ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La tutela esecutiva per la decisione resa in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: gli ultimi sviluppi, tra evoluzione e arresti giurisprudenziali (nota a Consiglio di Stato, Sezione Prima, 28 febbraio 2022 n. 475)
di Silvia Casilli
Sommario: 1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Il thema decidendum: l’ottemperanza del decreto in accoglimento del parere interlocutorio del Consiglio di Stato – 2. Cenni diacronici sulla natura e ratio degli istituti in questione alla luce della progressiva giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario. Approdi in tema della sua compatibilità con il rimedio dell’ottemperanza. – 3. La pronuncia della Sezione Prima: le ragioni dell’inammissibilità della domanda e l’assenza della potestas iudicandi – 4. Osservazioni conclusive: è ravvisabile un vulnus nel principio di effettività della tutela?
1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Il thema decidendum: l’ottemperanza del decreto in accoglimento del parere interlocutorio del Consiglio di Stato.
Con l’Adunanza del 24 novembre 2021, n. 475/2022, la Sezione Prima del Consiglio di Stato si è pronunciata in tema di ottemperanza della decisione cautelare resa in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, discostandosi dalla posizione assunta dalla Sezione Quinta[1] in sede giurisdizionale nel parallelo giudizio di ottemperanza ed affermando, al contrario, di non poter essere adita con il rimedio di cui agli artt. 112 ss. c.p.a.
La vicenda trae origine dal ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con istanza di sospensiva, proposto ex art 11 d.P.R. n. 1199/1971 avverso la Nota del Dipartimento Politiche Abitative di Roma Capitale avente ad oggetto il “rifiuto dell’alloggio E.R.P.”[2], nonché avverso tutti gli atti lesivi, presupposti, sottesi e conseguenziali, e volto ad ottenere, quale risarcimento in forma specifica del danno asseritamente subito dal ricorrente, il riconoscimento al diritto di ottenere l’assegnazione dell’alloggio E.R.P. Con motivi aggiunti, il ricorrente agiva poi per l’annullamento di una serie di verbali e Determine Dirigenziali emanate dall’amministrazione e relative alla pubblicazione e aggiornamento della graduatoria per l’assegnazione di alloggi, previa sospensiva, al fine di ottenere l’annullamento del primo dei provvedimenti impugnati, avente ad oggetto il rifiuto dell’alloggio.
In particolare, parte ricorrente deduceva, tra gli altri motivi di ricorso, la violazione e falsa applicazione delle disposizioni di cui all’art. 7 del bando E.R.P. 2012 di Roma Capitale, per non essere stato destinatario della diffida all’accettazione prevista dal menzionato articolo prima che fosse dichiarata la decadenza dei candidati. Il Comune, invece, riteneva direttamente accertata la rinuncia all’accettazione, con conseguente ricollocazione del ricorrente nella graduatoria dietro soggetti con nucleo familiare di minore consistenza.
Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, cui veniva trasmesso il ricorso, richiedeva, ex art. 11 d.P.R. n. 1199/1971, il parere del Consiglio di Stato che, con ordinanza del 20 marzo 2020, riscontrando nella procedura la carenza della diffida prescritta dall’art. 7 del Bando per l’assegnazione, accoglieva, con parere interlocutorio n. 754, la richiesta di sospensiva, disponendo il provvisorio reinserimento in graduatoria del ricorrente.
La difesa del ricorrente – non essendo stato questi ricontattato dal Comune di Roma per la scelta dell’alloggio, ed anzi essendo stata ripubblicata la graduatoria aggiornata nella quale risultava in posizione nettamente inferiore dietro soggetti con nucleo familiare inferiore ed in posizione peggiore rispetto a quella in un secondo momento assegnata dopo la comunicazione del rifiuto – instaurava parallelamente il giudizio ex artt. 114 ss. c.p.a. dinanzi la Sezione Quinta del Consiglio di Stato, cui chiedeva l’ottemperanza sia del detto parere n. 754/2020 della Sezione prima, che aveva accolto l’istanza cautelare di reinserimento in graduatoria, che del successivo parere 1582/2020, reso dalla Sezione Prima nell’adunanza del 14 ottobre 2020, nella parte in cui stabiliva che Roma Capitale avrebbe dovuto fornire preliminarmente al ricorrente, nel termine di trenta giorni, i nominativi e gli indirizzi dei soggetti ai quali erano stati assegnati gli alloggi originariamente previsti per l’assegnazione al ricorrente medesimo, beneficiari delle Determine dirigenziali oggetto di impugnativa.
Avendo il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale[3] dichiarato inammissibile il ricorso per l’ottemperanza per carenza di potestas iudicandi, specificando che “spetta alla stessa sezione consultiva che ha emesso il parere verificare l’esecuzione dei propri pronunciamenti e individuare le misure più idonee in caso di inadempimento da parte dell’amministrazione”, il ricorrente chiedeva alla Sezione Prima di dare ottemperanza al decreto direttoriale n. 71/2020 che ha accolto il parere n. 754/2020, nonché di applicarsi la penalità di mora ex art. 114 comma 4 lett. e) c.p.a. per i giorni di ritardo.
È su queste specifiche ed ultime richieste che la Sezione Prima, all’adunanza del 24 novembre 2021 in commento, si è pronunciata.
Il thema decidendum verte, dunque, sull’esecuzione, ai sensi degli artt. 112 ss. c.p.a., dell’ordinanza cautelare resa dal Consiglio di Stato in sede consultiva, nel parere espresso nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
2. Cenni diacronici sulla natura e ratio degli istituti in questione alla luce della progressiva “giurisdizionalizzazione” del ricorso straordinario. Approdi in tema della sua compatibilità con il rimedio dell’ottemperanza.
Al fine di comprendere gli aspetti problematici della questione, prima ancora di analizzare le argomentazioni della Sezione consultiva ed il contenuto dell’adunanza, è opportuno richiamare gli istituti che rilevano nel caso di specie, in quanto, proprio in ragione della loro natura e della ratio che li giustifica, sono sorti dubbi circa la loro reciproca compatibilità.
Per comprendere la portata del dibattito che ha a lungo interessato dottrina e giurisprudenza non si può prescindere dall’evoluzione storica che ha caratterizzato il rimedio del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e dalle caratteristiche del giudizio di ottemperanza per poi raccordare i due istituti nella spinosa questione inerente alla proponibilità del rimedio dell’ottemperanza per portare ad esecuzione le decisioni rese dal Presidente della Repubblica.
Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, diversamente dagli altri ricorsi amministrativi[4], è oggi ritenuto, all’esito di un lungo e complesso dibattito giurisprudenziale, un rimedio formalmente amministrativo, ma sostanzialmente giurisdizionale visto il ruolo imprescindibile del Consiglio di Stato. Il suo più lontano antenato è rinvenibile nel sistema di “giustizia ritenuta”[5], tipico delle monarchie assolute. La prima codificazione di questo rimedio risale al 1739[6], nel 1975 fu poi istituito il Consiglio del Re e si stabilì che il sovrano potesse ascoltarne il parere, anche se non vincolante, prima di decidere sui ricorsi a lui indirizzati; fu poi Carlo Alberto nel 1831, a modificarne la denominazione in “Consiglio di Stato” il cui parere venne reso obbligatorio in tutti i casi di ricorso al Re dalla Legge del Regno di Sardegna n. 3707/1859.
Con l’istituzione nel 1889 della IV Sezione del Consiglio di Stato venne meno la funzione del ricorso straordinario di rimedio generale per l’impugnazione, per motivi di legittimità, dei provvedimenti amministrativi definitivi. La legge n. 5992/1889, infatti, attribuiva definitivo sbocco giurisdizionale anche agli interessi legittimi, fino ad allora tutelabili solo attraverso lo strumento dei ricorsi amministrativi[7]. Pur ritenendo alcuni che il rimedio avesse esaurito la sua utilità[8], l’istituto venne mantenuto in vita e, per evitare che vi fossero problematiche duplicazioni, in ossequio al principio del ne bis in idem, si fece ricorso al principio di alternatività[9] tra ricorso giurisdizionale e ricorso straordinario di modo da evitare da un lato che sullo stesso atto intervenissero due pronunce giustiziali diverse e dall’altro che il Consiglio di Stato si pronunciasse due volte sulla medesima questione.
Il principio, dunque, comporta “l’inammissibilità del ricorso al giudice amministrativo proposto contro lo stesso atto impugnato in via straordinaria; sia per il ricorrente, sia per i controinteressati che non si siano avvalsi della facoltà di chiedere la decisione del ricorso in sede giurisdizionale – art. 10 comma 1 d.P.R. 1199/1971 – e comporta anche l’inammissibilità del ricorso straordinario qualora l’atto sia stato già impugnato con ricorso giurisdizionale”[10].
L’alternatività rispetto al rimedio giurisdizionale rappresenta una caratteristica che può al contempo fondare opposte interpretazioni circa la natura del ricorso: se da una parte è stato sostenuto che questo fosse posto a dimostrazione della diversità della natura tra ricorso straordinario e rimedio giurisdizionale[11], dall’altra lo stesso principio può leggersi come una dimostrazione dell’equiordinazione tra i due rimedi.
L’ultimo capitolo delle modifiche legislative intervenute sulla disciplina del ricorso straordinario ha inciso profondamente sulla sua natura.
Prima dell’entrata in vigore della l. n. 69/2009 il dibattito, caratterizzato da non pochi cambiamenti di orientamento determinatisi nel tempo sul suo inquadramento sistematico e sulla stessa opportunità del rimedio – si pensi all’oscillazione tra posizioni favorevoli al suo ampliamento ed altre propense addirittura alla sua totale eliminazione – si polarizzava attorno a due letture.
Da una parte la tesi tradizionale[12] ne affermava la natura amministrativa in ragione della natura amministrativa dell’organo promanante la decisione, della natura obbligatoria ma non vincolante del parere del Consiglio di Stato, dell’inidoneità delle decisioni del Presidente della Repubblica a passare in giudicato, dell’impossibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale e di effettuare rinvio pregiudiziale, nonché del principio di alternatività.
Dall’altra, la presenza del parere del Consiglio di Stato, il principio di alternatività che starebbe a dimostrare l’equiordinazione rispetto al rimedio giurisdizionale, la tendenziale immutabilità delle decisioni rese su ricorso straordinario, la possibilità di esperire il rimedio della revocazione[13] ed il principio del contraddittorio, accentuato nell’ambito del ricorso straordinario, deponevano a sostegno della tesi della natura giurisdizionale[14].
Se la Corte di Cassazione, con la pronuncia a Sezioni Unite n. 15987/2001[15], confermata dalla sentenza n. 254/2008 della Corte Costituzionale[16], aveva spento i facili entusiasmi ingenerati dalle precedenti aperture confinando la portata del precedente della Corte di Giustizia e negandogli il fondamento del riconoscimento della natura giurisdizionale del ricorso straordinario, su tale scenario interviene la l. n. 69/2009 che all’art. 69 modifica la disciplina del ricorso straordinario, incidendo proprio su quegli elementi che avevano fondato le pronunce appena citate.
L’art. 69 modifica, infatti, gli artt. 13 e 14 del d.P.R. 1199/1971 rendendo obbligatorio e vincolante nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica il parere del Consiglio di Stato e prevedendo la possibilità, per quest’ultimo, di sollevare, anche in sede consultiva, questioni di legittimità costituzionale[17].
L’intervento normativo appena richiamato sembra dunque aver definitivamente completato il processo di giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario, sebbene la Corte Costituzionale, con sentenza n. 73/2014, non si sia spinta fino a qualificare l’atto finale del procedimento come atto giurisdizionale in senso sostanziale[18], ma ha definito il ricorso straordinario come “rimedio giustiziale amministrativo con caratteristiche strutturali e funzionali in parte assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo”.
Sottile appare la differenza tra le due definizioni, ma di fatto lascia desumere che non sia stata utilizzata a pieno un’importante occasione per fare definitiva chiarezza sulla natura giuridica di un istituto che appare, dunque, come un rimedio, almeno dal punto di vista sostanziale[19], giurisdizionale[20] mentre, solo sul piano formale, si esplica nella formulazione di un parere. In tale ambito sembra potersi configurare la possibilità di assimilare, non formalmente, ma sostanzialmente la decisione adottata in sede di ricorso straordinario a quella emessa all’esito del giudizio innanzi al giudice amministrativo, in considerazione del fatto che in entrambe le ipotesi la decisione costituisce il momento conclusivo dell’esercizio della giurisdizione. In sostanza, il decreto del Presidente della Repubblica che definisce il ricorso straordinario può essere considerato un atto di mera esternazione della decisione giurisdizionale assunta dal Consiglio di Stato[21].
Tale natura, sul piano sostanziale, emerge prepotentemente anche se, mutando il punto di osservazione, si inquadra il ricorso straordinario non tanto comparandolo al ricorso al giudice amministrativo, bensì agli altri ricorsi amministrativi, rispetto ai quali si evince, come già evidenziato, una netta differenza sul piano strutturale e funzionale[22]. Non a caso si è ravvisato come l’istituto in questione abbia perso la propria connotazione puramente amministrativa in ragione dell’attrazione del ricorso straordinario nell’ambito della giurisdizione limitatamente “ad alcuni profili”[23]; conseguenza, se si pone l’accento su quest’ultima espressione, è che l’ambito di operatività del ricorso straordinario è meno ampio rispetto a quello del ricorso al giudice amministrativo. E, in effetti, la succitata limitazione è l’inevitabile esito della peculiare specificità del rimedio in esame, andando incontro, diversamente, a un inutile duplicazione del rimedio giurisdizionale ordinario.
Dunque, individuare la natura giuridica del ricorso straordinario è questione non di poco conto, dal momento che proprio su questo terreno si gioca la partita sulla proponibilità del rimedio dell’ottemperanza per portare a esecuzione le decisioni rese dal Presidente della Repubblica, come sua diretta conseguenza logico giuridica.
Il giudizio di ottemperanza, disciplinato dal libro IV del c.p.a., rappresenta un rimedio, espressione dei principi di effettività e concentrazione della tutela giurisdizionale, posto a disposizione del privato che voglia ottenere da parte dell’Amministrazione soccombente, l’attuazione del favorevole giudicato di cognizione. Il sistema di esecuzione delle sentenze e dei titoli esecutivi contemplati all’art. 112 c.p.a., è ispirato ad un duplice modello, surrogatorio e compulsorio, volto a consentire la piena attuazione di quelle sentenze[24] di cui non venga data spontanea esecuzione ex art. 33 comma 2 c.p.a.
Si tratta di uno dei pochi casi di giurisdizione estesa al merito[25] potendosi il giudice dell’ottemperanza, nel caso di persistente inerzia della PA, sostituirsi a questa adottando il provvedimento anche nei casi di massima discrezionalità[26].
Anche la natura del giudizio di ottemperanza è stata a lungo oggetto di un acceso dibattito dottrinale[27], risolto dal legislatore che, con l’opera di codificazione del 2010, ha accolto nel c.p.a. la posizione della natura mista del giudizio, di cognizione e di esecuzione, con giurisdizione estesa al merito. La stessa relazione al codice ha confermato che si tratta di un giudizio necessariamente di cognizione ed eventualmente di esecuzione, allorché si tratti di dare attuazione al giudicato del g.o., mentre diventa necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cognizione, se a dover essere eseguita è la sentenza del g.a.[28].
Alla luce del sistema finora delineato, se al decreto presidenziale va riconosciuta, come detto, una tutela esecutiva, piena ed effettiva, quest’ultima non può che individuarsi anche attraverso il giudizio di ottemperanza, la cui esperibilità sembra essere diretta ricaduta del riconoscimento della natura, almeno sostanzialmente, giurisdizionale del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (in cui il decreto del Presidente può considerarsi un atto di mera esternazione della decisione giurisdizionale assunta dal Consiglio di Stato).
D’altronde, nella stessa citata sentenza n. 2065/2011 della Suprema Corte a Sezioni Unite si legge che “nel sistema così delineato la decisione su ricorso straordinario al Capo dello stato, resa in base al parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato, si colloca nell’ipotesi prevista alla lettera b) dell’art. 112 comma 2, e il ricorso per l’ottemperanza si propone, ai sensi dell’art. 113 comma 1, dinnanzi allo stesso consiglio di Stato, nel quale si identifica il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta”. La tesi sostenuta dalle Sezioni unite è stata poi successivamente avallata anche dal Consiglio di Stato che, dopo aver chiarito che “il ricorso straordinario al Capo dello stato costituisce un rimedio giustiziale che si colloca in simmetrica alternativa con quello giurisdizionale ancorché di più ristretta praticabilità quanto al novero delle azioni esperibili”, afferma che “non è dubitabile che il petitum proposto in sede di ricorso straordinario sia perfettamente equiparabile (e produca lo stesso effetto) ad una domanda giurisdizionale”[29].
Nel caso oggetto della pronuncia in esame, però, la questione dell’esperibilità del rimedio dell’ottemperanza riguarda sì il parere reso dal Consiglio di Stato, ma, nello specifico, avente ad oggetto l’esecuzione dell’ordinanza cautelare. Pertanto, il fondamento normativo non va rinvenuto tanto nell’art. 112 comma 2 lett. b) – che non annovera l’esecuzione delle misure cautelari tra i casi in cui è possibile instaurare il giudizio di ottemperanza –, quanto nell’art. 114 comma 4 lett. c) c.p.a. laddove richiama “altri provvedimenti”. Tale disposizione si porrebbe come complementare rispetto all’art. 59 c.p.a. che menziona l’esecuzione delle misure cautelari, ma senza disciplinare il procedimento da seguire.
3. La pronuncia della Sezione Prima: le ragioni dell’inammissibilità della domanda e l’assenza della potestas iudicandi.
L’adunanza in commento si pone, tuttavia, in tendenza opposta rispetto a quanto concluso finora.
La Sezione Prima ha infatti dissentito dall’orientamento espresso dallo stesso Consiglio di Stato (Sezione Quinta, provvedimento n. 6519/2018) in sede giurisdizionale, ritenendo di non poter essere adita con il rimedio dell’ottemperanza. Secondo la Sezione consultiva, l’orientamento della Sezione Quinta sarebbe fondato su una lettura degli artt. 59 e 98 c.p.a. eccentrica rispetto a quanto statuito, in modo più rigoroso e tassativo, in punto di competenza, dall’art. 113 c.p.a, norma, quest’ultima, attributiva di competenza per la sola ottemperanza ai provvedimenti giurisdizionali definitivi.
Al contrario, l’estensione dei poteri dell’ottemperanza, per mezzo degli artt. 59 e 98 (definiti dalla Sezione Quinta parametri legislativi di interpretazione), all’esecuzione dei provvedimenti cautelari farebbe evincere “un tendenziale principio di corrispondenza funzionale fra provvedimento cautelare, giudice che lo ha emesso ed organo giurisdizionale chiamato ad eseguirlo in sede di ottemperanza”[30] senza che vi siano, tuttavia, elementi sufficienti a sostenere tale interpretazione nella disciplina processuale.
L’art. 113 c.p.a., infatti, nell’attribuire la competenza per l’ottemperanza nell’apposita sedes materiae del Libro IV, dettaglia per ciascun provvedimento ottemperando la relativa potestas iudicandi in capo ad un giudice ben individuato. Gli artt. 59 e 98 c.p.a. si limitano, secondo il Collegio, a precisare come il potere che regolano altro non sia che quello specificato e delineato, in punto di competenza, dalle norme del codice in materia di ottemperanza. Di conseguenza, non sarebbe possibile inferire da queste disposizioni – dal momento che hanno semplicemente la limitata funzione di estendere i poteri dell’ottemperanza anche alla fase cautelare – l’attribuzione di competenza ulteriore in capo ad un organo che (formalmente) non emette la misura cautelare, ma si limita ad esprimere un parere in ordine alla sua concedibilità. In altre parole, non vi sarebbe ragione, per ricostruire la competenza per l’ottemperanza, di attingere a norme che sarebbero generiche ed imprecise sotto tale aspetto, e per di più contenute in Libri e Titoli del c.p.a. che non disciplinano ex professo quel giudizio.
Se, allora, si assume che anche in caso di ottemperanza a provvedimenti cautelari debba trovare applicazione l’art. 113 c.p.a., dovrà prendersi atto che la disposizione prevede che “il giudizio di ottemperanza si propone, nel caso di cui all’art. 112 comma 2 lett. a) e b), al giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta”. E, dal momento che nel procedimento di cui al d.P.R. 1199/1971 la Sezione consultiva anche in sede cautelare si limita ad esprimere un parere, pur vincolante, senza però emettere direttamente il provvedimento decisorio (che è invece oggetto di apposito decreto) non potrà che escludersi “che si possa profilare una competenza complementare del Consiglio di Stato in sede consultiva atta a consentirgli di interloquire con le forme dell’ottemperanza con un’amministrazione inadempiente perché ciò implicherebbe, con un’interpretazione praeter legem, un’inedita potestas iudicandi che il legislatore non ha inteso attribuire alla Sezione consultiva”[31].
Ulteriore argomento addotto dalla Sezione Prima risiede nel fatto che, optando per una diversa ricostruzione, si aggirerebbe l’elenco tassativo di cui all’art. 134 c.p.a. Il riconoscimento, infatti, di una cognizione estesa al merito – quale quella dell’ottemperanza – e di poteri di accertamento della nullità di atti in sede di ricorso straordinario risulterebbe in contrasto con la disciplina del ricorso stesso che, diversamente da quanto previsto dall’art. 134 c.p.a. per il giudice amministrativo, non contempla materie di giurisdizione estesa al merito, né prevede, a differenza di quanto previsto dall’art. 114 comma 4 lett. b. c.p.a., l’esperibilità di azioni di accertamento, essendo ammesso il rimedio solo per proporre azioni di annullamento per motivi di legittimità di atti amministrativi definitivi[32]. Una diversa interpretazione si porrebbe dunque in contrasto con la natura e la funzione del ricorso straordinario trattandosi di un rito tuttora ancorato ad un regime impugnatorio[33] che, attesa la sua conformazione, è del tutto inidoneo a gestire una fase esecutiva con cognizione estesa al merito. È infatti la decisione finale, ossia il decreto presidenziale, che può consentire l’ottenimento del bene della vita cui il ricorrente aspira, avendo il Consiglio di Stato invece un punto di contatto solo mediato con la decisione finale.
4. Osservazioni conclusive: è ravvisabile un vulnus nel principio di effettività della tutela?
Il parere della Sezione consultiva ha così rigettato l’istanza in ottemperanza presentatale per carenza di potestas iudicandi, fondando le premesse, in controtendenza rispetto all’orientamento prevalente[34], della non esperibilità del rimedio dell’ottemperanza del parere, o meglio del decreto, adottato in sede di ricorso straordinario.
Sorge spontaneo interrogarsi se il principio di effettività della tutela[35] possa dirsi ugualmente garantito.
La Sezione consultiva si premura di chiarire come la propria pronuncia non possa di fatto configurare un vulnus nel diritto ad una tutela piena ed effettiva del ricorrente osservando, seppur in maniera incidentale, che il puntuale adempimento della misura cautelare disposta, a seguito del parere del Consiglio di Stato, con atto motivato del ministero competente[36] costituisce l’oggetto di un preciso obbligo giuridico a carico dell’amministrazione; cosicché la mancata esecuzione di tale misura, ove ricorrano gli altri elementi della fattispecie, può costituire illecito e fondare un’azione risarcitoria[37]. Essendo infatti un obbligo dell’amministrazione dare esecuzione alle proprie sentenze, nulla osta neppure la proposizione di altri rimedi come un’eventuale azione avverso il silenzio.
E anzi, secondo tale ricostruzione, ove si volesse forzare – posto che ciò non sarebbe possibile – il dato letterale del c.p.a. riconoscendo la potestas iudicandi per il giudizio di ottemperanza in capo all’organo consultivo, la significativa intermediazione (che caratterizza la procedura del ricorso straordinario) tra lo stesso e l’amministrazione rischierebbe, al contrario, di incidere negativamente sull’effettività della tutela. Si menziona[38], infatti, proprio il “rischio di rendere rarefatto e artificioso lo stesso procedimento di ottemperanza, anche perché, a volere rispettare lo schema di fondo del rito ex d.P.R. 1199/1971, anche l’ottemperanza sarebbe un giudizio in cui il Consiglio di Stato si dovrebbe limitare a proporre pareri senza poter direttamente decidere in luogo della PA. E ciò comporterebbe inevitabili inefficienze ed ulteriori ritardi, in palese contrasto con la ratio del rimedio”.
Deve, da ultimo, poi rammentarsi il carattere di alternatività che il ricorso straordinario al Capo dello Stato presenta rispetto ai rimedi giurisdizionali in quanto proprio in questo elemento può ritenersi che risieda la non lesività del diritto ad una tutela effettiva. In tal senso si è pronunciata anche la Corte Costituzionale[39] affermando come la preclusione della tutela giurisdizionale non lede i diritti costituzionali del ricorrente, perché in definitiva è riconducibile alla sua scelta di agire in via straordinaria secondo lo schema, sì, di un rimedio sostanzialmente giurisdizionale, ma avente innegabilmente una portata più ristretta rispetto al ricorso innanzi al giudice amministrativo, proprio in ragione della specificità dello stesso[40].
[1] Cons. Stato, Sez. V, 28 settembre 2021, n. 6519/2018.
[2] Con la quale veniva comunicato a parte ricorrente, a seguito della rinuncia degli alloggi proposti (non avendo il ricorrente immediatamente sottoscritto la proposta di assegnazione), la ricollocazione in fondo alla graduatoria relativamente ai nuclei familiari aventi lo stesso numero di componenti.
[3] Con la citata ordinanza 6519/2021.
[4] I quali non hanno senza alcun dubbio carattere giurisdizionale dal momento che l’atto con cui si conclude la procedura è un provvedimento amministrativo (definito decisione amministrativa, in quanto recante la peculiarità di strumento di tutela di interessi qualificati) adottato, dunque, dalla stessa Amministrazione che ha in tal caso potere decisionale.
Secondo l’inquadramento dogmatico più autorevole (cfr. A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XV ed., Jovene, Napoli, 1989, 1055), infatti, i ricorsi amministrativi andrebbero ricondotti nel più ampio genus degli strumenti di autotutela, in particolare nella declinazione di autotutela decisoria a carattere contenzioso, quale espressione del pubblico potere attraverso il quale l’Amministrazione ha la capacità di decidere sui ricorsi presentati da parte di soggetti privati, volti a riformare o annullare una precedente decisione; tale è lo hiatus esistente tra i rimedi giustiziali ed il potere di autotutela in capo alla PA da aver indotto la dottrina a ricondurli alla categoria dell’autodichia. Salvo l’ipotesi del ricorso straordinario, non possono, quindi, essere del tutto sovrapposti ai rimedi giustiziali, sebbene la loro vicinanza con i rimedi di carattere giustiziale emerga osservandone l’evoluzione storica dal momento che per un certo periodo di tempo (fino all’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato) i ricorsi amministrativi hanno rappresentato l’unica vera forma di tutela per gli interessi legittimi.
[5] Ossia nel potere del sovrano di intervenire, in ultima istanza, al fine di giudicare sugli atti amministrativi.
[6] Quando, durante il Regno di Sardegna, esso fu disciplinato dalle Costituzioni Generali di Vittorio Amedeo II.
[7] In quest’ottica “l’ampia autonomia e discrezionalità riconosciute all’amministrazione erano considerate attribuzioni sue proprie, conseguenze necessarie del suo essere unico soggetto titolare del dovere e della responsabilità di provvedere alla cura dell’interesse pubblico. L’intervento del cittadino ricorrente, conseguentemente, finiva per rappresentare nulla più che un semplice apporto alla legalità dell’agire pubblico, nella misura in cui l’interesse individuale trovava una sua tutela solo se ed in quanto coincidente con l’interesse soggettivo dell’amministrazione” (M. Calabrò, Modelli di tutela non giurisdizionale: i ricorsi amministrativi, in www.iuspublicum.com).
[8] Con l’avvento, poi, della Costituzione ed il riconoscimento della pari dignità alla tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi agli artt. 24, 103 e 113, gli interpreti si orientarono nel riconoscere l’espressione di una netta preferenza per i rimedi giurisdizionali sancendo il declino del ruolo dei ricorsi amministrativi. Ciò non deve, tuttavia, condurre a ritenere i ricorsi amministrativi incompatibili con la Carta costituzionale, come affermato da Corte Cost. 1° febbraio 1964 n. 1 e Corte Cost., 3 aprile 1969, n. 60.
Tuttavia, deve ricordarsi che le rationes sottese al ricorso straordinario non si esauriscono unicamente nella tutela degli interessi legittimi, ma rispondono anche al principio di economicità dei mezzi giuridici, in quanto strumento meno oneroso rispetto al rimedio giurisdizionale, dal momento che il privato può difendersi anche senza la necessaria assistenza di un avvocato; pertanto non può ritenersi esaurita la sua utilità, pur avendo questo perso la sua caratteristica gratuità per effetto del d.l. n. 98/2011, convertito con modificazioni dalla l. 111/2011 che ha reso necessario anche in tal caso il pagamento del contributo unificato.
Malgrado la previsione dell’obbligo del contributo unificato per il ricorso straordinario l’utilità – anche se ridotta – permane. Questa è legata anzitutto al termine più lungo (rispetto al rimedio giurisdizionale ordinario), alla non necessità della difesa tecnica e, quindi, al minor costo sostanziale. L’utilità del rimedio in esame è data anche dall’assenza, in caso di rigetto, della condanna alle spese e dalla possibilità, in caso di accoglimento, di recupero del contributo unificato. Altra utilità è quella legata ai tempi della decisione: infatti, se si fa l’interpello e non ci sono particolari ritardi nell’istruttoria, i tempi – ad eccezione di alcune specifiche materie – possono essere più celeri di quelli normalmente occorrenti per il ricorso giurisdizionale in due gradi di giudizio. Del resto, l’utilità del ricorso straordinario al Capo dello Stato è inequivocabilmente dimostrata dal suo crescente utilizzo: infatti, mentre nel quadriennio 2008-2011 sono pervenuti alle sezioni consultive del Consiglio di Stato circa 5.000 affari l’anno, nel 2013 si è registrata un’impennata a 13.700, evidentemente dovuta anche al maggior peso del contributo unificato per i ricorsi al TAR in alcune materie (si legga in tal senso P. Tanda, Le ricadute della sentenza n. 73/2014 della Corte Costituzionale sulla cd. giursdizionalizzazione del ricorso straordinario al Capo dello Stato, in federalismi.it, n. 21/2014).
[9] Attualmente il principio rinviene la sua disciplina nell’art. 8 comma 2 d.P.R. n. 1199/1971.
[10] C. Volpe, Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] Diversità che emerge anche dal procedimento – del tutto differenziato rispetto al processo giurisdizionale amministrativo – articolato in tre fasi: una fase istruttoria di competenza di apparati ministeriali (il Ministero competente secondo la materia controversa, o la Presidenza del Consiglio dei ministri in mancanza di specifico collegamento della materia stessa con quella di attribuzione di un Ministero); una fase consultiva di competenza del Consiglio di Stato, cui i soggetti interessati possono partecipare presentando memorie e documenti, che si esprime oggi in un parere vincolante circa la decisione finale (un atto quindi a carattere decisorio); la decisione finale con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministero competente per materia o del Presidente del Consiglio di ministri (artt. 8 ss., d.P.R. n. 1199/1971, art. 69, l. n. 69/2009). Quindi un procedimento che si svolge in ogni fase davanti ad organi amministrativi e non giurisdizionali, con limitato contraddittorio tra le parti (V. Cerulli Irelli, Amministrazione e giurisdizione, in Giurisprudenza Costituzionale, fasc. 3, 1° giugno 2019, 1838).
[12] Cass. SSUU, 2 ottobre 1953, n. 3141; Cons. Stato, sez. V, 9 luglio 1954, n. 724
[13] Come previsto dall’art. 12 d.P.R. n. 119/1971, ma anche ribadito da TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 30 settembre 2022, n. 2582 in cui si legge che “Per giurisprudenza consolidata, la decisione del ricorso straordinario al Capo dello Stato o al Presidente della Regione può essere impugnata per revocazione nei casi previsti dall'art. 395 c.p.c., nonché davanti al giudice amministrativo solo per i vizi formali e procedurali successivi al vincolante parere di rito del Consiglio di Stato. Tali limitazioni all'impugnativa della decisone sono opponibili solo al ricorrente e alle controparti del procedimento giustiziale, le quali non avendo chiesto la trasposizione alla sede giurisdizionale hanno così accettato tutte le peculiarità e conseguenze di tale procedimento”.
In particolare, la rinuncia del ricorrente straordinario successiva alla trasmissione del parere dell'organo consultivo, ma anteriore al decreto presidenziale, non può essere utilmente presentata e, ove prodotta, non può essere considerata e dispiegare i pretesi effetti estintivi.
L'espressione del parere obbligatorio esaurisce la fase decisionale del ricorso straordinario; la sua rivalutazione in sede giurisdizionale è inammissibile stante il principio di alternatività fra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale, che non consente che vengano rimesse in discussione questioni, di forma e/o di sostanza, afferenti gli atti ed i provvedimenti opposti in via straordinaria, onde evitare che l'impugnazione in sede giurisdizionale porti ad un riesame del medesimo giudizio espresso in sede consultiva, per effetto della sovrapposizione della decisione giurisdizionale a quella del ricorso straordinario”.
[14] Avallata dalla Corte di Giustizia già con sentenza del 16 ottobre 1997, cause riunite da C-69/96 a C-79/96. In quell’occasione la Corte, infatti, giunse ad ammettere la possibilità per il Consiglio di Stato, in sede di emissione del parere su ricorso straordinario, di effettuare il rinvio pregiudiziale. A tale conclusione la Corte di Giustizia pervenne sulla base della considerazione per cui anche in tale sede al Consiglio di Stato va riconosciuta la qualifica di “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 177 (ora 234) del Trattato CE. Sulla scia della sentenza della Corte di Giustizia si pose poi lo stesso Consiglio di Stato, sez. I, 19 maggio 1999, n. 850.
[15] Cass. SSUU, 18 dicembre 2001, n. 15978 in cui si legge che “requisito indefettibile dei procedimenti giurisdizionali, anche alla stregua di quanto stabilito dall’art. 111 Cost. così come riformulato dall’art. 1 legge cost. n. 2/1992 è che il procedimento si svolga dinanzi a un giudice terzo e imparziale. Nel caso di specie il procedimento ha invece protagonista un’autorità amministrativa che, come si è posto in evidenza, non è neppure vincolata in modo assoluto al parere espresso dal Consiglio di Stato, e può quindi risolvere la controversia secondo criteri diversi da quelli risultanti dalla pura e semplice applicazione delle norme di diritto, che rappresentano l’aspetto caratterizzante delle decisioni adottate in sede giudiziaria (art. 101 comma 2 cost.). […] Invero, la nozione di organo giurisdizionale rilevante ai fini dell’individuazione delle autorità legittimate a rimettere in via pregiudiziale all’esame della Corte di Giustizia questioni relative all’interpretazione del trattato va ricavata esclusivamente dalle norme del diritto comunitario, mentre nel caso di specie essa deve essere desunta dalle disposizioni di diritto interno. Tra le due nozioni non vi è, dunque, necessaria coincidenza”.
[16] Corte Cost. 28 luglio 2004, n. 254.
[17] Per Corte Cost., 13 novembre 2013, n. 265 tale facoltà sarebbe riconosciuta anche nei casi in cui il ricorso introduttivo sia stato notificato prima dell’intervento legislativo del 2009. Ad avviso della Corte, infatti, “in mancanza di diversa prescrizione essa risulta applicabile in ragione del principio tempus regit actum e purché la richiesta di parere del Consiglio di Stato sia stata inoltrata nella vigenza della precedente disciplina”.
[18] Come invece ha affermato la Corte di Cassazione, riconoscendo l’idoneità del decreto stesso a formare il giudicato e superando del tutto la natura amministrativa, precedentemente riconosciuta (Cass. SSUU., 19 dicembre 2012, n. 23464; 8 settembre 2013, n. 20659; 5 ottobre 2015, n. 19786). In tal senso fondamentale è anche la pronuncia delle SSUU, 28 gennaio 2011, n. 2065 che ha chiarito come le modifiche apportate dall’art. 69 sono tali da eliminare alcune determinanti differenze del procedimento per il ricorso straordinario rispetto a quello giurisdizionale, quali erano state rimarcate nella citata sentenza n. 15978/2001; l’eliminazione del potere della PA di discostarsi dal parere del Consiglio di Stato confermerebbe che il provvedimento finale, che conclude il procedimento, è meramente dichiarativo di un giudizio, per cui che questo sia vincolante, se non trasforma il decreto presidenziale in atto giurisdizionale (in ragione della natura dell’organo emittente e della forma dell’atto), lo assimila a questo nei contenuti.
[19] È stato, tuttavia, autorevolmente rilevato che, se si optasse per la natura “sostanzialmente giurisdizionale” del rimedio in esame, il significato della opposizione dei controinteressati (e delle parti resistenti) non sarebbe più quello di scegliere tra un rimedio giurisdizionale e uno amministrativo, ma quello di scegliere tra due rimedi giurisdizionali (l’uno semplificato e l’altro ordinario), con una conseguente notevole limitazione dell’oggetto del consenso di tutte le parti: l’espressione “sostanzialmente giurisdizionale” da un lato lascerebbe intendere l’impossibilità di sostenere la tesi della natura effettivamente giurisdizionale, dall’altro lato introdurrebbe una distinzione tra giurisdizione in senso sostanziale e giurisdizione in senso formale, che è giustificabile in altri sistemi giuridici ma non nel nostro, in considerazione della disciplina costituzionale della funzione giurisdizionale (in tal senso F.G. Scoca, Osservazioni sulla natura del ricorso straordinario al Capo dello Stato; Cons. Stato, Ad. Plen., 5 giugno 2012, n. 18, in Foro it., 2012, III, 2378).
[20] In senso contrario, tuttavia, è stato escluso che possa essere significativo il fatto che la riforma del 2009 abbia reso vincolante il parere del Consiglio di Stato, in quanto la vincolatività di tale provvedimento non ne muterebbe la natura, che rimarrebbe amministrativa ed ancorata ad una funzione giustiziale: in questo senso deporrebbe anche la rubrica dell’art. 69 l. 69/2009. Così G. D’Angelo, La «giurisdizionalizzazione» del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: profili critici di un orientamento che non convince, in www.giustamm.it, 2013, 6, secondo cui semmai la vincolatività muta i termini del rapporto con il decreto del Presidente della Repubblica. Del resto, è stato evidenziato che nel procedimento del ricorso straordinario la natura decisoria è riconoscibile, con maggiore evidenza oggi in ragione del carattere vincolato, al parere del Consiglio di Stato, il quale avrebbe carattere formale di atto consultivo ma dal punto di vista sostanziale sarebbe caratterizzato dagli stessi contenuti di una decisione amministrativa (cfr. A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2013, 165).
[21] Non a caso il Consiglio di Stato ha natura di organo giurisdizionale anche quando esprime il proprio parere nell’ambito del ricorso straordinario al Capo dello Stato. In tal senso si leggano le pronunce di Cons. Giust. Amm. Sic., 21 marzo 2011, n. 242 e di Cons. Giust. Amm. Sic., 17 gennaio 2011, n. 30.
[22] P. Tanda, Le ricadute della sentenza n. 73/2014, cit., 14.
[23] Corte Cost., 26 marzo 2014, n. 73.
[24] Per una trattazione sistematica su come si concretizza il principio di effettività in relazione alle diverse tipologie di sentenze si rinvia a F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 4, 2016, 1025 ss.
[25] Ex art. 134 comma 1 lett. a) c.p.a.
[26] Del resto, quando il legislatore ha voluto limitare il potere del giudice dell’ottemperanza lo ha esplicitato, come è accaduto con il d.l. n. 90/2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 114/2014, che espressamente prevede l’inapplicabilità dell’art. 114 comma 1 lett. a) e c) c.p.a. nei giudizi in cui sia parte il Csm.
[27] Parte della dottrina, esaltando il profilo esecutivo, ha ricondotto il modello a quella dell’esecuzione forzata civile; altra parte, invece, ponendo in risalto la peculiarità dell’attività esecutiva richiesta dalla sentenza di annullamento, ha osservato che il giudizio di ottemperanza è in primo luogo un processo di cognizione, realizzandosi in esso un completamento del contenuto della pronuncia di annullamento, vista la natura del giudicato amministrativo di un giudicato a “formazione progressiva”.
[28] Viene così risolta la questione definitoria della natura dell’ottemperanza che aveva alimentato il dibattito culminato nell’arresto delle SSUU, 24 dicembre 2009, n. 27348 che, sposando l’orientamento intermedio, ne avevano già ribadito natura mista e autonoma.
[29] Cons. Stato, sez. VI, 10 giugno 2011, n. 3513 e Cons. Stato, Ad. Plen., 5 giugno 2012, n. 18. Il Consiglio di Stato ha poi utilizzato argomenti analoghi anche nelle Ad. Plen., 6 maggio 2013, n. 9 e n. 10 per ammettere esplicitamente il giudizio di ottemperanza per l’esecuzione della decisione del ricorso straordinario.
[30] Punto 15.2 della pronuncia in commento.
[31] Punto 15.4 della pronuncia in commento.
[32] Art. 8 d.P.R. n. 1199/1971.
[33] A poco è valso infatti il tentativo del TAR Sicilia, Catania, 28 marzo 2007, n. 623 di estendere il rimedio anche all’azione di accertamento sostenendo che la stessa “è proponibile in sede di ricorso straordinario anche se la materia rientri nella giurisdizione del giudice ordinario, purché la pretesa sostanziale inerisca ad un rapporto avente rilievo pubblicistico”. A smentire tale impostazione interviene sia l’art. 7 comma 8 c.p.a che Cons. Stato, sez. II, con parere del 12 giugno 2014, n. 2436 che ha confermato che “la decisione del ricorso straordinario è preordinata alla sola verifica della legittimità dell’atto impugnato e non può implicare l’accertamento di un determinato assetto del rapporto intercorrente tra le parti”.
[34] Il fulcro di detto contrasto giurisprudenziale, afferendo all’estensione delle forme di tutela disponibili sulla base del dato formale dello strumento di tutela attivato, pur a fronte della medesima situazione giuridica soggettiva (e, segnatamente, al riconoscimento della possibilità di accedere alla tutela esecutiva), ricorda, per certi versi, la tensione sottesa al concetto di Rechtsschutzbedürfnis nel pensiero di Schönke (cfr. P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 107 ss.).
[35] Introdotto dall’art. 4 comma 2 l. n. 2248/1889 (l.a.c.). e permeante tutto il c.p.a. a partire dall’art. 1, oltre che di rilievo costituzionale ex art. 24 e sovranazionale ex art. 6 CEDU.
[36] Ai sensi dell’art. 3 comma 4 l. n. 205/2000.
[37] Non proponibile neanche questa, però, in sede di ricorso straordinario per le medesime ragioni esposte in tema di azione di accertamento.
[38] Al punto 16 della pronuncia in commento.
[39] Corte Cost., 2 luglio 1966, n. 78.
[40] Interessante, in tal senso, è anche la ricostruzione di taluni (P. Tanda, Le ricadute della sentenza n. 73/2014, cit., 9) del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica come un rito speciale in unico grado, fondato sull’accordo delle parti e destinato ad avere un ruolo di deflazionamento nel congestionato sistema di giustizia amministrativa.
Gli approfondimenti della riforma Cartabia - 6. Riforma Cartabia e pene sostitutive: la rottura “definitiva” della sequenza cognizione-esecuzione
di Gianluca Varraso, Professore ordinario di Diritto processuale penale e di Diritto penitenziario nell’Università Cattolica S. Cuore di Milano
Il presente articolo si inserisce nella serie di approfondimenti dedicati da Giustizia Insieme (v. Editoriale) alle novità introdotte dalla riforma Cartabia nella materia penale. Di seguito i precedenti contributi:
1. Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità
3. Pensieri sparsi sul nuovo giudizio penale di appello (ex d.lgs. 150/2022)
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le “nuove” pene sostitutive tra istanze di rieducazione e ragioni di efficienza. – 2.1. Segue. Il contenuto delle pene, il programma di trattamento e la relazione delle attività e dell’esito dei programmi di giustizia riparativa. 3. La discrezionalità del giudice di cognizione e l’obbligo di motivazione in sentenza. – 3.1. L’udienza ex artt. 545 bis e 448, comma 1 bis, c.p.p.: la nuova competenza del giudice della cognizione e il ruolo dell’ufficio dell’esecuzione penale esterna. 4. Il patteggiamento quale sede privilegiata di applicazione delle pene sostitutive e la mancata inclusione all’interno delle stesse dell’affidamento in prova ai servizi sociali. 5. Le questioni organizzative. 6. … e la nuova sfida culturale.
1. Introduzione.
All’interno di una riforma che punta nella sua intitolazione all’efficienza della giustizia penale e alla celerità delle procedure giudiziarie, basta una lettura anche frettolosa del d. lgs. n. 150 del 2022 per prendere atto come, al fine di conseguire tale obiettivo e in attuazione della l. d. n. 134 del 2021, si sia ritenuto di porre mano alla modifica del sistema sanzionatorio del codice penale, oltre che del codice di rito.
Il combinarsi delle modifiche sostanziali e processuali, che crea un intreccio tra diritto penale e processo quale “tratto più evidente che esprime lo spirito complessivo della riforma”[1], comporta rilevanti implicazioni circa i rapporti tra fase di merito ed esecuzione penale, con novità di grande interesse in executivis e inevitabili aporie interpretative, che dovranno essere affrontate da tutti i protagonisti della giurisdizione, chiamati ad un’attenzione sempre più marcata ai profili ordinamentali.
Le scelte del legislatore, frutto di compromesso anche in ragione della variegata composizione della compagine politica che ha dato impulso alla novella, si sono tradotte in interventi mirati in particolare sulle pene sostitutive delle pene detentive brevi[2], come si esprime ora il nuovo art. 20 bis c.p., attribuendo spazio autonomo ad una disciplina organica della giustizia riparativa negli artt. 55 ss. d. lgs. n. 150 del 2022[3].
Non si è riusciti a superare, già in astratto, come auspicato da molto tempo dalla dottrina, la centralità del carcere, modificando il novero delle pene principali[4].
Si è voluto, per contro, nell’accentuare la discrezionalità valutativa in sentenza del giudice della cognizione, attribuirgli un ruolo inedito: non più limitato alla quantificazione della reclusione o dell’arresto da comminare all’imputato-condannato, ma anche alla determinazione delle modalità esecutive.
2. Le “nuove” pene sostitutive tra istanze di rieducazione e ragioni di efficienza.
Le pene elencate dall’art. 20 bis c.p. non sono più quelle per cui è consentita la sospensione condizionale della pena, bensì la detenzione fino a quattro anni (tutt’altro che breve), che consente di sospendere l’ordine di esecuzione ai sensi dell’art. 656 comma 5 c.p.p.[5].
Scompare la semidetenzione e la libertà controllata.
Fanno ingresso, accanto alla pena pecuniaria in sostituzione della pena detentiva fino ad un anno, la semilibertà e la detenzione domiciliare sostituiva (fino a quattro anni) e il lavoro di pubblica utilità sostitutivo (fino a tre anni). Last, but not least, si esclude per esse la sospensione condizionale della pena (v. art. 61 bis l. n. 689 del 1981).
Si svela, in questo modo, il tentativo non solo di ridurre del 25% la durata dei procedimenti penali, ma di consentire l’esecuzione della pena detentiva senza più alimentare l’“odiosa” categoria dei condannati sospesi[6].
È sempre invocata (come doveroso) alla base della scelta la volontà di favorire il fine rieducativo della pena ex art. 27 comma 3 Cost., come si esprimeva già la legge delega e come emerge in particolare dalla grande attenzione riservata nel d. lgs. n. 150 del 2022 al contenuto delle “nuove” sanzioni e al coinvolgimento dell’ufficio dell’esecuzione penale esterna[7].
Il rischio ancora una volta è che prevalgano le ragioni di efficienza[8].
La novella si pone in coerenza logica rispetto a quanto avvenuto con l’ingresso tra i procedimenti speciali della sospensione del procedimento per messa alla prova: anticipare nella sostanza l’esecuzione della pena alla fase di cognizione[9], deflazionando il dibattimento e il carico di lavoro della magistratura di sorveglianza, alla luce di una riflessione.
La sequenza tra cognizione ed esecuzione viene meno e si completa il percorso iniziato proprio con la l. n. 67 del 2014[10].
La sede tipica di applicazione delle pene sostitutive, almeno nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe essere il patteggiamento[11], in cui la componente consensuale dell’imputato alla base dello stesso funzionamento dei nuovi istituti ha la sua sede elettiva, rimettendo al giudice di cognizione in tale sede la verifica della congruità della pena e la determinazione delle modalità esecutive.
Chiara la volontà di rivitalizzare, rispetto ad una realtà applicativa alquanto desolante, gli effetti benefici dei procedimenti alternativi sul carico dibattimento, oltre che delle medesime pene sostitutive disciplinate dalla l. n. 689 del 1981[12].
2.1. Segue. Il contenuto delle pene, il programma di trattamento e la relazione delle attività e dell’esito del programma di giustizia riparativa.
Per una migliore comprensione degli effetti sul processo e sulla fase esecutiva del nuovo sistema sanzionatorio almeno negli auspici della novella, pare opportuno esaminare nelle linee essenziali il contenuto delle pene sostitutive diverse da quella pecuniaria, che incidono in maniera significativa sulla disciplina penitenziaria oggi in vigore anche dal punto di vista sistematico: semilibertà, detenzione domiciliare e lavoro di pubblica utilità sostitutivi[13].
Il giudice di merito che applica tali pene può determinare la permanenza in carcere o presso il domicilio del condannato per non meno di dodici ore al giorno (per la detenzione sostitutiva) e di otto ore in istituto (per la semilibertà sostitutiva), ricavandosi, a contrario, che lo stesso giudice deve favorire il più possibile l’espiazione extramuraria per ragione di lavoro, di studio, di formazione professionale e di salute (v. gli artt. 55 e 56 l. n. 689 del 1981).
Si capovolge, in questo modo, la regola oggi esistente, nelle misure omologhe disciplinate dagli artt. 47 ter e 48 ord. penit., restrizione – libertà.
La componente detentiva delle misure de quibus diventa “recessiva”[14], al fine di salvaguardare l’utilità delle misure stesse a fini rieducativi e di reinserimento sociale, aprendo “finestre” più ampie per il condannato con il mondo esterno, proprio al fine di consentirgli lo svolgimento di un’attività lavorativa, ovvero di altra attività trattamentale che permetta, sempre nelle intenzioni, di trasformare istituti deflattivi in autenticamente risocializzanti.
A tali fini, l’ufficio dell’esecuzione penale esterna, per orientare il giudice nella sua decisione, è chiamato a redigere uno specifico programma di trattamento, che deve essere approvato dallo stesso giudice (v. sempre art. 55 comma 3 l. n. 689 del 1981, 56 comma 2 l. n. 689 del 1981 e 545 bis, comma 2, c.p.p.), il quale nel caso di detenzione domiciliare deve identificare una idonea dimora per chi ne sia sprovvisto. L’UEPE è anche tenuto a riferire periodicamente sulla condotta del condannato e sul percorso di reinserimento (v. art. 56 comma 2 l. n. 689 del 1981).
Chiaro l’obiettivo, da un lato, di rendere residuale, in particolare, la finalità umanitaria della detenzione domiciliare, oltre che di ridurne la portata meramente deflattiva della popolazione carceraria con i conseguenti benefici effetti sui costi per detenuto a carico dell’amministrazione penitenziaria.
Dall’altro lato, con il lavoro di pubblica utilità sostitutivo (art. 56 bis l. n. 689 del 1981), specificando che la prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, le Città metropolitane, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato non possa durare meno di sei ore e non più di quindici ore la settimana, si cerca di non pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato.
Centrale anche in questo caso per la determinazione del contenuto della pena dovrebbe essere il programma trattamentale redatto sempre dall’UEPE (v. sempre art. 545 bis comma 2 c.p.p.) [15], in quanto si esclude, come avviene oggi in molti uffici giudiziari, una predeterminazione automatica della durata del lavoro di cui si discute in ragione della sola maggiore o minore gravità del reato.
Per tutte le pene sostitutive sono poi previste “prescrizioni comuni” (art. 56 ter l. n. 689 del 1981), che vanno a limitare soprattutto la libertà di circolazione del condannato.
Alla base di queste prescrizioni traspare la preoccupazione di prevenire la commissione di ulteriori reati, ma è innegabile la preminente necessità di salvaguardare la finalità di risocializzazione.
Neutralizzare il pericolo di recidiva, specialmente per i condannati a reati con vittime “vulnerabili”, è enfatizzato nella detenzione domiciliare, laddove si prevede la possibilità di applicare controlli mediante mezzi elettronici, anche per tutelare la persona offesa dal reato (v. art. 56 comma 4 l. n. 689 del 1981).
Altra componente fondamentale, seppure eventuale, di valutazione del giudice di merito ai fini della identificazione della pena congrua ex art. 20 bis c.p. da applicare sarà anche la relazione trasmessa dagli appositi centri, ai sensi dell’art. 57 d. lgs. n. 150 del 2022, al termine del programma di giustizia riparativa “contenente la descrizione delle attività svolte e dell’esito riparativo raggiunto”, programma al quale qualsiasi detenuto ha la libertà di accedere anche su input dell’autorità giudiziaria, che può disporre l’invio dei condannati e degli internati a tali programmi in qualsiasi fase dell’esecuzione ai sensi dell’art. 15 bis ord. penit. e, già prima nella fase di cognizione, fin dalle prime battute del procedimento penale (v. artt. 15 bis ord. penit., 47 d. lgs. n. 150 del 2022, nonché artt. 129 bis e 369 comma 1 ter c.p.p.).
La premialità a cui il legislatore lega (per incentivarne l’accesso) tali percorsi emerge dalla rilevanza destinata ad assumere nella determinazione della pena dalla valutazione del comportamento post delictum dell’imputato ai sensi dell’art. 133 c.p. (v. art. 58 d. lgs. n. 150 del 2022), nonché la possibilità in questo modo di beneficiare della nuova circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 parte finale c.p., correlata all’esito positivo del programma riparativo.
In altri termini, più in generale, ai fini della determinazione della pena carceraria e della concessione delle pene sostitutive devono valutarsi gli esiti positivi dei predetti programmi, al pari di quanto avviene per la concessione delle misure alternative, prima fra tutte l’affidamento in prova di cui all’art. 47 ord. penit. (v. il nuovo comma 12).
3. La discrezionalità del giudice di cognizione e l’obbligo di motivazione in sentenza.
È innegabile l’attribuzione, in questo modo, di un ruolo inedito nel determinare la pena al giudice della cognizione, chiamato, al momento di emettere la sentenza di patteggiamento ovvero all’esito del giudizio abbreviato o del giudizio ordinario, oltre che ad un giudizio proiettato al passato e alla valutazione dei profili del fatto di reato oggetto del processo e della personalità del colpevole (v. art. 133 c.p.), proiettato sul futuro e sulla possibilità per il condannato di commettere nuovi reati, in ragione di un rinnovato giudizio prognostico: non più limitato alla concessione della sospensione condizionale della pena (v. art. 164 c.p.), ma anche delle pene di cui si discute e alla determinazione delle relative modalità di esecuzione.
Si esalta, in questo modo, la discrezionalità del giudice in sede decisoria[16].
Il legislatore, ben consapevole, cerca di introdurre una più ampia possibilità di controllo in sede di gravame in punto pena della sentenza di condanna[17], riscrivendo l’art. 58 l. n. 689 del 1981, proprio in tema di «potere discrezionale del giudice nell’applicazione e nella scelta delle pene sostitutive», che impone al giudice un più ampio dovere motivazionale in parte qua ai sensi dell’art. 546 lett. e c.p.p.
In primis, si specifica, in via espressa, che devono sempre essere i tradizionali criteri di cui all’art. 133 c.p. in tema di gravità del fatto e personalità del colpevole ad orientare il giudice nella scelta.
È il primo monito, dei tanti contenuti sempre nell’art. 58 l. n. 689 del 1981, a non incorrere nel disimpegno motivazionale nella parte sanzionatoria, che a volte contraddistingue le sentenze.
Solo motivazioni complete sul piano della dosimetria e sul contenuto delle pene consentono una corretta scrittura del dispositivo della sentenza medesima, che ai sensi dell’art. 61 l. n. 689 del 1981 deve contenere «la specie e la durata della pena detentiva sostituita e la specie, la durata ovvero l’ammontare della pena sostitutiva»
Bisogna, d’altro canto, ricordare come da sempre si segnala il vuoto contenutistico reale dei criteri di determinazione della pena fissati dal codice penale[18], che non pare colmato dal richiamo ripetuto nella l.d. n. 134 del 2021 e nel d. lgs. n. 150 del 2022 alla esigenza di scegliere la pena “più idonea alla rieducazione del condannato”, controbilanciata dalla esigenza, altrettanto importante, di motivare sull’insussistenza del pericolo di recidiva, in ragione delle prescrizioni adottate (v. art. 58 comma 1 l. n. 689 del 1981).
È significativo che, subito dopo aver affermato come tali prescrizioni debbano assicurare la prevenzione del pericolo di commissione di nuovi reati, ci si affretti ad affermare in maniera rigorosa e assertiva, che “la pena detentiva non può essere sostituita quando sussistono fondati motivi di ritenere che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato” (v. sempre art. 58 comma 1 l. n. 689 del 1981 parte finale), trattandosi di tipici giudizi prognostici, a cui fino ad oggi era chiamata solo la magistratura di sorveglianza ed ora estesi al giudice del merito[19].
In secondo luogo, sempre il comma 1 dell’art. 58 l. n. 689 del 1981 attribuisce all’organo giurisdizionale il potere di sostituzione della pena detentiva, con tutta evidenza per le sanzioni fino a due anni, solo se non ordina la sospensione condizionale della pena.
Riecheggiano nel comma 2 dell’art. 58 le parole della Corte costituzionale in tema di scelta delle misure cautelari ex art. 275 c.p.p. e, poi, per l’appunto di proporzionalità della pena, laddove si ricorda al giudice che la scelta sanzionatoria in sentenza deve fondarsi sul principio del minor sacrificio possibile della libertà personale del condannato. a cui si correla l’ennesima disposizione che lo obbliga ad indicare “i motivi che giustificano l’applicazione della pena sostituiva e la scelta del tipo”.
Il comma 3 dell’art. 58, strettamente legato al precedente, impone così in via inevitabile al giudice di spiegare le ragioni che lo inducono, per le pene entro il limite dei tre anni, di preferire la semilibertà e la detenzione domiciliare rispetto al meno afflittivo lavoro di pubblica utilità o alla pena pecuniaria.
Ci troviamo di fronte al principio di nuovo conio di extrema ratio avendo riguardo proprio alla semilibertà e alla detenzione domiciliare, in ragione delle “condizioni legate all’età, alla salute fisica o psichica, alla maternità, o alla paternità nei casi di cui all’art. 47 quinquies comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354”, nonché “delle condizioni di disturbo da uso di sostanze stupefacenti, psicotrope o alcoliche ovvero da gioco d’azzardo, certificate […], nonché delle condizioni delle persone affette da AIDS conclamata o dal altra grave deficienza immunitaria”, sempre certificate.
La lettura faticosa, a cui costringe l’art. 58 l. n. 689 del 1981, svela in realtà come la discrezionalità del giudice sia ineliminabile, seppure costretta all’interno di un obbligo rafforzato di motivazione in punto pena.
E proprio per escludere, già in astratto, qualsiasi discrezionalità si sono previste espresse preclusioni di natura soggettiva nell’art. 59 l. n. 689 del 1981, prima fra tutte per l’imputato di uno dei reati di cui all’art. 4 bis ord. penit., non collaborante ai sensi dell’art. 323 bis comma 2 c.p. (lett. d)
Si perpetua sulla base di semplici titoli di reato, spesso estranei alla criminalità organizzata, una presunzione assoluta di pericolosità sociale che esclude la sostituzione, salvo che per i minorenni, e che impone all’imputato di collaborare, se vuole ottenere un trattamento sanzionatorio ed esecutivo più favorevole[20].
3.1. L’udienza ex artt. 545 bis e 448 comma 1 bis c.p.p.: la nuova competenza del giudice della cognizione e il ruolo dell’ufficio dell’esecuzione penale esterna.
Alla luce del contenuto delle pene sostitutive e dei complessi obblighi motivazionali in punto pena del giudice, si comprende appieno la centralità della inedita udienza prevista dal nuovo art. 545 bis c.p.p. per il rito ordinario e abbreviato e dall’art. 448 comma 1 bis c.p.p. per il patteggiamento.
Il giudice che in sentenza abbia applicato una pena detentiva non superiore a quattro anni e che non abbia ordinato la sospensione condizionale della pena, “se ricorrono le condizioni per sostituire la pena detentiva”, deve “subito dopo la lettura del dispositivo ai sensi dell’art. 545 c.p.p.”, dare apposito avviso alle parti. Se non può decidere immediatamente, previo consenso dell’imputato, sentito il pubblico ministero, fissa un’apposita udienza camerale (art. 545 bis comma 1 c.p.p.).
Analogamente, “quando l’imputato e il pubblico ministero concordano l’applicazione di una pena sostitutiva di cui all’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, il giudice, se non è possibile decidere immediatamente, sospende il processo e fissa un’apposita udienza” (così l’art. 448 comma 1 bis c.p.p.)[21].
Ci si è subito chiesti, con la consueta perspicacia, se la fissazione di questa udienza destinata alla eventuale sostituzione della pena detentiva ai sensi dell’art. 20 bis c.p. debba avvenire sulla base di una considerazione astratta, meramente numerica della pena, o in concreto[22].
E si è anche detto che “molto del futuro della sostituzione della pena dipenderà da questo abbrivio: se improntato ad automatismo (l’entità edittale della pena lo consente, quindi si va avanti comunque ad esplorarne le possibilità’); ovvero a valutazioni ‘sostanziali’ già acquisite nel giudizio delle quali il giudice non si spoglia quale giudice della pena e che già impediscono, nella prospettiva del giudicante, un inutile sviluppo”[23].
È vero che non aiuta a sciogliere l’alternativa il presupposto del consenso dell’imputato, il quale deve essere acquisito personalmente o tramite procuratore speciale non necessariamente all’interno di tale udienza (v. sempre art. 545 bis comma 1 c.p.p.)[24].
Nel tentativo di proporre una soluzione al quesito, si possono, comunque, sviluppare alcune considerazioni di carattere formale e sistematico che scaturiscono dal d. lgs. n. 150 del 2022, anche alla luce di quanto si legge nella Relazione di accompagnamento alla legge.
Quest’ultima ricorda che, nel tentativo di introdurre il modello bifasico del sentencing anglosassone, la riforma vuole realizzare “una anticipazione dell’alternativa al carcere all’esito del giudizio di cognizione […] e che la valorizzazione delle pene sostitutive, irrogabili dal giudice di cognizione, promette una riduzione dei procedimenti davanti ai tribunali di sorveglianza, oggi sovraccarichi e incapaci, in molti distretti, di far fronte in tempi ragionevoli alle istanze di concessione di misure alternative, come testimonia il fenomeno dei c.d. liberi sospesi (poiché) l’efficienza della giustizia penale […] non può ragionevolmente essere rapportata al solo processo di cognizione. Se la fase dell’esecuzione penale ha una durata irragionevole, il procedimento penale nel suo complesso non può dirsi certo efficiente”[25].
Il giudice della cognizione, chiamato così a valutare l’applicabilità delle pene ex art. 20 bis c.p., non solo si “sostituisce” al tribunale di sorveglianza, ma finisce per rivestire un ruolo di organo propulsivo dell’esecuzione.
Questo significa che, accanto ad un controllo iniziale formale e numerico che attiene alla determinazione nel limite dei quattro anni della reclusione o all’arresto in concreto da applicare, ovvero alla verifica dell’esistenza delle preclusioni soggettive di cui all’art. 59 l. n. 689 del 1981, il complesso giudizio prognostico sotteso alla valutazione di non concedibilità della sospensione condizionale della pena, di idoneità rieducativa in concreto della pena sostitutiva e dell’assenza del pericolo di recidiva, presuppone che il giudice disponga della relazione e del programma trattamentale redatto dall’UEPE e, in via eventuale, della relazione sulle attività e sugli esiti dei programmi di giustizia riparativa.
Appare teorico che queste prove documentali, al pari di altre informazioni di polizia e dell’UEPE, siano a disposizione dell’organo giurisdizionale già al momento della decisione, diventando proprio l’udienza ex art. 545 bis c.p.p. la sede necessaria e ultima di acquisizione delle stesse.
Del resto, salvo introdurre interpretazioni volte a deflazionare il carico di lavoro dell’UEPE medesimo, sulla base di pur lodevoli letture realistiche che si ritrovano già in alcuni protocolli in cui si fa a meno (entro certi limiti) del programma, non pare condivisibile onerare le parti di tale attività probatoria, rimettendo di fatto in via esclusiva alle stesse la realizzazione effettiva della finalità di cui all’art. 27 comma 3 Cost.
Da qui, appare difficile che il giudice possa sottrarsi, nella generalità dei casi, alla fissazione di tale udienza.
La fissazione della stessa appare doverosa, inoltre, non solo per una interlocuzione a fini probatori con l’UEPE e la polizia giudiziaria, ma anche per evitare che, in assenza di un contraddittorio con l’imputato e il suo difensore, questi siano “costretti” (fuori dei casi di lavoro di pubblica utilità) a proporre appositi motivi di appello, anche al solo fine di chiedere in sede di gravame il rispetto del diritto al contradditorio ex art. 178 lett. c c.p.p. e, comunque, per avere la possibilità di beneficiare della sanzione sostitutiva non concessa dal giudice di prime cure, sul solco di quanto precisato dalle Sezioni unite della Suprema Corte[26].
La circostanza evidenziata da quest’ultime che le sanzioni sostitutive in sede di appello non possano essere applicate d’ufficio, ma che serva un apposito motivo sul punto, svela anche una qualche difficoltà di coordinamento e una certa distonia con la nuova disciplina cartolare del giudizio di secondo grado.
Se il giudice del gravame deciderà, infatti, di accogliere tale motivo, dovrà in ogni caso fissare la nuova udienza ex art. 545 bis c.p.p., che sembra, comunque, palesare, al pari di quanto avviene davanti alla magistratura di sorveglianza, il bisogno di una presenza delle parti, per determinare le modalità esecutive della pena[27].
4. Il patteggiamento quale sede privilegiata di applicazione delle sanzioni sostitutive e la mancata inclusione all’interno delle stesse dell’affidamento in prova ai servizi sociali.
Le considerazioni sviluppate devono correlarsi ad una scelta di fondo della novella del 2022, che era già emersa in sede di legge sul c.d. “patteggiamento allargato”[28].
Come già all’epoca della l. n. 134 del 2003[29], il “rafforzamento” delle sanzioni sostitutive pare ancora una volta espressione della volontà di incentivare l’utilizzo nella prassi del rito ex artt. 444 ss. c.p.p., oltre che di un cambiamento radicale del sistema sanzionatorio del codice penale che dovrà misurarsi anche con la ben diversa attuazione (questa sì dirompente sulla carta) del criterio di cui all’art. 1 comma 18 l. n. 134 del 2021, relativo all’introduzione della giustizia riparativa[30] (e che ritroviamo disciplinata, per la prima volta in via organica, nel d. lgs. n. 150 del 2022 (artt. 42 ss.).
È vero, infatti, che con la riforma “Cartabia”, a differenza di quanto previsto dal progetto “Lattanzi”, le nuove pene sostitutive “possono essere applicate dal giudice della cognizione ‘su scala generalÈ, a prescindere, cioè, dalla richiesta di patteggiamento o dalla ricorrenza di specifiche figure di reato indicate dal legislatore”[31].
È altrettanto vero che il patteggiamento sembra rimanere la sede privilegiata di applicazione delle stesse “nuove” pene sostitutive, se solo si riflette su alcuni profili ben presenti nella l. n. 134 del 2021 e nel d. lgs. n. 150 del 2022[32].
In primo luogo, la sostituzione della reclusione o dell’arresto con le nuove pene di cui all’art. 20 bis c.p. sarà correlata in sede di patteggiamento, non di rado, a veri e propri “saldi” come avviene già oggi sulla pena detentiva oggetto dell’accordo.
In stretta connessione, “l’ampia possibilità di degradare la risposta sanzionatoria dal carcere a pene non carcerarie è la ‘contropartita’ che il sistema offre in cambio di una rinuncia alla piena giurisdizione”[33], senza doversi affidare all’ampia (e rischiosa) discrezionalità sanzionatoria del giudice nel rito ordinario, che può applicare le pene della l. n. 689 del 1981 ai sensi dell’art. 58 l. n. 689 del 1981.
In secondo luogo, il pubblico ministero e l’imputato possono, da subito, accordarsi su di una sanzione complessiva che, una volta passata in giudicato la sentenza, sarà immediatamente esecutiva, in quanto non suscettibile di sospensione condizionale[34], senza che vi possa essere la sospensione dell’ordine di esecuzione ai sensi dell’art. 656, comma 5, c.p.p. che riguarda la sola pena detentiva in carcere.
Il legislatore punta molto sul successo di questo patteggiamento dell’imputato ad una pena extramuraria, ma è da evidenziare una incoerenza di difficile comprensione.
La l. n. 134 del 2021 e il conseguente d. lgs. n. 150 del 2022 non hanno ritenuto di prevedere quale sanzione sostituiva l’affidamento in prova al servizio sociale[35].
È probabile che ciò sia dipeso dall’equilibrio interno alla variegata compagine politica che ha portato alla legge-delega e alla preoccupazione di mantenere, comunque, il connubio pena-limitazione della libertà[36], nonché “di evitare il rischio che l’applicazione dell’affidamento in prova ai servizi sociali si trasformi in una sospensione condizionale mascherata”[37], ovvero che disincentivi la sospensione del procedimento con messa alla prova, allungando i tempi del processo[38].
Le ricadute sul piano di sistema e pratico sono contraddittorie.
Da un lato, l’imputato ha il vantaggio di potersi accordare con il p.m. già nella fase di cognizione non solo sulla quantificazione della pena detentiva, ma anche sulle relative modalità esecutive extracarcerarie, rompendo (come detto) il binomio cognizione-esecuzione.
Dall’altro lato, la scelta ex art. 444, comma 1, c.p.p. della detenzione domiciliare, ovvero della semilibertà, dai contenuti simili anche se non uguali agli omologhi istituti della fase esecutiva, impedisce al condannato di percorrere la possibilità della misura alternativa “più favorevole” ex art. 47 ord. penit.
Una volta che l’imputato abbia deciso di concordare la detenzione domiciliare o la semilibertà ed espresso in tal senso una volontà ben precisa in accordo con il pubblico ministero sul trattamento sanzionatorio complessivo, lo stesso imputato, divenuto condannato, non può cambiare le proprie scelte iniziali e chiedere in executivis l’affidamento in prova ai servizi sociali. L’art. 47 comma 3 ter ord. penit. prevede, in via espressa, che quest’ultima misura alternativa possa essere concessa al condannato a pena sostitutiva, solo «dopo l’espiazione di almeno metà della pena», seppure tenendo conto della riduzione che può derivare dalla liberazione anticipata.
La detenzione domiciliare e la semilibertà, qualificate come sanzioni sostitutive, si atteggiano nella sostanza a modalità alternative di esecuzione della pena detentiva applicate già in sede di merito, che impongono, al pari di quanto avviene per la messa alla prova, ingenti investimenti sugli uffici dell’esecuzione penale esterna anche per l’identificazione di reali prescrizioni rieducative[39].
Questi risultati sono ancor più da enfatizzare alla luce della possibilità di applicare con il patteggiamento il lavoro di pubblica utilità sostitutivo per pene non superiori a tre anni (v. art. 56 bis d. lgs. n. 150 del 2022).
Anche questa volta, senza dover aspettare la fase esecutiva per chiedere l’affidamento in prova al servizio sociale ordinario (v. art. 47, comma 1, ord. penit.), appare vantaggioso per l’imputato non solo concordare con il p.m. la pena detentiva, ma ab initio fissarne modalità esecutive questa volta del tutto esterne al carcere e non rimesse alla valutazione, pur sempre discrezionale, della magistratura di sorveglianza.
Vi è, inoltre, un aspetto tutt’altro che secondario sul quale riflettere e che incide sulle interrelazioni con la messa alla prova.
Quest’ultima, sulla quale punta come già detto la riforma, «non può essere concessa più di una volta» (v. art. 168-bis, comma 4, c.p.), al pari di quanto avviene per la sospensione condizionale della pena.
Di conseguenza, l’imputato dovrà considerare che i lavori di pubblica utilità (e in generale le pene sostitutive di nuova introduzione) sono, per contro, reiterabili, non essendo previste preclusioni da una precedente sentenza di condanna a pena sostituita[40].
Senza trascurare che il loro positivo svolgimento, accompagnato da condotte riparatorie, determina la revoca della confisca facoltativa eventualmente disposta, sia in sede di patteggiamento (oltre che di decreto penale di condanna).
Da qui, i lavori di pubblica utilità finiranno per assolvere alla funzione di leva incentivante per l’accesso a tali ultimi riti premiali e saranno centrali per l’intero sistema sanzionatorio[41].
5. Le questioni organizzative.
Per valutare la “bontà” o meno delle scelte della legge-delega n. 134 del 2021 e del d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 150 occorre attendere i risultati che scaturiranno dalla completa attuazione della riforma, anche, in particolare, in tema di indagini preliminari e di udienza preliminare e verificare il funzionamento nella prassi del nuovo “modello” penale, processuale e ordinamentale pensato dai conditores della riforma.
Nel frattempo, lo studioso e l’operatore pratico, in attesa dell’introduzione della giustizia riparativa che andrà ad incidere in modo inevitabile anche sul “successo” delle pene sostitutive, deve già confrontarsi con un modello decisorio “nuovo”.
All’esito del procedimento penale vi saranno sanzioni a contenute prescrittivo sia a fronte di una sentenza di patteggiamento, sia a fronte di una sentenza di condanna, sia all’interno di un percorso processuale quale la “messa alla prova” destinato a terminare con una sentenza di proscioglimento per estinzione del reato.
Prescrizioni, a ben vedere, rimesse alla volontà dell’imputato.
Si dovrebbe trattare, più in generale, di prescrizioni a contenuto rieducativo, non più stabilite dalla magistratura di sorveglianza che beneficerà anch’essa di importanti effetti deflattivi dei carichi giudiziari, ma affidate al giudice della cognizione, sprovvisto, fino ad oggi, soprattutto in sede di applicazione della pena su richiesta di parte, degli strumenti cognitivi per svolgere la complessa attività di scelta e di quantificazione della pena congrua[42], ma che vede ampliati con la novella i propri poteri probatori e con essi gli adempimenti formali a carico dell’ufficio (v. sempre l’udienza disciplinata dagli artt. 545 bis e 448 comma 1 bis c.p.p.)[43] e in via inevitabile i tempi processuali.
È certo, in ogni caso, che il modello processuale pensato dalla novella presuppone la piena funzionalità delle indagini preliminari.
La selezione delle notizie di reato (condivisibile o meno) e la correlativa completezza delle indagini sono le condizioni minime per consentire la tanto vagheggiata (anche nella Relazione) deflazione dei processi e riduzione delle assoluzioni in dibattimento.
Solo Procure altamente efficienti, grazie anche ai nuovi progetti organizzativi dei capi degli uffici, saranno in grado di garantire efficienza e completezza in tempi più brevi e sottoposti a controllo, a fronte di investigazioni che vedono aumentare progressivamente la loro complessità, estesa ai profili sanzionatori e patrimoniali dei reati.
Il rischio è che le difficoltà organizzative si trasferiscano dalla fase esecutiva a quella di merito.
Appare fondamentale, infatti, nella nuova architettura del sistema sanzionatorio e della sua esecuzione evidenziare l’impatto sull’organizzazione della giustizia della riforma e l’esigenza correlata di importanti risorse finanziarie per realizzarla.
Si ampliano, infatti, i compiti degli uffici di cognizione e dell’ufficio dell’esecuzione penale esterna.
La stessa Ministra della Giustizia Marta Cartabia era ben consapevole di questa realtà laddove evidenziava come la riforma poggia “saldamente su una imponente ristrutturazione del servizio giustizia, accompagnata dalla immissione di ingenti risorse umane e materiali. Organizzazione e capitale umano sono la condizione di fattibilità delle riforme”[44].
6. Segue. … e la nuova sfida culturale.
Sullo sfondo la necessità di un rinnovamento culturale di tutti protagonisti della giurisdizione.
Una delle tante scommesse della riforma è rivitalizzare la funzione rieducativa della pena, annidandosi nella novella il rischio opposto.
Il procedimento penale di cognizione si deve occupare innanzi tutto del fatto di reato e della sua ricostruzione in tutti i suoi aspetti, ma anche della migliore comprensione possibile della persona che si accerta autrice dello stesso fatto.
L’oggetto della prova fissato dall’art. 187 c.p.p. anche sulla pena deve essere colto nella sua essenzialità già nella fase di cognizione. Non è più possibile rinviare tout court alla fase esecutiva la valutazione della personalità del colpevole.
E ciò deve avvenire fin dalla fase delle indagini preliminari, che non potranno più disinteressarsi dei profili personali, familiari, sociali, economici e patrimoniali dell’indagato, laddove si pervenga ad una scelta di esercizio dell’azione penale (si pensi, in particolare, alla sollecitazione che spetta al p.m. della messa alla prova, nonché alla possibile richiesta di decreto penale di condanna).
L’ennesimo ampliamento della complessità accertativa di tale fase iniziale sconta come detto l’efficienza innanzi tutto della stessa, poichè in caso contrario sarà inevitabile che fin dall’udienza preliminare o predibattimentale in caso di patteggiamento e di giudizio abbreviato e poi in dibattimento in sede di sentenza la nuova fase ex art. 545 bis c.p.p. diventi l’ennesimo momento di sospensione del processo, con buona pace degli intendimenti di ragionevole durata dello stesso che hanno ispirato il legislatore.
Non si possono far prevalere le ragioni di efficienza e di celerità sulla finalità rieducativa della pena, salvo rimanere arroccati su di una visione da contrastare: preoccuparsi solo di deflazione e del pericolo di reiterazione del reato[45].
Si vuol dire che indagini complete e poi istruzioni dibattimentali complete sotto il profilo degli elementi di fatto alla base dei criteri di cui all’art. 133 c.p. potranno concretamente fornire gli strumenti per rendere possibile l’obbligo di motivazione imposto anche in parte qua dall’art. 546 lett. e c.p.p.
Un cambiamento organizzativo e un rinnovamento culturale impegnativo, che attende tutti gli attori della giurisdizione.
[1] M. Donini, Efficienza e principi della legge Cartabia. Il legislatore a scuola di realismo e cultura della discrezionalità, in Pol. dir., 2021, p. 593; F. Palazzo, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, in Sist. pen., 8 settembre 2021, p. 2.
[2] Cfr. E. Dolcini, Dalla riforma Cartabia nuova linfa per le pene sostitutive. Note a margine dello schema di d. lgs. approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 agosto 2022, in Sistema penale, 30 agosto 2022, pp. 1 ss. V. anche Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, in Gazzetta ufficiale, 19 ottobre 2022, Suppl. straordinario n. 5, Serie generale n. 245, pp. 350 ss.
[3] Cfr. T. Padovani, Riforma Cartabia, intervento sulle pene destinato a ottenere risultati modesti, in Guida al dir., n. 41, 5 novembre 2022, pp. 8 ss.
V. anche, più in generale, M. Bortolato, La riforma Cartabia: la disciplina organica della giustizia riparativa. Un primo sguardo al nuovo decreto legislativo, in Quest. giust., 10 ottobre 2022.
[4] Per tutti, nel contesto della riforma, L. Eusebi, La pena tra necessità di strategie preventive e nuovi modelli di risposta al reato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2021, pp. 283 ss.; nonchè A. Gargani, La riforma in materia di sanzioni sostitutive, in Leg. pen., 21 gennaio 2022, pp. 5 ss.; F. Palazzo, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, cit., p. 11.
[5] E. Dolcini, Dalla riforma Cartabia nuova linfa per le pene sostitutive, cit., p. 4. Cfr. anche Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., p. 353.
[6] Cfr. Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., p. 353, la quale evidenzia allo stesso tempo che l’inappellabilità delle sentenze di condanna al lavoro di pubblica utilità contribuirà a ridurre le impugnazioni. V. anche infra par. 4.
[7] V. il paragrafo successivo.
Cfr. le Linee guida elaborate dal Ministero della Giustizia. Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, 26 ottobre 2022, che si possono leggere in https://www.sistemapenale.it/it/scheda/circolare-uepe-prime-indicazioni-operative-del-ministero-della-giustizia
[8] Cfr. T. Padovani, Riforma Cartabia, intervento sulle pene destinato a ottenere risultati modesti, cit., pp. 8 ss., criticando l’effettiva utilità della riforma.
[9] Parla senza mezzi termini nell’analisi della sospensione del procedimento con messa alla prova della figura di un imputato che si sottopone volontariamente all’esecuzione della pena, R. Orlandi, Procedimenti speciali, in M. Bargis (a cura di), Compendio di procedura penale, Milano, 2020, pp. 611-612. V. anche A. Sanna, Procedimenti contratti e attività riparative, in Proc. pen. e giust., n. 3, 2020, p. 564.
[10] Cfr. a sottolineare questo profilo Corte cost., 27 aprile 2018, n. 91, in Giur. cost., pp. 776 ss. con nota di C. Cesari, La Consulta supera le perplessità e la messa alla prova si radica nel sistema penale. V. anche V. Maffeo, La costituzionalità della messa alla prova tra vecchi modelli premiali e nuovi orizzonti sistematici, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2018, pp. 953 ss.; L. Parlato, La messa alla prova dopo il dictum della Consulta: indenne ma rivisitata e in attesa di nuove censure, in Dir. pen. cont., 1, 2019, pp. 89 ss.
[11] V. infra par. 4.
[12] Si permette rinviare per un approfondimento a G. Varraso, La legge “Cartabia” e l’apporto dei procedimenti speciali al recupero dell’efficienza processuale, in Sistema penale, 8 settembre 2020. V. anche ora la stessa Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., p. 353. Già in questa direzione, a commento della legge n. 134 del 2003 di introduzione del c.d. patteggiamento allargato, con grande efficacia F. Giunta, Le novità in materia di sanzioni sostitutive, in Patteggiamento allargato e giustizia penale, a cura di F. Peroni, Torino, 2003, p. 69 ss.
Cfr., anche per una analisi attenta dei dati statistici in materia, M. Gialuz – J. Della Torre, Giustizia per nessuno, Torino, 2022.
[13] E. Dolcini, Dalla riforma Cartabia nuova linfa per le pene sostitutive, cit., pp. 6 ss.; nonché Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., pp. 359 ss.
[14] Così sempre Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., p. 359.
[15] Cfr. Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., spec. p. 366 e 367.
[16] Cfr. M. Donini, Efficienza e principi della legge Cartabia. Il legislatore a scuola di realismo e cultura della discrezionalità, cit., pp. 591 ss.; F. Palazzo, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, cit. Già sul progetto “Lattanzi” G. De Francesco, Brevi appunti sul disegno di riforma della giustizia, in Leg. pen., 23 agosto 2021, pp. 5 ss.
[17] Occorre ricordare, come già emerso (nota 6), che anche laddove siano applicate le pene sostitutive ai sensi del nuovo art. 593 comma 3 c.p.p. non sono appellabili le sole sentenze di condanna alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità.
[18] A stigmatizzare le prassi giurisprudenziali che si accontentano di formule stereotipate in punto pena proprio in ragione della discrezionalità insita nell’art. 133 c.p. v., per tutti, F. Bricola, La discrezionalità nel diritto penale, I, Milano, 1965, ora in Id., Scritti di diritto penale, Milano, 2000, pp. 5 ss.
[19] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., spec. p. 377 e 378.
[20] Occorre chiedersi se tale disciplina si giustifichi ora anche a fronte di quanto stabilito dall’art. 4 bis ord. penit., che, pur con evidenti limiti di disciplina e dubbi di legittimità costituzionale, non prevede più la collaborazione quale condicio sine qua non per ottenere i benefici, a seguito del d.l n. 162 del 2022, in relazione al quale in data 8 novembre la Corte costituzionale con ordinanza n. 227 del 2022 ha restituito gli atti alla Corte di cassazione, per valutarne nuovamente la legittimità.
[21] La medesima disposizione si applica a fronte di una istanza ex art. 444 comma 1 c.p.p. a pena sostitutiva, presentata in sede di udienza di comparazione predibattimentale davanti al tribunale in composizione monocratica ai sensi dell’art. 554 ter comma 2 parte finale c.p.p.
[22] P. Gaeta, Ragionando su alcuni ossimori della riforma in materia di pene sostitutive, Relazione tenuta nell’ambito del X Convegno dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, 23 settembre 2022, pp. 8 ss. del dattiloscritto.
[23] P. Gaeta, Ragionando su alcuni ossimori della riforma in materia di pene sostitutive, cit., pp. 10 e 11 del dattiloscritto.
[24] Sempre P. Gaeta, Ragionando su alcuni ossimori della riforma in materia di pene sostitutive, cit., pp. 10 e 11
[25] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., p. 353.
[26] Cfr. Cass., sez. un., 19 gennaio 2017, n. 12872, in CED Cass., 269125.
[27] Occorrerà valutare anche alla luce di quanto emergerà dalla prassi applicativa la necessità di qualche correttivo ai sensi dell’art. 1 comma 4 legge-delega n. 134 del 2021, che consente di procedere in tal senso nel termine di due anni dall’entrata in vigore della riforma.
[28] Cfr., volendo, G. Varraso, La legge “Cartabia” e l’apporto dei procedimenti speciali al recupero dell’efficienza processuale, cit., pp. 40 ss.
[29] F. Giunta, Le novità in materia di sanzioni sostitutive, cit., p. 69, il quale evidenziava che il rafforzamento delle sanzioni sostitutive appariva del tutto strumentale a fungere da fattore di forte incremento dell’accesso all’istituto di cui all’art. 444 c.p.p.
[30] A sottolineare questa potenzialità della giustizia riparativa di futura introduzione v., per tutti, A. Gargani, La riforma in materia di sanzioni sostitutive, cit.
[31] Così A. Gargani, La riforma in materia di sanzioni sostitutive, cit., p. 10 s., che riprende E. Dolcini, Sanzioni sostitutive: la svolta impressa dalla riforma Cartabia, in Sist. pen., 2 settembre 2021, p. 4.
[32] Sono gli stessi profili già presenti nel progetto “Flick” del 1997, che si può leggere in P. Ferrua, Studi sul processo penale. III. Declino del contraddittorio e garantismo reattivo, Torino, 1997, pp. 165 ss. A commento v., Id., La giustizia negoziata nella crisi della funzione cognitiva del processo penale, ivi, pp. 133 ss.
[33] Così con efficacia F. Palazzo, Pena e processo nelle proposte della “Commissione Lattanzi”, cit., p. 3.
[34] Per tutti, A. Gargani, La riforma in materia di sanzioni sostitutive, cit., pp. 12 ss.
[35] A stigmatizzare la mancanza, A. Gargani, La riforma in materia di sanzioni sostitutive, cit., p. 10 e s; nonché O. Calavita, La riforma delle sanzioni sostitutive: riflessioni processualistiche in attesa del decreto legislativo, in Leg. pen., 13 febbraio 2022, p 11; A. Cavaliere, Considerazioni “a prima lettura” su deflazione processuale, sistema sanzionatorio e prescrizione, in Penale dir. e proc., 2 novembre 2021, p. 15. Tale previsione era correttamente prevista proprio nel progetto “Flick” del 1997 e nel progetto “Lattanzi”. Ritine, per contro, coerente la scelta P. Gaeta, Ragionando su alcuni ossimori della riforma in materia di pene sostitutive, cit., p. 5 del dattiloscritto.
[36] Con la consueta efficacia, E. Dolcini, Sanzioni sostitutive: la svolta impressa dalla riforma Cartabia, cit., p. 5 ricorda che “il legislatore si sarebbe sentito vincolato all’idea ‘insuperata’ che la pena debba consistere in una privazione della libertà: preferibilmente in una privazione della libertà che abbia a che fare con il carcere”. Nella stessa direzione anche F. Fiorentin, Semilibertà e detenzione domiciliare applicate dal giudice della cognizione, in La riforma del processo penale. Commento alla legge n. 134 del 27 settembre 2021, Milano, 2021, pp. 196 ss.
[37] Così C. Castelli, Il progetto di riforma Cartabia: una rivoluzione copernicana per il sistema sanzionatorio penale?, in Il penalista, 20 settembre 2021, p. 3. Già in precedenza, E. Dolcini, Sanzioni sostitutive: la svolta impressa dalla riforma Cartabia, cit., p. 5.
[38] In questa direzione, G.L. Gatta, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi, e linee di fondo della ‘legge Cartabia’, in Sist. pen., 15 ottobre 2021, p. 17.
[39] Cfr. A. Cavaliere, Considerazioni “a prima lettura” su deflazione processuale, sistema sanzionatorio e prescrizione, cit., p. 15; E. Dolcini, Sanzioni sostitutive: la svolta impressa dalla riforma Cartabia, cit., p. 4; F. Palazzo, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, cit., p. 13.
[40] Per tutti, R. Bartoli, Verso la riforma Cartabia: senza rivoluzioni, con qualche compromesso, ma con visione e respiro, in Dir. pen. e proc., 2021, p. 1169, secondo il quale è scomparsa la preclusione contenuta per contro nel progetto Lattanzi che impediva di disporre la sostituzione più di una volta, delegando a ridisciplinare le condizioni soggettive per la sostituzione; v. anche E. Dolcini, Sanzioni sostitutive: la svolta impressa dalla riforma Cartabia, cit., p. 5.
[41] Cfr., da ultimo, T. Travaglia Cicirello, La riforma delle sanzioni sostitutive e le potenzialità attuabili del lavoro di pubblico utilità, in Leg. pen., 21 settembre 2022. In precedenza, volendo, G. Varraso, La legge “Cartabia” e l’apporto dei procedimenti speciali al recupero dell’efficienza processuale, cit., pp. 45 ss.
[42] Cfr. P. Ferrua, Patteggiamento allargato, una riforma dai molti dubbi, in Dir. e giust., 8, 2003, p. 11, seppure nel contesto sempre del patteggiamento allargato.
[43] V. supra, par. 4.
[44] Relazione annuale al Parlamento della Ministra della Giustizia Marta Cartabia, in Sist. pen., 19 gennaio 2022, p. 8 s. È la ragione alla base dell’ampliamento dell’organico dell’ufficio dell’esecuzione penale esterna.
[45] Cfr. P. Gaeta, Ragionando su alcuni ossimori della riforma in materia di pene sostitutive, cit., p. 14 del dattiloscritto.
Le nuove disposizioni in materia di processo del lavoro
di Gabriele Allieri, giudice del lavoro presso il Tribunale di Gorizia
Giustizia Insieme propone ai suoi lettori una serie di contributi relativi alla riforma della procedura civile, per conoscere, approfondire e discutere. L’articolo presentato riguarda la riforma del processo del lavoro.
I precedenti articoli:
1. La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.)
2. La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura
3. La riforma del processo civile in appello. Le disposizioni innovate dal D. Lgs n. 149/2022
4. La riforma dell’esecuzione forzata: le novità del D. Lgs n. 149/2022
Abstract L’11 agosto 2023 il processo del lavoro – ossia le disposizioni di cui al Titolo IV c.p.c., titolato «Norme per le controversie in materia di lavoro» – compirà cinquant’anni. Oggi, analizzando le norme ad esso dedicate e contenute nel decreto legislativo n. 149 del 2022, attuativo della legge delega n. 206 del 2021, se ne può affermare la perdurante vitalità, dal momento che le disposizioni di cui agli artt. 409 ss. c.p.c., e la dinamica complessiva del rito in considerazione, non formano oggetto di significativi interventi.
Sommario: 1. Introduzione. 2. La negoziazione assistita in materia di lavoro. 3. Introduzione degli artt. 441-bis e ss. nel codice di procedura civile. 4. Il processo del lavoro da remoto e per iscritto. 5. Le novità in merito al processo d’appello.
1. Introduzione
Il processo del lavoro, per come introdotto dalla legge n. 533 del 1973, si avvia a celebrare il suo cinquantesimo compleanno in perfetta forma: gode di buona salute, è funzionale al suo scopo – la ricerca della verità materiale – e, proprio per questo, va lasciato (pressoché) intatto.
Ne è prova il fatto che la riforma del processo civile ha modificato l’art. 183 c.p.c., «Prima comparizione delle parti e trattazione della causa», prevedendo che il giudice proceda all’interrogatorio libero delle parti, tenute a comparire personalmente, e al tentativo conciliazione, con ciò prendendo atto della particolare efficacia di questi istituti, tipici del processo del lavoro.
Queste poche e semplici parole sono di per sé sufficienti per sintetizzare la portata innovativa delle disposizioni dedicate al processo del lavoro dal decreto legislativo n. 149 del 2022, attuativo della legge delega n. 206 del 2021, e in vigore dal prossimo 28 febbraio 2023.
Infatti, il pacchetto di novità ricondotto alla locuzione “Riforma Cartabia” non interviene in modo significativo sulla dinamica del processo del lavoro. Le disposizioni di nuovo conio che si occupano di negoziazione assistita e quelle introdotte nella trama codicistica (cui fa da pendant una nuova previsione tra le disposizioni d’attuazione) non smentiscono l’attuale assetto, lasciando inalterato il sistema vigente. Anzi, a ben vedere, la riforma ne riespande i confini applicativi, allargandoli a quelle controversie che, altrimenti, sarebbero state gestite, ancora per qualche tempo, secondo lo schema del c.d. rito Fornero.
Per questo, si può affermare che la fiducia nei confronti delle soluzioni legislative del 1973 non è in discussione. Piuttosto, volendo cogliere il senso della riforma, verrebbe da scrivere che ciò che è sfiduciato – o quanto meno richiamato sull’attenti – è l’assetto organizzativo di chi è chiamato ad applicare quelle disposizioni – il giudice -, cui viene consegnata, come si conviene ad un nuovo anno che inizia, una nuova agenda (in parte già compilata).
2. La negoziazione assistita in materia di lavoro
La versione originaria dell’art. 2, comma 2, lett. b) del decreto-legge n. 132 del 2014, con cui fu introdotta la negoziazione assistita da uno o più avvocati – ossia, l’«accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l'assistenza di avvocati iscritti all'albo» - stabiliva che l’oggetto della controversia non doveva riguardare diritti indisponibili o vertere in materia di lavoro.
Con l’art. 9 del d. lgs. cit. il riferimento alla materia del lavoro è soppresso e all’interno del decreto-legge n. 132 del 2014 viene introdotta una nuova disposizione – l’art. 2-ter – in base al quale «per le controversie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, fermo restando quanto disposto dall'articolo 412-ter del medesimo codice, le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ciascuna parte è assistita da almeno un avvocato e può essere anche assistita da un consulente del lavoro.
All'accordo raggiunto all'esito della procedura di negoziazione assistita si applica l'articolo 2113, quarto comma, del codice civile.
L'accordo è trasmesso a cura di una delle due parti, entro dieci giorni, ad uno degli organismi di cui all'articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276».
Questo strumento deflattivo del contenzioso si aggiunge agli altri già attualmente previsti. Il rinvio operato all’art. 2113, comma 4, c.c., conduce a ritenere che l’intervento degli avvocati sia stato equiparato a quello del giudice, dell’autorità amministrativa e dell’associazione di categoria, sicché l’accordo raggiunto all’esito della negoziazione sarà assoggettato ad un regime giuridico derogatorio della regola generale - stabilita dai commi secondo e terzo dell’art. 2113 c.c. - dell'impugnabilità nel termine decadenziale di sei mesi, in quanto l'intervento degli avvocati - terzi investiti di una funzione pubblica - è ritenuto idoneo a superare la presunzione di non libertà del consenso del lavoratore, precludendo l’impugnabilità dell’accordo raggiunto[1].
La novità in commento va accolta con favore, se non altro perché il contesto entro cui l’accordo è destinato a maturare garantisce con solidità l’effettiva assistenza nei confronti di ciascuna delle parti. Poiché con questo strumento la loro tutela è garantita in misura quanto meno equivalente a quella assicurata dalle altre ipotesi attualmente vigenti, non v’era motivo per continuare ad escludere l’applicabilità dell’istituto anche alla materia del lavoro.
Va comunque rilevato che solo il tempo potrà suggerire se questa novità sarà in grado di deflazionare il contenzioso. Chi scrive ne dubita, dal momento che la mancanza di una cornice formale, quale la negoziazione assistita, non ha finora impedito ai difensori di attivarsi già in sede stragiudiziale per definire la controversia, sia evitandone l’avvio formale, sia interrompendone il corso prima del compimento di qualsiasi attività successiva all’iscrizione a ruolo della causa.
Del resto, non si può ignorare che l’iniziativa in giudizio funge spesso da propulsore che induce la parte convenuta ad avviare un dialogo con la propria controparte. Inoltre, molto spesso è solo l’intervento del giudice (rectius, di una sua proposta conciliativa alla presenza delle parti) ad indurre le parti a meditare seriamente - e per la prima volta - in ordine ad una composizione conciliativa della lite.
Per quanto apprezzabile, l’estensione della negoziazione assistita alla materia del lavoro non lascia prevedere sensibili modifiche a questa dinamica e al peso specifico assunto, nei fatti, dal dialogo conciliativo svolto in vista dell’intervento del giudice o successivamente ad esso.
3. Introduzione dell'art. 441-bis e ss. nel codice di procedura civile
Che il rito introdotto dall’art. 1, comma 47 e ss., legge n. 92 del 2012, il c.d. rito Fornero, previsto per l’impugnazione dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 St. Lav., fosse destinato ad una naturale estinzione è una circostanza nota a partire dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, che, nell’introdurre il contratto di lavoro a tutele crescenti e le relative guarentigie nel caso di illegittimo recesso datoriale, ne aveva preannunciato il prossimo naturale “pensionamento”.
Tuttavia, con la riforma del processo civile, il legislatore ha inteso anticipare i tempi e ha decretato una conclusione anticipata dell’esperienza avviata nel 2012, introducendo, nel nuovo Capo I-bis “Delle controversie relative ai licenziamenti” del Titolo IV, una nuova disposizione – l’art. 441-bis - destinata a riferirsi a tutte le ipotesi in cui, con l’impugnazione del licenziamento, venga richiesta la reintegrazione nel posto di lavoro. Ciò, evidentemente, in tutte le ipotesi in cui essa sia prevista, e dunque anche al di là dell’art. 18 St. Lav..
La nuova disposizione, tuttavia, non configura un nuovo rito speciale, ma generalizza l’applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 409 ss. c.p.c., salvi peculiari ed eventuali accorgimenti, utili ad una più spedita trattazione del procedimento.
Il testo dell’art. 441-bis prevede che «la trattazione e la decisione delle controversie aventi ad oggetto l'impugnazione dei licenziamenti nelle quali è proposta domanda di reintegrazione nel posto di lavoro hanno carattere prioritario rispetto alle altre pendenti sul ruolo del giudice, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto.
Salvo quanto stabilito nel presente articolo, le controversie di cui al primo comma sono assoggettate alle norme del capo primo.
Tenuto conto delle circostanze esposte nel ricorso il giudice può ridurre i termini del procedimento fino alla metà, fermo restando che tra la data di notificazione al convenuto o al terzo chiamato e quella della udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venti giorni e che, in tal caso, il termine per la costituzione del convenuto o del terzo chiamato è ridotto della metà.
All'udienza di discussione il giudice dispone, in relazione alle esigenze di celerità anche prospettate dalle parti, la trattazione congiunta di eventuali domande connesse e riconvenzionali ovvero la loro separazione, assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro. A tal fine il giudice riserva particolari giorni, anche ravvicinati, nel calendario delle udienze.
I giudizi di appello e di cassazione sono decisi tenendo conto delle medesime esigenze di celerità e di concentrazione».
La ratio della disposizione è chiara. Nonostante l’abrogazione delle norme relative al c.d. rito Fornero, viene ribadita la finalità di procedere ad una definizione rapida delle controversie al cui esito può essere ripristinato il rapporto di lavoro.
La tecnica normativa impiegata per il perseguimento dello scopo è però diversa da quella utilizzata dal legislatore del 2012.
Questi, con le peculiarità, e i problemi interpretativi che notoriamente ne conseguirono, forgiò un rito bifasico, all’interno del quale la rapidità era assicurata, oltre che da termini processuali ridotti e dalla natura monotematica dell’oggetto del processo, dalla sommarietà dell’istruttoria cui il giudice doveva procedere prima di adottare l’ordinanza decisoria.
Solo in caso d’opposizione, aprendosi la seconda fase, il processo e l’istruttoria si sarebbero potuti riespandere, lasciando spazio ad eventuali approfondimenti e ad iniziative del convenuto, quali la chiamata in causa del terzo o la proposizione di una domanda riconvenzionale, inammissibili nella prima fase ma ammissibili nella seconda.
La scelta del legislatore del 2012 fu dunque quella di perseguire l’obiettivo di una maggiore speditezza approntando un rito speciale.
Il legislatore del 2022, confidando nella naturale rapidità del processo del lavoro, ha invece semplificato la disciplina ripristinando l’unicità del rito: tutte le controversie in materia di licenziamento saranno d’ora innanzi assoggettate alla disciplina di cui gli artt. 409 ss. c.p.c., con conseguente abrogazione, per le controversie instaurate successivamente all'entrata in vigore della novella, dello speciale procedimento di cui alla legge n. 92 del 2012.
La controversia ricadrà entro l’ambito d’applicazione della norma «anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto». L’espressione è mutuata dall’art. 1, comma 47, legge n. 92 del 2012 sicché, anche in questo caso, il necessario accertamento preventivo d’un rapporto cui sia applicabile la tutela ripristinatoria non precluderà l’applicazione della disposizione in esame e, in particolare, degli accorgimenti rispetto al rito ordinario da essa previsti per dare impulso al procedimento.
Questi accorgimenti consistono, innanzitutto, nella possibilità per il giudice di ridurre i tempi del procedimento fino alla metà, tenuto conto delle circostanze esposte nel ricorso, prevedendo un termine congruo, comunque non minore di 20 giorni, fra la data di notificazione del ricorso e l'udienza di discussione.
Il tenore letterale della norma pare affidare al giudice tanto la possibilità di esercitare d’ufficio questo potere, quanto una certa discrezionalità nell’an e nel quomodo del suo esercizio.
Al contempo, se un’esplicita istanza di parte non pare strettamente necessaria, è da ritenersi che il ricorso debba comunque contenere specifiche allegazioni utili a valorizzare ragioni d’urgenza ulteriori rispetto a quelle già sancite ex lege (e da cui deriva la necessaria trattazione prioritaria del procedimento, su cui si tornerà infra).
Può in tal senso immaginarsi una costruzione dell’atto introduttivo non dissimile da quella tipicamente impiegata per l’introduzione di un ricorso ex art. 700 c.p.c. e, dunque, tesa a valorizzare profili che sconsiglino il mantenimento dei termini processuali ordinariamente applicabili, ciò che, pur non precludendo in radice il ricorso alla tutela cautelare, consentirebbe di limitarne l’impiego a casi eccezionali.
La possibile riduzione dei termini processuali è un elemento che echeggia quanto previsto dal c.d. rito Fornero, ma le similitudini si arrestano ad un piano meramente “estetico”.
Con la legge n. 92 del 2012 era previsto nei confronti del convenuto un termine di 5 giorni prima dell'udienza di discussione per rappresentare le sue difese, ma in dottrina e giurisprudenza era pacifico che, nella prima fase, non ricorressero decadenze né per il ricorrente né, soprattutto, per il convenuto, anche in caso di costituzione “tardiva”. Il nuovo art. 441-bis, invece, assoggetta i ricorsi alla disciplina generale del rito del lavoro, sicché l’eventuale riduzione dei termini processuali non incide sulla perfetta applicabilità agli atti introduttivi degli artt. 414 c.p.c. e 416 c.p.c. e delle relative conseguenze decadenziali.
Ulteriore deviazione dallo schema ordinario è poi rintracciabile nel comma quarto dell'art. 441-bis, secondo cui il giudice, nel corso dell'udienza di discussione, può disporre la trattazione congiunta di eventuali domande connesse o riconvenzionali ovvero la loro separazione, assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro.
La selezione del thema decidendum così prevista è una tecnica già nota nel nostro ordinamento. Appartiene, per esempio, al processo sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c., nel quale, anche all’esito della riforma, è previsto che il giudice possa disporre la separazione della causa relativa alla domanda riconvenzionale quando essa richiede un'istruzione non sommaria (art. 702-ter, comma 3, c.p.c.).
In rapporto al precedente rito Fornero, la soluzione adottata dal legislatore è parzialmente innovativa. In precedenza, le domande riconvenzionali e la chiamata in causa del terzo potevano essere proposte solamente nella fase d’opposizione e le prime, qualora fondate su fatti costitutivi diversi da quelli da scrutinare rispetto all’impugnazione del licenziamento, formavano oggetto di separazione. Nel contesto della riforma, il venir meno di un procedimento speciale e della potenziale duplicità di fasi ha imposto al legislatore l’integrale restaurazione delle facoltà difensive; è dunque fisiologico che sia stata accordata al convenuto la chance di reagire formulando immediatamente la richiesta di estendere il contraddittorio o una domanda riconvenzionale. Per quanto attiene al ricorrente, in mancanza di un’esplicita preclusione in tal senso, non pare che possa escludersi la sua facoltà d’abbinare all’impugnazione del licenziamento domande ulteriori. D’altra parte, l’opzione accordata al giudice rispetto alla trattazione unitaria o separata delle cause consente di mantenere impregiudicata la speditezza che deve contraddistinguere la domanda relativa al recesso e - si può ritenere – la scelta del modus procedendi andrà basata pur sempre sulla considerazione dei fatti posti a fondamento delle pretese. In particolare, l’attenzione andrà posta sulla necessità di concentrare l’istruttoria rispetto alla domanda di reintegrazione, espressamente considerata dall’art. 441-bis, che, in tal senso, riprende una soluzione già prevista dall’art. 1, comma 65, legge n. 92 del 2012, per il c.d. rito Fornero. Per questa via, una domanda subordinata tesa ad ottenere il pagamento del t.f.r. e l’indennità sostitutiva del preavviso, al pari della pretesa di ottenerne la ripetizione, potrà senz’altro coniugarsi con la concentrazione del procedimento introdotto ai sensi degli artt. 414 e 441-bis c.p.c.; lo stesso è a dirsi rispetto all’accertamento della mansioni concretamente svolte dall’interessato, qualora, ad esempio, rappresentino il fatto costitutivo alla base sia della deduzione dell’inadempimento dell’obbligo di repêchage, sia della domanda di condanna al pagamento di differenze retributive. Si può ipotizzare, invece, che un’eventuale separazione “colpirà” la domanda diretta ad ottenere il pagamento di differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori, la cui fondatezza implichi un approfondimento istruttorio su ambiti estranei a quelli da affrontare per valutare la legittimità del licenziamento.
Il quinto comma dell’art. 441-bis c.p.c. precisa infine che i principi di efficienza della procedura e di celerità dovranno caratterizzare il ricorso in appello nonché il procedimento per cassazione.
Quanto testé esposto identifica le soluzioni normative concrete predisposte per assicurare la spedita definizione delle cause in commento.
Chi scrive dubita invece che possa avere un qualche impatto pratico l’indicazione contenuta nel primo comma della disposizione, secondo cui queste cause sono prioritarie rispetto alle altre pendenti sul ruolo del giudice, sebbene – quasi allo scopo di evitare che il giudice “dimentichi” la “direttiva” del legislatore - il nuovo art. 144-quinquies disp. att. c.p.c. sancisca che «il presidente di sezione e il dirigente dell'ufficio giudiziario favoriscono e verificano la trattazione prioritaria dei procedimenti di cui al capo I-bis del titolo IV del libro secondo del codice. In ciascun ufficio giudiziario sono effettuate estrazioni statistiche trimestrali che consentono di valutare la durata media dei processi di cui all'articolo 441-bis del codice, in confronto con la durata degli altri processi in materia di lavoro».
Si tratta di una soluzione singolare, dalla quale è difficile immaginare possano derivare conseguenze sul singolo processo qualora – in via del tutto ipotetica - il magistrato decida arbitrariamente di non assicurare priorità alla decisione della causa.
D’altra parte, e per ridimensionare notevolmente la questione, è appena il caso d’osservare che la priorità da assegnare alla trattazione delle domande di reintegrazione nel posto di lavoro è stata comunemente (e logicamente) assicurata a prescindere da quest’indicazione normativa. Allo stesso modo, la concentrazione dell’istruttoria è una soluzione organizzativa che, per esigenze di celerità e di buona gestione del processo, non può certo etichettarsi come un’«innovazione» (né, a dire il vero, come una soluzione valida solo per questa categoria di cause).
In un’ottica più ampia, può anche segnalarsi che, da un lato, la disposizione appare incompleta perché, concentrandosi esclusivamente sulle domande relative alla reintegrazione nel posto di lavoro, ha trascurato - nonostante ricorrano analoghe esigenze di speditezza – tutte le altre situazioni in cui sia “in gioco” un posto di lavoro (si pensi, ad esempio, alle iniziative con cui è censurata l’illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro ed è chiesta la sua conversione).
Dall’altro lato, per assicurare una trattazione prioritaria alle sole che cause che lo “meritino”, sarà ineludibile una valutazione del giudice utile a verificare se la domanda di reintegrazione formulata col ricorso sia o meno del tutto strumentale, così da procedere ad una valutazione d’urgenza in concreto (e non sterilmente aprioristica ed astratta). Un simile vaglio, pur nel silenzio della norma, appare inevitabile. Un suo esito negativo dovrebbe suggerire la mancanza della priorità della causa ipotizzata dalla disposizione, con conseguente irrilevanza dei relativi tempi di definizione ai fini dalle estrazioni statistiche trimestrali.
Infine, e più in generale, l’indicazione normativa non appare idonea ad assicurare un’ubiquitaria prontezza nella risposta giurisdizionale, la cui maggiore o minore velocità è - e sarà – notoriamente legata (anche) a nodi critici impregiudicati da questa disposizione e riconducibili a fattori strutturali e macro-organizzativi del tutto avulsi dalla sfera d’influenza del giudice e dalle sue scelte lato sensu gestionali.
Il Capo I-bis prosegue poi con l'art. 441-ter c.p.c rubricato «Licenziamenti del socio della cooperativa». Questo disciplina le controversie aventi ad oggetto l'impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative, anch'esse assoggettate alle norme di cui agli art. 409 e ss. c.p.c.. La disposizione prevede che, qualora sia introdotta una di queste controversie «il giudice decide anche sulle questioni relative al rapporto associativo eventualmente proposte. Il giudice del lavoro decide sul rapporto di lavoro e sul rapporto associativo, altresì, nei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro deriva dalla cessazione del rapporto associativo».
Attraverso questa novità normativa si tiene conto delle ricadute processuali discendenti dal dualismo che caratterizza la figura del socio-lavoratore di cooperativa, in capo alla quale - secondo il modello tracciato dalla legge n. 142 del 2001 - coesistono più rapporti contrattuali: il rapporto associativo e il rapporto di lavoro. Senza alcuna ambizione innovativa, il legislatore ha così codificato un risultato cui si era soliti giungere sulla base di un orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione, laddove il criterio invalso per la ripartizione di competenza funzionale tra il giudice del lavoro e le sezioni specializzate in materia di imprese del tribunale era stato individuato nel petitum e nella causa petendi, con irrilevanza delle controdeduzioni del convenuto, salvo che da esse non emergesse l’artificiosità della prospettazione del ricorrente[2]. Per questa via, se il socio-lavoratore introduceva una causa censurando un atto, formalmente qualificato come delibera d’esclusione, ma sostanzialmente ritenuto da qualificarsi come licenziamento, la competenza del giudice del lavoro, salvo tesi pretestuose, non poteva essere fondatamente posta in discussione.
Con la disposizione in esame la questione di competenza pare trovare la propria soluzione a monte, fermo restando che, nel merito, la diversità di tutele da approntare in ragione della corretta qualificazione dell’atto censurato resterà impregiudicata e sarà fondata su un ulteriore orientamento che la Corte di cassazione ha perfezionato nel corso del tempo[3].
Infine, l'art. 441 -quater, rubricato «Licenziamento discriminatorio», prevede che «le azioni di nullità dei licenziamenti discriminatori, ove non siano proposte con ricorso ai sensi dell'articolo 414, possono essere introdotte, ricorrendone i presupposti, con i riti speciali. La proposizione della domanda relativa alla nullità del licenziamento discriminatorio e alle sue conseguenze, nell'una o nell'altra forma, preclude la possibilità di agire successivamente in giudizio con rito diverso per quella stessa domanda».
I riti speciali cui allude la disposizione vanno individuati in quelli disciplinati dagli art. 38 d. lgs. n. 198 del 2006 e dall’art. 28, d.lgs. n. 150 del 2011.
Poiché, in ogni caso, si tratta d’un’azione atta a censurare il licenziamento, è da ritenersi che l’introduzione del giudizio soggiaccia agli ordinari termini decadenziali previsti per l’impugnazione del recesso. D’altra parte, nella misura in cui la deduzione della discriminatorietà del licenziamento è frequentemente abbinata a quella d’altri vizi dell’atto datoriale, è da ipotizzare che l’ordinario rito del lavoro rimarrà la struttura procedimentale più diffusa, specie al fine di non prestare il fianco ad eccezioni del convenuto rispetto all’impiego del rito speciale per la proposizione di domande ulteriori rispetto a quelle relative alla discriminatorietà del licenziamento impugnato.
4. Il processo del lavoro da remoto e per iscritto
Benché non si tratti di disposizioni dedicate specificamente al processo del lavoro, non è poi possibile eludere un’analisi dei «nuovi» artt. 127-bis e 127-ter c.p.c.[4], con i quali il legislatore ha inteso stabilizzare la possibilità di svolgere l’udienza mediante collegamento audiovisivo a distanza o la possibilità di sostituire l’udienza mediante deposito e scambio di note scritte.
Ciò in quanto la collocazione sistematica delle due disposizioni, introdotte nel Libro I, Titolo IV “Degli atti processuali”, le rende senz’altro rilevanti al di là del processo ordinario di cognizione disciplinato dagli artt. 163 ss. c.p.c..
Si tratta di due strumenti noti, la cui genesi, come altrettanto noto, è legata all’emergenza pandemica della primavera del 2020. All’epoca, hanno rappresentato l’unico strumento in grado di consentire la prosecuzione dell’attività giudiziaria. Come la prassi ha però dimostrato, l’impiego di queste soluzioni si è protratto ben oltre la situazione strettamente emergenziale. Il legislatore, dunque, pare aver essenzialmente colto l’occasione per consacrare il positivo riscontro fornito dagli operatori rispetto a queste novità.
Nel far ciò, il legislatore ha previsto, all’art. 127-bis c.p.c., che «lo svolgimento dell'udienza, anche pubblica, mediante collegamenti audiovisivi a distanza può essere disposto dal giudice quando non è richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice.
Il provvedimento di cui al primo comma è comunicato alle parti almeno quindici giorni prima dell'udienza. Ciascuna parte costituita, entro cinque giorni dalla comunicazione, può chiedere che l'udienza si svolga in presenza. Il giudice, tenuto conto dell'utilità e dell'importanza della presenza delle parti in relazione agli adempimenti da svolgersi in udienza, provvede nei cinque giorni successivi con decreto non impugnabile, con il quale può anche disporre che l'udienza si svolga alla presenza delle parti che ne hanno fatto richiesta e con collegamento audiovisivo per le altre parti. In tal caso resta ferma la possibilità per queste ultime di partecipare in presenza.
Se ricorrono particolari ragioni di urgenza, delle quali il giudice dà atto nel provvedimento, i termini di cui al secondo comma possono essere abbreviati».
Proiettando la disposizione nel processo del lavoro (e nel processo previdenziale), può ritenersi che di per sé l’unica udienza per cui sia precluso lo svolgimento a distanza sia quella in cui è prevista l’escussione di testimoni. Nulla osta, formalmente, a che il tentativo di conciliazione, l’interrogatorio libero delle parti, il conferimento dell’incarico al c.t.u. e la discussione, con lettura del dispositivo o della sentenza con motivazione contestuale, si svolgano attraverso il collegamento audiovisivo.
Sotto un profilo letterale, l’iniziativa rispetto alla scelta di procedere con questa peculiare modalità pare rimessa al giudice. Alle parti sarebbe concessa solo la facoltà di formulare un’opposizione in tal senso e il giudice deciderà in merito a tale opposizione sulla base dei criteri di «utilità» ed «importanza» della presenza delle parti, con la possibilità che l’udienza si tenga in forma mista, ossia per i richiedenti “in presenza” e per i non richiedenti “a distanza”.
Salve le considerazioni che si compiranno in seguito, se per un verso la norma si fa apprezzare per l’approccio pragmatico adottato – in effetti, non sempre la presenza delle parti in udienza assume rilievo nello sviluppo del processo -, deve al contempo osservarsi che le valutazioni in proposito si porranno, ragionevolmente, a monte della decisione del giudice di stabilire questa modalità di svolgimento dell’udienza, e non a valle ed in vista di una conferma del relativo decreto sollecitata dall’istanza di parte.
Inoltre, rispetto allo svolgimento dell’udienza in forma mista, non può tacersi come l’effettività del contraddittorio – prevista dal nuovo art. 196-duodecies disp. att. c.p.c. e identificabile nella perfetta percepibilità di quanto avviene davanti al giudice per tutti i partecipanti – dipenda da fattori del tutto contingenti, relativi alla dotazione informatica a disposizione del giudice e all’assetto strutturale del luogo in cui si svolge l’udienza. Per restare pragmatici, un corretto svolgimento dell’attività implica la disponibilità di un doppio schermo, di un sistema che consenta un flusso sonoro congruo e della disponibilità di una telecamera che consenta l’inquadratura contestuale del giudice e di quanti siano presenti davanti a lui. Nell’esperienza quotidiana, è noto come la disponibilità di quest’apparato organizzativo non sia scontata.
Quanto alla c.d. trattazione scritta, l’art. 127-ter c.p.c. prevede che «l'udienza, anche se precedentemente fissata, può essere sostituita dal deposito di note scritte, contenenti le sole istanze e conclusioni, se non richiede la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice. Negli stessi casi, l'udienza è sostituita dal deposito di note scritte se ne fanno richiesta tutte le parti costituite.
Con il provvedimento con cui sostituisce l'udienza il giudice assegna un termine perentorio non inferiore a quindici giorni per il deposito delle note. Ciascuna parte costituita può opporsi entro cinque giorni dalla comunicazione; il giudice provvede nei cinque giorni successivi con decreto non impugnabile e, in caso di istanza proposta congiuntamente da tutte le parti, dispone in conformità. Se ricorrono particolari ragioni di urgenza, delle quali il giudice dà atto nel provvedimento, i termini di cui al primo e secondo periodo possono essere abbreviati.
Il giudice provvede entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle note.
Se nessuna delle parti deposita le note nel termine assegnato il giudice assegna un nuovo termine perentorio per il deposito delle note scritte o fissa udienza. Se nessuna delle parti deposita le note nel nuovo termine o compare all'udienza, il giudice ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l'estinzione del processo.
Il giorno di scadenza del termine assegnato per il deposito delle note di cui al presente articolo è considerato data di udienza a tutti gli effetti».
La disposizione forgia un meccanismo del tutto diverso da quello previsto dal collegamento audiovisivo a distanza. Se quest’ultimo lascia di per sé impregiudicata l’oralità e il confronto contestuale tra le parti, con la trattazione scritta essi vengono totalmente omessi in favore di un approccio cartolare.
La lettera della norma considera questo scambio come sostitutivo dell’udienza, ciò che induce ad escludere che, diversamente da quanto avvenuto sulla base della disciplina emergenziale, si debba far luogo alla fissazione d’una data d’udienza e alla redazione d’un verbale in sua coincidenza. Invero, il decreto con cui il giudice dispone la c.d. trattazione scritta pare avere natura “soppressiva” dell’udienza e, dal versante del magistrato, determina una situazione in tutto analoga a quella in cui, all’esito dell’udienza, questi decida di riservarsi. Ciò è suggerito anche dal fatto che egli debba provvedere entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle note, dies a quo da cui calcolare il termine per lo scioglimento di una sorta di “riserva ex lege”.
Va sottolineato che, in discontinuità rispetto al suo predecessore – l’art. 221, comma 4, decreto-legge n. 34 del 2020 –, l’art. 127-ter c.p.c. è applicabile non solo rispetto alle udienze in cui sia richiesta la presenza dei soli difensori, ma nelle stesse occasioni contemplate dall’art. 127-bis c.p.c..
Tuttavia, se va senz’altro escluso che con questo strumento farsi luogo all’interrogatorio libero delle parti, non pare che esso sia efficacemente applicabile neanche per procedere al tentativo di conciliazione. In questi termini, del resto, si è espresso anche l’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione, la cui relazione in merito alla riforma indica in modo netto che «non sembra compatibile con l’udienza cartolare la nuova prima udienza ex art. 183 c.p.c., così come riformulata nel d.lgs. in esame, essendo previsto che le parti compaiano personalmente e che il giudice tenti la conciliazione ai sensi dell’art. 185 c.p.c. L’obbligo del tentativo di conciliazione appare incompatibile con la trattazione scritta». Sotto questo profilo, deve sommessamente osservarsi che il legislatore pare non aver tenuto conto né delle peculiarità del rito del lavoro né, per la verità, delle modifiche introdotte, con la medesima riforma, per il giudizio ordinario.
Allo stesso modo, se le note debbono contenere le sole istanze e conclusioni, esse, di per sé, non potrebbero ospitare argomentazioni quali quelle che tipicamente si collocano nella discussione orale, salvo non ritenere che il provvedimento che dispone lo scambio di note in luogo dell’udienza contempli quell’implicita valutazione sulla necessità di note difensive prevista dall’art. 429 c.p.c..
Rispetto alla discussione, va poi segnalato che l’art. 430 c.p.c. - in base al quale la sentenza doveva essere depositata in cancelleria entro quindici giorni dalla pronuncia - è stato riscritto, verosimilmente in funzione dello svolgimento cartolare della discussione medesima, nel senso che «quando la sentenza è depositata fuori udienza, il cancelliere ne dà immediata comunicazione alle parti». È uno schema non del tutto inedito nel processo del lavoro, in quanto sovrapponibile al modulo decisorio previsto dall’art. 1, comma 57, legge n. 92 del 2012, nella fase d’opposizione del rito Fornero.
L’elemento maggiormente significativo dell’istituto in esame è però relativo all’iniziativa rispetto alla sostituzione dell’udienza. Il dato testuale lascia spazio all’iniziativa ufficiosa del giudice ma, al contempo, pone in capo alle parti un apparente potere assoluto: la loro richiesta congiunta pare imporre al giudice di disporre assecondando la richiesta, senza che a tale indicazione si abbini una clausola espressa che gli consenta di disattendere la volontà delle parti, notoriamente irrilevante in materia processuale. Così elaborata la norma, una sua interpretazione letterale si rivela però del tutto insoddisfacente. Risulta di gran lunga preferibile un’esegesi che consenta al giudice, al quale compete “ancora”, ai sensi del precedente art. 127 c.p.c., il potere di direzione dell’udienza, ogni valutazione in vista di una congrua gestione della stessa, e dunque del processo, avendo come punto di riferimento non già le preferenze delle parti e dei loro difensori, ma la funzionalità delle forme processuali rispetto all’accertamento della verità materiale, obiettivo imprescindibile del processo del lavoro.
D’altra parte, questa lettura si salda con la circostanza che l’incombente sostitutivo dell’udienza sia ad essa assimilabile. Ne è testimonianza la predisposizione di un meccanismo affine a quello di cui all’art. 309 c.p.c. in caso d’inerzia delle parti.
Ragionando infine da un punto di vista più generale rispetto all’applicazione degli artt. 127-bis e 127-ter nel contesto in esame, non può sottovalutarsi che questi rappresentano altrettanti strumenti che consentono allo scenario forense d’affacciarsi alla modernità e, in particolare, alla possibilità indotta dalla tecnologia di ridurre – financo di annullare – la distanza fisica tra soggetti. Va quindi senz’altro valorizzato il fatto che, soprattutto mediante il collegamento audio-visivo a distanza, il difensore appartenente ad un foro distante da quello in cui si svolge il processo avrà la possibilità di partecipare alla discussione senza incontrare alcun ostacolo o onere. Trattasi di un’opportunità non trascurabile, specie in funzione della pienezza della difesa tecnica nei confronti della parte assistita. D’altra parte, non può nemmeno trascurarsi la funzionalità di entrambi gli strumenti qualora lo svolgimento del processo, specie in materia previdenziale, non implichi particolari valutazioni di fatto o giuridiche che la partecipazione delle parti o una discussione orale tradizionale potrebbero agevolare.
Tuttavia, pur senza accedere a sterili posizioni di retroguardia, va comunque considerato che, al di là dei dubbi interpretativi esposti, il trapianto di queste disposizioni nel contesto in esame, specie in quello lavoristico in senso stretto, deve pur sempre fare i conti con le peculiarità che lo contraddistinguono rispetto al contenzioso ordinario.
A parere di chi scrive, si impongono al giudice attente ed equilibrate valutazioni, utili ad evitare che l’impiego di questi strumenti pregiudichi la funzionalità del procedimento, assicurata, finora, dalla sua caratteristica principale, ossia l’oralità.
Con particolare riguardo al primo grado, l’oralità è un tratto che si rivela decisivo per procedere ad un adeguato tentativo di conciliazione e ad un proficuo interrogatorio libero delle parti. Come già accennato, l’esperienza quotidiana suggerisce che l’incontro effettivo tra le parti – e tra queste e il giudice – è spesso decisivo.
L’esito conciliativo – valorizzato dal legislatore anche ai fini della deflazione del contenzioso– è sicuramente agevolato dall’audizione della proposta conciliativa dalla “viva voce” del giudice, senza il filtro di uno schermo nel caso di udienza da remoto. Quanto alla trattazione scritta, al di là della sua incompatibilità con l’incombente, può invece rilevarsi che indurre le parti a meditare su un esito conciliativo, formulando la relativa proposta per iscritto, è un’ipotesi chimerica.
Rispetto all’interrogatorio libero, detto che esso è ontologicamente incompatibile con la c.d. trattazione scritta, non può negarsi che il suo svolgimento con collegamento da remoto non sia in grado di restituire alla parte e, soprattutto, al giudice - che dalle risposte può trarre elementi utili ai fini della decisione - un compendio di conoscenze complessivo equivalente a quello derivante da uno svolgimento in presenza dell’incombente.
È in ragione di questi aspetti, meramente esemplificativi, che la scelta di procedere con queste nuove modalità di gestione del dialogo fra le parti andrà compiuta sia tenendo conto dell’intrinseca differenza tra le stesse modalità alternative, sia del fatto che non sempre questi due strumenti – al di là della loro formale ammissibilità – sono in grado di assicurare il valore aggiunto garantito dalla comparizione delle parti e dei loro difensori, ossia da uno svolgimento dell’udienza in forma ordinaria e “classica”, ancora oggi del tutto preferibile per la materia in esame.
5. Le novità in merito al processo d’appello
La mancanza d’effettive innovazioni constatata rispetto al giudizio di primo grado può essere affermata anche con riguardo al giudizio d’appello, del quale il legislatore ha mantenuto inalterata la complessiva fisionomia delineata dal quadro normativo vigente. Esso è stato inciso – direttamente - solo da poche disposizioni e, per il resto, è stata disposta l’applicazione delle modifiche previste per il rito ordinario, in quanto applicabili[5].
È stato così parzialmente riscritto l’art. 434 c.p.c., il quale, pur continuando a fare rinvio all’art. 414 c.p.c. per la struttura dell’atto introduttivo, adesso stabilisce che, per ciascun motivo, debba essere indicato, a pena d’inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico: (i) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato; (ii) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; (iii) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza al fine della decisone impugnata.
Trattasi di una disposizione analoga a quella prevista per il giudizio d’appello dall’art. 342 c.p.c.. Con essa, e segnatamente mediante la sanzione dell’inammissibilità, la chiarezza e la sinteticità degli atti paiono assumere il rango di veri e propri requisiti di cui il difensore dovrà tenere conto nella redazione dell’atto, sebbene la sanzione in parola sia – realisticamente - prefigurabile solo allorché un loro deficit finisca per convertirsi in una mancanza di specificità dell’atto.
È poi interessante notare che con l’art. 436-bis c.p.c. - richiamato per ragioni sistematiche anche nel successivo art. 437 c.p.c., dedicato all’udienza di discussione - il legislatore ha introdotto nel giudizio d’appello, analogamente a quanto previsto dall’art. 429 c.p.c. per il processo di primo grado, la possibilità della definizione del giudizio mediante l’adozione di una sentenza con motivazione contestuale. Lo scenario è contemplato nelle ipotesi in cui l’appello sia inammissibile, improcedibile, manifestamente fondato o infondato. In questi casi è previsto che il collegio, all’udienza di discussione, sentiti i difensori delle parti, pronunci sentenza, dando lettura del dispositivo e della motivazione redatta in forma sintetica, anche mediate esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante rinvio a precedenti conformi. Se quest’ultimo profilo echeggia la previsione di cui all’art. 118 disp. att. c.p.c., il riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi richiamano il c.d. principio della ragione più liquida, consolidato dalla giurisprudenza di legittimità in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio.
È poi da constatare, in correlazione con le considerazioni sopra espresse rispetto all’applicazione dell’art. 127-ter c.p.c. nel processo del lavoro, che la locuzione «sentiti i difensori» pare alludere ad un’interlocuzione possibile solo in caso di discussione orale della causa. Detto che, come già osservato, il contenuto delle note di trattazione scritta non pare ex se idoneo a condensare le tipiche argomentazioni da svolgersi in sede di discussione, la lettera della norma in esame offre ulteriori motivi per dubitare che la definizione della causa possa “accontentarsi” di uno scambio scritto, non preceduto da un effettivo confronto dialettico tra le parti sollecitato dal giudice.
Infine, l’art. 438 c.p.c. prevede che nelle ipotesi diverse dall’art. 436-bis c.p.c., la sentenza deve essere depositata entro sessanta giorni dalla pronuncia e che il cancelliere è tenuto a darne immediata comunicazione alle parti. Se in precedenza il rinvio all’art. 430 c.p.c. imponeva il deposito della motivazione entro quindici giorni dalla pronuncia, la riforma consentirà, analogamente a quanto prevede per il processo di primo grado l’art. 429 c.p.c., di procedere al predetto deposito entro il più ampio termine di sessanta giorni.
[1] cfr. Cass., n. 16283/2004
[2] Cfr. Cass., n. 25237/2014
[3] Cfr., tra le altre e da ultimo, Cass., n. 35367/2021.
[4] Per un commento all’art. 127-ter c.p.c., si rinvia a F. Caroleo – R. Ionta, La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.), in questa Rivista al link https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-civile/2562-la-trattazione-scritta-la-codificazione-art-127-ter-c-p-c
[5] Per un commento alla riforma del giudizio d’appello, si rinvia a F. Petrolati, La riforma del processo civile in appello. Le disposizioni innovate dal D. Lgs. n. 149/2022, accessibile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-civile/2616-la-riforma-del-processo-civile-in-appello-le-disposizioni-innovate-dal-d-lgs-n-149-2022.
L’intento di queste brevi considerazioni è di individuare quale disciplina hanno i poteri di parti e P.G. nell’ipotesi che abbia luogo la fissazione di un’udienza pubblica con decreto emesso ai sensi del nuovo art. 377 c.p.c., cosa possibile a partire dal 1° gennaio 2023.
Com’è noto, l’effettivo svolgimento dell’udienza pubblica è divenuto condizionato per le udienze pubbliche da svolgersi fino a tutto il 30 giugno 2023, così come lo era stato fino al 31 dicembre 2022 per il regime emergenziale COVID. Tale condizionamento è stato disposto dall’art. 8, comma 8, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, pubblicato sulla G.U. dello stesso giorno ed entrato in vigore il 30 dicembre 2022, giusta l’art. 24 dello stesso d.l.
L’art. 8 è rubricato “Proroga di termini in materia di giustizia” e al comma 8 così dispone:
"8.Anche in deroga alle disposizioni di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, le disposizioni di cui all'articolo 221, comma 8, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, e di cui all'articolo 23, commi 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, e 9-bis, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, continuano ad applicarsi, rispettivamente, alle udienze e alle camere di consiglio da svolgere fino al 30 giugno 2023 e alle formule esecutive rilasciate fino al 28 febbraio 2023, fermo restando quanto disposto dall'articolo 35, comma 1, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149."
La proroga della c.d. cameralizzazione e dunque della mera eventualità dello svolgimento effettivo dell’udienza pubblica è stata disposta prevedendo che, con riferimento alle udienze fissande e da tenersi fino al 30 giugno 2023, continui ad applicarsi la disposizione del comma 8-bis dell’art. 23 del d.l n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, nella l. n. 176 del 2020, la quale così dispone: <<Per la decisione sui ricorsi proposti per la trattazione in udienza pubblica a norma degli articoli 374, 375, ultimo comma, e 379 del codice di procedura civile, la Corte di cassazione procede in camera di consiglio senza l'intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, salvo che una delle parti o il procuratore generale faccia richiesta di discussione orale. Entro il quindicesimo giorno precedente l'udienza, il procuratore generale formula le sue conclusioni motivate con atto spedito alla cancelleria della Corte a mezzo di posta elettronica certificata. La cancelleria provvede immediatamente a inviare, con lo stesso mezzo, l'atto contenente le conclusioni ai difensori delle parti che, entro il quinto giorno antecedente l'udienza, possono depositare memorie ai sensi dell'articolo 378 del codice di procedura civile con atto inviato alla cancelleria a mezzo di posta elettronica certificata. La richiesta di discussione orale è formulata per iscritto dal procuratore generale o dal difensore di una delle parti entro il termine perentorio di venticinque giorni liberi prima dell'udienza e presentata, a mezzo di posta elettronica certificata, alla cancelleria. [omissis]>>.
La proroga dell’applicabilità della norma alle udienze fissate fino al 30 giugno 2023, ha avuto per un verso il significato di disporre che le modalità di tenuta dell’udienza pubblica fino a quella data siano quelle stabilite dall’art. 23-comma 8-bis e, per altro verso, di prevedere che anche per i poteri del Pubblico Ministero e delle parti in ordine ad esse le modalità di interlocuzione siano quelle eventualmente fissate da quel comma.
In ordine a tali modalità, si deve rilevare che il comma 8-bis è – come, del resto era fino alla sua “proroga” – per così dire autosufficiente, così creando una sorta di microsistema diverso da quello del Codice, per la sola ipotesi che, in forza della mancanza di formulazione ad istanza del P.G. o di alcuna delle parti non fosse stata formulata per iscritto la richiesta di discussione orale, cioè per l’ipotesi che non si fosse verificata la fattispecie disciplinata – in termini di onere – in positivo dal quarto inciso del comma 8-bis.
Qualora fosse mancata l’istanza nel termine dei venticinque giorni liberi prima dell’udienza, il comma 8-bis dettava, come detta nella sua attuale vigenza, una disciplina dei poteri delle parti che, come ho detto, è autosufficiente e derogatoria rispetto a quella del Codice.
Tale disciplina prevedeva come prevede:
a) quanto ai poteri di interlocuzione del P.G., che, avviatasi la trattazione alla forma della c.d. udienza pubblica cameralizzata per mancanza di istanza di svolgimento effettivo dell’udienza, il P.G. debba depositare a mezzo PEC le sue conclusioni scritte quindici giorni prima dell’udienza e che esse debbano comunicarsi alle parti immediatamente dalla Cancelleria ai difensori sempre a mezzo PEC;
b) quanto ai poteri di interlocuzione dei difensori delle parti, che essi, entro il quinto giorno antecedente l'udienza, possono depositare memorie “ai sensi dell'articolo 378 del codice di procedura civile” con atto inviato alla cancelleria a mezzo di posta elettronica certificata.
In relazione alle udienze fissate dal 1° gennaio 2023, cioè con decreti ai sensi del novellato artt. 377 c.p.c. da tale data, dette previsioni integrano, come integravano antecedentemente al 31 dicembre 2023, un microsistema autonomo, salvo per il rinvio alle memorie “ai sensi dell'articolo 378 del codice di procedura civile”, che contiene, come conteneva il richiamo ed appunto un rinvio ad una disposizione del Codice di Procedura Civile.
Tale rinvio era come è tuttora non un rinvio integrale a tutto l’art. 378 c.p.c., ma un rinvio esclusivamente riferibile alla facoltà di deposito dell’atto dalla norma contemplato e dunque, di un atto della stessa natura.
Era ed è invece palese che il rinvio non era relativo come non è alla disposizione dell’art. 378 quoad termine di deposito.
Prima del 1° gennaio 2023 vigeva il vecchio art. 378, il quale prevedeva per le memorie come termine quello di cinque giorni prima dell’udienza, ma è palese che, dettando espressamente il comma 8-bis il termine ancorché nella stessa misura, non si poteva parlare di estensione del rinvio alla disposizione dell’art. 378 anche quanto al termine. Vi era solo un’identità dei termini, ma la disposizione del comma 8-bis era autonoma e non rinviava sul punto all’art. 378 c.p.c.
Dal 1° gennaio 2023 il comma 8-bis detta sul punto una disciplina distonica rispetto a quella dell’art. 378 c.p.c. nuovo testo, il quale prevede un termine di dieci giorni prima dell’udienza per le parti (e uno di venti giorni per il P.G. del tutto innovativamente).
Trattasi di disciplina speciale e peraltro non contraddetta dalla permanenza dell’inciso “ai sensi dell'articolo 378 del codice di procedura civile”, perché, come ho rilevato tale rinvio era alla tipologia dell’atto e non ai termini.
Il comma 8-bis, qualora vi fosse stata istanza di discussione orale del P.G. o della parte, come ho detto, non conteneva alcuna disposizione sulle modalità di esercizio dei poteri delle parti in vista dell’udienza, ormai “effettiva”.
Ne seguiva che i poteri delle parti, o meglio dei loro difensori, erano regolati dal testo dell’art. 378 c.p.c. rimasto in vigore fino al 31 dicembre 2023, il quale, com’è noto, prevedeva che essi potessero presentare memoria <<non oltre cinque giorni prima dell’udienza>>.
Quel testo non prevedeva un analogo potere del P.G.
Quid iuris dal 1°gennaio 2023?
Non mi par dubbio che, proprio per l’assenza nella disposizione del comma 8-bis redivivo di una disciplina dei poteri delle parti e del P.G. e, quindi, per il fatto che, nel silenzio del legislatore, debba valere, come valeva prima, la disciplina del Codice, si debba ritenere che detti poteri siano disciplinati dal nuovo testo dell’art. 378 c.p.c.
Ne consegue che, in relazione alle udienze fissate o fissande con decreto ex art. 377 nuovo testo dal 1° gennaio 2023, ai sensi del nuovo art. 378 c.p.c. (applicabile, ai sensi dell’art. 34, comma 7, del d.lgs. n. 149 del 2022) il P.G. può depositare memoria non oltre venti giorni prima dell’udienza e le parti non oltre dieci giorni prima.
Non è sostenibile, perché non era e non è un contenuto della norma del comma 8-bis, l’idea che la sua reviviscenza abbia comportato una sorta di ultrattività dell’art. 378 vecchio testo.
La ragione è ovvia.
Il comma 8-bis non aveva un contenuto disciplinatorio dei poteri di P.G. e parti, una volta formulata istanza di discussione effettiva nella pubblica udienza, ma quella disciplina emergeva solo dal Codice ed oggi deve emergere da esso nel suo nuovo testo.
Mette conto di rilevare che l’applicazione dell’art. 378 nuovo testo al P.G. non comporta alcun problema di esercizio dei suoi poteri di interlocuzione e ciò sia se egli ha proposto l’istanza di discussione orale, sia se l’abbia proposta alcuna delle parti.
Nel primo caso, venendo l’iniziativa volta ad assicurare l’effettività dell’udienza pubblica dallo stesso P.G., il quale – tenuto conto che il decreto di fissazione deve comunicarsi sessanta giorni prima a norma del nuovo secondo comma dell’art. 377 – ha avuto venticinque giorni per esercitare il potere di richiedere la discussione e, dunque, ha studiato il fascicolo per prendere tale decisione e beneficia di altri cinque giorni per depositare le conclusioni. Il deposito delle conclusioni, peraltro, è solo una facoltà.
Nel secondo caso c’è sempre il detto beneficio dei cinque giorni e assume rilievo l’indicata facoltatività. E, peraltro, si suppone che il P.G. abbia comunque studiato il fascicolo, sebbene abbia ricavato il convincimento di astenersi dal chiedere l’effettività dell’udienza.
Raggiunte tali conclusioni, mi pare auspicabile che nei decreti di fissazione dell’udienza si indichi al P.G. e alle parti che i loro poteri sono regolati dal comma 8-bis e che, hanno l’onere di chiedere la discussione effettiva con istanza entro il termine da esso previsto e che, in caso di formulazione dell’istanza, troverà applicazione l’art. 378 c.p.c. nuovo testo, mentre, ove l’istanza non venga formulata e l’udienza debba tenersi in modo cameralizzato i loro poteri sono disciplinati dal secondo e dal terzo inciso del comma 8-bis, di modo che il P.G. entro il quindicesimo giorno precedente l'udienza, il procuratore generale dovrà formulare le sue conclusioni motivate con atto spedito alla cancelleria della Corte a mezzo di posta elettronica certificata, che la cancelleria comunicherà a mezzo PEC ai difensori, i quali avranno un termine di cinque giorni prima dell’udienza per depositare memoria ex art. 378 c.p.c.
Le preannunciate riforme ordinamentali e la riforma Cartabia sono l’occasione per fare il punto sull'attività e sul ruolo, anche costituzionale del Pubblico ministero. Ci sono funzioni del Pubblico ministero poco conosciute delle quali è essenziale tener conto per comprendere appieno il ruolo che l’ordinamento repubblicano gli riconosce quale "organo pubblico che agisce a tutela di interessi collettivi".
Il discorso del Procuratore generale della Corte di Cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario è il miglior modo per dare l'avvio al nostro approfondimento.
Il Procuratore generale ci ha offerto indicazioni essenziali per comprendere le funzioni del pubblico ministero di legittimità.
Il suo monito è che "oggi è più che mai forte il bisogno di nomofilachia, finalità a cui coopera il pubblico ministero di legittimità" poi, sul ruolo in generale del pubblico ministero, ci ricorda che "Il pubblico ministero costituisce un «organo di giustizia» che nella dialettica del processo riveste il ruolo formale di parte, ma con il compito di cooperare con il giudice in vista dell’attuazione del diritto, a garanzia dei valori di legalità".
Alla luce delle richiamate osservazioni è quanto mai evidente che il pubblico ministero può adeguatamente cooperare con la funzione nomofilattica e per l'attuazione del diritto a garanzia della legalità solo se gli sono garantite, al pari del giudice, autonomia e indipendenza.
Inaugurazione dell’Anno giudiziario 2023: l’intervento del Procuratore generale Luigi Salvato
Signor Presidente, anche a nome dei colleghi della Procura generale mi consenta di esprimerLe la più viva gratitudine per la sensibilità e l’attenzione che Ella riserva ai temi della giustizia.
Rivolgo il mio saluto ai rappresentanti delle Istituzioni, agli ospiti, ai magistrati, al personale. Un saluto particolare va all’Avvocatura, nell’esercizio della funzione difensiva chiamata a contribuire dialetticamente con la Magistratura al conseguimento della verità processuale, istituzione essenziale dell’ordinamento politico e sociale, non solo del nostro Paese: il pensiero va all’avvocata Nasrin Sotoudeh, che ha dedicato la vita, con sacrificio personale, alla difesa dei diritti umani.
Dopo la gravissima crisi provocata dalla pandemia, il 2022 ha segnato l’avvio della ripresa, anche per la giustizia. Di ciò, dell’attività svolta e delle riforme in atto dà contezza la relazione scritta, muovendo dalla premessa che le molteplici funzioni assegnate alla Procura generale sono ispirate all’obiettivo di assicurare la corretta e uniforme applicazione della legge, garanzia del principio di uguaglianza. Nel breve tempo a disposizione mi soffermo su alcuni temi di carattere generale, esaminati da tale prospettiva.
Con riguardo alla giustizia civile, va ricordato che noti fattori tendono a spingerla verso l’area della mediazione e della regolazione del conflitto sociale, colorano di nuovi contenuti l’antica questione del rapporto tra il giudice e la legge e rafforzano l’esigenza di prevedibilità e tempestività delle decisioni.
La magistratura, nell’osservanza dell’alto insegnamento del Presidente della Repubblica, è chiamata a «elaborare soluzioni nuove e concrete, che devono trovare comunque, necessariamente, nel tessuto normativo il loro fondamento e, al tempo stesso, il loro limite», evitando decisioni arbitrarie o imprevedibili. Oggi è dunque più che mai forte il bisogno di nomofilachia, finalità a cui coopera il pubblico ministero di legittimità.
Le riforme rafforzano tale finalità, grazie alla razionalizzazione e differenziazione dei riti e al rinvio pregiudiziale, che esaltano il compito del pubblico ministero in funzione nomofilattica, e a interventi di carattere strutturale. Tra questi: l’istituzione dell’Ufficio per il Processo, anche presso la Procura generale, la cui operatività richiede però una rapida assunzione del personale allo stesso destinato; il processo civile telematico, che esige di coglierne le grandi opportunità, ma, in disparte i rischi della futuribile giustizia predittiva, di garantire il rispetto dei diritti fondamentali e i principi del processo equo. La “macchina giudiziaria” produce un servizio istituzionale: il fattore tempo è essenziale, ma l’efficienza va misurata con riguardo all’osservanza dei principi fondamentali che governano la giurisdizione. Pressante resta l’esigenza di attuare, già a normazione invariata, la doppia dirigenza, per permettere ai capi degli uffici di concentrarsi sull’attività giudiziaria.
Volgendo l’attenzione al diritto penale, va ribadito che è questo il luogo eccezionale della violazione di un precetto tipico, dovendo la relativa sanzione essere riservata ai casi di grave lesione di interessi costituzionalmente rilevanti. Compito della giustizia penale è giudicare fatti, non processare la storia, né influire sull’assetto politico, finalità mai perseguite, al di là di fisiologiche ricadute dell’esercizio dell’azione penale non imputabili alla magistratura, ovvero di errori insiti nella fisiologia del processo, emendabili al suo interno. La magistratura requirente è consapevole, in primo luogo, che nello Stato costituzionale e di diritto le regole dell’etica rilevano sul piano giuridico soltanto se tradotte in espressi precetti di legge. In secondo luogo, che il pubblico ministero costituisce un «organo di giustizia» che nella dialettica del processo riveste il ruolo formale di parte, ma con il compito di cooperare con il giudice in vista dell’attuazione del diritto, a garanzia dei valori di legalità. Tanto dà ragione della sua collocazione ordinamentale, perché deve alimentarsi della cultura della giurisdizione, che vuol dire altresì saper misurare l’esito dell’azione penale, come rimarcato dalla recente riforma. Anche per il grande impegno di tutte le Forze dell’ordine, alle quali va il nostro ringraziamento, sono stati conseguiti risultati di rilievo, tra l’altro, nel contrasto: alla violenza di genere, ma restano preoccupanti i dati statistici e dobbiamo comprendere che l’uguaglianza di genere è questione di rilevanza strategica per la realizzazione dello Stato di diritto e che occorrono azioni positive non limitate alla repressione dei fenomeni marcatamente devianti; alla criminalità organizzata, da ultimo con l’arresto del latitante Matteo Messina Denaro, grazie all’opera instancabile della Procura di Palermo e delle Forze dell’ordine e tuttavia le ‘mafie’ non sono sparite e sono sempre pericolose. La rigorosa tutela dei diritti fondamentali non esclude poi l’esigenza di interrogarsi sul contenuto dei doveri verso la società e sulle condotte esigibili, in quanto espressive della consapevolezza degli stessi.
Anche nella materia penale emerge la peculiarità ordinamentale della Procura generale: è posta al vertice (requirente) del sistema processuale, ma non in senso gerarchico; non svolge funzioni di avvio e di impulso del processo; non è mera sostenitrice della pubblica accusa e contribuisce all’uniforme e corretta interpretazione della legge; è “motore di cambiamento”, portatrice delle istanze e delle difficoltà del “merito”, ma è altresì “custode del cambiamento”, costituendo la prevedibilità garanzia fondamentale per le persone.
Tali caratteri connotano le funzioni riconducibili a detto ambito: la risoluzione dei contrasti tra pubblici ministeri, volta a custodire e applicare gli orientamenti della Corte di cassazione; l’attività ex art. 6 del d.lgs. n. 106 del 2006, che realizza la nomofilachia delle prassi, presidio del principio di uguaglianza e prevedibilità dell’azione penale. Rinviando alla relazione per l’attività svolta, anche in ordine alle questioni poste dalle riforme, è opportuno far cenno degli orientamenti concernenti la comunicazione relativa ai procedimenti penali, oggetto del d.lgs. n. 188 del 2021. Tema controverso, che implica un complesso bilanciamento del diritto all’informazione, cardine di democrazia nell’ordinamento generale e del diritto fondamentale alla presunzione di non colpevolezza, il quale richiede che tutti, non solo i magistrati, siano consapevoli della necessità di distinguere verità storica, giornalistica e giudiziaria e di ricordare che quest’ultima è solo quella raggiunta nell’osservanza del giusto processo di legge. Pretendere di sostituirla con le prime due significa, come è stato scritto, distruggere la base delle nostre libertà e quella «secolare conquista della civiltà giuridica secondo cui solamente all’esito di un giusto processo» si può essere definiti colpevoli.
Di rilievo è stata l’attività in ambito internazionale e sovranazionale, specie con riguardo all’Unione europea, “Comunità di diritto”, in cui è centrale il rispetto della Rule of Law, rafforzata dall’istituzione della Procura europea, in relazione alla quale la Procura generale svolge importanti compiti. Per rilevanza e risultati, va ricordata la Conferenza dei Procuratori generali del Consiglio d’Europa, tenutasi a Palermo il 5 e il 6 maggio 2022, voluta e organizzata dal Procuratore generale dr. Giovanni Salvi, con la collaborazione di numerose Istituzioni.
La Procura generale considera, infine, fondamentali le attribuzioni in materia disciplinare. La responsabilità disciplinare costituisce l’interfaccia dell’indipendenza e dell’autonomia, costituzionalmente stabilite, ma che non pongono la magistratura «al di là dello Stato, quasi legibus soluta» ed è responsabilità verso l’ordinamento generale, minando i comportamenti devianti la fiducia dei cittadini, precondizione essenziale della funzione giudiziaria. I dati statistici dimostrano che la giustizia disciplinare, caratterizzata da una duplice iniziativa, garanzia del raccordo tra potere giudiziario e sovranità popolare, è rigorosa, specie se si considerano le conseguenze delle sanzioni più lievi, non riduttivamente apprezzabili, come talora accade. La materia sconta tuttavia equivoci, alimentati anche da un’erronea confusione tra responsabilità disciplinare, civile e violazione delle regole della professionalità. La responsabilità disciplinare è volta, infatti, a sanzionare la violazione dei doveri funzionali del magistrato e a irrogare una sanzione che incide esclusivamente sul rapporto di impiego. Non è, non può essere, strumento di garanzia della esattezza delle decisioni dei diritti lesi da provvedimenti e condotte non corretti, adeguatamente presidiati da rimedi giuridici diversi, neppure influenzati o condizionati da quello disciplinare.
Per detta ragione, e in virtù dei principi di tipicità degli illeciti e di legalità, compito della giurisdizione disciplinare è solo quello di perseguire le condotte contemplate dalla legge come tali.
È dunque necessario che la violazione dei doveri non costituenti illecito disciplinare, ma rilevante in altri ambiti (nelle valutazioni di professionalità, ai fini della progressione nelle funzioni), venga adeguatamente sanzionata dagli organi del circuito di governo autonomo. Nondimeno, anche dopo le recenti riforme rimangono profili di criticità. Il catalogo degli illeciti disciplinari e i principi di tipicità e legalità rendono concreto il rischio di impunità di condotte non riconducibili ad alcuna fattispecie, ma lesive del bene giuridico tutelato dalla responsabilità disciplinare. La relazione si sofferma su detti profili, restando riservata alla discrezionalità del Legislatore la scelta del se e come porvi rimedio, nel rispetto dei principi costituzionali.
Concludo questo intervento con la speranza, alimentata dall’ottimismo della ragione, che il Paese conservi la fiducia nella giustizia e che questa recuperi l’efficienza sulla quale i cittadini possono e devono fare affidamento, grazie all’impegno di tanti servitori dello Stato, i quali quotidianamente operano con discrezione, la cui attività non può essere appannata dai comportamenti devianti di alcuni, che vanno perseguiti e sanzionati. L’incremento di fiducia e l’efficienza esigono tuttavia un’azione riformatrice attenta alla tutela di tutti gli interessi in gioco, chiara e ordinata, imprescindibile per la razionalità dell’ordinamento, condizione dell’efficace funzionamento della giustizia.
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