Stereotipi e pregiudizi di genere: una storia ancora attuale
di Sara Posa e Lucia Spirito
Il percorso di cui questo contributo racconta in qualche modo la storia è l’incontro tra una competenza, che stimola una nuova sensibilità, che genera curiosità, che a sua volta fa nascere competenza; un cammino che è il nostro: una sintesi tra elementi di conoscenza e di dubbio.
“La difesa è sacra ed inviolabile, è vero. Ma nessuno di noi avvocati – e qui parlo come avvocato – si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina così come si imposta un processo per violenza carnale. Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, i beni patrimoniali sicuri da difendere, ebbene, nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa, che comincia attraverso i primi suggerimenti dati agli imputati, di dire ai rapinatori: “Vabbè, dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere un po’ è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse!”. Ecco, nessuno si sognerebbe di fare una difesa di questo genere, infangando la parte lesa soltanto (…). Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano più denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare una donna venire qui a dire “non è una puttana”. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, e senza bisogno di difensori. E io non sono il difensore della donna Fiorella, io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza, ed è una cosa diversa”.
Questo brano è un frammento dell’arringa pronunciata nel 1978 dall’avvocato Tina Lagostena Bassi, che aveva assistito la persona offesa, una giovane donna, Fiorella, nel processo per violenza carnale in cui erano imputati quattro uomini, celebrato innanzi al Tribunale di Latina. Da questo processo era stato tratto il documentario “Processo per stupro”, trasmesso nel 1979 dalla R.A.I. e conservato anche negli archivi del M.O.M.A. di New York, che voleva mostrare per la prima volta all’opinione pubblica italiana come le donne che denunciavano di aver subito uno stupro divenivano automaticamente nelle aule di giustizia le principali accusate perché costrette a dover difendere se stesse, la propria vita e la propria morale da domande, poste dalle difese degli imputati, che esulavano dai fatti oggetto dell’imputazione, volte esclusivamente a screditarle e, conseguentemente, a minarne la credibilità, facendo leva sullo stereotipo secondo cui una donna “onesta” non poteva subire una violenza sessuale[1].
Nel 2015, a distanza di trentasette anni, in plurimi passaggi della motivazione della sentenza di assoluzione emessa all’esito del processo di secondo grado relativo a fatti di violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo, i Giudici della Corte d’Appello di Firenze si sono soffermati a descrivere il tipo di biancheria intima indossata dalla persona offesa, il suo orientamento sessuale, le sue relazioni sentimentali e ad esaminare aspetti della sua vita familiare e privata, definendola come “una vita non lineare”.
Anche in questo processo, così come tutt’ora frequentemente nei procedimenti per reati in materia di violenza di genere che si celebrano nelle aule dei Tribunali, alla persona offesa escussa come testimone non solo sono state poste domande su questioni non pertinenti e di natura strettamente personale e intime[2], ma questi argomenti sono stati utilizzati e valorizzati persino nella sentenza: ciò appare indicativo di un atteggiamento culturale, persistente, radicato e attuale, che tende a minimizzare la violenza di genere, a colpevolizzare la persona offesa, esponendola così ad una vittimizzazione secondaria, e di conseguenza a perpetuare gli stereotipi riguardanti i ruoli e le responsabilità delle donne e degli uomini nella famiglia e nella società.
Tale impostazione è stata infatti stigmatizzata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel caso J.L contro Italia, con decisione del 21.05.2021, ha condannato lo Stato italiano a risarcire la ricorrente, ritenendo che la citata sentenza della Corte d’Appello di Firenze abbia violato l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che riconosce ad ogni persona il diritto al rispetto della propria vita privata e vieta le ingerenze delle autorità pubbliche nell’esercizio dello stesso. La Corte ha affermato che il linguaggio colpevolizzante e moraleggiante, nonché gli argomenti utilizzati nella sentenza trasmettono “i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana e sono suscettibili di impedire l’effettiva protezione dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente”.
L’attuale persistenza nella società italiana di diffusi pregiudizi e stereotipi di genere è stata peraltro segnalata anche da un altro organismo internazionale, il Comitato delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione contro le donne (CEDAW), istituito proprio allo scopo di monitorare l’attuazione delle norme della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nelle sue osservazioni conclusive sul settimo rapporto sull’Italia, pubblicato il 4.07.2017, il Comitato ha rappresentato di notare con preoccupazione “il radicamento di stereotipi riguardanti i ruoli e le responsabilità delle donne e degli uomini nella famiglia e nella società, perpetuando i ruoli tradizionali delle donne come madri e casalinghe e compromettendo il loro status sociale e le loro prospettive di istruzione e di carriera”.
Simili pregiudizi, come dimostrato dall’indagine relativa agli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale dell’Istat pubblicata nel 2019, condizionano anche la valutazione delle violenze agite contro le donne. In particolare, è emerso come sia tutt’ora sussistente il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita: il 39% della popolazione ritiene infatti che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole; il 23,9% pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire e il 15,1% ritiene che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Per il 10,3%della popolazione, infine, le accuse di violenza sessuale sono spesso false.
A fronte di queste plurime segnalazioni di allarme, peraltro provenienti da diversi soggetti qualificati, appare opportuno che tutti i professionisti, magistrati, avvocati, forze di polizia, psicologi e assistenti sociali, a vario titolo coinvolti nei procedimenti giudiziari concernenti casi di violenza di genere o domestica, sia nel settore penale che in quello civile, prendano atto dell’esistenza di stereotipi e condizionamenti socio-culturali, che, inconsapevolmente e quindi in modo insidioso, possono incidere negativamente sull’approccio a questo tipo di vicende, influenzando così lo svolgimento delle indagini e di conseguenza l’acquisizione di tutti gli elementi necessari a ricostruire il fatto, la valutazione degli elementi emersi, delle condotte dell’indagato/imputato e della persona offesa, delle dichiarazioni di quest’ultima e infine la decisione.
È, innanzitutto, imprescindibile evitare di essere condizionati da quello che è il nostro modello culturale e comportamentale di riferimento nella valutazione delle condotte della persona offesa e della sua credibilità. L’aver sopportato violenze fisiche e psicologiche per anni prima di sporgere una denuncia per maltrattamenti nei confronti del proprio partner, ad esempio, potrebbe sembrare inconcepibile per molti uomini e molte donne, ma ciò non può tuttavia escludere che vi siano persone che invece, per diversi motivi, quali dipendenza affettiva, dipendenza economica, condizionamenti familiari, tollerino vessazioni e soprusi anche per un ampio lasso temporale.
È dunque essenziale liberarsi da pre-giudizi che si fondano su quello che è o sarebbe il nostro modo di ragionare, atteggiarci e reagire a fronte di situazioni simili a quelle riferite dalla persona offesa poiché non esiste un modello comportamentale universale, unico o corretto a fronte di episodi di violenza e, quindi, occorre essere consapevoli che ogni vittima potrebbe reagire in modo diverso dal nostro di fronte ad un medesimo fatto, senza che ciò tuttavia possa di per sé costituire un indice di non credibilità della persona offesa.
Stereotipi culturali e criteri di giudizio
Quando in un procedimento si hanno limitate fonti di prova - come quando si hanno a disposizione solo due versioni contrapposte dei fatti e nessun testimone diretto - la decisione non può che fondarsi sulla valutazione di maggior attendibilità e ragionevolezza del racconto, dunque su impressioni e sulla (percepita) logicità degli argomenti proposti.
Rispetto alle impressioni, va in particolare considerato il cosiddetto “errore di persistenza”, che dipende dall’impressione iniziale che ci si forma di un soggetto (sia esso imputato o persona offesa) e rappresenta la tendenza a resistere al cambiamento, alternando il processo di acquisizione e l’interpretazione di informazioni successive.
A sua volta, nell’opera di selezione della ricostruzione più credibile, il Pubblico Ministero, prima, e il Giudice, poi, utilizzano quelle che vengono definite “rappresentazioni cognitive”, che sono fondate sulle impressioni e sull’insieme di conoscenze sedimentatesi nella memoria sulla base dell’esperienza. Tuttavia, nonostante la pratica quotidiana, anche la psicologia del magistrato è una “psicologia ingenua”, intendendosi per tale quella tendenza tipica di ciascun individuo all’interpretazione dei comportamenti altrui, che tuttavia poco ha a che fare con la psicologia intesa come scienza[3]. Le stesse massime di comune esperienza, soprattutto quando riguardano la spiegazione di comportamenti umani, rappresentano spesso semplici convenzioni diffuse, non sorrette da un congruo sapere scientifico. Le credenze, le teorie, le convinzioni che ciascuno matura sul comportamento altrui sono, peraltro, inevitabilmente legate alla cultura di provenienza e alla cosiddetta “psicologia implicita”[4].
Alla luce di queste considerazioni deve dunque ritenersi pressoché inevitabile il ricorso, più o meno consapevole, nel giudizio a stereotipi e pregiudizi.
Esperimenti condotti da psicologi sociali hanno, in proposito, dimostrato come gli stereotipi impliciti (associazioni mentali che influiscono sui giudizi, senza che se ne abbia consapevolezza) vengano mantenuti anche quando il soggetto a livello cosciente non condivide i contenuti dello stereotipo[5].
Ecco perché nessuno (neppure le donne![6]) può dirsi esente da stereotipi e pregiudizi e, come anticipato, non possono essere sottovalutati i citati richiami provenienti – tra l’altro - da una pluralità di organismi internazionali, che evidenziano il rischio “di riprodurre stereotipi di genere nelle decisioni dei tribunali, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne a una vittimizzazione secondaria” (J.L. v. Italia – CEDU 2021).
Alcuni esempi di “massime di comune esperienza” basate su presupposti fallaci[7]
Una delle distorsioni cognitive (bias) spesso operanti nei giudizi relativi a reati di violenza di genere è quella definita del “doppio standard”, che consiste nel ritenere accettabile un determinato comportamento se applicato agli uomini, inaccettabile se, al contrario, applicato alle donne. Caso tipico è quello del doppio standard sessuale. La condotta sessuale femminile influenza, infatti, come sopra anticipato i giudizi sulle vittime di stupro.
L’incidenza di tale bias cognitivo è stata avvalorata da uno studio condotto in California,[8] che ha mostrato come a fronte di un medesimo racconto, una vittima vergine venisse considerata significativamente meno responsabile di una promiscua, sul presupposto implicito che la prima non si fosse posta in condizioni di essere stuprata e che la seconda avesse, invece, mentito sull’accaduto.
Rientrano a pieno titolo nelle false credenze fondate su stereotipi e pregiudizi che riguardano vittime e autori di violenza sessuale i cosiddetti “miti dello stupro”[9], responsabili della (e funzionali alla) giustificazione delle aggressioni sessuali nei confronti delle donne, con effetti discriminatori.
I principali “miti dello stupro” sono i seguenti:
1. La violenza sessuale è dettata da un irrefrenabile impulso sessuale
Il mito si basa su uno stereotipo di genere che descrive la sessualità maschile come compulsiva, riconducendo la violenza ad un istinto biologico e minimizzando il tema del desiderio di dominio. La violenza sessuale è, tuttavia, più che espressione di impulso erotico, una forma di violenza che si avvale della sessualità, una imposizione violenta su un’altra persona, un atto di potere.
In una prospettiva più generale, molto spesso la violenza di genere viene rappresentata come un gesto incontrollabile che esplode all’improvviso, modalità che deresponsabilizza l’autore della condotta. La stessa narrazione difensiva dell’autore come “brava persona”, ponendone in evidenza – come se si trattasse di elementi aventi valore dirimente - l’integrazione sociale o economica, ostacola il riconoscimento della violenza e dei relativi meccanismi, che non attengono tuttavia esclusivamente a situazioni di marginalità.
Anche la narrazione centrata sulla gelosia e sul presunto eccesso di sentimenti nasconde relazioni possessive, dinamiche di potere e di controllo, incapacità di affrontare le differenze e i conflitti.
2. Solo un certo tipo di donna viene violentata
Il mito è espressione del cosiddetto “sessismo benevolo”, ovverosia di una forma di sessismo che protegge le donne che rispettano gli standard patriarcali e del “sessismo ostile”, che – viceversa - attacca quelle donne che non si attengono ad essi. La convinzione comune sottostante è che con alcuni comportamenti (assunzione di alcool, vestiario…) la vittima se non abbia dato causa, quanto meno, abbia reso ragionevole per l’aggressore ritenerla disponibile (e, quindi, consenziente[10]).
Si tratta di stereotipo a tutt’oggi ampiamente diffuso, se solo si considera che – come sopra anticipato – secondo dati Istat il 23,9% degli italiani pensa che una donna possa provocare la violenza sessuale con il suo modo di vestire e il 15,1% che una donna che subisce una violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile.
Per una visione libera da questo stereotipo, anche implicito, è necessario non dare per scontato né normalizzare lo sguardo e il comportamento maschile sul corpo delle donne e sulle loro vite e ripartire dal riconoscimento della libertà femminile.
3. La violenza sessuale è opera di un estraneo: maggiore è il grado di relazione tra vittima e aggressore, meno probabilità ci sono che la violenza sessuale sia uno stupro
In tale prospettiva molti studi hanno mostrato come le donne stuprate da conoscenti siano ritenute maggiormente responsabili dell’accaduto[11], a fronte di dati di incidenza statistica di segno contrario rispetto all’enunciazione del mito.
Gran parte della violenza, in particolare quella più grave, è tuttavia commessa da partner, familiari o conoscenti. Gli stupri sono commessi nel 62,7% dei casi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici (Istat, 2014). Dal 2000 al 2019 sono state uccise in Italia 3.230 donne di cui 2.355 in ambito familiare e 1.564 per mano del proprio coniuge/partner o ex partner (Eures, 2019).
4. Le donne non sono affidabili/attendibili perché si inventano stupri per rimpianto o per vendetta
Secondo l’Istat, come visto, per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false.
Si tratta di mito falsificato – tra l’altro – da un’indagine condotta nel Regno Unito tra il 2005 e il 2006, che ha stimato che la percentuale di falsi abusi era pari al 2% del totale degli stupri denunciati[12].
In realtà il sommerso è molto alto: i tassi di denuncia riguardano solo il 12,2% delle violenza da parte del partner e il 6% di quelle da non partner (Istat, 2014).
Tutte le ricerche sottolineano i numerosi ostacoli che rendono difficile per una donna denunciare la violenza, fra cui il timore di non essere credute. Le denunce arrivano spesso alla fine di un lungo percorso e costituiscono solo una minima parte di un fenomeno molto più diffuso. Secondo l’Istat in Italia 6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni.
5. Se la donna davvero non vuole il rapporto sessuale può sempre opporsi con resistenza attiva
Secondo dati Istat il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole.
In realtà la possibilità di evitare un’aggressione sessuale non dipende dal grado di resistenza della vittima, ma dalle caratteristiche dell’aggressore[13].
Come visto, dunque, quelle sin qui esposte sono tutte false credenze che servono tuttavia ad illuderci, da un lato di poter evitare di divenire potenziale vittima, attraverso l’adozione di comportamenti socialmente adeguati, dall’altro di marginalizzare la violenza maschile, senza dover prendere in seria considerazione i modelli culturali che sono alla base di questo fenomeno.
Una chiara stigmatizzazione del ricorso a miti dello stupro si ha nell’opinione del Comitato CEDAW luglio 2010 nel caso Vertido vs. Philippines. Segnatamente, il Comitato ha osservato come l’uso degli stereotipi di genere incida sul diritto delle donne a un processo equo e giusto. Il Comitato ha, poi, sottolineato come l’autorità giudiziaria debba prestare attenzione a non creare standard inflessibili su quel che le donne o le ragazze dovrebbero essere o quello che avrebbero dovuto fare in una situazione di stupro, basandosi solamente in nozioni preconcette di ciò che definisce una vittima di stupro e di violenza basata sul genere.
È il tema del comportamento atteso. Nel commentare una sentenza emessa nel 2017 dal Tribunale di Torino, che aveva assolto l’imputato di violenza sessuale, proprio sulla base della assenza del comportamento atteso[14], Paola Di Nicola scrive “chi può sapere qual è la reazione giusta a una violenza se non chi l’ha vissuta rispetto a quell’uomo, rispetto a quella situazione, rispetto a quel rapporto di conoscenza, rispetto a quella vicenda umana che si è consumata? Nessuno, se non la vittima”[15].
Quella che si fonda sul comportamento atteso è, appunto, un’impostazione da “psicologi ingenui”; a mero titolo esemplificativo ci sono, infatti, ricerche scientifiche condotte dall’American Association for the Advancement of Science che dimostrano come la maggior parte delle donne vittime di violenza reagisca allo stupro con una paralisi involontaria. Ci si blocca, non si urla, si resta pietrificate[16].
Se si assume una prospettiva più attenta, l’utilizzo di questo genere di stereotipi non è poi così lontano da quello della nota sentenza della Cassazione sui “jeans”[17] o dall’argomento utilizzato nell’arringa difensiva nel citato “Processo per stupro”: “Signori! una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. Passa assolutamente la voglia a chiunque di continuare e l’azione quindi mal si coniuga con la ipotesi della violenza anzi è incompatibile con l'ipotesi della violenza”.
Anche se in maniera cosciente ci riteniamo liberi da stereotipi, l’analisi della prassi giudiziaria ci mostra come nessuno possa dirsi esente da stereotipi impliciti, non meno pericolosi, sul piano della corretta comprensione e valutazione, di quelli oggetto di comune stigmatizzazione.
Altri stereotipi giudiziari nel settore penale
Il rischio di essere influenzati da stereotipi e pregiudizi si manifesta anche nei casi di c.d. progressione dichiarativa, qualora cioè il racconto della persona offesa venga arricchito nel tempo di nuovi particolari. Nelle aule dei Tribunali, l’argomento della non sovrapponibilità delle dichiarazioni della vittima viene utilizzato non solo dalle difese, ma talvolta anche dal Giudice come indice di inattendibilità del racconto. In realtà, come peraltro indicato dalla Suprema Corte di Cassazione, il contributo dichiarativo della persona offesa può arricchirsi progressivamente in occasione delle sue audizioni senza diventare automaticamente e solo per questo inattendibile, soprattutto qualora i nuovi elementi forniti costituiscano un completamento e un’integrazione dei precedenti, il racconto risulti coerente e fermo e i singoli episodi siano contestualizzati (cfr. Cass., Sez. III, sent. 23202/2018). Accade spesso infatti che le dichiarazioni accusatorie della vittima non siano immediatamente complete ed esaustive, ma che al contrario si sviluppino in un complesso percorso di disvelamento, che può essere condizionato dal timore nei confronti dell’autore del reato, soprattutto quando lo stesso è il coniuge o un familiare, dalla vergogna, dal grado di affidamento nei confronti dell’autorità procedente e dalla rivisitazione e dal superamento del trauma patito.
Queste indicazioni fornite dalla giurisprudenza di legittimità in ordine agli elementi da tenere in considerazione nel vagliare le dichiarazioni della persona offesa e delle possibili cause di discrasie e di progressioni dichiarative, rendono evidente come in questa materia la preparazione e le competenze tecnico giuridiche devono essere affiancate anche da conoscenze di tipo psicologico, che possono aiutare il giurista a superare stereotipi e pregiudizi e quindi ad interpretare e comprendere comportamenti e dichiarazioni che potrebbero apparire contraddittori e sintomatici della non credibilità della persona offesa: a differenza di altre tipologie di reato, infatti, in questo ambito l’acquisizione di elementi utili alla ricostruzione del fatto ed alla responsabilità del presunto autore si fonda sostanzialmente sulle dichiarazioni della vittima, la quale a sua volta è sovente condizionata da una serie di fattori come la dipendenza economica o affettiva dal partner, con il quale la stessa, nonostante le violenze subite, potrebbe anche volersi riconciliare.
Nel corso dei procedimenti penali per reati di violenza domestica, invero, accade non di rado che la persona offesa si riavvicini al partner e che quindi, non potendo rimettere denuncia-querela sporta a causa dell’irrevocabilità prevista per i delitti di violenza sessuale e della procedibilità d’ufficio per i maltrattamenti in famiglia, sia indotta a modificare, attenuare o addirittura ritrattare integralmente le dichiarazioni accusatorie precedentemente rese, in genere senza fornire alcuna plausibile spiegazione in ordine alle diverse versioni fornite.
La riappacificazione e la conseguente ripresa della convivenza quindi, in diverse sentenze di merito e di legittimità, sono ritenute integranti quegli “elementi concreti” idonei ad incidere sulla genuinità dell’esame testimoniale di cui all’art. 500, co. 4, c.p.p., che consentono di acquisire al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni precedentemente rese dalla persona offesa e contenute nel fascicolo del Pubblico Ministero.
Il tema appare collegato a quello dell’ambivalenza dei sentimenti provati dalla vittima nei confronti dell’indagato/imputato, che emerge dalle dichiarazioni e dall’atteggiamento della donna nel corso del procedimento penale. Anche questo aspetto deve essere ponderato con attenzione e non deve condurre automaticamente ad un giudizio di inattendibilità del narrato, sebbene a chi procede possa sembrare inverosimile o incomprensibile che la vittima di violenze fisiche, psicologiche e/o sessuali possa continuare a nutrire affetto nei confronti del proprio aggressore.
In proposito, fondamentali indicazioni sono fornite ancora una volta dalla Suprema Corte di Cassazione, che, in tema di valutazione della prova testimoniale, ha osservato che l’ambivalenza dei sentimenti non rende di per sé inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni rispetto al complesso degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice. La Cassazione ha inoltre puntualmente illustrato quei motivi di natura psicologica che potrebbero condizionare il rapporto tra la persona offesa e l’imputato, evidenziando che, “senza dover pensare al caso limite conosciuto nella letteratura scientifica come “sindrome di Stoccolma”, non è inconsueto riscontrare nella prassi, soprattutto in contesti familiari consolidati o comunque connotati da legami sentimentali particolarmente intensi, quella situazione emotiva - che la psicologia qualifica in termini di dipendenza affettiva – che induce una persona a ritenere che il proprio benessere dipenda da un’altra e la predisposizione ad accettare qualunque compromesso, piegandosi alla volontà dell’altro fino ad annullare la propria dignità, per ottenere affetto e riconoscimento. Ancora, nei rapporti tra soggetto maltrattante e vittima delle violenze e vessazioni è frequente riscontrare un’ambiguità di sentimenti suscettibile di portare quest’ultima, nonostante le sofferenze cagionate dal partner, ad accettare la prosecuzione della relazione, da un lato, per l’esistenza di un forte legame affettivo, di un “amore malato”, tale da creare una controspinta dovuta a dinamiche da dipendenza; dall’altro, per la soggezione psicologica determinata proprio dall’azione di coartazione esercitata dall’agente nei confronti della persona offesa. Ancora la resistenza a formalizzare una denuncia nei confronti del soggetto maltrattante può dipendere dal timore di compiere scelte che possano provocare la dissoluzione dell’unità familiare e comportare pregiudizi di natura economica o scompensi affettivi per i figli, piuttosto che dalla paura di subire gravi reazioni aggressive da parte di chi si sappia aduso abbandonarsi ad eccessi violenti” (Cass. Sez VI 31309/2015).
Con riguardo poi ai reati di violenza domestica, commessi all’interno del nucleo familiare, occorre inoltre tenere in considerazione le dinamiche del c.d. ciclo della violenza, che vede la condotta violenta svilupparsi in modo graduale, quasi sempre crescente e ciclico: alla prima fase in cui si realizzano le azioni preliminari alla violenza, seguono i comportamenti violenti e poi il periodo di calma e di ricostituzione del rapporto, durante il quale il partner violento promette che non reitererà le azioni aggressive, si mostra attento e premuroso e tende ad attribuire la responsabilità del proprio atteggiamento a fattori esterni o addirittura alla stessa persona offesa, in modo da riconquistarne la fiducia, anche in nome dell’interesse familiare, inducendo la vittima a sperare che la situazione possa cambiare. In questo circolo, la donna finisce per riprendere la relazione. Ebbene, in questa fase, la persona offesa verosimilmente tenderà a nascondere e minimizzare ciò che le sta accadendo fino al successivo episodio di violenza, in un ciclo ripetitivo che può protrarsi anche per molti anni.
È quindi importante tenere presente le dinamiche del ciclo della violenza nella valutazione temporale delle dichiarazioni della vittima.
Stereotipi e pregiudizi nei procedimenti civili e minorili
La recente relazione su “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale” della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio ha evidenziato come nei procedimenti civili relativi all’affidamento dei figli minori di cui agli artt. 337 bis e ss. c.c. e in quelli che hanno ad oggetto domande di limitazione o di decadenza dalla responsabilità genitoriale di cui agli artt. 330 e 333 c.c. il fenomeno della violenza domestica e nei confronti delle donne è sottovalutato.
Dallo studio condotto dalla Commissione, in particolare, è emersa l’assenza di una specifica formazione nella materia della violenza di genere e dei suoi effetti in ambito familiare sui figli minorenni da parte delle varie figure professionali che a vario titolo operano in questi procedimenti (non solo magistrati, ma soprattutto psicologi che ricoprono incarichi di consulenti tecnici d’ufficio, e assistenti sociali), che quindi non sono in grado di riconoscere la violenza domestica e quella assistita e conseguentemente di valutarla adeguatamente: ciò si pone peraltro in contrasto con l’art. 31 della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.
In proposito, il rapporto redatto nel 2019 all’esito del monitoraggio sull’Italia del Grevio, il Gruppo di esperti indipendenti del Consiglio d’Europa incaricato di monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul, ha segnalato come i meccanismi esistenti in questi procedimenti, anziché proteggere le vittime-madri ed i figli, si ritorcono contro le donne che tentano di tutelare i loro bambini denunciando la violenza subita, e le espongono ad una vittimizzazione secondaria.
È proprio in questo ambito infatti che trovano spazio altri stereotipi, come quelli relativi al ruolo genitoriale che si ritiene debba assumere una madre sottoposta a violenza, con assunzione di un modello colpevolizzante che presuppone, come nel caso dello stupro, un unico atteggiamento da tenere da parte della donna vittima-madre, senza indagare quale sia la ragione di eventuali omissioni o ritardi nella denuncia. La donna viene quindi ritenuta responsabile per non essersi sottratta prima alla spirale della violenza.
Il rischio è quello di una vittimizzazione secondaria che deriva dal ricollegare direttamente l’incapacità genitoriale all’aver subito violenza e al non averla tempestivamente denunciata. Ma anche in questo caso non si tiene conto del fatto che per chi decide di parlare il tempo ha una funzione di elaborazione: tempo per capire cosa sta avvenendo, riconoscerlo come reato e trovare le risorse per denunciare.
Un ulteriore stereotipo è quello che riconduce la violenza domestica ad una mera situazione di conflitto tra coniugi o conviventi. Nel suo rapporto, il GREVIO ha specificamente rilevato che i consulenti tecnici d’ufficio e gli assistenti sociali che collaborano con i giudici “spesso assimilano gli episodi di violenza a situazioni di conflitto e dissociano le considerazioni relative al rapporto tra la vittima e l’autore della violenza da quelle riguardanti il rapporto tra il genitore violento ed il bambino”: in tal modo, da un lato si minimizza fino a negarla la violenza che viene agita unilateralmente da un partner ai danni dell’altro, e dall’altro si ignora completamente la violenza assistita a cui viene esposto il minore e i suoi effetti deleteri anche in relazione al suo sviluppo psico-fisico.
Il mancato riconoscimento della violenza domestica, degradata a mero conflitto interpersonale, nonché della violenza assistita e, di conseguenza, l’omessa valutazione delle stesse sono alla base di un ulteriore pregiudizio nei confronti della donna-madre-vittima, che frequentemente – come emerge ancora una volta dal rapporto del GREVIO ed altresì dalla citata relazione della Commissione parlamentare – viene incolpata per la riluttanza dei figli ad incontrare il padre violento. L’assenza di un’indagine sui reali motivi del rifiuto del minore, quali la violenza diretta o assistita, può infatti comportare il rischio rilevante di una non corretta valutazione e comprensione di tale atteggiamento, che potrebbe essere imputato allo stereotipo della condotta alienante e manipolativa della madre, volta ad allontanare il figlio dall’altro genitore. A tali conclusioni spesso i consulenti tecnici d’ufficio giungono utilizzando la teoria della sindrome di alienazione parentale, anche nota con il suo acronimo P.A.S., secondo la quale il rifiuto del figlio nei confronti di uno dei genitori dipenderebbe dalle condotte dell’altro genitore intenzionalmente volte ad influenzare il bambino.
Tale teoria, elaborata nel 1985 dallo psichiatra Richard Gardner, ha trovato ampia diffusione in varie parti del mondo e anche in Italia, ma non è mai stata riconosciuta come sindrome dai manuali diagnostici internazionali in materia. Benché la validità scientifica della P.A.S. sia diffusamente contestata, la teoria ed i criteri diagnostici per l’identificazione di tale sindrome elaborati da Gardner hanno avuto ampia applicazione, prevalentemente ad opera dei Consulenti Tecnici d’Ufficio, nei procedimenti aventi ad oggetto l’affidamento dei figli minori e la titolarità della responsabilità genitoriale.
Anche la Corte di Cassazione, proprio in relazione ad un giudizio in cui era stata esperita c.t.u. medico-psichiatrica conclusasi con la diagnosi di sindrome da alienazione parentale, ha affermato che il giudice di merito è tenuto “a verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale, dovendosi escludere la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare” (Cass., 13217 del 17.05.2021)
Un ulteriore stereotipo in cui si rischia di cadere in questo tipo di procedimenti è costituito dalla convinzione che sia necessario garantire sempre la presenza del padre per assicurare l’equilibrato sviluppo del minore, a prescindere dalla disamina dei suoi comportamenti violenti: anche in situazioni di violenza domestica, il rispetto del principio di bigenitorialità è considerato preminente e, al fine di darvi attuazione, nei procedimenti in parola le parti vengono invitate alla mediazione ed alla conciliazione proprio al fine di pervenire ad accordi che prevedano l’esercizio condiviso della genitorialità, in contrasto peraltro con quanto previsto dall’art. 48 della Convenzione di Istanbul, che invece vieta il ricorso a questi strumenti di soluzione alternativa delle controversie in relazione a tutte le forme di violenza domestica e nei confronti delle donne.
Strumenti di superamento degli stereotipi culturali e dei pregiudizi di genere
L’unico modo per evitare di cadere in stereotipi impliciti e rappresentazioni fallaci è quello di prendere consapevolezza di non esserne esenti e imparare a conoscerli e riconoscerli attraverso una seria formazione, che abbracci competenze multidisciplinari.
In tale prospettiva il C.S.M., nella “risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione di procedimenti relativi a reati di violenza di genere” ha sottolineato la necessità di una formazione specialistica per la trattazione di procedimenti in materia di violenza di genere e domestica e del possesso di un bagaglio di conoscenze non solo di natura strettamente giuridica. Il Consiglio, nella medesima risoluzione, ha indicato come buone prassi anche quelle soluzioni organizzative adottate negli Uffici di Procura e nei Tribunali volte a garantire la specializzazione dei magistrati destinati alla trattazione di questi reati.
Un ulteriore strumento utile per approfondire le proprie conoscenze e competenze in questa materia e, più nello specifico, in relazione a ciascun caso da trattare, è quello del rafforzamento della cooperazione interna al sistema giudiziario tra Procure ordinarie, Tribunale civile e Magistratura minorile. La collaborazione ed il coordinamento tra gli Uffici, anche mediante accordi e protocolli, che disciplinino le comunicazioni, lo scambio di informazioni e l’eventuale trasmissione degli atti, è infatti di fondamentale importanza ad esempio per scongiurare la sottovalutazione di situazioni di violenza domestica nei procedimenti relativi all’affidamento dei figli minori ed alla titolarità della responsabilità genitoriale.
Il richiamo alla necessità di prestare attenzione alle vittime e di contrastare stereotipi e pregiudizi non è, del resto, espressione di una “sensibilità femminista”, ma di precisi obblighi assunti dall’Italia.
In proposito, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno evidenziato come “l'interesse per la tutela della vittima costituisce da epoca risalente tratto caratteristico dell'attività delle organizzazioni sovranazionali sia a carattere universale, come l'ONU, sia a carattere regionale, come il Consiglio d'Europa e l'Unione Europea, e gli strumenti in tali sedi elaborati svolgono un importante ruolo di sollecitazione e cogenza nei confronti dei legislatori nazionali tenuti a darvi attuazione”[18]
Sul piano della formazione l’art 15 della Convenzione di Istanbul, impone alle parti di fornire e rafforzare un’adeguata formazione delle figure professionali. A sua volta, la direttiva 2012/29/UE all’art. 25 stabilisce che “Gli Stati membri provvedono a che i funzionari suscettibili di entrare in contatto con la vittima, quali gli agenti di polizia e il personale giudiziario, ricevano una formazione sia generale che specialistica, di livello appropriato al tipo di contatto che intrattengono con le vittime, che li sensibilizzi maggiormente alle esigenze di queste e dia loro gli strumenti per trattarle in modo imparziale, rispettoso e professionale”.
Il richiamo alla necessità di specifica formazione si rinviene anche dal rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria del 23.06.2021 e dalla citata relazione sulla vittimizzazione secondaria nei procedimenti civili e minorili, entrambe della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio.
Coltivare il dubbio (anche sulla oggettività dei criteri logici che utilizziamo) e una specifica formazione multidisciplinare, accogliere gli spunti di riflessione che ci vengono, tra gli altri, dagli organismi sovranazionali sono gli unici antidoti “giudiziari” a forme di vittimizzazione secondaria, che, ostacolando l’accesso alla giustizia delle vittime, finiscono esse stesse per perpetuare la violenza.
[1] Processo per stupro quando i talebani eravamo noi-documentario - YouTube
[2] Si richiama in proposito il disposto dell’art. 54 della Convenzione di Istanbul, secondo cui “le parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che in qualsiasi procedimento civile o penale le prove relative agli antecedenti sessuali e alla condotta della vittima siano ammissibili unicamente quando sono pertinenti e necessarie” e dell’art. Art. 472 co. 3 bis c.p.p. ”In tali procedimenti non sono ammesse domande sulla vita privata o sulla sessualità della persona offesa se non sono necessarie alla ricostruzione del fatto”.
[3] A. Forza, G. Menegon, R. Ruminati, Il giudice emotivo, Il Mulino 2017, p. 96.
[4] Ibidem, p. 98.
[5] Ibidem, p. 113.
[6] Occorre invero considerare, tra gli altri, il fenomeno della cosiddetta misoginia interiorizzata ovverosia l’assimilazione non consapevole degli stereotipi e dei pregiudizi della cultura paternalistica, di cui è – a mero titolo di esempio - espressione il senso di colpa che la donna prova quando è vittima di molestie o violenza o, sotto diverso profilo, il mito della “donna forte”.
[7] La trattazione che segue raccoglie e sintetizza una serie di argomenti esposti nel testo “Donne e violenza. Stereotipi culturali e prassi giudiziarie” a cura di Claudia Pecorella, Giappichelli 2021.
[8] C.L: Muehlenhard, J.K. Sakaluk, K.M. Esterline, Duble standard, in P. Whelehan, A Bolin (a cura di), International Encyclopedia of human sexuality, 2015.
[9] K.E. Edward, M.D. Macleod, The Reality ad myth of rape: implications for the criminal Justice system, in Expert Evidence, 2000.
[10] Sul tema del consenso vale richiamare quanto di recente osservato dalla Suprema Corte di Cassazione, che ha avuto modo di evidenziare come “non sia ravvisabile in alcuna fra le disposizioni legislative introdotte a seguito delle entrata in vigore della legge n. 66 del 1996 […], un qualche indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato, onde ritenere perfezionati gli elementi costitutivi del reato stesso, un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella sua sfera di intimità sessuale; si deve piuttosto ritenere che tale dissenso sia da presumersi, laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare la esistenza di un sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco, consenso”.
[11] S. Ben-David, O. Schneider, Rape perceptions, gender role attitudes, and victim perpetrator acquaintance, in Sex Roles, 2005.
[12] A Walker, C. Kershaw, S. Nicholas, Crime in Engrand and Wales 2005/2006
[13] M.P. Koss, the hidden rape victim: personality, attitudinal, and situational characteristics, in Psychology of Women Quarterly, 1985.
[14] Si legge in un passaggio motivazionale “pare abbia continuato il turno dopo gli abusi. Non riferisce di sensazioni o condotte molto spesso riscontrabili in racconti di abuso sessuale, sensazione di sporco, test di gravidanza, dolori in qualche parte del corpo”.
[15] Paola Di Nicola, la mia parola contro la sua, Harper Collins 2018, p. 174-175.
[16] Paola Di Nicola, ibidem.
[17] Si legge in un passaggio motivazionale della sentenza “È dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare, anche in parte, i jeans ad una persona senza la sua fattiva collaborazione, perché trattasi di un’operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa”.
[18] SS.UU. 10959/2016.