1. Il carcere, questo “sconosciuto”
Spesso si sente parlare di carcere e sempre in termini problematici: il carcere è sovraffollato, inadeguato “architettonicamente”, inefficace ed è, talvolta, teatro di fatti di reato, si pensi, da ultimo ai fatti drammatici di Santa Maria Capua Vetere o alle rivolte scoppiate durante la pandemia. Volendo fare una sintesi, il carcere è un luogo “estremo” in cui tutto è amplificato.
Eppure, nonostante tutto, di carcere non si parla mai abbastanza o non se ne parla mai in modo analitico, sviscerando a fondo la realtà carceraria, i suoi problemi, cosa dovrebbe o potrebbe essere migliorato. Tanto accade perché il carcere è spesso concepito come “altro” rispetto alla società civile o, peggio, un ambiente che serve esclusivamente a tutelare chi sta fuori, dimenticando chi sta dentro. Il carcere è anche un tema politicamente scomodo e difficile da affrontare andando al di là del fuorviante slogan, redditizio in termini di voti, del “gettate via la chiave”.
Tale approccio, oltre ad essere disumanizzante ed “incivile”, è inutile anche per chi sta fuori dal carcere. Anche seguendo un approccio meramente utilitaristico, le statistiche ci rimandano dati che impongono una seria riflessione ed un serio ripensamento del carcere e del sistema sanzionatorio tutto. Il tasso di recidiva di chi sconta la pena detentiva interamente in carcere, infatti, senza accedere al lavoro e senza un effettivo percorso di reinserimento sociale, è elevatissimo.
A cosa serve dunque il carcere oggi e come occorrerebbe ripensarlo?
Se, infatti, il punto di approdo del sistema carcerario è chiaro, ovvero la rieducazione ed il reinserimento sociale, molto più problematico è il percorso da intraprendere per raggiungere l’obiettivo, avendo di mira la dignità dei detenuti ma anche, allo stesso tempo, la sicurezza collettiva.
Dal suo punto di vista privilegiato, di operatore del settore in qualità di responsabile dell’Area Educativa della II Casa di Reclusione di Milano (Bollate), quale ritiene che sia la giusta chiave di lettura per un cambiamento di rotta. Quali sono i principali difetti del sistema carcerario e da dove occorrerebbe partire per migliorarlo.
Il sistema penitenziario è molto complesso ed eterogeneo, si pensi solo alle differenze strutturali tra istituti di recente costruzione e quelli che sono collocati in edifici storici, nati con altre finalità. E ancora la differenza tra case circondariali (che ospitano soprattutto imputati) e case di reclusione, nonché i diversi circuiti e regimi interni che, nel ventaglio di possibilità nella non semplice armonizzazione tra sicurezza e trattamento, vanno dalle sezioni per detenuti sottoposti al regime di cui all’art 41 bis II comma dell’ordinamento penitenziario, agli Istituti a custodia attenuata (per tossicodipendenti – ICATT – o per detenute madri – ICAM). Tra questi due poli opposti si collocano i tre circuiti dell’alta sicurezza, le sezioni per collaboratori di giustizia e la (grande) area della media sicurezza, che comprende anche le sezioni protetti.
Ho fatto questo breve excursus poiché è imprescindibile premessa alla difficile domanda. Un primo problema riguarda una visione della pena carcerocentrica, cioè che riconosce solo (o soprattutto) alla detenzione la capacità di rispondere al problema criminale e penale e proprio tale visione, che spesso non si interroga sugli effetti e sull’efficacia di tale risposta, incide sul doppio mandato del carcere: da un lato quello costituzionale, dall’altro quello sociale.
Da qui si dovrebbe partire, perché solo una nuova cultura consapevole sulla pena può creare quei rapporti osmotici tra il dentro e il fuori auspicati dalla riforma del 1975, che sono alla base di un’organizzazione che si fonda proprio su tale compartecipazione.
Istruzione, lavoro, attività culturali, ecc, sono state inserite nella normativa sia per attenuare gli ovvi effetti disadattanti di una struttura chiusa (totale come scriveva Goffman), sia perché è fuori che le persone devono tornare e quindi devono apprendere strumenti spendibili proprio nel contesto libero (sano e produttivo) che possono restituire loro l’essere uomo/donna nel mondo.
Quindi, al di là delle questioni strutturali, il primo asse tematico credo sia proprio questo e cioè sperimentare un’organizzazione aperta all’esterno e che con l’esterno crei percorsi e opportunità virtuose (volontariato, terzo settore, imprese, università, ecc), nell’ottica che la questione della pena è questione di tutti.
Le direttive europee e le circolari dell’amministrazione penitenziaria vanno in questo senso, non sempre, però, trovano gli interlocutori pronti a uscire da logiche e prassi, talvolta rassicuranti, che proprio perché consolidate, rappresentano una sorta di norma interna e limitano lo scambio.
Maggiori contatti tra i due mondi portano anche maggiori opportunità di inserimento all’esterno (art 21, misure alternative) e quindi avrebbero un ulteriore ed efficace effetto.
In una recente circolare a firma del vice capo del Dipartimento (Iniziative per l’innovazione del sistema penitenziario del 18 novembre 2022) ad esempio si auspica come buona prassi quella di organizzare open day per le organizzazioni imprenditoriali.
Il carcere deve uscire da logiche autoreferenziali che lo isolano dal mondo esterno e sollecitare la cultura del carcere diffuso.
2. Carcere e “giustizia sociale”
Il carcere costituisce un osservatorio privilegiato per interpretare la società tutta in un dato momento storico. L’impressione è che, ad oggi, il sistema carcerario appare funzionale ad incanalare le istanze di giustizia “securitaria”, sulle quali spesso si concentra la politica, distogliendo l’attenzione dall’affrontare le istanze di “giustizia sociale” ovvero le questioni economiche, sociali e politiche che, spesso, sono all’origine dei fatti penalmente rilevanti.
Quanto c’è di vero in tale considerazione; osservando la società dall’interno delle mura di un carcere, quanto disagio sociale, psichico, economico raccoglie il carcere e su quale fronte, dunque, dovrebbe maggiormente orientarsi, all’esterno, l’azione dei pubblici poteri per garantire inclusione sociale e sicurezza collettiva.
Le funzioni sussidiarie che il carcere svolge nella contemporaneità (ma forse ha sempre svolto, se si pensa a Carcere e fabbrica di Pavarini), sono evidenti: spesso si occupa di marginalità più che di devianza, di povertà più che criminalità, tranne che per quelle persone per le quali, per reali esigenze di sicurezza, la detenzione rappresenta una risposta, ancorché transitoria, a fenomeni di criminalità strutturata.
Il carcere, quindi, diventa un contenitore (rassicurante per la società) come lo sono, mi si permetta l’infelice paragone, le discariche: necessarie ma che non si devono vedere e devono essere collocate lontane dalle abitazioni civili.
Eppure, quei rifiuti sono prodotti dalla medesima società e, come accade ora per i temi ecologici, ci si dovrebbe interrogare sulle modalità per produrne di meno.
Una fetta della popolazione reclusa arriva alla devianza non da contesti che hanno familiarità con il crimine e la subcultura penitenziaria, ma si trova, per processi di espulsione sociale, in una sorta di limbo liminale che li mette nella pericolosa condizione di delinquere. Anche a questa parte di popolazione il carcere deve rispondere in modo individualizzato, quindi adattando le proposte, creando una rete con i servizi sociali del territorio e aprendo strade che riportino nel contesto sociale – centrale e non liminale – quelle persone. Ovviamente si tratta di un grande sforzo.
3. Educazione in carcere
Il tema dell’educazione in carcere riassume in sé, già da un punto di vista semantico, quella che dovrebbe essere la funzione principale della pena, per come è concepita nella Costituzione, ovvero quella rieducativa. E tanto il costituente aveva previsto avendo in mente, come “pena”, il carcere.
Di recente lei ha collaborato alla stesura di un volume, in collaborazione con la prof.ssa Oggioni, ricercatrice in Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dal titolo “Educazione in carcere”. Il carcere ha, infatti, proprio in relazione alla funzione ri-educativa della pena, un mandato istituzionale difficile da realizzare: da un lato “toglie”, legittimamente, il bene fondamentale della libertà, dall’altro ha il compito di educare alla “libertà” e dunque di “dare” al singolo gli strumenti per muoversi legittimamente in ambito sociale realizzando la propria personalità (vedi ord. Penitenziario). Qual è dunque il punto di equilibrio tra queste due anime e come si differenzia e si adatta l’offerta educativa alle condizioni soggettive molto diverse presenti negli istituti penitenziari.
Il rapporto quasi ossimorico tra educazione e carcere (per loro natura caratterizzati per modi, obiettivi e visioni quasi opposte) è ciò che rende più interessante la sfida pedagogica (anzi andragogica) dell’operare negli istituti di pena.
Lo sguardo deve partire dalle parti funzionali (talvolta residuali) della persona reclusa, prima che da quelle compromesse, come ben chiarisce l’art 13 dell’ordinamento penitenziario, nella vera ottica educativa (ex ducere = tirare fuori) e quindi mettendo la persona nella condizione di scoprire parti nuove di sé, competenze, interessi che non aveva mai preso in considerazione, vuoi per l’ambiente ipostimolante di provenienza, vuoi per immagine sociale ormai sedimentata da confermare.
Solo in tal modo, mettendo il detenuto (che è e resta un adulto) nella condizione di scegliere, limitando al massimo la sofferenza inutile e i limiti non strettamente necessari, si può entrare in una relazione educativa che chiede l’assunzione di responsabilità, riconoscendo all’altro diritti e capacità. E in tale varco, laddove possibile, si può e si deve inserire la presentificazione della parte offesa e del danno, nonché delle azioni ad essi connesse.
Il rapporto deve essere quello (scevro da vissuti punitivi o salvifici) di un servizio che viene offerto e deve tendere all’obiettivo dell’efficacia (quindi della rieducazione), abbandonando tentazioni infantilizzanti e per assurdo protettive, quando non rinforzanti la devianza.
Solitamente, invece, il carcere agevola vissuti vittimistici nel detenuto che acuiscono rabbia e sfiducia nelle istituzioni, lasciando totalmente fuori un ragionamento serio sul danno.
Infine, l’istituzione per essere educativamente credibile deve essere comprensibile e deve, quando serve, sapersi mettere in discussione, proprio come chiede di fare ai suoi ospiti.
4. Carcere e disagio psichico
Un tema particolarmente complesso è quello del disagio psichico in carcere, tanto con riferimento ai soggetti che già si approcciano all’esperienza detentiva in condizioni di salute psichica compromesse; quanto con riferimento a coloro che, invece, proprio a seguito della detenzione, accusano sofferenze di tipo psichico. Qual è l’incidenza di entrambi i casi in carcere e come vengono fronteggiate queste situazioni?
In particolare, con riferimento al primo tema, la riforma avviata dalla L. 7.2.2012 nr. 9, di abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari e di istituzione delle REMS, ha comportato un ruolo di supplenza del carcere in relazione alle situazioni soggettive connotate da maggiori esigenze di contenimento? Come vengono gestite tali situazioni?
In relazione, invece, al disagio psichico “determinato” dal carcere, quale ritiene che ne siano le cause? Si può ritenere tale disagio effetto necessario e imprescindibile della pena detentiva, e se si entro quale limite, oppure esso è il più delle volte un aspetto disfunzionale del carcere frutto di una sbagliata concezione ed organizzazione della struttura carceraria?
Il tema della salute mentale in carcere è molto complesso. Infatti, una parte della popolazione proviene da quel limbo sociale sopracitato e spesso ha già sviluppato fragilità psichiche, anche dovute all’uso di alcol o sostanze e approda alla detenzione portando con sé tale disagio che durante la pena viene acuito.
Al contempo, vi sono fragilità mentali che emergono per la prima volta durante la detenzione, frutto di un disturbo dell’adattamento (adjustment disorders) o di un disturbo post traumatico da stress (post traumatic stress disorder) dato che la persona che entra in Istituto per la prima volta percorre un transito rilevante, abbandonando la propria identità sociale, le proprie certezze (processo di spoliazione), dovendo sperimentare una nuova e sconosciuta dimensione.
Talvolta, l’isolamento induce a riletture di sé e della propria storia che aprono spazi inesplorati e risignificano esperienze pregresse (legate anche ai legami affettivi, ai vissuti e a processi di deprivazione) e in questi casi la persona che si era costruita una stabilità psicologica si scopre nella sua vulnerabilità e deve fare fronte a un nuovo assetto di difficile accettazione.
Infine, vi sono persone che erano in carico ai servizi di salute mentale e quindi con un disagio diagnosticato ma che non ha comportato, durante il processo, un’incapacità tale da escludere la reclusione.
Spesso in quel contenitore che solitamente chiamiamo disagio mentale ci sono persone che da un punto di vista clinico non sono diagnosticate e riconducibili a un disturbo vero e proprio, la condizione detentiva non facilita la lettura anamnestica del disagio, anche se spesso gli operatori di fronte a un comportamento difficilmente comprensibile secondo i parametri classici (e quindi culturalmente orientati) tendono a psichiatrizzare il problema, ritenendo che solo il personale dell’area sanitaria abbia strumenti adatta alla gestione di tali situazioni.
Ritengo che la presa in carico non possa che essere sempre congiunta e che l’approccio clinico debba essere complementare a quello educativo che deve strutturare il piano del fare e del far riscoprire alla persona le parti funzionali di sé.
Talvolta alcuni comportamenti/gesti che possono essere ascrivibili al disagio mentale sono di fatto espressioni (pur abnormi) di problemi sociali, anche quando sfociano in gesti aggressivi dei quali dobbiamo sapere interpretare la portata comunicativa (si pensi ad eventi critici anche di livello preoccupante che sono scatenati dalla mancanza dell’accesso a un servizio, senza averne compreso la motivazione).
5. L’effetto rieducativo e inclusivo del carcere
Qual è, secondo la sua esperienza, l’approccio all’esperienza detentiva da parte dei condannati: vi è una effettiva e progressiva presa di coscienza del torto arrecato e, da qui, un percorso effettivo di acquisizione degli strumenti per un reinserimento sociale effettivo all’esito dell’espiazione? Quanto questo percorso dipende da fattori esterni, quale le modalità di espiazione della pena, con la possibilità di lavorare, di studiare, di svolgere attività laboratoriali, e quanto, invece, da fattori endogeni, indotti anche dalla costrizione e dall’effettiva impossibilità di poter godere appieno della libertà.
I fattori sono sia endogeni sia esogeni: la cultura di appartenenza, la visione deterministica dall’epilogo già scritto, le aspettative del contesto sono di certo elementi che incidono molto nella postura del singolo verso la pena ma ciò non deve essere motivo per venir meno di quell’obbligo/tensione a proporre spazi di riflessione e riqualificazione.
La scoperta di una competenza mai sperimentata in alcune biografie segna un’apicalità che può portare al cambiamento, in altri casi la sperimentazione di alcune attività che sollecitano la rilettura dei valori di riferimento e stimolando all’autodeterminazione, in altri casi ancora la relazione di cura (spesso mai conosciuta) può essere una leva.
Se il rapporto con l’istituzione viene vissuto in modo non oppositivo, allora può diventare l’accesso a servizi e a opportunità. Alla base ci deve essere una relazione (tra le parti) che chiarisca sin dall’inizio ruoli, competenze e finalità e che si basi sulla conoscenza diretta e sulla comprensione dell’altro, scevra da stereotipi. Penso a quei percorsi di giovani che entrano per reati violenti (es. risse con omicidio tra pari), messi in atto in modo gratuito ed estemporaneo che varcando la soglia sembrano arrabbiati con il mondo (perché ritengono di essere in credito con esso) e per i quali la detenzione rischia di essere la celebrazione della loro devianza .
In certi casi, però, può trasformarsi in un’opportunità di riscatto. Molte le storie di chi, da tali contesti e con tali premesse, col tempo ha trovato un ruolo diverso, si è sentito compreso e ascoltato e ha messo a frutto competenze inattese e ora ha un posto di lavoro in aziende importanti (penso a un ragazzo che ora lavora a tempo indeterminato in un hotel esclusivo in pieno centro). Uno stile di vita che sarebbe stato inimmaginabile. Eppure, è stato possibile.
6) La riforma Cartabia
La riforma del sistema sanzionatorio penale, introdotta dal D.Lgs 150 del 2022, è ispirata alla considerazione che la detenzione di breve durata comporta costi individuali e sociali maggiori rispetto a forme di sanzioni da eseguirsi nella comunità delle persone libere. In sostanza, il legislatore, sembra aver preso atto di come spesso, la detenzione di breve durata abbia più un effetto desocializzante piuttosto che rieducativo, specie se, come accade nella maggioranza dei casi, l’esecuzione interviene a distanza di anni dalla commissione del reato, talvolta anche dalla sentenza, quantomeno la sentenza di primo grado.
Invero, già la legislazione degli anni settanta/ottanta si articolava seguendo le direttrici sopra delineate. Lo scopo era quello della “riduzione dell’incidenza del carcere perché del carcere è stata ormai individuata, alla luce dell’esperienza, la dannosità individuale e sociale per cui il ricorso a questo tipo di pena deve essere considerato da un ordinamento moderno e avanzato come ultima ratio”; si tratta delle parole di Giuseppe Riccio, rese in sede di discussione sulla modifica dell’ordinamento penitenziario, svoltasi in Senato tra il 4 e 5 giugno 1986.
Nihil novi sub sole, dunque, o qualcosa è cambiato o sta cambiando rispetto al passato?
Per poter constatare gli effetti della riforma, dall’osservatorio del carcere, ritengo sia ancora presto, però senza dubbio la legittimazione della giustizia riparativa, in tutte le sue forme, è una svolta di paradigma importante.
Infatti, la modica all’art 13 e l’introduzione dell’art 15 bis, evidenziano quanto le azioni che tendono, in modo diretto o simbolico, alla ricomposizione del conflitto siano parte integrante del trattamento (o meglio della co-progettazione individuale, come viene denominata dalla circolare del 03 febbraio 2022), proprio perché si sforza di ricomprendere, nell’orizzonte di senso, l’altro da sé.
Che esso sia rappresentato da un quartiere di cui occuparsi gratuitamente, che sia una persona che ha subito un reato analogo a quello commesso dal condannato o addirittura la vittima specifica.
Sempre nell’ottica della responsabilizzazione adulta, ci deve essere, come già detto sopra, un pensiero (quando non un’azione) verso il danno e il danneggiato. Già nel 2005 una circolare assorbiva le Raccomandazioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa (Dichiarazione di Vienna del 2000 e la Risoluzione 27 luglio 2000, n. 2000/14) sui principi della giustizia riparativa, emanate dall’Economic and Social Council e chiariva gli attori e le metodologie da adottare in tal senso.
La mia esperienza diretta ha potuto constatare quanto questo approccio rimetta al centro la persona, sia chi ha la responsabilità del danno messo in atto, sia chi l’ha subito, con una ricaduta educativa evidente, poiché fa cadere alcuni meccanismi difensivi e chiede l’assunzione di uno sguardo diverso.
E solo uno sguardo diverso può ridare senso alla pena e avvicinarla al mandato costituzionale.