Al convegno Attorno a questo corpo dalle mille paludi, titolo preso in prestito da un verso di Amelia Rosselli, sarà presentato il libro di Donatella Stasio L’amore in gabbia.
In effetti tra le mille paludi attorno al corpo, la palude che, più di ogni altra, offre la plastica rappresentazione dell’impedimento al corpo è la palude simboleggiata dalla gabbia.
Nel libro di Donatella Stasio la gabbia è un emblema così come un emblema è l’amore, quale rappresentazione unificante di plurime possibili interrelazioni salvifiche.
Il saggio di Stasio è una rassegna sugli ostacoli al corpo: dalla restrizione nella cella di isolamento in cui viene rinchiuso Gianluca, ancora adolescente a Fossombrone, “venti ore al giorno in isolamento”, all’isolamento affettivo della sua infanzia, cucciolo di una madre “rigida di metallo, che non scalda ma grazie a un biberon meccanico nutre”, la mamma scimmia dell’esperimento scientifico di Harry Harlow.
La lettura ti conduce attraverso un viaggio evocativo e stimolante nel corso della quale si passano in rassegna gabbie potenziali e reali, volontarie, imposte o eventuali: la famiglia, la droga, il carcere e la dannosa assenza di relazioni affettive.
L’autrice non limita il suo obiettivo al racconto di «cosa significhi, nella vita di un essere umano, tenere in gabbia, insieme al corpo, anche la mente e il cuore, chiudere tutto a doppia mandata e buttare la chiave», ma va oltre e punta il dito sulle criticità della nostra società e su come siano stati messi «“in gabbia” altri diritti di libertà riconosciuti dalla Corte costituzionale ma sgraditi alla maggioranza: il diritto al suicidio assistito in presenza di determinate condizioni; il diritto dei figli di coppie omogenitoriali di essere riconosciuti da entrambi i genitori che li hanno voluti cresciuti; il diritto delle madri di condividere realmente la scelta del cognome, materno o paterno, da attribuire ai figli, fin dalla nascita, e, in caso di disaccordo, di assegnare loro il doppio cognome».
L'Io come ha scritto Freud si oggettivizza nel corpo. L’Io «è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo. Esso può dunque venire considerato come una proiezione psichica della superficie del corpo».
La proiezione psichica della superficie del corpo è influenzata dalle relazione affettive, la madre di morbida pezza, che scalda ma non nutre dell’esperimento di Harry Harlow conferma in maniera lampante che “non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Vangelo Matteo 4, 4 e Luca 4, 4), la parola dalla bocca di Dio, secondo una visione laica e contemporanea, altro che non è che l’amore dell’uomo, la solidarietà, la capacità di ascoltare di offrire, di relazionarsi in modo altruistico.
Gianluca che rappresenta il corpo del detenuto, per tornare al fil rouge del convegno, un corpo affatto dissimile dal corpo del migrante – ristretto solo perché cerca un mondo – o dal corpo prigioniero – ristretto perché è un soldato mandato a combattere.
Nella narrazione di Donatella Stasio il corpo di Gianluca in carcere soffre perché è rinchiuso, perché viene picchiato negli angoli in cui l’occhio della telecamere di sorveglianza non arriva e dagli stessi che dovrebbero proteggerlo, perché viene svegliato dai cani a scopo punitivo, perché la sua cella viene violata quanto all’intimità degli oggetti da perquisizioni violente, perché non ha un luogo dove rimanere in intimità, perché se sfiora il visitatore durante i colloqui il sorvegliante di turno lo sgrida.
Gianluca in carcere è un corpo sofferente perché abusato nella sua dignità.
«Avevo dolori fisici inenarrabili, ero bloccato in ogni parte del corpo, duro come un pezzo di legno. Non perché non fossi allenato, figuriamoci! Ma perché il mio corpo si prendeva la responsabilità di proteggermi dagli abusi, dalla mia emotività inesistente», scrive Gianluca a Donatella.
Gianluca dopo la prima volta diventa un recidivo.
La recidivanza è il più grave tradimento della nostra Costituzione, il più grosso smacco al principio rieducativo della pena. È singolare come l’attenzione al principio rieducativo della pena sia condizionato dall’ideologia politica, come l’asperità o meno del trattamento penale del recidivo dipenda dal colore della bandiera del politico di turno. Il confronto tra la dottrina sulla recidiva del fascista Manzini e la teoria del socialista Matteotti (che nella sua breve esistenza scrisse un saggio ancora attuale sul trattamento penale del recidivo) offre un’idea plastica di come l’idea della punizione sia connaturale al fascista e come quella della rieducazione sia invece connaturale al socialista.
Per fortuna la nostra bella Costituzione ha consacrato il principio rieducativo della pena. La più bella Costituzione del mondo, come scrive Donatella Stasio, è una Costituzione percorsa dal filo dell’impellenza delle relazioni sociali. Il primo richiamo alla comunità di sentimenti lo troviamo all’art. 2 che consacra i doveri della solidarietà politica, economica e sociale come doveri inderogabili e poi all’art. 3 si rinviene il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
In questo contesto dovrebbe orientarsi il principio rieducativo della pena ma i principi non vanno al passo delle situazioni di fatto, o meglio queste non si adeguano da sole ai principi costituzionali. Occorre uno sforzo che non si riesce a fare o che non si vuole fare, di qui l’enorme importanza della sentenza della Corte Costituzionale sull’intimità affettiva.
Come scrive Stasio: «In carcere, l’intimità, l’affettività, la sessualità non sono considerate espressioni della personalità umana, tanto meno un diritto. Sono un lusso, addirittura un privilegio, e chi ha violato la legge – dal mafioso al ladruncolo, dal tossicodipendente allo straniero, dal detenuto di Alta sicurezza a quello comune – non ha diritti né privilegi né lussi, non merita niente, neppure di respirare. E che “intima gioia”, che godimento questa mancanza d’aria, specie per i “più pericolosi”, abbiamo sentito dire da un sottosegretario alla Giustizia del nostro governo.»
A questa manifestazione di intima gioia, negazione assoluta della dignità umana, mi piace contrapporre un’immagine salvifica. L’immagine è quella di Papa Francesco che lava i piedi dei detenuti di Rebibbia.
Restituiscono dignità all’uomo le mani del Papa sui piedi di corpi rinchiusi e rendono il valore di quei corpi inestimabile, così come deve essere il valore di ogni corpo umano. Chissà quanto è stato emozionante quel contatto fisico per il detenuto e per i presenti che hanno sentito tangibile l’amore esondante dal gesto purificatore che restituiva la dignità all’uomo senza condizioni. «Perché voi e non io», diceva Papa Francesco ogni volta che varcava il portone pesante di un carcere. Un mantra che lo accompagnava nel suo pellegrinare fra gli ultimi, portando speranza, scambiando i suoi occhi con i loro, «facendo sua la storia di ogni persona detenuta». Nessuno deve sentirsi uno scarto secondo la dottrina di Papa Francesco, eppure Gianluca dice di sé «sono stato un prodotto di scarto di questa società per talmente tanti anni che ancora oggi il dolore di quell’ambiente abusante è così vivo dentro di me da farmi sentire un bambino abbandonato tra i tanti, un numerino senza storia, un racconto di poco conto da non dire per non impietosire.»
Negli ultimi anni l’articolo 27 della Costituzione è stato sfregiato dal disinteresse dei governanti. Il sovraffollamento carcerario colloca l’Italia al fanalino di coda dei Paesi europei e così il numero dei suicidi in carcere.
Niente investimenti, niente politiche di depenalizzazione anzi, all’opposto, la maggioranza al governo dall’insediamento non fa che aumentare il numero dei reati, e con il decreto legge sicurezza sono stati introdotti quattordici nuovi reati e sono state aggravate le pene di quelli esistenti – sono questi i reati proprio dei poveri cristi – .
I detenuti aumenteranno. Il decreto-legge sicurezza determinerà l’effetto esattamente opposto a quello propugnato dal decreto perché, come scrive Donatella Stasio la «pervasività fa sì che le patrie galere restituiscano alla “società civile” non persone libere, ma reduci. Che tornino a delinquere oppure no, sono dei reduci. Che abbiano pene lunghe o brevi da scontare, prima o poi tornano a casa – sempre che restino vive e che abbiano una casa –, ma tornano devastate dagli abusi consumati dal carcere. Sono come quei soldati ai quali la guerra ha strappato gambe, braccia, occhi: mutilati nel corpo e nella dignità, amputati dei sentimenti, della sessualità, della capacità di amare, della libertà.»
Ma in questa nostra epoca caratterizzata dalla cultura dello scarto desertificata dal valore del rispetto della dignità umana, noncurante del dovere inderogabile della solidarietà, un passo avanti è stato fatto grazie a un magistrato di sorveglianza, Fabio Gianfilippi, – lo stesso che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale – e alla pubblico ministero Michela Petrini che hanno imposto l’attuazione della storica sentenza della Corte Costituzionale n.10/2024, contenente la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 18 nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia.
Come ci ricorda Stasio un tentativo in tal senso fu messo in pratica dal 1952 al 1960, da Eugenio Perucatti che diresse il carcere per “l’ergastolani” nell’isola di Santo Stefano, al largo di Ventotene, il carcere che – guarda caso – fu smantellato dal governo Tambroni (governo democristiano sostenuto con l’appoggio esterno del Movimento sociale italiano con il quale il partito Fratelli d’Italia ha in comune pure il simbolo della fiamma tricolore).
Come scrive Donatella Stasio «La sentenza sull’affettività – la numero 10 del 2024 – ha suscitato scandalo e ilarità nel fantastico mondo della società civile, dove tanti, troppi, “godono” se i detenuti non respirano e vengono privati di momenti d’amore. Di quel “godimento” si nutrono le destre, che ne vanno fiere pubblicamente – è questo il dato politico nuovo rispetto al passato – e tanto basta a spiegare il lungo boicottaggio della sentenza della Corte, così come delle altre che riconoscono diritti fondamentali ideologicamente sgraditi alla maggioranza.»
La stanza dell’amore è il punto di arrivo di un percorso il cui punto di partenza si rinviene nella nostra bella Costituzione, oltre che nella Convenzione europea dei diritti dell’Uomo; si tratta di applicazione minima, ma essenziale, del principio secondo il quale «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La costrizione delle emozioni e dei sentimenti – ce lo dice la Corte costituzionale – costituisce un trattamento contrario al senso di umanità.
Dell’intimità in carcere Gianluca, alla domanda di Donatella, risponde «non si fa» e chiarisce «Qualunque essere umano è in grado di astenersi dalla sessualità per anni senza patire, non è che i detenuti sono una specie a parte che se non eiacula ogni tot muore. La filmografia pop americana è tossica. Il carcere è un luogo di espiazione dove calarsi in una dimensione di intimità con se stessi, di ricerca, di comprensione». Donatella è spiazzata «l’adesione convinta dei detenuti al “non si fa”, al “non sta bene”. L’accettazione, anzi, di più, la convinzione che “non sta bene” e dunque “non si fa” – baciarsi, abbracciarsi, toccarsi o semplicemente sfiorarsi con i propri fidanzati o le proprie fidanzate.»
Anche attraverso la negazione del rapporto affettivo si lede la dignità umana e la lesione subìta da Gianluca è ancora sotto la sua carne cicatrizzata. Racconta il dolere derivante dalla violazione dell’intimità dei colloqui, «brandelli galeotti di affettività settimanale relegata a un’ora di orologio con parenti stretti, amori, conviventi vere o fasulle». «Spesso», racconta, «le guardie interrompevano malamente quei momenti, sostenendo che qualcosa non andava bene; sbattevano le chiavi sul vetro della sala colloqui o direttamente sul tavolo intorno al quale eri seduto a parlare. Era il loro modo di richiamarti all’ordine, anche sulla scadenza dell’orario di visita. Gesti brutali, piccole e grandi angherie, gratuite, umilianti, impossibile non coglierle se stai chiuso lì dentro. Io le ho sofferte tantissimo, così tanto da tenermi volutamente a distanza da tutto ciò che potesse provocarle. Ai colloqui diventavo glaciale pur di non essere disturbato dalle guardie, da quella vista indiscreta, da quei gesti intrusivi e violenti sulla mia intimità. E anche da possibili sanzioni disciplinari.»
Nessuna emozione nessun sentimento nessun contatto sono le regole detenuto affinché sia garantita la pax carceraria; l’effetto collaterale è l’ablazione dei sentimenti e delle relazioni, effetto che determina l’analfabetismo delle emozioni, l’opposto di quello che serve al processo di rieducazione, e ciò in quanto «Il carcere che funziona è quello che produce libertà, come usava dire Alessandro Margara. E la libertà sta dentro i corpi, le menti e i cuori. La realtà è ben altra: la pax carceraria si nutre di subcultura che più o meno tutti, operatori e detenuti, finiscono per respirare, assimilare e condividere. È stato così anche per Gianluca, uno delle migliaia di allievi formatisi alla scuola del carcere. I suoi principali maestri sono stati detenuti mafiosi o dell’Alta sicurezza, il regime detentivo speciale destinato ai detenuti considerati particolarmente pericolosi o che hanno commesso reati gravi, con i quali ha convissuto per circa sei anni, quand’era poco più che un adolescente.»
Gianluca sull’intimità in carcere dopo la prima risposta riflette ancora e poi ci ripensa occorre lavorarci, la stanza dell’amore produrrà i suoi effetti.
Donatella Stasio offre al lettore una lucida analisi politica che non può non condividersi: «Il carcere racconta molto dello stato di salute di una democrazia. Il paesaggio contemporaneo delle prigioni italiane è fatto di corpi ammassati, sempre più giovani e sempre più vecchi, provati da tossicodipendenze, malattie mentali e psichiche, e dalla povertà; ma è fatto anche di corpi senza più vita, suicidati o deceduti, in numeri senza precedenti. Un contenitore nel quale buttare anche il dissenso e, più in generale, tutto ciò che non si vuole o non si sa affrontare – dai migranti al disagio sociale – e che perciò va chiuso in gabbia, possibilmente “a marcire”, cavalcando l’inganno secondo cui solo la gabbia garantisce legalità e sicurezza. Un totale rovesciamento della prospettiva democratica secondo cui le priorità sono il rispetto della dignità della persona, i suoi diritti, la sicurezza sociale.»
Ma Gianluca ce l’ha fatta, il carcere di Bollate ha impedito che ricadesse di nuovo nell’errore.
Una cosa è certa: le persone cambiano la storia dei singoli e pure quella dei popoli; questo ci deve far sentire tutti responsabili, attivi e propulsivi e disponibili, pronti a fare quello che in certi momenti occorre fare, in questo senso certamente Stasio ha adempiuto alle sue responsabilità di giornalista scrivendo questo bellissimo saggio.
«Una persona è sempre fatta da tante persone che l’hanno aiutata e amata», ha detto Ana Lydia Sawaya, professoressa dell’Università di San Paolo del Brasile, il giorno della sua consacrazione monacale.
Il libro di Stasio non racconta soltanto la storia delle periferie e dell’abbandono sociale; Gianluca non te lo racconta soltanto, ma te lo fa incontrare. Un uomo fatto dalle persone che lo hanno aiutato e amato.