Indice: 1. Un’attrazione fatale - 2. La parabola della disciplina dell’abuso d’ufficio - 3. Il problema del punto di equilibrio - 4. Rilevanza del contesto in cui matura la riforma del 2020 - 5. L’importanza di una logica di sistema - 6. È davvero necessaria una nuova riforma dell’abuso d’ufficio?
1. Un’attrazione fatale.
In maniera molto efficace, un articolo recentemente apparso su una rivista giuridica è stato titolato “L’attrazione fatale per il delitto di abuso di ufficio” (Gianluca Ruggiero, L’attrazione fatale per il delitto di abuso d’ufficio, in CamminoDiritto.it, 25 01 2023), volendo con ciò l’Autore sottolineare il fatto che il desiderio di rimaneggiare questa fattispecie penale sia praticamente quasi irrefrenabile per qualsiasi Governo che si sia alternato alla guida della nostra Repubblica negli ultimi anni o decenni.
Anche tra i (primi e) principali obbiettivi programmatici della legislatura appena iniziata figura infatti la riforma dell’abuso d’ufficio, nonostante dagli anni novanta in poi il testo originario del 1930 abbia subito non poche e non poco profonde modifiche che lo hanno già di molto allontanato dalla primigenia versione.
Nella sua veste originaria, l’abuso in atti d’ufficio è, come suol dirsi, “innominato”. Nel disegno originario del codice penale del 1930, l’abuso d’ufficio è descritto all’art. 323 con formula semplice, ma molto elastica perché strettamente correlata all’elemento finalistico dell’azione del pubblico ufficiale, il quale viene sanzionato (penalmente) se e quando usa per perseguire finalità diverse da quelle ipotizzate dal legislatore il potere pubblico che gli è stato attribuito : viene punito il pubblico ufficiale che «abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge>>. Nella formulazione originaria, si noti, il termine “abuso” compare sia nella rubrica, che nel corpo della disposizione normativa, esprimendo con ciò chiaramente una stretta correlazione con l’elemento finalistico dell’azione amministrativa.
L’idea dell’abuso ha infatti in sé quella della spettanza del potere che venga esercitato perseguendo finalità diverse da quelle per le quali il potere è stato conferito dalla legge. Si tratta di una considerazione che non rimane limitata all’ambito strettamente penalistico. Specie nei tempi più recenti, la crescente rilevanza assunta nell’ordinamento dalle tematiche dell’abuso del diritto, dell’abuso del processo, del contratto “giusto” (per non parlare della figura tradizionalmente nota al diritto amministrativo come eccesso di potere) mostra chiaramente come la categoria dommatica dell’abuso possa valere per individuare una figura generale correlata all’elemento finalistico dell’azione (e in ptcl alla deviazione dell’azione dal fine).
L’esercizio di un diritto o di un potere giuridico non viene più protetto, ma diviene illecito, se viene compromesso il motivo, la ragione che nella coscienza sociale, come cristallizzata dal legislatore, ne ha giustificato la protezione. L’esercizio del diritto che risulti “sproporzionato” viene sanzionato. E valutare se una certa azione risponda o meno ad un principio di proporzionalità apre inevitabilmente le porte al sindacato sulle ragioni e sulla finalità della protezione di un dato interesse.
In un ordinamento di civiltà giuridica evoluta, che non protegge più il diritto come jus utendi ac abutendi, la tematica dell’abuso d’ufficio merita dunque innanzi tutto di essere inquadrata in una logica più generale di sistema, che deve decidere se e come sanzionare le deviazioni dell’azione concreta dalle finalità per le quali l’ordinamento riconosce determinati interessi, pubblici o privati, come meritevoli di tutela e attribuisce ai soggetti, pubblici o privati, i poteri necessari per la cura di tali interessi: se solo sul piano amministrativo, o anche su quello civile e su quello penale; con intensità diversa e crescente a seconda della gravità dell’abuso.
La figura originaria dell’abuso d’ufficio, destinata ad essere applicata solo in via sussidiaria e comunque stretta dalle figure tipiche del peculato per distrazione e dell’interesse privato in atti d’ufficio, s’iscrive pienamente in un disegno generale che ritiene rilevante e quindi sanziona l’abuso su tutti e tre i piani suddetti (amministrativo, civile e penale). (SISTO : ritiene che ci sia bisogno di tutela penale sotto questo profilo).
Direi che questo è il punto di partenza di qualsiasi discorso sull’abuso d’ufficio.
2. La parabola della disciplina dell’abuso d’ufficio.
La successiva parabola della figura si caratterizza per l’assorbimento in essa della fattispecie dell’“interesse privato in atti d’ufficio” e per la progressiva limitazione della possibilità del sindacato giudiziario attraverso ripetuti tentativi di tipizzare maggiormente l’ipotesi delittuosa, in origine “innominata”.
Il filo conduttore che ispira i diversi interventi che si susseguono è sempre lo stesso: cercare di limitare quella che viene ritenuta un’eccessiva ingerenza del giudice penale nell’attività della PA; e i tentativi vanno sempre nella direzione di limitare quanto più possibile la possibilità d’intervento del giudice penale (nel merito de) sull’azione amministrativa, relegando tale possibilità al mero vaglio di legalità della formale violazione di legge e di regolamento.
Questo processo approda alla riforma del 2020, che interviene sulla riscrittura fatta solo tre anni prima con l’effetto di espungere quasi del tutto la rilevanza dell’elemento finalistico dalla fattispecie: il sindacato del giudice penale sul fine non è più possibile se non è riconducibile ad una violazione di legge in senso proprio. In sostanza: ad una mancanza di potere. Non c’è il potere di perseguire quel dato fine. Il sindacato di ragionevolezza sulla scelta (come vizio autonomo rispetto alla violazione di legge), in ultima analisi, rimane fuori.
Il generico riferimento all’abuso dell’ufficio, rimasto solo nella rubrica dell’art. 323 cod. pen., era stato già dismesso con la modifica del 1997, che aveva individuata la condotta tipica nella «violazione di norme di legge o di regolamento» (ovvero, in alternativa, nella omessa astensione «in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti»). Nel 2020 si specifica ulteriormente che il pubblico ufficiale è punibile unicamente se la condotta è posta in essere “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Nel 2020 il confine viene quindi riposizionato in maniera molto chiara e netta eliminando la possibilità di sindacato sulla discrezionalità
3. Il punto di equilibrio.
Credo che, tutto sommato, il nuovo punto di equilibrio tra le valutazioni discrezionali dell’amministratore pubblico e quelle del giudice penale, sul se e come sia stato effettivamente curato un dato interesse pubblico, potesse esser ritenuto anche soddisfacente, se visto in relazione all’obbiettivo che si è voluto raggiungere nel 2020.
Solo per fare un esempio, cito il caso deciso da Cassazione Sesta Penale sentenza n. 1146 del 8 1 2021, nel quale il Commissario straordinario e Direttore generale di una Azienda Ospedaliera era stato condannato in primo e secondo grado nel presupposto che avesse illegittimamente dequalificato un dato servizio., da struttura complessa a struttura semplice, al fine di demansionare la posizione giuridica ed economica del suo Direttore; finalità desunta da una serie di indici sintomatici, tra cui l'assenza di una seria e urgente finalità riorganizzativa dell'Azienda, neppure esplicitata in atti, e il difetto del necessario presupposto dell'adozione del c.d. atto aziendale.
Figure sintomatiche; vizi procedimentali.
Val la pena ripercorrere la motivazione della sentenza, che illustra in maniera presso che esemplare il punto di equilibrio raggiunto con la riforma del 2020:
“Premesso che la ragion d'essere della figura di reato delineata da una norma di chiusura, come l'art. 323 cod. pen., è ravvisata nell'obiettivo di tutelare i valori fondanti dell'azione della Pubblica Amministrazione, che l'art. 97 della Costituzione indica nel buon andamento e nella imparzialità, i nuovi elementi di fattispecie oggetto della violazione penalmente rilevante - introdotti dalla più recente riforma - sono costituiti dalle <<specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
In luogo del generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione «di norme di legge o di regolamento», si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l'azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti subprimarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali. Di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito - effettuata all'esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati - dell'interesse primario pubblico da perseguire in concreto.
Beninteso: sempreché l'esercizio del potere discrezionale non trasmodi tuttavia in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici - c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità - laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell'alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell'inosservanza dell'obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi.
La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l'apprezzamento dell'inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione "mediata" di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero "cattivo uso" - la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio - della discrezionalità amministrativa. … …
La nuova formulazione della fattispecie dell'abuso di ufficio (ne) restringe l'ambito di operatività (escludendo che assuma rilevanza ai fini della fattispecie penale) la violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità". La sentenza non rappresenta certo un unicum. Tra le tante si può ricordare v. ad es. anche Cassazione Sezione Sesta, 8 1 2021 n 442, (annotata da A. Crismani La discrezionalità amministrativa nel reato di abuso d’ufficio, in GiustiziaInsieme, 29 aprile 2021), nella quale parimenti si afferma in maniera chiara che “La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero “cattivo uso” - la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio - della discrezionalità amministrativa”.
4. Rilevanza del contesto in cui matura la riforma del 2020.
Merita di essere sottolineato il contesto nel quale è maturata la scelta di riposizionare il confine nei termini appena ricordati. La scelta si è consumata infatti in occasione dell’evento pandemico, allorquando si sono dovuti ideare e programmare interventi pubblici straordinari per garantire la ripresa economica del Paese.
Il programma di intervento straordinario voluto dalle Istituzioni europee non solo per contrastare la pandemia, ma per favorire la ripresa e lo sviluppo economico e sociale viene sviluppato in Italia, come noto, dal PNRR. La necessità di evitare il rischio che gli interventi previsti non vengano realizzati e che gli obbiettivi prefissati non vengano raggiunti ha messo in primo piano la questione dell’efficienza amministrativa. Il timore che l’obbiettivo della ripresa economica potesse essere compromesso dall’inefficienza della Pubblica amministrazione ha fatto sì che siano state da subito previste misure destinate ad accompagnare la realizzazione del Piano, approntando uno strumentario giuridico appositamente dedicato a garantire l’efficacia dell’azione amministrativa.
L’intervento legislativo si è a tal fine sviluppato essenzialmente sotto tre distinti profili, convergenti nell’unica finalità di garantire la celere conclusione dei procedimenti e la stabilità delle decisioni.
Le principali misure di “semplificazione” specificamente dedicate ad accompagnare la realizzazione del PNRR sono individuate nel d.l. 16 luglio 2020 n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito con l. 11 settembre 2020 n. 120 e nel d.l. 31 maggio 2021 n. 77 (Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure) e si sviluppano lungo tre linee direttrici.
La prima linea d’intervento ha interessato la disciplina dei procedimenti amministrativi in quanto tali, e si è concretizzata nella previsione di misure di semplificazione, finalizzate a garantire la definizione dei processi decisionali, in tempi rapidi e comunque con certezza della loro conclusione. Il d.l. 76/2020, oltre a introdurre modifiche della disciplina generalmente dettata dalla legge 241/1990, recate dall’art. 12, per garantire la realizzazione degli interventi infrastrutturali di particolare complessità generalizza di fatto l’impiego della figura del Commissario straordinario, prevedendo che i Commissari operino in deroga alla disposizioni di legge in materia di contratti pubblici (“fatto salvo il rispetto dei principi …”) e che possano essere abilitati ad assumere direttamente le funzioni di stazioni appaltante (art. 9). Il dl. 77/2021 prevede invece la possibilità di attivare i meccanismi sostitutivi commissariali (non sostituendo ab origine l’organo, ma solo in corso di attività) in corso di in caso di mancata adozione di atti e provvedimenti necessari all'avvio dei progetti del Piano, ovvero di ritardo, inerzia o difformità nell'esecuzione dei progetti da parte dei soggetti attuatori del PNRR (art. 12), così come nel caso di dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente idoneo a precludere la realizzazione in tutto o in parte la realizzazione di un intervento rientrante nel PNRR o nel PNC (art. 13). Sotto il profilo più strettamente organizzativo, il d.l. 77/2021 prevede l’istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri di una cabina di regia con poteri d’indirizzo, d’impulso e di coordinamento generale sull’attuazione degli interventi del PNRR (art 2); l’istituzione di una Soprintendenza speciale presso il Ministero della cultura con competenza per i beni che siano interessati dagli interventi previsti nel PNRR e con poteri comunque di avocazione e sostitutivi delle Soprintendenze locali nei casi in cui si renda necessario per assicurare la tempestiva attuazione del PNRR (art. 29); l’istituzione di un Comitato speciale presso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici tenuto a esprimersi sui progetti di fattibilità tecnico economica delle opere non solo a livello meramente consultivo, ma con potere anche decisorio, sostitutivo della conferenza dei servizi competente all’approvazione definitiva del progetto nei casi in cui siano stati espressi dissensi in seno ad essa (art 44).
La seconda linea d’intervento è stata quella che lo stesso legislatore a volte ha definita come della “de-giurisdizionalizzazione”, per indicare misure o istituti volti ad evitare o limitare quanto più possibile il rischio che l’intervento del giudice arresti o ritardi la realizzazione degli interventi previsti nel PNRR o nel PNC. Sotto questo profilo, le misure possono distinguersi a seconda che siano volte a limitare la possibilità d’intervento del giudice sull’appalto ovvero a cercare di evitare che dispute o controversie vengano portate e decise in sede giurisdizionale.
L’art 4 del dl 76/2020, espressamente volto a disciplinare il rapporto tra ricorsi giurisdizionali e conclusione dei contratti pubblici, reca diverse disposizioni volte ad assicurare la stabilità dell’aggiudicazione e del conseguente affidamento del contratto. In primo luogo, estende l’applicazione dell’art 125 comma 2 del cpa agli appalti aggiudicati entro il 31 dicembre 2021, il che comporta lo spostamento della tutela sul versante puramene risarcitorio, dal momento che esso statuisce che “la sospensione o l’annullamento dell’affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato e il risarcimento del danno avviene solo per equivalente”. Precisa, in secondo luogo, che “la pendenza di un ricorso giurisdizionale nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto” non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione dello stesso e che “la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento all’interesse della stazione appaltante e a quello nazionale alla sollecita esecuzione del contratto e viene valutata ai fini della responsabilità erariale e disciplinare del dirigente”. Precisa ancora, in terzo luogo, che di norma i giudizi in materia di appalti dovrebbero essere definiti nel merito con sentenza in forma semplificata in esito all’udienza cautelare. Dunque, sembrerebbe d’intendere, a meno che l’aggiudicazione non venga immediatamente sospesa dal giudice amministrativo, il contratto deve essere stipulato e non può esser più caducato e il ricorrente che abbia ragione dovrà limitarsi ad una tutela meramente risarcitoria. Sotto questo profilo, senza entrare nei profili concernenti la costituzionalità di tali norme con riferimento soprattutto all’art 113 Cost., è dunque evidente l’intento di limitare quanto più possibile l’incidenza della pronuncia giurisdizionale sull’affidamento dei lavori.
L’art 6 reca invece previsioni dichiaratamente volte a scoraggiare il ricorso al momento giurisdizionale per la risoluzione di dispute o questioni che possono insorgere nell’esecuzione dell’appalto, al fine di evitare che l’incidente giurisdizionale comprometta o ritardi la realizzazione dell’intervento, recuperando /introducendo la figura del Collegio Consultivo Tecnico. Per i lavori diretti alla realizzazione di opere pubbliche d’importo pari o superiore alla soglia comunitaria, il CCT deve essere obbligatoriamente costituito “per la rapida risoluzione delle controversie o dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso”. L’istituzione rimane facoltativa per i lavori sotto soglia.
La terza linea d’intervento seguita è stata infine quella di rimuovere la difficoltà di assumere decisioni in un quadro normativo, economico, tecnico e sociale estremamente complesso, incerto e farraginoso, intervenendo sul regime giuridico della responsabilità amministrativa e penale dei funzionari pubblici al fine di rimuovere la c.d. “paura della firma”. Sotto questo profilo l’attenzione è stata rivolta all’elemento personale della pubblica amministrazione, al “fattore umano”.
Non si è intervenuti solo sull’abuso di ufficio. Prima ancora (con l’art. 21 del d.l. n 76 del 2020)si è intervenuti sul problema della responsabilità erariale, limitando la responsabilità dei funzionari pubblici per danno erariale alle sole ipotesi in cui ne venga accertato il dolo e precisando che tale limitazione “non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”. L’ulteriore precisazione che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso” vale a chiarire anche che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece sostenuto da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile.
Si è poi intervenuti anche sull’abuso di ufficio, con l’art. 23, circoscrivendo il reato di abuso d'ufficio alla violazione di puntuali disposizioni di leggi e atti con forza di legge da cui non residuino margini di discrezionalità: le parole “in violazione di norme di legge o di regolamento” vengono sostituite con “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalle legge o da atti aventi forza di legge e delle quali non residuino margini di dicrezionalità”, rendendo evidente la già sottolineata tendenza a limitare quanto più possibile la possibilità d’intervento del giudice penale nel merito dell’azione amministrativa.
5. L’importanza di una logica di sistema.
Ho insistito nel richiamare gli elementi del contesto in cui matura la riforma dell’istituto nel 2020, poiché ciò rende evidente come l’intervento riformatore, piaccia o meno la ridefinizione dei confini operata, abbia trovato fondamento giustificativo nell’ambito di un insieme complesso di misure, di diversa natura, dichiaratamente volte a comprimere e sacrificare le garanzie di legalità dell’azione amministrativa a vantaggio di una logica di puro risultato, divenuta prioritaria per non perdere l’occasione irripetibile di utilizzo di risorse straordinarie volte a garantire la ripresa economica dopo l’emergenza del periodo pandemico. Si è comunque mosso in una logica di sistema.
Tant’è vero ciò che proprio sulla base di questa considerazione la Corte costituzionale, con la sentenza n. 8 del 18 1 2022, respinge i motivi d’incostituzionalità sollevati per il fatto che la riforma fosse stata introdotta con decreto legge. Vale la pena ricordarne il passo saliente della motivazione sul punto: “Il riconoscimento dell’esistenza dei presupposti fattuali, di cui all’art. 77, secondo comma, Cost., resta, dunque, collegato ad una intrinseca coerenza delle norme contenute nel decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico. L’urgente necessità del provvedere può riguardare, cioè, una pluralità di norme accomunate o dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero dall’intento di fronteggiare una situazione straordinaria complessa e variegata, che richiede interventi oggettivamente eterogenei, in quanto afferenti a materie diverse, ma indirizzati tutti all’unico scopo di approntare urgentemente rimedi a tale situazione (tra le altre, sentenza n. 149 del 2020, n. 137 del 2018, n. 170 del 2017, n. 244 del 2016 e n. 22 del 2012). Per i decreti-legge ab origine a contenuto plurimo, quel che rileva è dunque il profilo teleologico, ossia l’osservanza della ratio dominante l’intervento normativo d’urgenza (sentenze n. 213 del 2021, n. 170 e n. 16 del 2017, e n. 287 del 2016). Anche su tale fronte, il sindacato di questa Corte resta, peraltro, circoscritto ai casi in cui la rottura del nesso tra la situazione di necessità ed urgenza che il Governo mira a fronteggiare e la singola disposizione del decreto-legge risulti evidente, così da connotare quest’ultima come «totalmente “estranea”» o addirittura «intrusa», analogamente a quanto avviene con riguardo alle norme aggiunte dalla legge di conversione (sentenza n. 213 del 2021). Alla luce dei principi ora ricordati, le censure del giudice rimettente non possono essere condivise. Non si può ritenere, anzitutto, come egli opina, che la norma censurata sia «eccentrica ed assolutamente avulsa», per materia e finalità, rispetto al decreto-legge in cui è inserita. Come emerge dal preambolo, dai lavori preparatori e dalle dichiarazioni ufficiali che ne hanno accompagnato l’approvazione, il d.l. n. 76 del 2020 reca un complesso di norme eterogenee accomunate dall’obiettivo di promuovere la ripresa economica del Paese dopo il blocco delle attività produttive che ha caratterizzato la prima fase dell’emergenza pandemica. In quest’ottica, il provvedimento interviene in molteplici ambiti: semplificazioni di vario ordine per le imprese e per la pubblica amministrazione, diffusione dell’amministrazione digitale, ma anche responsabilità degli amministratori pubblici”.
Insomma, la riforma del 2020 ha avuto il suo fondamento giustificativo proprio nell’urgenza di provvedere per privilegiare la valutazione dell’azione amministrativa, a tutto tondo (in tutte le materie), secondo una logica di risultato anzichè di pura legalità. Si è mosso in una logica di sistema.
6. È davvero necessaria una nuova riforma dell’abuso d’ufficio?
Si torna oggi nuovamente a parlare della necessità di riformare l’istituto. Perché?
Siamo fuori dalla logica di sistema che si è sopra ricordata.
Come fondamento giuridico si evoca il dato statistico (ma, a fronte della considerevole mole dei procedimenti aperti, ben pochi si concludono con una condanna) o il puro e semplice fatto che il funzionario ha paura d’incorrere in responsabilità penale (ma le figure di reato esistono apposta per fare paura).
Le ragioni addotte non paiono dunque convincenti, ma rimane il fatto che il tema riemerge comunque periodicamente in maniera carsica. E ciò si verifica perché, come ben sintetizzato dalla citata Corte cost. 8/22, “la figura criminosa dell’abuso d’ufficio, assolve(ndo) una funzione “di chiusura” del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (e) rappresenta il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa: tematica percorsa da una perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un controllo a tutto tondo, atto a fungere da freno alla mala gestio della cosa pubblica, e l’esigenza di evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante”.
La vera questione quindi è e rimane se debba esserci o meno un presidio anche penale per lo sviamento (radicale) dalla funzione amministrativa.
Credo sia difficile modificare ancora il punto di equilibrio raggiunto con la riforma del 2020, tra le valutazioni discrezionali dell’amministratore pubblico e quelle del giudice penale sul se e come sia stato effettivamente curato un dato interesse pubblico; credo sia cioè difficile spostare ulteriormente il confine senza rinunciare completamente alla figura dell’abuso d’ufficio.
Sul fronte della discrezionalità si è già agito e non si vede come si possa andare oltre.
Si può andare oltre solo escludendo la possibilità di ravvisare l’abuso anche in caso di vera e propria mancanza di potere, di comportamenti cioè puramente arbitrari. La figura classica dello sviamento. Ma questo significherebbe praticamente escludere in radice la possibilità di punire il funzionario che abbia agito senza che nessuna norma di legge gli abbia attribuito il potere. Meglio dire chiaramente che il reato viene abrogato.
Oppure si può escludere una (buona) parte dell’azione amministrativa dall’ambito di applicazione. Il che avverrebbe escludendo l’abuso di vantaggio. Ma ciò significa rinunciare a presidiare penalmente violazioni del principio d’imparzialità per la metà forse più significativa dell’azione amministrativa distributiva di vantaggi e ricchezza.
Non credo vi siano ragioni di sistema che impongano di tornare sul tema per migliorarlo.
Credo più semplicemente che, nel suo carsico fluire, la classica tensione tra sindacabilità e insindacabilità delle scelte amministrative da parte del giudice penale stia riemergendo in un momento storico che vede la magistratura in posizione di particolare debolezza, e la politica particolarmente forte grazie a una maggioranza solida e stabile. E la classe politica stia cercando di cogliere l’occasione non già per riposizionare un confine, ma per eliminare la possibilità di sindacato del giudice penale sul perseguimento di fini illeciti da parte della pubblica amministrazione. E’ una questione di rapporti di forza tra poteri, non di sistema.
[1] L’articolo riproduce il testo dell’intervento al convegno del 31 gennaio 2023 su “Abuso d’ufficio e diritto alla buona amministrazione”organizzato dal Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Bari Aldo Moro.