e dei suoi poteri istruttori hanno focalizzato nell’organo distrettuale un ruolo determinante nella “sfida su cui si misurerà la capacità della magistratura di operare un reale controllo sulla professionalità dei magistrati, sull’efficienza degli uffici, sul rispetto delle regole. Ma sarà più ancora la vera sfida per l’eliminazione delle incrostazioni corporative ed autoreferenziali di cui la magistratura viene, in talune circostanze, a ragione accusata”[6].
3. Il risultato concreto della riforma del 2006
Il procedimento per la valutazione di professionalità è regolato dalla legge in modo molto asciutto, senza che la valutazione di professionalità per gli incarichi dirigenziali sia distinta da quelle periodiche generali[7]. In attuazione della delega legislativa, riguardante anche la disciplina degli elementi per i giudizi rimessi ai Consigli giudiziari[8], il CSM ha predisposto un corpus normativo ripetutamente aggiornato e comunque integrato da deliberazioni aggiuntive, risposte a quesiti, protocolli e modulistica[9].
Il materiale a disposizione per la formulazione di un parere individualizzato, misurato sulla figura del singolo magistrato e denso di elementi di conoscenza non manca. E’ pur vero che i mestiere di giudice o pubblico ministero richiedono professionalità ben distanti da quella necessaria a dirigere un ufficio; perciò non può che risultare difficile pronosticare l’attitudine organizzativa concreta nei confronti di quanti non abbiano avuto esperienze di direzione o di coordinamento.
Ma se ad un buon magistrato non corrisponde necessariamente un buon organizzatore dell’attività altrui, il primo elemento è comunque condizione necessaria del secondo: è buon magistrato chi dimostri di sapere, tra le altre cose, anche gestire e programmare la propria attività. Dall’auto relazione, dai dati statistici, dall’adempimento dei singoli incarichi individuali ricevuti nel corso della vita professionale, dai risultati dell’attività giurisdizionale in coincidenza con situazioni critiche o particolari che ricorrono nell’esperienza comune si possono trarre tracce indicative della propensione, dell’attenzione e, prima ancora, dell’interesse espresso verso l’organizzazione.
Si aggiunga che da tempo ormai il CSM richiede all’aspirante dirigente la predisposizione di un progetto organizzativo dell’ufficio di destinazione[10]: Operando in un distretto diverso, il Consiglio giudiziario potrebbe non conoscere quell’ufficio; ma è da supporre che in linea generale sia ragionevolmente in grado di apprezzare la ragionevolezza delle soluzioni proposte nel progetto, la loro logicità rispetto alle premesse fattuali, il livello di approfondimento della conoscenza dell’assetto esistente nell’ufficio.
Sembra impossibile dunque che da cotanto materiale non possa sortire un atto che fotografi magari con approssimazione, ma in modo personalizzato e riconoscibile l’attitudine e financo la personalità del magistrato candidato. Eppure la realtà dice il contrario.
La sconfortata vulgata comune dei componenti non solo del CSM, ma dei Consigli giudiziari stessi è che i pareri attitudinali sono muti, incapaci per lo più di differenziare la figura di un candidato rispetto a quella dei suoi concorrenti, salvo che non nell’elenco formale degli incarichi assunti, ormai amaramente accomunati nel termine “medagliette”, rivelatore dell’assoluta sfiducia con cui questi sono valutati nel concreto.
I pareri vengono visti come stolidamente tributari dei rapporti dei dirigenti, a loro volta spesso appiattiti sull’autorelazione e quasi sempre positivi, se non “sperticatamente elogiativi”[11]. Dunque, una volta che sia stata completata la faticosa raccolta delle risultanze delle fonti informative, la funzione valutativa affidata ai Consigli giudiziari, la quale implica il vaglio di atti e di esperienze dell’interessato e l’espressione di un relativo giudizio critico, viene a confondersi con un’operazione molto più fiacca e, per il candidato medio, rassicurante: l’apposizione ai termini che dovrebbero descrivere le sue esperienze di aggettivi o avverbi di segno immancabilmente positivo o addirittura encomiastici.
È del resto significativo che nella prima intervista di questa rubrica monografica nessuno dei tre componenti del CSM abbia menzionato i pareri dei Consigli giudiziari come fonti di rilievo per la nomina o la conferma di direttivi o semidirettivi: si è andati al contrario da chi ha individuato nell’autorelazione del candidato l’elemento saliente di conoscenza a chi, più drasticamente, affermato che “i pareri dei Consigli giudiziari sono sempre positivi a non segnalano alcuna criticità”[12].
La comparazione degli aspiranti nel concorso per una funzione direttiva o semidirettiva finisce per diventare impossibile, giocata su sfumature che poco hanno a che vedere con l’esercizio di una discrezionalità basata sugli esiti del raffronto tra le caratteristiche umane e professionali e la posizione da ricoprire. Motivare l’atto di conferimento dell’incarico diventa impresa giocoforza difficile e scivolosa, tanto più a fronte se misurata su parametri tanto numerosi e articolati quanto modesti nella portata definitoria.
Malgrado gli sforzi vistosi che traspaiono dai provvedimenti, risulta complicato garantire in tal modo il buon andamento e l’efficacia del governo autonomo della magistratura. L’appiattimento delle valutazioni diviene quindi l’anticamera delle doglianze di chi si ritiene pretermesso e del sindacato del giudice amministrativo sul provvedimento consiliare.
Il discorso potrebbe variare in una certa misura per le conferme alla scadenza del primo quadriennio di esercizio dell’incarico. La disponibilità di provvedimenti organizzativi e il controllo che questi consentono sull’attitudine organizzativa fa sì che nel giudizio del Consiglio giudiziario la diagnosi possa prevalere sulla prognosi. Ciò malgrado l’opinione che identifica la scadenza quadriennale come un passaggio dall’esito quasi scontato non trova smentita nella statistica o negli interventi dei componenti del CSM né risulta l’esistenza di un orientamento decisionale di sistematico favore che travolga i pareri negativi dell’organo periferico.
V’è dunque una consequenziale discrasia tra le criticità diffusamente attribuite alla direzione di molti uffici giudiziari[13] e i risultati del procedimento di conferma.
4. Ritornelli irrisolti e potenzialità inespresse
Malgrado la centralità assegnata loro dalla riforma del 2006-2007, manca tuttora un’analisi sulla struttura e sull’operato dei Consigli giudiziari che vada al di là di qualche contributo dottrinale, isolato per quanto illuminato.
Della direzione degli uffici giudiziari si discute essenzialmente in riferimento ai poteri e, di conseguenza, alla natura delle funzioni del CSM, all’interferenza nelle scelte delle correnti dell’ANM, al modello di dirigente, alla latitudine del ruolo gerarchico del procuratore della Repubblica e, più di recente, alla partecipazione degli avvocati nelle valutazioni.
Quasi paradossalmente le ragioni dell’inadeguatezza dell’operato dei Consigli giudiziari restano invece sottotraccia e inesplorate, confinate in un dibattito per pochi iniziati, quasi che l’idea dell’autogoverno esteso ai territori e alla base dei magistrati appartenesse alla sfera dei principi desiderabili, ma illusori.
Il sistema informatico del CSM non è predisposto per estrapolare dei dati sul numero pareri negativi pervenuti in un periodo predeterminato in ordine alle conferme per funzioni direttive o semi-direttive. Men che meno dispone di dati sui pareri relativi ai nuovi incarichi o sugli scostamenti delle decisioni consiliari rispetto alle valutazioni dei CG. Mancando quindi una base oggettiva ed estesa a tutti i Consigli giudiziari da cui muovere, la riflessione sul loro operato si sposta necessariamente sulle questioni teoriche aperte.
Si è detto del recepimento acritico nei pareri del rapporto del dirigente o dell’eccesso di aggettivazione. Ma sono anche altri i temi perennemente all’ordine del giorno di quel dibattito di retroguardia: il diritto di tribuna degli avvocati; l’indagine sui risultati effettivi degli incarichi assolti dal magistrato; l’acquisizione di notizie sul suo conto per iniziativa autonoma del Consiglio giudiziario; l’an, il quando e il quomodo dell’attività istruttoria.
Se ne discute da lustri e la stanchezza non ha ancora prevalso grazie ai sussulti che periodicamente rianimano il confronto, sul piano nazionale in presenza di qualche impulso formatore e a livello locale a ogni rinnovo dei Consigli, come se ciascun organo, cambiando i componenti eletti, perdesse la memoria delle esperienze acquisite e delle prassi maturate nei quadrienni precedenti e tanto meno fosse in grado di riconoscere quelle di altri distretti.
La ripetitività delle questioni in assenza di soluzioni comuni – rese difficili dal permanere di sensibilità distanti tra loro su ciascun punto – rischia di sterilizzare la carica ideale che le accompagna e presta il fianco ad interventi legislativi che, come dimostrano molti dei progetti presentati nel tempo, si rivelano incapaci di cogliere la ricaduta effettiva d’una riforma sugli equilibri delicati dell’ordinamento giudiziario.
Ricette condivise sono difficili da trovare. Si va da chi ritiene che i Consigli giudiziari non abbiano né le fonti di conoscenza né la capacità per valutarle[14], a chi reputa invece che un modo corretto – ma purtroppo quasi ignorato – di esercitare le funzioni di consigliere giudiziario renderebbe i pareri davvero selettivi[15], a chi non intende comunque abbandonare la ricerca delle prassi e degli interventi che ne vivifichino una rilevanza mai sopita[16].
I risultati del governo della magistratura dirigente hanno generato un’insoddisfazione quasi generalizzata, pur se fondata su ragioni diversificate. In ogni caso essa è talmente radicata da richiedere un’analisi molto netta. Restando all’esperienza dei Consigli giudiziari occorre mettere a fuoco i fattori molteplici che hanno portato a quei risultati.
I primi sono di ordine culturale. E’ invalsa nei magistrati – occorre ammetterlo – una certa pigrizia nell’estensione dei provvedimenti giudiziari[17], basata su una tecnica ripetitiva, su un lessico e su una sintassi troppo spesso distanti dalle esigenze di chiarezza del testo. Questo difetto si accentua fatalmente nel parere redatto in sede di Consiglio giudiziario: le sue fonti non vengono raccolte, così come avviene invece nel processo, personalmente dal redattore, ma provengono invece da meccanismi automatici di acquisizione. L’organo collegiale e il componente nominato relatore sovente gli si approcciano con un contegno d’istintiva difesa verso l’interessato: sia perché questi è pur sempre un collega e di solito un diretto conoscente sia perché al parere è estranea la comparazione con gli altri candidati.
Il parere finisce così per essere predisposto senza mirare all’obiettivo di selezione cui è diretto. Il distacco tra fonti d’informazione e procedura cui sono destinate induce perciò un atteggiamento di passività[18], che si riflette sul contenuto dell’atto che il CSM riceve dal Consiglio giudiziario.
Nell’esperienza comune la domanda per l’incarico direttivo è preceduta da alcune esperienze avute dal candidato in incarichi semidirettivi e di collaborazione (deleghe del presidente o del procuratore; coordinamento dei magistrati in tirocinio; referente per l’informatica nell’ufficio; componente della Commissione flussi presso il Consiglio giudiziario; responsabile della formazione; ecc.). Quasi mai si hanno però riscontri sui risultati dell’attività svolta adempiendo a questi incarichi. Una delle falle principali del sistema vigente è data dall’assenza di metodi verifica che riguardino non si dice la qualità del servizio, ma almeno l’assiduità di chi vi è stato addetto.
L’incarico di collaborazione diventa così un titolo acquisito automaticamente col suo conferimento, che ciò nulla dica in realtà sui meriti dell’interessato.
Le fonti d’informazione tratte dall’attività giurisdizionale non hanno un rilievo molto superiore: le statistiche comparate possono essere lette in modi molteplici e alternativi; le notizie sulle sentenze pronunciate o sulle indagini condotte possono dire ben poco dell’attitudine organizzativa.
I contenuti degli atti istruttori vengono dunque raccolti e trasferiti acriticamente nel testo del parere, andando a comporre un elaborato più o meno denso di elementi privi di una concreta utilità allo scopo. La personalità del magistrato, la sua predisposizione a coordinare l’attività di molte persone, la capacità di prendere posizione in situazioni critiche e, più in generale, ad adottare decisioni efficaci per la funzionalità di un ufficio giudiziario rappresentano dei connotati sui quali l’attività del Consiglio giudiziario non prende, di fatto, posizione.
Eppure le basi per fare meglio ci sarebbero.
L’autorelazione è un atto potenzialmente rivelatore di indici significativi: dimostra se l’interessato sia ripiegato in una visione individualistica della funzione o se abbia una consapevolezza delle esigenze generali del servizio; evidenzia i p.m. attenti solo alle indagini o anche al loro esito processuale, se un giudice organizzi il proprio ruolo solamente per produrre di più oppure per elevare la qualità delle decisioni e collegare la propria attività a quella dell’ufficio o della sezione; spiega in che misura l’adempimento d’incarichi precedenti sia stato inserito in una visione di sistema.
I risultati dei progetti organizzativi precedenti – per chi abbia già svolto funzioni direttive – dovrebbero costituire apporti fondamentali tanto ravvisare i presupposti della riconferma quanto per la valutazione relativa a nuovi incarichi.
La vigilanza affidata al Consiglio giudiziario è un’occasione di avvicinamento alla realtà degli uffici del distretto. Le segnalazioni raccolte, i contatti coi magistrati locali, lo studio congiunto di rimedi alle eventuali disfunzioni, l’esame delle soluzioni organizzative che pur non abbiano rilevanza tabellare costituiscono altre fonti d’informazioni che dovrebbero rivelarsi utili anche per i pareri attitudinali specifici.
Se opportunamente regolamentate e riferite con trasparenza, anche le notizie apprese direttamente o indirettamente dai consiglieri giudiziari possono avere un rilievo importante.
Va ricordato che “alla scadenza del periodo di valutazione” il Consiglio giudiziario è ammesso ad acquisire e valutare “le informazioni disponibili presso il Consiglio superiore della magistratura e il Ministero della giustizia anche per quanto attiene agli eventuali rilievi di natura contabile e disciplinare, ferma restando l’autonoma possibilità di ogni membro del consiglio giudiziario di accedere a tutti gli atti che si trovino nella fase pubblica del processo per valutarne l’utilizzazione in sede di consiglio giudiziario”[19].
È prevista dunque una facoltà autonoma del singolo consigliere giudiziario di acquisire atti anche di un procedimento penale, purché in fase pubblica. Ciò non implica l’automatico utilizzo dell’atto da parte del Consiglio, poiché a tale fine occorre una sua delibera[20].
Per altro verso un potere d’ufficio di assunzione d’informazioni è riconosciuto all’intero Consiglio giudiziario. In tal caso il magistrato in valutazione ha diritto, all’esito dell’istruttoria, di riceverne comunicazione dal Consiglio, prendere visione ed estrarre copia dei relativi atti.
L’esercizio di questi poteri officiosi è eccezionale, quasi sempre riconducibile alla notizia pubblica di fatti di reato o ai più rari casi di segnalazioni di singoli magistrati in servizio nel distretto. E’ d’altronde intuitivo che il Consiglio giudiziario non veda motivo di assumere iniziative quando non sia conoscenza dell’esistenza di notizie rilevanti presso il CSM o il Ministero.
Si registra così un cortocircuito comunicativo, che peraltro talvolta arriva a risultati apparentemente inspiegabili. Vi sono stati casi di conversazioni di magistrati pubblicate più volte dalla stampa – su tutte quelle delle cosiddette chat di Luca Palamara – sfociati in procedimenti disciplinari davanti al CSM degli stessi soggetti, senza che il Consiglio giudiziario, valutando gli stessi soggetti per incarichi direttivi, ne abbia tenuto alcun conto perché all’oscuro formalmente della loro esistenza.
Il tema è indubbiamente delicato per il rischio intuitivo di strumentalizzazione di fonti incontrollate. Sino a oggi, però, si è caduti quasi sempre nell’eccesso opposto, rappresentato dal silenzio totale su fatti notori, una volta che il presidente ne abbia taciuto all’interno nel proprio rapporto e che essi non siano entrati a fare parte per altra via del materiale istruttorio.
È bene chiarire che con ciò non si vuole certo avallare una torsione in senso inquisitorio dell’operato del Consiglio giudiziario. Si tratta piuttosto di stabilire una volta per tutte di quali atti esso possa disporre e in che misura il parere che gli è affidato debba davvero esprimersi sulle capacità del magistrato di essere un dirigente capace, affidabile e credibile.
5. La partecipazione degli avvocati
Tra le occasioni perdute della stagione successiva alla riforma 2006-2007 v’è quella di una proficua collaborazione con l’Avvocatura. Divenuta componente stabile del Consiglio giudiziario, seppure nell’assetto dedicato esclusivamente alle competenze d’ordine organizzativo, essa ha avuto modo comunque di fornire un contributo rilevante anche sulle valutazioni di professionalità, poiché i loro ordini professionali locali rientrano tra le fonti tipizzate d’informazioni su fatti specifici[21].
A conti fatti purtroppo si hanno esempi molto ridotti di contributi in tal senso. L’esperienza di chi ha fatto parte o fa parte tuttora dei Consigli giudiziari è di un’Avvocatura pressoché silente pure sulla casistica di magistrati particolarmente controversi (e criticati nei corridoi dei palazzi) nei rispettivi distretti. Neppure si ha notizia di segnalazioni effettuate a seguito delle audizioni dei presidenti dei Consigli dell’ordine sentiti dal CSM nelle pratiche per eventuale trasferimento d’ufficio.
Sui controlli di professionalità in definitiva le istituzioni dell’Avvocatura non hanno sino a oggi espresso una visibile volontà di partecipazione.
È mancato, più in generale, un apporto corale e consapevole al governo della giustizia, tanto che anche rispetto all’organizzazione degli uffici giudiziari gli apporti sono stati sporadici e prevalentemente di carattere censorio. La stessa designazione dei componenti da parte dei Consigli dell’ordine avviene generalmente senza che vi sia una platea di aspiranti ampia e nota nel distretto: chi vi è chiamato, spesso vi partecipa più per spirito di servizio verso il proprio ordine professionale che per reale convincimento dell’utilità della funzione svolta.
È innegabile del resto che l’Avvocatura stessa sia oggi attraversata da problematiche pressanti, legate a fattori di cambiamento che rischiano di stravolgerne la fisionomia. La marginalità del suo contributo si deve dunque in parte imputare alla responsabilità anche della magistratura, incapace, in quel contesto, di fare apprezzare agli avvocati le prospettive dei concreti benefici che possono derivare da una collaborazione comune.
Resta il fatto che, per ammissione di chi fa parte di uno dei maggiori Consigli, ancora oggi “sono pochi gli avvocati che sanno cosa sia il Consiglio giudiziario”[22].
Nel quadro descritto la loro partecipazione alle valutazioni di professionalità – una delle questioni più controverse sui temi delle riforme ordinamentali – rischia di avvenire in condizioni non sufficientemente mature.
Va aggiunta un’ulteriore constatazione, relativa alla tendenza di larga parte della componente non togata di aderire quasi per istinto, nelle pratiche in materia tabellare, alle posizioni del presidente della Corte d’appello e del Procuratore generale. E’ possibile che ciò sia conseguenza, almeno in parte, del disorientamento provocato dalla dialettica, talvolta accesa, invalsa tra i magistrati che siedono nei Consigli giudiziari. Traspare comunque l’idea di una concezione dell’assetto della magistratura ancorata a una relazione gerarchica che non si può ovviamente condividere.
Può sembrare superfluo precisare che queste riflessioni sulle tendenze di fondo relative ai risultati dell’ingresso degli avvocati nei Consigli giudiziari non hanno pretesa di assolutezza. Rappresentano il frutto di esperienze dirette e notizie raccolte in incontri periodici con componenti di diversi organi distrettuali, nelle quali v’è spazio anche per alcuni esempi di collaborazione fattiva e d’impulso proficuo all’attività conciliare.
Ma le tendenze meno confortanti, ancora diffuse, hanno nel tempo spiazzato quella stessa parte di magistratura che nei decenni passati aveva perorato la causa della partecipazione degli avvocati al governo autonomo, convinta della necessità di coltivare una comune visione costituzionale della giurisdizione. Una volta che queste aspettative sono andate deluse, il futuro di Consigli giudiziari maggiormente partecipati dall’esterno richiede obiettivamente una ponderazione più profonda e matura, che rifugga peraltro da logiche di parte.
La maturità sta proprio nell’avere il coraggio di guardare con realismo all’esistente, per interrogarsi sulle prospettive effettive di possibili evoluzioni che oggi la stragrande maggioranza della magistratura non accetta. Occorre farlo per evitare che i Consigli giudiziari, soprattutto in alcuni distretti, diventino terreno di scontro tra visioni contrapposte e strumentali (o strumentalizzabili), aprendo così nuovi fronti di contrapposizione sulla giustizia di cui davvero non si avverte il bisogno.
6. Il Consiglio giudiziario del futuro
Il progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario pendente in Parlamento interessa anche i Consigli giudiziari. Il “diritto di tribuna” per avvocati e docenti universitari previsto dal progetto del Ministro Bonafede diventerebbe, a seguito dell’emendamento dell’attuale Governo (n. 3.34), facoltà per i primi di “esprimere un voto unitario .. nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione”.
La proposta fa riferimento alle segnalazioni che dovrebbero essere già pervenute dal Consiglio dell’ordine al dirigente dell’ufficio giudiziario e che, purché riferite “a fatti specifici incidenti sulla professionalità”, attengano “a situazioni eventuali concrete e oggettive di esercizio non indipendente della funzione e ai comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica”[23].
Nell’assenza quasi assoluta di segnalazioni, la nuova norma aggiungerebbe ben poco al controllo di professionalità. Per converso se essa dovesse provocare una vitalità improvvisa dei Consigli dell’ordine sorgerebbero altri rischi, legati evidentemente agli interrogativi sulle ragioni della rinnovata attenzione dell’Avvocatura per questa tematica.
Ulteriori novità concernenti i giudizi di professionalità riguardano l’articolazione del giudizio positivo in “discreto, buono o ottimo con riferimento alla capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro” (già ribattezzato “pagelle” ai magistrati) e la rilevanza delle condanne disciplinari definitive anche per fatti accaduti in un quadriennio precedente a quello in valutazione.
Entrambe le proposte investono il tema degli incarichi direttivi e semidirettivi: la prima più direttamente, poiché riguarda la capacità auto-organizzativa del magistrato; le critiche iniziali dell’ANM si sono appuntate soprattutto sul fatto che la previsione di una pagella alimenterebbe inevitabilmente l’ansia di arrivismo che la riforma vorrebbe invece debellare. Vale la pena cogliere però un altro aspetto di contraddizione, collegato al fatto che, di fronte all’abuso invalso di aggettivazioni roboanti che si constata nei pareri attitudinali, si ricorra proprio ad un crescendo di aggettivi per valutare la capacità del magistrato di organizzarsi, senza tenere conto che tale capacità potrebbe essere stata messa in luce da eventi contingenti specifici (ad esempio un cambio di funzioni, un improvviso vuoto d’organico) in difetto dei quali quella di altri magistrati non ha potuto essere invece sollecitata.
La pendenza (e non solo la condanna) di procedure disciplinari (ma anche per incompatibilità ambientali) tocca un nodo irrisolto dell’operato dei Consigli giudiziari. Essi solitamente ne sono all’oscuro, non avendo strumenti per esserne posti a conoscenza. A sua volta il CSM non è solito adottare comunicazioni al riguardo. Accade pertanto che i primi esprimano valutazioni attitudinali senza sapere di fatti che, anche nella loro stessa storicità, indipendentemente dalla caratura disciplinare, possono assumere rilievo fondamentale. E’ paradossale che proprio l’organo periferico, che potrebbe meglio collocare l’evento nella realtà locale, non possa tenerne conto nel giudizio sulla capacità organizzativa concreta.
Appare quanto mai necessario che la stagione delle riforme riparta dunque da una rinnovata collaborazione tra CSM e Consigli giudiziari, attraverso un dialogo e una circolazione d’informazioni che va certamente procedimentalizzata, ma che non può mancare se si voglia uscire dall’impasse di una consultazione territoriale prevalentemente inutile, quale si dimostra essere quella attuale.
L’esperienza insegna che in un’organizzazione complessa le spinte al cambiamento non sono mai spontanee, ma vengono da fattori esterni o, meglio ancora, dal vertice.
Spetta dunque al CSM – tanto più nel momento in cui urgono segnali di cambiamento – rivitalizzare il contributo dei Consigli giudiziari in primo luogo attraverso un’operazione-trasparenza da troppo tempo reclamata e tuttavia inattuata.
Vi sono almeno quattro direzioni verso cui si può orientare tale operazione. Urge innanzi tutto rendere accessibili in tempo reale le notizie sullo stato di qualsiasi procedimento consiliare: un software neppure troppo sofisticato potrebbe consentire a tutti gli interessati la visione in tempo reale a che punto si trovi una pratica, quali elementi istruttori manchino ancora, quali passaggi ulteriori il suo iter ancora preveda. Si ridurrebbero così drasticamente, tra l’altro, le ragioni per cui il magistrato si trovi costretto a mettersi in contatto personale coi consiglieri o i segretari del CSM, sgravando questi ultimi d’incombenze informative e limitando i pericoli di tentativi indiretti (e talvolta involontari) d’influenzare le decisioni.
Secondariamente ai Consigli giudiziari dovrebbero essere messi a disposizione, nelle parti rilevanti per i pareri di loro competenza, i materiali acquisiti nel sistema ad altri scopi. Ci si riferisce anche ad elementi che siano di portata obiettivamente positiva, come l’elaborazione di una buona prassi, oppure neutri, come l’audizione di un magistrato dell’ufficio del dirigente in valutazione.
Al CSM compete necessariamente la ricerca del punto di equilibro tra gli spazi che ritenga di riconoscere all’organo locale per l’istruttoria e le esigenze di rispetto del segreto istruttorio o della riservatezza del magistrato interessato[24].
Va in terzo luogo risolta la questione della misurazione dell’attività del magistrato. L’affermazione vale in generale per l’attività giurisdizionale, poiché si è compreso che il dato statistico quantitativo non porta di per sé a giudizi probanti sulle capacità del magistrato, quando sia dissociato da parametri che consentano di comprendere la qualità del suo lavoro.
Per la valutazione delle attitudini direttive si pone un problema più specifico, che riguarda il vaglio dei risultati degli incarichi di collaborazione assolti dal magistrato. La rielaborazione del testo unico sulla dirigenza è sul punto ancora incompleta: ai Consigli giudiziari dovrebbero affidarsi strumenti concreti e diversificati di verifica (ad es. raccolta dei giudizi dei destinatari dell’attività; questionari rivolti all’interessato; report specifici; audizioni mirate), che diano garanzia sufficiente di utilità dell’incarico per il bene comune del loro svolgimento e al contempo lo rendano meno appetibile per quanti vi aspirino per mera ambizione personale.
Un’ultima più generale sollecitazione è di ordine spiccatamente culturale. Se davvero si vogliono responsabilizzare i singoli magistrati e indurli a partecipare attivamente al governo autonomo della giustizia sembra necessario che il CSM, quale organo preposto istituzionalmente alla tutela delle garanzie costituzionali della categoria e dei singoli, avvii e mantenga un dialogo costante, fatto di incontri, di trasmissioni di saperi, di formazione specifica che – distintamente da quella della Scuola Superiore – miri a diffondere e a rendere praticati nella giurisdizione l’indipendenza, l’autonomia, l’indipendenza per funzioni, la cura di un servizio che non sia incentrato sulle preoccupazioni disciplinari o performanti, ma abbia a cuore la tutela dei diritti dei cittadini. Solo così il Consiglio giudiziario potrà beneficiare a sua volta di apporti effettivi dagli uffici territoriali e operare senza apparire un controllore occhiuto del lavoro dei magistrati.
[1] Ci si riferisce alla legge delega 150/2005, attuata col d. lgs. 160/2006.
[2] Le competenze del Comitato Direttivo e dei Consigli giudiziari sono state disciplinate dal d. lgs. 25/2006 (rispettivamente agli artt. 7 e 15) e modificate con la legge 111/2007.
[3] Introdotte e disciplinate dall’art. 11 d. lgs. 160/2006.
[4] Delibera del Csm 20 ottobre 1999, Risoluzione sul decentramento dei Consigli giudiziari, p. 2 ss. Per un particolare consuntivo del lavoro di un Consiglio giudiziario nel biennio antecedente la riforma, cfr. D. Ceccarelli, I pareri dei Consigli giudiziari e il Consiglio Superiore della Magistratura, 12 maggio 2005, in www.movimentoperlagiustizia.org, consultato il 4 aprile 2022.
[5] Art. 15, primo comma, lett. d), d. lgs. 25/2006.
[6] Così P. Di Nicola, I poteri istruttori del Consiglio Giudiziario e dei suoi componenti, 1 aprile 2008, in www.movimento perlagiustizia.it, consultato l’8 aprile 2022. Vi si legge anche che “ai Consigli Giudiziari è attribuito un ruolo assai rilevante, specialmente nell’ambito delle valutazioni di professionalità: costruire “dal basso” un patrimonio conoscitivo sul magistrato che seguirà questo in tutta la sua carriera e che consentirà al CSM di svolgere, con cognizione di causa e sulla base di parametri fattuali, il proprio potere decisionale”.
[7] Art. 11, ottavo comma, d. lgs. 160/2006: “Il Consiglio superiore della magistratura procede alla valutazione di professionalità sulla base del parere espresso dal consiglio giudiziario e della relativa documentazione, nonché sulla base dei risultati delle ispezioni ordinarie; può anche assumere ulteriori elementi di conoscenza”.
[8] Art. 11, terzo comma, d. lgs. 160/2006.
[9] A oggi la circolare in materia di conferimenti degli incarichi direttivi e semidirettivi confluita nel cd. Testo unico sulla dirigenza giudiziaria è stata definitivamente aggiornata il 16 giugno 2021. E’ reperibile in www.csmapp.csm.it.
[10] Art. 56 del citato testo unico sulla dirigenza giudiziaria.
[11] Così A. Volpi, La legge sull’ordinamento giudiziario a tredici anni dalla riforma: bilancio e prospettive, relazione per la Scuola Superiore della Magistratura, 8 febbraio 2021.
[12] Cfr. R. Ionta e F. Salvatore, Dirigenza giudiziari: la parola al CSM. Intervista a Alberto Benedetti, Giuseppe Cascini e Loredana Miccichè, 4 aprile 2022, in www.giustiziainsieme.it.
[13] E. Bruti Liberati, La “carriera” in magistratura. Problemi aperti, soluzioni apparenti e soluzioni possibili, 30 marzo 2022, in www.giustiziainsieme.it, pur affermando che nell’ultimo mezzo secolo “il livello medio della dirigenza è cresciuto in una progressione costante e significativa”, riconosce che l’inefficienza diffusa dell’organizzazione giudiziaria.
[14] C. Castelli, La nomina dei dirigenti: problemi dei magistrati o del servizio?, 9 giugno 2020, in www.questionegiustizia.it.
[15] A. Natale, Quali consigli giudiziari, in L’orgoglio dell’autogoverno: una sfida possibile per i 60 anni del Csm, rivista trimestrale di Questione giustizia, 4, 2017.
[16] C. Valori, I consigli giudiziari, dieci anni dopo, 28 novembre 2017, in www.questionegiustizia.it.
[17] Di pigrizia e altri vizi della scrittura dei magistrati parla spesso G. Carofiglio, ad esempio in Con parole precise, Breviario di scrittura civile, 2015, Laterza.
[18] Il termine è impiegato da S. Benvenuti, Il conferimento degli incarichi direttivi. Riflessioni comparate a partire dell’affaire CSM, in Gruppo di Pisa, relazione al seminario Il Consiglio Superiore della magistratura: snodi problematici e prospettive di riforma, 23 ottobre 2020, p. 254.
[19] Art. 11, quarto comma, lett. a), d. lgs. 160/2006.
[20] Cfr. delibera CSM del 21 dicembre 2016.
[21] Art. 11, quarto comma, lett. f), d. lgs. 160/2006.
[22] C. Limentani, Consigli giudiziari: riforma cercasi”, giugno 2021, in www.agorapenale.it, consultato il 12 aprile 2022.
[23] Art. 11, quarto comma, lett. f), d. lgs. 160/2006.
[24] Cfr. P. Serrao d’Aquino, Le valutazioni di professionaità dei magistrati. Parte seconda. I nodi problematici: le fonti di conoscenza, il rapporto con il disciplinare, gli sfasamenti temporali, le modalità espressive, 23 settembre 2020, in www.giustiziainsieme.it.
I nuovi condizionamenti del magistrato e altri che non passano mai.
di Riccardo Ionta
Aderire o non aderire allo sciopero, azione collettiva dell’A.N.M. di sensibilizzazione, è una scelta individuale insindacabile - il che non vuol dire “non criticabile”, avendo effetti collettivi, anche per quella collettività in nome del quale è amministrata la giustizia - l’importante è avere consapevolezza della realtà.
La riforma non modifica l’art. 101 della Costituzione per cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge e non modifica l’art. 107 per cui i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. Non modifica l’art. 104 secondo cui la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere e neppure l’art. 112 secondo cui il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale.
La riforma scolora le norme costituzionali, ne fiacca i principi. Tenta di consegnare la guida della magistratura alle inclinazioni di quel magistrato attento ai numeri, alle relazioni, propenso al carrierismo e di quel dirigente giudiziario - sempre attento ai numeri, alle relazioni - incline al dirigismo.
Un magistrato condizionabile, appartenente ad una magistratura gerarchizzata, è un magistrato debole in balia delle derive di corrente.
Sommario: 1. Il condizionamento del risultato atteso dal dirigente (ovvero del compito assegnato al magistrato); 2. Il condizionamento da parte del capo dell’ufficio e del disciplinare come strumento di organizzazione; 3. Il condizionamento del voto in pagella e del fascicolo dei numeri; 4. Il condizionamento da parte del Ministero della Giustizia; 5. Il condizionamento da parte del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati; 6. Il condizionamento da parte degli altri (e alti) magistrati.
1. Il condizionamento del risultato atteso dal dirigente (ovvero del compito assegnato al magistrato)
1.1 Dal carico esigibile dei magistrati al risultato atteso dal capo dell’ufficio
L’art. 14 comma 1 lett. a) della riforma dispone che nei programmi di gestione* ex art. 37 in luogo dell’attuale carico esigibile** il dirigente giudiziario debba prevedere “l’indicazione, per ciascuna sezione o, in mancanza, per ciascun magistrato, dei risultati attesi*** sulla base dell’accertamento dei dati relativi al quadriennio precedente e di quanto indicato nel programma di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240 [il programma delle attività da svolgersi nel corso dell'anno, redatto dal dirigente giudiziario e da quello amministrativo], e, comunque, nei limiti dei carichi esigibili di lavoro individuati dai competenti organi di autogoverno”
* con il programma per la gestione si determinano prevalentemente gli obiettivi di riduzione dei procedimenti con specifica attenzione all’arretrato patologico la cui sostenibilità è verificata per mezzo del carico esigibile.
** il “carico esigibile” è un dato generale del settore o dell’ufficio – determinato su base statistica e adattato alla realtà - rappresentativo della “capacità di lavoro dei magistrati” che “fisiologicamente consente di coniugare qualità e quantità del lavoro in un dato periodo di tempo, da individuarsi alla luce della concreta situazione dell’ufficio” (così recita la circolare del C.S.M.).
*** il “risultato atteso” è invece un dato anche individuale determinato prevalentemente sulla base delle aspettative del dirigente giudiziario (e in parte anche del dirigente amministrativo). La diversità tra “carico esigibile” e “risultato atteso” appare chiara già dal nome. Il cambio di passo appare evidente dal momento in cui, come si vedrà in seguito, il rispetto da parte del magistrato del risultato atteso è utilizzato per la valutazione della laboriosità nelle valutazioni di professionalità: se il carico esigibile riguarda gli obiettivi di rendimento dell’intero ufficio quindi, il risultato atteso riguarda l’obiettivo di rendimento del singolo magistrato.
1.2 Il risultato atteso dal dirigente e la valutazione della laboriosità
L’art. 3 comma 1 lettera d) dispone che nelle valutazioni di professionalità, il parametro della laboriosità “sia espressamente valutato il rispetto da parte del magistrato di quanto indicato nei programmi annuali di gestione”.
Il dirigente, quindi, assegna il risultato atteso determinando la soglia raggiunta la quale il magistrato è valutabile come laborioso. E’ utile ricordare che l’attuale sistema di conferma dei direttivi è fortemente incentrato sul raggiungimento degli obiettivi numerici di definizione dei procedimenti.
2. Il condizionamento da parte del capo dell’ufficio e il disciplinare come strumento di organizzazione
2.1 Il risultato atteso dal dirigente
Si rimanda a quanto sopra detto, (ma è utile ricordarlo) pertinente anche in questa sede.
2.2 Il disciplinare per omessa collaborazione del magistrato
L’art 11 introduce l’illecito per “l’omessa collaborazione del magistrato nell’attuazione delle misure di cui all’articolo 37, comma 5-bis*, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 [ovvero i programmi di gestione], convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, nonché la reiterazione, all’esito dell’adozione di tali misure, delle condotte che le hanno imposte, se attribuibili al magistrato”.
* il nuovo art. 5-bis sui programmi di gestione prevede, tra le altre cose che “Il capo dell'ufficio, al verificarsi di gravi e reiterati ritardi da parte di uno o più magistrati dell'ufficio, ne accerta le cause e adotta ogni iniziativa idonea a consentirne l'eliminazione, con la predisposizione di piani mirati di smaltimento, anche prevedendo, ove necessario, la sospensione totale o parziale delle assegnazioni e la redistribuzione dei ruoli e dei carichi di lavoro”.
* la norma deve esser letta con attenzione poiché non si rivolge solo al magistrato che cumula ritardi. La stessa infatti consente al capo dell’ufficio di adottare ogni iniziativa idonea che può coinvolgere anche gli altri magistrati dell’ufficio, i quali sono quindi sanzionabili se omettono di “collaborare”.
2.3 Il voto in pagella
Il voto in pagella, di cui al punto successivo, è assegnato primariamente dal dirigente dell’ufficio.
3. Il condizionamento del voto in pagella e del fascicolo dei numeri
3.1. Discreto, buono e ottimo
L’art. 2 comma 1 lettera c): “prevedere che, nell’applicazione del l’articolo 11 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, il giudizio positivo sia articolato, secondo criteri predeterminati, nelle seguenti ulteriori valutazioni: « discreto », « buono » o « ottimo » con riferimento alle capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro”.
3.2 Il fascicolo dei numeri
L’art 3 comma 1 lettera h) prevede che “ai fini delle valutazioni di professionalità…e ai fini delle valutazioni delle attitudini per il conferimento degli incarichi..: 1) prevedere l’istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato, contenente, per ogni anno di attività, i dati statistici e la documentazione necessari per valutare il complesso dell’attività svolta, compresa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio, nonché ogni altro elemento richiesto ai fini della valutazione”
3.3 Un voto anche per l’aspirante dirigente
L’art. 10 della riforma prevede che “Al termine del corso di formazione, il comitato direttivo, sulla base delle schede valutative redatte dai docenti nonché di ogni altro elemento rilevante, indica per ciascun partecipante elementi di valutazione in ordine al conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, con esclusivo riferimento alle materie oggetto del corso”.
4. Il condizionamento da parte del Ministero della Giustizia
4.1 È il Ministero che gestisce i dati statistici (e i dati degli esiti dei giudizi) e cosa disse il Presidente Ciampi
Nella riforma non c’è scritto, ma è meglio non dimenticare che il detentore privilegiato dei dati statistici è proprio il Ministero della Giustizia.
Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel rimettere nel 2004 alle Camere la legge delega per la riforma dell’ ordinamento giudiziario - in relazione all’articolo 2, comma 14, lettera c): “istituzione presso ogni direzione generale regionale o interregionale dell’organizzazione giudiziaria dell’ufficio per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti, in tutte le fasi o gradi del giudizio, al fine di verificare l’eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudiziariamente accertata della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale o con mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali;” – evidenziò che “Anche questa disposizione si pone in palese contrasto con gli articoli 101, 104 e 110 della Costituzione. Infatti, se si considera la finalità espressamente indicata dalla norma, risulta evidente che il monitoraggio dell’esito dei procedimenti – fase per fase, grado per grado – affidato a strutture del Ministero della giustizia, esula dalla “organizzazione” e dal “funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, che costituiscono il contenuto e il limite costituzionale delle competenze del Ministro. Inoltre, da questa forma di monitoraggio, avente ad oggetto il contenuto dei provvedimenti giudiziari, deriva un grave condizionamento dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni; in particolare, il riferimento alla possibilità di verificare livelli di infondatezza “della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale” integra una ulteriore violazione del citato articolo 112 della Costituzione”.
4.2 Le osservazioni del Ministro ai Progetti organizzativi delle Procure (ovvero un assaggio della separazione delle carriere)
L’art. 13 comma 7 prevede che “Il progetto organizzativo* dell’ufficio è adottato ogni quattro anni…previo parere del consiglio giudiziario e valutate le eventuali osservazioni formulate dal Ministro della giustizia ai sensi dell’articolo 11 della legge 24 marzo 1958, n. 195 “. Trasmissione e osservazioni del Ministro che riguardano anche le variazioni al progetto.
*Il Progetto organizzativo previsto dalla riforma deve contenere, tra le molte cose: “a) le misure organizzative finalizzate a garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, tenendo conto dei criteri di priorità di cui alla lettera abis); b) i criteri di priorità, finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre e definiti, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili; e) i criteri e le modalità di revoca dell’assegnazione dei procedimenti”;
Sarà il Parlamento ad indicare i criteri generali per l’individuazione dei criteri di priorità. L’art. 1 comma 9 lett. i) dispone inoltre di “prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l'efficace e uniforme esercizio dell'azione penale, nell'ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell'utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti”.
Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel rimettere nel 2004 alle Camere la legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario – in particolare l’articolo 2, comma 31, lettera a),: “(Relazioni sull’amministrazione della giustizia). 1. Entro il ventesimo giorno dalla data di inizio di ciascun anno giudiziario, il Ministro della giustizia rende comunicazioni alle Camere sull’amministrazione della giustizia nel precedente anno e sulle linee di politica giudiziaria per l’anno in corso…”.- rilevò che la norma approvata dalle Camere “configura un potere di indirizzo in capo al Ministro della giustizia, che non trova cittadinanza nel titolo IV della Costituzione, in base al quale l’esercizio autonomo e indipendente della funzione giudiziaria è pienamente tutelato, sia nei confronti del potere esecutivo, sia rispetto alle attribuzioni dello stesso Consiglio superiore della magistratura. Aggiungo che l’indicazione di obiettivi primari che l’attività giudiziaria dovrebbe perseguire nel corso dell’anno (“linee di politica giudiziaria”) determina di per sé la violazione anche dell’articolo 112 della Costituzione, in base al quale “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”: il carattere assolutamente generico della formulazione della norma in esame crea uno spazio di discrezionalità politica destinato ad incidere sulla giurisdizione”.
4.3 Il disciplinare per l’inosservanza delle direttive
L’art. 11 modifica l’art. 2.1 lett. n) decreto legislativo n. 109/2006 prevedendo come illecito disciplinare “la reiterata o grave inosservanza…delle direttive”.
La disposizione non specifica di quali direttive si tratti e la stessa può esser interpretata come riferita alle direttive del C.S.M. ovvero alle direttive del potere esecutivo e in particolare del Ministro della Giustizia. Quest’ultima appare l’interpretazione più coerente considerando le altre disposizioni dell’art. 2.1 lett. n) - che così sanzionerebbe la “reiterata o grave inosservanza delle norme regolamentari, delle direttive o delle disposizioni sul servizio giudiziario o sui servizi organizzativi e informatici adottate dagli organi competenti” - e che le direttive consiliari (art. 25 del regolamento C.S.M.) sono atti di natura tendenzialmente interpretativa delle norme e non contengono specifici precetti.
4.4 Il parere del Ministero della Giustizia sugli aspiranti direttivi
L’art. 2 comma 1 lettera c) dispone per i procedimenti per la copertura dei posti direttivi di “stabilire in ogni caso modalità idonee ad acquisire il parere…dei dirigenti amministrativi…assegnati al l’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati”.
4.5 Il risultato è atteso anche un po' dal dirigente
Il risultato atteso dei programmi di gestione, come già esposto, è determinato anche sulla base di quanto indicato nel programma di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240 [il programma delle attività da svolgersi nel corso dell'anno, redatto dal dirigente giudiziario e da quello amministrativo]
4.6 I dirigenti amministrativi nella composizione della Segreteria del C.S.M.
L’art. 25 innova la selezione dei componenti della Segreteria del C.S.M. - posta alle dipendenze funzionali del Comitato di presidenza del CSM (composto dal Vice Presidente, dal Primo presidente della Corte di Cassazione e dal Procuratore generale presso la Cassazione) – prevedendo che alla stessa possono essere assegnati massimo 18 componenti esterni (1/3 dirigenti amministrativi con almeno 8 anni di esperienza; magistrati con almeno la seconda valutazione di professionalità), selezionati mediante procedura di valutazione dei titoli e colloquio da una commissione individuata dal Comitato di presidenza. La norma, quindi, prevede l’innesto nella Segreteria dei dirigenti amministrativi, unici componenti necessari della struttura, essendo stabilita solo in loro favore una riserva di posti che potrebbe essere anche totalitaria, corrispondendo quella di un terzo alla quota minima.
5. Il condizionamento da parte del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati
5.1 Il voto degli avvocati sulle valutazioni di professionalità
L’art. 3 comma 1 lettera a) dispone di “introdurre la facoltà per i componenti avvocati e professori universitari di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni relative all’esercizio delle competenze del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari di cui, rispettivamente, agli articoli 7, comma 1, lettera b), e 15, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 [ovvero le valutazioni di professionalità], con attribuzione alla componente degli avvocati della facoltà di esprimere un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione; prevedere che, nel caso in cui la componente degli avvocati intenda discostarsi dalla predetta segnalazione, debba richiedere una nuova determinazione del consiglio dell’ordine degli avvocati;”
Gli avvocati componenti dei Consigli Giudiziari e il Consiglio dell’ordine (art. 11 comma 4 lett. f) decreto legislativo n. 160 del 2006) hanno già la facoltà di segnalare qualsiasi anomalia dell’attività del magistrato al dirigente giudiziario e agli organi di autogoverno (facoltà raramente usata).
La norma non prevede alcun contrappeso al potere di voto (non è prevista alcuna forma di incompatibilità tra le funzioni di consigliere giudiziario “laico” ed esercizio della professione nel distretto e circondario; non è previsto alcun obbligo di astensione). E forse è utile ricordare le ricadute della normativa in quei circondari e distretti caratterizzati da tensioni.
Il senso di consentire “segnalazioni positive” sul magistrato in valutazione, anche laddove lo si volesse intendere come mera volontà di consentire pubbliche attestazioni di stima, è elemento di cui non si comprende l’utilità e di cui sono invece evidenti le rischiose implicazioni.
5.2 Il parere del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati sugli aspiranti direttivi
L’art. 2 comma 1 lettera c) prevede per i procedimenti per la copertura dei posti direttivi di “stabilire in ogni caso modalità idonee ad acquisire il parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente per territorio”
5.3 Il parere del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati sulle conferme dei direttivi
L’ art. 2 comma 1 lettera g) dispone che nel procedimento di conferma della dirigenza si tenga conto delle “osservazioni del consiglio dell’ordine degli avvocati”;
Ad oggi l’art. 75 del TU dirigenza giudiziaria già prevede che i Consigli giudiziari e il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione debbano invitare il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, nel cui circondario è compreso l’ufficio ove presta servizio il magistrato da confermare, e, per quelli con competenza distrettuale, al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del capoluogo del distretto, a far pervenire, entro 30 giorni, informazioni scritte in relazione a eventuali fatti specifici e a situazioni oggettive rilevanti per la valutazione delle attitudini direttive riguardanti l’incarico oggetto di valutazione
6. Il condizionamento da parte degli altri (e alti) magistrati.
6.1 La valutazione della capacità del magistrato dipende dal “magistrato superiore” e anche un po' dalla sorte
L’art 3 comma 1 lettera g) dispone che nelle valutazioni di professionalità, per il parametro della capacità “il consiglio giudiziario acquisisca le informazioni necessarie ad accertare la sussistenza di gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento”,
La stessa norma prevede, anche in caso di assenza di anomalia che “in ogni caso, che acquisisca, a campione, i provvedimenti relativi all’esito degli affari trattati dal magistrato in valutazione nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio;”
Ad oggi per le valutazioni di professionalità è già prevista la voce relativa alle “significative anomalie” riguardo all’esito degli affari. La norma, quindi, nella prima parte poco innova (anzi il concetto di “gravi anomalie” appare maggiormente stringente di quello di “significative anomalie”) se non imponendo agli organi di autogoverno un’attività specifica (imponderabile nei modi) di ricerca. L’innovazione effettiva e concreta è nell’estrazione a campione dei provvedimenti in relazione agli esiti nei successivi gradi di giudizio.
6.2 Il parere dei magistrati per l’aspirante direttivo
L’art. 2 comma 1 lettera c) prevede per i procedimenti per la copertura dei posti direttivi di “stabilire in ogni caso modalità idonee ad acquisire il parere…dei magistrati…assegnati al l’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati”
6.3 Pareri reciproci
L’art. 2 comma 1 lettera g) dispone che nella conferma dei dirigenti si tenga conto dei:
- “pareri espressi dal magistrato dell’ufficio” ma anche dei “rapporti redatti [dal medesimo dirigente in valutazione] ai fini delle valuta zioni di professionalità dei magistrati del l’ufficio o della sezione”;
- “del parere del presidente del tribunale o del procuratore della Repubblica, rispettivamente quando la conferma riguarda il procuratore della Repubblica o il presidente del tribunale”
Quale giudice?*
di Paola Cervo
Prendo la parola con grande emozione. Vorrei ringraziare il presidente Santalucia per le sue parole. Mi rappresenta, e sono fiera di essere rappresentata da lui.
Ringrazio, e non è di facciata, l’onorevole Bongiorno, per il coraggio con cui è venuta in una platea che poteva legittimamente presumere ostile. Lei è la benvenuta qui , lo dico a nome del comitato direttivo centrale di cui faccio parte.
Il nostro dna è la giurisdizione e la giurisdizione è contraddittorio, ce lo diciamo in aula tutti i giorni.
Però onorevole Bongiorno rispondo alla sua domanda, quando i suoi clienti vengono allo studio e le chiedono "di che corrente è il giudice?", è una frottola: noi giuriamo tutti sulla stessa Costituzione, non siamo né di destra né di sinistra. E lei come avvocato – vorrei vedere l’avvocato Vitiello, con cui ho condiviso tante udienze a Torre Annunziata ed ho avuto il piacere di tante chiacchierate nella mia angusta camera di consiglio nella distaccata di Castellammare di Stabia - lei, il presidente Caiazza, portate la toga come la portiamo noi. Qualcosa vorrà pur dire.
A me non interessa la legge elettorale, non è per questo che l’ ANM è in agitazione. A me interessa comprendere davanti a quale giudice volete tenere udienza.
Non vi fidate di noi, questo traspare.
Da quello che voi in parlamento scrivete traspare che non vi fidate di noi.
Le leggi siamo abituati a leggerle, a studiarle: voi non vi fidate di noi, e non da ora. È una stagione lunga: la frottola di cui parlavo in apertura è una frottola che fu messa in circolo da un presidente del consiglio ormai venti anni fa.
Voi non vi fidate di noi e questo ci ferisce, ci addolora.
Avete scritto questa riforma avendo in mente il processo penale, e questo forse getta una interessante luce, ci aiuta a comprendere le intenzioni di questa riforma.
Voi avete immaginato un pubblico ministero che si allontana drammaticamente dalla giurisdizione.
È questo il pubblico ministero che immaginate a garantire il vostro assistito? Io mi sono formata pensando che il Pubblico Ministero sia la prima istanza giurisdizionale dell’indagato.
E mi chiedo - superando il Pubblico Ministero ed arrivando in udienza preliminare, arrivando al Riesame, arrivando al dibattimento: avete disegnato un giudice intimorito dal combinato disposto di pagellina e disciplinare.
Vi siete chiesti che modello di giudice ci state consegnando?
Io mi sono formata in un contesto culturale in cui ho potuto – e l’ho fatto, quando ero GUP a Santa Maria Capua Vetere – disattendere le Sezioni Unite. Ho retrodatato il giorno in cui il Pubblico Ministero avrebbe dovuto iscrivere la notizia di reato, ho dichiarato gli atti inutilizzabili, ed ho emesso sentenza di non luogo a procedere. Ho potuto farlo. Se approverete la riforma lo farei ancora? Credo di no.
Quale giudice? Noi siamo abituati – non perché siamo sceriffi o ci sentiamo investiti di una missione divina – a pensarci come garanti. Per esempio, a volte nei processi dinanzi al Tribunale in composizione monocratica la difesa di ufficio viene affidata a professionisti di volta in volta diversi e la reale garanzia di quell’imputato è data dal giudice, che invece ha seguito con continuità tutto il dibattimento.
Quale giudice immaginate a garantire i diritti del vostro assistito?
Voi dovreste scioperare con noi.
*Intervento all'Assemblea generale del 30 aprile 2022, nella qualità di componente del comitato direttivo centrale dell'ANM.
Federalismo pragmatico federalismo ideale: riflessioni a partire dalla Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950
di Pier Virgilio Dastoli
Il presidente del Consiglio Mario Draghi, nel proporre al Parlamento europeo il 3 maggio la sua visione del futuro dell’Europa (This is Europe), ha messo l’accento sul federalismo pragmatico e sul federalismo ideale (ma non ideologico) che appartengono il primo all’obiettivo dell’integrazione graduale concepita da Jean Monnet secondo il metodo cosiddetto funzionalista e il secondo all’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa concepiti dai confinati antifascisti a Ventotene nel Manifesto scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi con il contributo intellettuale di Eugenio Colorni.
I due obiettivi furono al centro delle riflessioni nella resistenza europeista – che si svolsero essenzialmente in Italia, in Svizzera e in Francia ancor prima della fine della Seconda guerra mondiale – sui metodi d’azione che avrebbero dovuto essere adottati per garantire la pace e la democrazia sul continente sapendo che in ogni caso la costruzione di un sistema federale sarebbe dovuta passare dal superamento delle sovranità assolute e dalla fine della divisione dell’Europa in Stati-nazione.
Secondo il federalismo ideale la via da percorrere doveva passare da una mobilitazione popolare – che secondo Altiero Spinelli doveva avere caratteristiche rivoluzionarie e sfociare in un processo democratico costituente – mentre secondo il federalismo pragmatico bisognava avviare un’opera di convinzione dei governi attraverso delle realizzazioni concrete capaci di creare fra gli Stati una solidarietà di fatto.
Il passaggio dal federalismo ideale agli Stati Uniti d’Europa sarebbe stato possibile, dopo la sconfitta del nazifascismo, se le forze politiche democratiche - tornate al potere negli Stati conquistati militarmente dalle armate del Terzo Reich o dove il potere era stato conquistato dal mostro del dispotismo – avessero deciso di non percorrere la via tradizionale della restaurazione delle identità nazionali e della indipendenza dei loro cittadini ma se si fossero unite sul continente ad Est e ad Ovest per creare una nuova forma di potere democratico transnazionale coerente con l’universalismo del popolarismo cristiano, dell’internazionalismo socialista e del cosmopolitismo liberale.
Questo passaggio sarebbe stato possibile se i “corpi intermedi” ed in particolare i rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori avessero partecipato attivamente al moto nato dalla resistenza al nazifascismo che aveva individuato nello scontro fra sovranità assolute e nella divisione dell’Europa in Stati-nazione le cause delle due guerre mondiali insieme al disfacimento del ruolo dell’Europa nel mondo.
Così non è stato, l’Europa è stata divisa dopo Jalta fra l’imperialismo sovietico e l’egemonia statunitense nel quadro della convivenza della rivalità sistemica delle due nuove grandi potenze e la sconfitta del federalismo ideale ha lasciato il campo al federalismo pragmatico che, secondo i suoi sostenitori, si sarebbe realizzato fondandosi sul consenso dei governi e su atti concreti ma graduali.
Nasce da questa concezione pragmatica la Dichiarazione letta il 9 maggio 1950 dal ministro degli esteri francese Robert Schuman ma scritta quasi integralmente da Jean Monnet e rivolta prioritariamente alla Repubblica Federale Tedesca di Konrad Adenauer affinché “il loro lavoro pacifico” profittasse “a tutti gli Europei dell’Est e dell’Ovest senza distinzioni e a tutti i territori, in particolare dell’Africa, che attendono dal Vecchio Continente il loro sviluppo e la loro prosperità” come ebbe a dire Robert Schuman nel presentare la Dichiarazione.
Secondo Jean Monnet quest’atto ardito avrebbe dovuto rappresentare “la prima tappa della Federazione europea…indispensabile alla preservazione della pace”.
In effetti la costruzione graduale dell’integrazione comunitaria – nata due anni dopo la Dichiarazione con il Trattato della CECA e sviluppatasi negli anni successivi con il Mercato Comune del 1957 del Trattato di Roma e con l’Unione europea del 1993 del Trattato di Maastricht – ha garantito la pace per tutti i paesi che vi hanno aderito anche se non è stata capace di evitare le guerre nei Balcani all’inizio degli anni ’90 ed ora l’aggressione della Russia all’Ucraina oltre che le guerre non lontane dall’Europa come in Siria e nello Yemen.
Grazie all’estensione dei mercati per oltre vent’anni il livello di vita degli Europei nell’area comunitaria si è elevato con una prosperità diffusa e sono state progressivamente realizzate delle politiche nei settori dell’economia reale necessarie per garantire il funzionamento di uno spazio comune senza frontiere.
All’interno di un sistema sui generis in cui il diritto comunitario non è né diritto internazionale né diritto federale, sono stati innestati nel tempo degli elementi di carattere federale come il ruolo preminente della Corte di Giustizia, l’elezione a suffragio universale e diretto del Parlamento europeo dal 1979 e l’estensione graduale dei suoi poteri legislativi e di bilancio, la moneta unica e la BCE, la Carta dei diritti fondamentali che prevale sui trattati e la creazione – seppure per ora temporanea – di debito pubblico europeo.
Ciononostante il sistema europeo è bel lungi dall’aver realizzato la Federazione europea di cui parla la Dichiarazione Schuman del 1950 ed anzi il Trattato di Lisbona, firmato nel 2007 ed entrato in vigore nel 2009, ha rafforzato la dimensione confederale del sistema europeo attraverso l’egemonia sistemica del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo e il terremoto provocato dalla guerra in Ucraina potrebbe rappresentare – se l’Unione europea non troverà la strada per una sua autonomia strategica – un Requiem per l’Europa come ha scritto Paolo Rumiz su La Repubblica.
Fallito il tentativo di realizzare la Federazione europea attraverso l’illusorio piano inclinato del federalismo pragmatico, le sfide del ventunesimo secolo mettono di nuovo al centro dell’azione europea il federalismo ideale (ma non ideologico) che richiede inevitabilmente un percorso costituzionale e la responsabilità (accountability) del Parlamento europeo.
A monte ci dovrà essere questa assunzione di responsabilità della Assemblea europea cogliendo l’innovazione della consapevolezza (empowerment) delle cittadine e dei cittadini europei che è emersa embrionalmente nella dimensione della democrazia partecipativa durante i lavori della Conferenza sul futuro dell’Europa.
A valle e sulla base del lavoro costituzionale della Assemblea europea, dovranno essere chiariti i confini politici della Federazione a cui potranno aderire i paesi che ne accetteranno gli elementi essenziali del superamento della sovranità assoluta degli Stati-nazione, il primato del diritto dell’Unione e il ruolo preminente della Corte di Giustizia, la moneta unica e la difesa comune, un governo federale con poteri limitati ma reali responsabile davanti al Parlamento europeo.
L’accettazione di questi elementi essenziali potrebbe avvenire attraverso un referendum pan-europeo e gli Stati che non li accetteranno potrebbero entrare in una più ampia Confederazione e in un sistema di accordi di associazione con la Federazione in attesa di una loro futura adesione al sistema federale.
In tema di diritto verità giustizia nell’opera di Leonardo Sciascia*
di Antonio Ruggeri
Un fatto è un sacco vuoto.
Bisogna metterci l’uomo,
la persona, il personaggio perché stia su
(Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino 1971)
“Tutto ha inizio sempre da uno stimolo emotivo: reazione a un’ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi, sgomento di fronte a fatti che, come le guerre, sconvolgono la vita dei popoli, eccetera”.
A scrivere non è Sciascia – come pure si potrebbe pensare – ma Eduardo, l’immenso, inarrivabile Eduardo che confessava come nasceva in lui il germe delle sue “commedie” – come egli stesso le definiva – che però, al tempo stesso, erano anche tragedie con al centro della scena – è ancora Eduardo a parlare – “una folla di diseredati, di ignoranti, di vittime e di aguzzini, di ladri, prostitute, imbroglioni, di creature eroiche e esseri brutali, di angeli creduti diavoli e diavoli creduti angeli”[1]. Ciascuno di essi – per dirla con G. Büchner – è “un abisso, a uno gira la testa se ci guarda dentro”; un abisso la cui profondità – ha opportunamente precisato C.P. Baudelaire – “nessuno ha mai misurato”.
Le parole scritte da Eduardo su di sé mi sono rimaste scolpite nella mente sin da quando le ho lette, ormai quasi cinquant’anni addietro, per la prima volta; e non le ho più dimenticate. Mi sono subito tornate alla memoria non appena avuto in mano il libro che ora si presenta: “un libro prezioso su libri preziosi”, secondo l’efficace giudizio datone da un accreditato studioso[2]. Come per le opere di Eduardo, anche per quelle di Sciascia, non appena iniziata la lettura, non sono riuscito a distaccarmene se non dopo aver raggiunto la fine: inchiodato agli scritti ed ammaliato dalla bellezza della prosa, scarna e colorita allo stesso tempo; e, per queste opere come per quelle, ad ondate mi torna la voglia di riprenderle in mano e rimirarle, ogni volta da una prospettiva diversa, cogliendo sempre spunti dapprima non notati, dai quali hanno quindi origine ed alimento riflessioni nuove, al centro delle quali v’è una umanità dolente, composta perlopiù da persone umili, emarginate, sconfitte, stritolate da meccanismi infernali, efficienti ed inesorabili.
La giustizia è punto di riferimento costante delle pensose e disincantate pagine dello scrittore di Racalmuto come pure del teatro di Eduardo[3]. Folgorante per quest’ultimo è un episodio, dallo stesso raccontato nella introduzione-confessione della raccolta sopra cit., che lo vide giovanissimo varcare per la prima volta la soglia di un tribunale (verosimilmente di Napoli) ed assistere alla celebrazione di un processo a carico di alcuni ragazzi accusati di furto, uno dei quali in un impeto incontenibile di rabbia si ferì alla fronte con le catene ai polsi per essere obbligato a restare pur essendo già stato condannato. Un’esperienza “tremenda” per il giovane Eduardo, come lo stesso la definì, che lo segnò profondamente.
Non avrei saputo trovare titolo migliore di quello dato da Cavallaro e Conti alla loro raccolta[4], col riferimento ai tre termini prescelti e messi in una non casuale – a me pare – consecuzione sistematica: diritto verità giustizia. Termini non separati neppure da una virgola, proprio perché inseparabili, in quanto ciascuno concettualmente ed operativamente inautonomo rispetto agli altri[5].
Il diritto sta in testa perché è in esso che gli altri hanno la loro fonte: la ragion d’essere del primo è, infatti, nella ricerca della verità e, di riflesso, nel raggiungimento e nella somministrazione della giustizia. Il diritto è il mezzo, la verità e la giustizia sono il fine.
Attorno a questi termini ruotano tutti gli scritti qui riuniti, l’ultimo dei quali è di P. Squillacioti, curatore delle opere di Sciascia per Adelphi, seguiti da un’appendice dello stesso Sciascia su La dolorosa necessità del giudicare, nella quale è un’affermazione a tutta prima stupefacente, vale a dire che “la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare”, dal momento che quest’ultimo è “una dolorosa necessità … un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio” (153)[6].
Una buona parte degli scritti si deve alla penna di siciliani, magistrati (come i curatori) e docenti universitari che – come rileva D. Galliani[7] – “hanno più somiglianze che differenze, … l’attenzione alle giuste parole e l’arrovellarsi con estremo puntiglio”[8]. Considero questa scelta non casuale e felice allo stesso tempo. È come per Camilleri: chi più o meglio di un siciliano può coglierne certe sfumature e coloriture del linguaggio? O, appunto, come per Eduardo: certi ammiccamenti, sguardi parlanti anche se non accompagnati da parole, anzi ancora più eloquenti di queste ultime, ebbene chi, più e meglio di un napoletano, può intenderne il profondo, indescrivibile significato?
I personaggi di Sciascia, anche quando sono calati in un contesto affollato di persone (ed anzi, ancora più in siffatte circostanze), sono sempre, naturalmente e tragicamente, soli, maledettamente soli: con se stessi, persino all’interno della loro famiglia[9]. E così è anche – non casualmente – per quelli di Eduardo[10].
La famiglia, per il siciliano come pure per il napoletano (e il meridionale in genere), prende il posto dello Stato, che è lontano, assente e non di rado avversario, armato del suo apparato di leggi e di organi vessatorio nei riguardi del singolo. Tra Stato e mafia non c’è talora distinzione alcuna, perché la seconda non è esterna e nemica del primo bensì dentro di esso[11]. Con lucida, spietata consapevolezza, Sciascia mette a nudo e disvela una verità che è già nei Vangeli[12], rilevando che “tutto quello che vogliamo combattere fuori di noi è dentro di noi; e dentro di noi bisogna prima cercarlo e poi combatterlo”[13]. Proprio per ciò, è impresa improba sradicare la mafia una volta per tutte, dal momento che – è da temere –, al pari del peccato, essa accompagnerà e segnerà a fondo la storia di ciascun essere umano e dell’intera umanità fino alla fine del mondo. Perché la mafia, oltre (e prima ancora) che essere un’organizzazione o – romaniamente – un ordinamento giuridico, è un abito mentale e, allo stesso tempo, un fenomeno ormai profondamente radicato e diffuso nel corpo sociale, dunque endemico, come il covid-19 che da anni ormai ci affligge ed inquieta. La guerra combattuta dallo Stato contro di essa appare perciò essere senza fine, pur rinnovandosi nei mezzi e nelle manifestazioni, malgrado il nobile sacrificio di quanti si sono esposti in prima linea per essa, anche a costo della loro stessa vita: sempre a testa alta e schiena diritta, come i giudici R. Livatino, la cui memoria mi è particolarmente cara, G. Falcone, P. Borsellino e tanti, tanti altri prima e dopo di loro.
Forse, questo rassegnato giudizio è frutto della mia “sicilianità”[14], del disincanto con cui chi ha la mia età vede le cose del mondo, con un mix di realismo e pessimismo, con un sentimento altalenante che conosce, sì, anche punte di ardimentoso ottimismo alimentate dal cuore e però inframezzate a foschi e soffocanti pensieri di una ragione indomita e crudele.
Lo sconsolato giudizio che Sciascia mette in bocca a Diego La Matina, facendogli dire che “dunque Dio è ingiusto”[15], è rivelatore dell’intera Weltanschauung dello scrittore siciliano: se “Dio è ingiusto”, il mondo è sbagliato, irrecuperabile e, perciò, lo è la società nella quale ogni individuo recita, come a teatro, la propria parte, spesso improvvisando le battute, e tuttavia pur sempre consapevole che le cose cambiano col tempo solo in apparenza, allo scopo – come diceva il Principe Salina ne Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – di far restare tutto come prima.
Il siciliano è un solitario per vocazione, pur avvertendo – ed è una contraddizione apparente – un disperato bisogno di stare sempre con altri; il mondo non cambia perché la sua è una battaglia sovente condotta con metodi donchisciotteschi, indirizzata verso bersagli sbagliati, ombre e non corpi reali. Afflitto da pregiudizi ancestrali, piace a me dire: autentici crampi mentali, di cui non sa o non vuole liberarsi, è fatalmente condannato ad essere un perdente, anche (e, forse, soprattutto) quando cerca giustizia o si rivolge, per averla, a coloro che sono istituzionalmente deputati a somministrarla. Aspetta che le cose cambino dall’alto, come nelle antiche tragedie, per effetto della discesa dal cielo di un deus ex machina, il solo in grado di mettere ogni cosa al giusto posto dopo che gli uomini le hanno confusamente mescolate e non sanno più rimetterle in ordine. Non ha ancora maturato dentro di sé la consapevolezza che il mutamento non può venire dall’alto se prima non muove dal basso, dal corpo sociale e, prima ancora – come si diceva –, dal di dentro di ciascuno dei suoi componenti e da tutti assieme.
Come giustamente segnala N. Lipari[16], v’è in Sciascia “un continuo stimolo alla responsabilità personale, all’impossibilità di delegare ad altri, pur nei condizionamenti imposti dalla storia, la ricerca della verità e quindi l’attuazione della giustizia”.
In questa lotta impari dell’individuo contro il “sistema”, lo sconfitto, pur sapendo di essere tale, tiene ugualmente alla salvaguardia della propria dignità, dimostrando così di essere uomo di “tenace concetto”[17], che può essere libero unicamente se riesce ad esserlo da se stesso[18]; e in ciò vedo in Sciascia e nei suoi personaggi un’idea di dignità e di diritto fondamentale in genere connotata e nella sua essenza pervasa da una componente deontica indisponibile, quale a mia opinione risulta in modo fermo e chiaro rimarcata nella Carta costituzionale[19].
Lo sconfitto, infatti, è per vocazione giusto, col fatto stesso di ricercare la giustizia e, dunque, di mettere in moto la macchina preposta per la sua amministrazione. Nell’orizzonte culturale dello scrittore siciliano, non conta però tanto l’esattezza del giudizio (e, dunque, il raggiungimento della verità) quanto – come fa notare G. Mammone[20] – “il fatto che il giudizio, corretto o sbagliato, abbia avuto luogo … In altre parole, non è il giudice che tramite il processo tutela l’individuo per evitargli l’ingiusta condanna, ma è l’individuo che – innocente o colpevole, non importa – sottoponendosi al processo legittima il giudice ed i suoi apparati, comunque egli decida, anche (e soprattutto) se incorra in errore sulla colpevolezza”. L’individuo, poi, reagisce, quando e come può, alle ingiustizie che ha davanti agli occhi e che spesso patisce, magari abbandonandosi a scatti di collera o ad apprezzamenti frutto di non distaccato giudizio, come quello del cap. Bellodi a difesa dello stato d’eccezione.
Dunque, al fondo, la fiducia nello Stato non viene del tutto meno, tant’è che sovente l’individuo ricorre ai suoi organi per avere giustizia, andando tuttavia incontro a cocenti delusioni, che lo obbligano a fare i conti con una realtà discosta dal verum jus e, anzi, ad esso frontalmente, irriducibilmente ostile.
La giustizia, nel contesto culturale in cui l’amara riflessione di Sciascia si situa, richiudendosi ed imprigionandosi però in se stessa, appare essere più forte della verità, “che si può solo immaginare, ma non raggiungere, in quanto perennemente appannata da verità costruite e manipolate”[21].
Cambiano gli scenari, nel passaggio da uno scritto all’altro, ma ricorrente è l’“atmosfera di ovatta silenziante”[22], dominata sovente da figure femminili che nel regno domestico giocavano (e giocano…) un ruolo di prima grandezza, seppur in apparenza sottomesse al dominus, in un ambiente sociale ancora fortemente segnato da una strutturale diseguaglianza dei sessi. I dialoghi fra gli attori sulla scena assai di frequente non sono – come dire? – realmente comunicativi, appesantiti e deviati dal loro solco da “reciproche chiusure mentali” e “ostilità incrociate”[23].
Malgrado la cappa soffocante che, al pari dell’aria afosa di piena estate, opprime i siciliani, obbligati a vivere in un contesto segnato da atavici preconcetti ma del quale non saprebbero fare a meno, come i pesci fuori dell’acqua, e malgrado le ripetute, inesorabili sconfitte, i personaggi di Sciascia caparbiamente perseguono la verità e la giustizia assieme, non l’una disgiunta dall’altra bensì l’una all’altra inscindibilmente legate e – come si diceva poc’anzi – facendole entrambe poggiare sul diritto quale strumento privilegiato al servizio dell’uomo, dei suoi più avvertiti bisogni, della sua dignità appunto.
Per questo, il messaggio dell’uomo di Racalmuto resta, al fondo, venato da ottimismo, al di là e contro ogni apparenza, pur nelle interne lacerazioni e vere e proprie contraddizioni che affliggono l’autore, i suoi personaggi, il contesto sociale in cui vivono. In tutta la sua opera – segnalano opportunamente i curatori[24] – “l’anelito per la giustizia” si pone quale “l’autentico pendant delle innumerevoli ‘ingiustizie’” sparse qua e là nelle pagine che ci ha lasciato.
Il lascito morale di maggior pregio che è da esse pervenuto a noi e che – si può esserne certi – seguiterà a trasmettersi anche dopo di noi sta non già nell’idea del (non) possibile raggiungimento della meta – verità e giustizia assieme, veicolate dal diritto – bensì nel fatto in sé, eticamente significante, del cammino verso di essa, nella tensione morale che lo anima e sorregge, non facendo mai venir meno la speranza di poter giungere fino in fondo.
Il potere, da chiunque sia esercitato, è, sì, sopraffazione dei deboli da parte dei forti, che lo detengono stabilmente e se ne avvalgono sovente per fini inconfessabili, devianti dal diritto, dalle sue leggi, dai principi o valori cui esse s’ispirano. Ciò nondimeno, è intimamente avvertito e caparbiamente coltivato dai personaggi sciasciani il bisogno di non deviare dalla retta via della ricerca ansiosa, appassionata e allo stesso tempo sofferta, della verità e della giustizia, costi quel che costi; di farlo dunque – come efficacemente rileva G. Luccioli[25] – “con una tensione morale e secondo un percorso che esige il pagamento di un prezzo alto in termini di isolamento e di solitudine, e tuttavia indispensabile per disvelare le false apparenze che spesso nascondono la realtà dei fatti”.
Sciascia come Eduardo – per tornare, per l’ultima volta, ad un accostamento già fatto – volgono costantemente il loro sguardo amorevole e compassionevole, autenticamente solidale, verso l’uomo, le sue debolezze come pure le sue virtù, incoraggiandolo sempre a non piegarsi ed a non gettare la spugna, malgrado si senta stordito ed incerto sulle gambe come un pugile che sta per essere sconfitto sul ring. E rivolgono un fermo monito a chi invece, per sua fortuna o per merito, non è stato sconfitto nella vita (o, comunque, è stato segnato meno di altri) a mostrarsi tollerante verso le debolezze degli umili e degli oppressi e, allo stesso tempo, ad impegnarsi senza risparmio di forze – ciascuno secondo le proprie capacità ed inclinazioni, il giudice come pure lo studioso (e pur se rosi dal dubbio[26]) – per dare voce ai diritti degli ultimi, ormai afoni ed incapaci di far sentire la propria.
Gli autori di questa encomiabile raccolta lo hanno fatto: per quel che vale il mio giudizio, egregiamente.
* Presentazione di Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, a cura di L. Cavallaro e R.G. Conti, Cacucci, Bari 2021. Lo scritto è stato illustrato in occasione di un incontro dedicato all’opera ora richiamata, svoltosi a Palermo il 7 maggio 2022. Avverto che, in mancanza di diversa indicazione, da quest’opera sono tratti i riferimenti degli scritti di seguito richiamati.
[1] I riferimenti sono tratti dalla Nota introduttiva de I capolavori di Eduardo, I, Einaudi, Torino 1973, VII s.
[2] A. Pugiotto, Legge e letteratura, l’abbraccio sotto il segno di Sciascia, in Il Riformista, 4 novembre 2021, 9.
[3] Su La giustizia secondo Leonardo Sciascia v. il confronto svoltosi tra A. Rapomi Colombo, L. Carassai, P. Astorina, G. Fiandaca, F. Izzo, teletrasmesso da Radio radicale il 7 aprile 2018 (e disponibile anche on line); v., inoltre, ex plurimis, U. Apice, La collusione dei poteri nel Contesto di Leonardo Sciascia, in Il Quotidiano Giuridico, 10 gennaio 2020; A. Centonze, La giustizia e la ricerca della verità giudiziaria secondo Leonardo Sciascia, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 29 febbraio 2020, e, nella stessa Rivista, A. Apollonio, Il magistrato di Sciascia: eroe e anti-eroe tra “verità” e “giustizia”, 8 gennaio 2021, e G. Tona, Sciascia, i giudici e il danno da eccessiva professionalità, 11 dicembre 2021; A. Mittone, Sciascia e la giustizia, in Doppio zero (www.doppiozero.com), 12 aprile 2021. Infine, E. Amodio - E.M. Catalano, La sconfitta della ragione. Leonardo Sciascia e la giustizia penale, Sellerio, Palermo 2022.
[4] Di quest’ultimo, v., inoltre, l’ampia illustrazione delle ragioni che lo hanno portato a dare alla luce, in collaborazione con L. Cavallaro, l’opera che ora si presenta: v., dunque, di R. Conti, Sulla strada di “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, Cacucci, 2021, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 2 settembre 2021. Non mi permetto di far luogo ad alcuna chiosa alle esaurienti spiegazioni addotte da uno dei curatori dell’opera qui presentata; mi limito solo a far richiamo di una indicazione di un’autorevole dottrina, secondo cui il risveglio dell’attenzione per l’opera di Sciascia, segnatamente da parte dei giuristi, può essere visto come il “sintomo di un bisogno di fare autocoscienza, di un’esigenza di autoanalisi e riflessione sollecitati dalla accresciuta consapevolezza della condizione di crisi in cui non da ora versa il pianeta-giustizia” [G. Fiandaca, Leggere Sciascia in procura. Un atto di autocoscienza per la giustizia in crisi, in Il Foglio (www.ilfoglio.it), 6 novembre 2021].
[5] Lo spiega con esemplare chiarezza lo stesso R. Conti, nello scritto da ultimo cit., § 3: “l’assenza della virgola non è frutto di disattenzione ma, al contrario, ricerca di un’unità di senso tra i valori che tali espressioni incarnano”.
[6] Ferma opportunamente l’attenzione su questo passo, rivelatore della personalità di S., T. Groppi, Di fronte al potere. Considerazioni sul volume “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, a cura di Luigi Cavallaro e Roberto Giovanni Conti, Cacucci Editore, Bari, 2021, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 8 gennaio 2022. Quanto, poi al rapporto tra il giudice e il contesto sociale in cui esercita il munus affidatogli, giova non scordare ciò che lo stesso Sciascia ha al riguardo rimarcato, in un passo tratto da A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989, 80, opportunamente evidenziato anche da G. Fiandaca, Mani pulite trenta anni dopo: un’impresa giudiziaria straordinaria; ma non esemplare, nella stessa Rivista, 16 febbraio 2022: “quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve pur sempre rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia – che non può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”.
[7] Il tenace concetto per tenere alta la dignità dell’uomo. Su “Morte dell’inquisitore”, 47 ss. (e 48, per il riferimento testuale).
[8] Diverso è, nondimeno, l’angolo prospettico dal quale la realtà è osservata o – se si preferisce altrimenti dire – l’animus che ispira la osservazione stessa. Fanno tuttavia eccezione i magistrati che sono anche autori di scritti scientifici. Non saprei, ad ogni buon conto, dire se indossino questa seconda loro veste sopra la prima ovvero al posto di questa, diversamente dagli studiosi che non hanno familiarità con la pratica giuridica e le sue esigenze. Svolgimenti sul punto, qui non specificamente interessante, in altri luoghi.
[9] La “naturale e tragica solitudine del siciliano” è efficacemente resa, con magistrali pennellate linguistiche, da N. Irti, “Il giorno della civetta” e il destino della legge, 17 ss. e 21, per il riferimento testuale.
[10] Forse, la più emblematica rappresentazione di questo stato d’animo, peraltro sovente in modo esplicito e con sconsolata amarezza dichiarato, è in Sabato, domenica e lunedì.
[11] Ancora N. Irti, cit., 17.
[12] “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo” (Mc, 7, 1-8, 14-15, 21-23).
[13] Il riferimento è in N. Lipari, Diritto e letteratura in “Todo modo”, 98.
[14] … o – per dirla con lo stesso L. Sciascia – “sicilitudine” (Sicilia e sicilitudine, ora richiamato anche da R. Conti, Sulla strada di “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, cit.).
[15] Il riferimento è in D. Galliani, cit., 62.
[16] N. Lipari, cit., 103. Rimarca il punto anche T. Groppi, nello scritto sopra cit.
[17] V., nuovamente, D. Galliani, cit., spec. 64.
[18] Ancora N. Lipari, cit., 106.
[19] Ho ripetutamente insistito sul punto, a mio giudizio di cruciale rilievo: di recente, ad es., nel mio Il referendum sull’art. 579 c.p.: inammissibile e, allo stesso tempo, dagli effetti incostituzionali, in AA.VV., La via referendaria al fine vita. Ammissibilità e normativa di risulta del quesito sull’art. 579 c.p., a cura di G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 1/2022, 194 ss.
[20] Giustizia e individuo da Kafka a “Il contesto”, 85 s.
[21] G. Luccioli, Il sopravvento della superstizione sulla verità e sulla giustizia: “La strega e il capitano”, 125.
[22] … secondo l’efficace descrizione datane da M. Serio, Luoghi, ragione giuridica, sentimento e impegno didattico: la società siciliana di “A ciascuno il suo”, 65 ss. (e 66, per il riferimento testuale).
[23] Ancora M. Serio, cit., 67.
[24] Introduzione, 12.
[25] … nello scritto sopra già richiamato, 127.
[26] … che poi – come si sa – è la cifra identificante, la più genuinamente espressiva sia dell’attività del giudicare che della ricerca scientifica, per loro statuto non inquinate da preorientamento alcuno. Ancora G. Luccioli, op. et loc. ult. cit., lucidamente avverte del significato del dubbio “come abito mentale del giudice … atteggiamento dello spirito che attraverso il rifiuto di facili certezze tende a sottoporre le emergenze del processo allo spietato controllo della logica, vivendo in modo incessante l’inquietudine della ricerca”. Un “abito mentale” ed una “inquietudine” che – posso testimoniare per il mio personale vissuto – sono propri, pur nella diversità dei ruoli e delle responsabilità, altresì degli studiosi.
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