ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Giuliano Scarselli
«Art. 101 Costituzione, la norma per la quale i magistrati sono soggetti soltanto alla legge, dove l’accento cade sull’avverbio - soltanto - (…) essa comanda la disobbedienza a ciò che la legge non è, disobbedienza al pasoliniano palazzo, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici, e dunque libertà interpretativa.»
Giuseppe Borrè, Le scelte di magistratura democratica, in www.questionegiustizia.it.
1. Premessa. Nomofilachia e vincolatività dei precedenti della Cassazione. La necessità di ripercorrere il cammino. 2. Nessuna menzione della nomofilachia nella normativa degli Stati preunitari e poi nella legge di ordinamento giudiziario del Regno d’Italia r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626. 3. Nessuna menzione della nomofilachia nella legge di ordinamento giudiziario del fascismo r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786. 4. La nomofilachia presente per la prima volta nella legge di ordinamento giudiziario r.d. 30 gennaio 1941 n. 12 ma non nel codice di procedura civile del ’40 (r.d. 28 ottobre 1940 n. 1443). 5. La bocciatura della rilevanza costituzionale della nomofilachia nei lavori dell’Assemblea costituente. 6. Segue: nessuna menzione della nomofilachia, infatti, nella carta costituzionale. 7. La prima valorizzazione del principio di nomofilachia con l’emersione della crisi della Cassazione quanto a carichi di lavoro. 8. La creazione della contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris quale ulteriore momento rafforzativo della funzione di nomofilachia. 9. Il successivo ulteriore sviluppo del concetto di nomofilachia. 10. Qualche riflessione conclusiva in difesa della libertà di interpretazione della legge da parte della magistratura.
1. Io credo sia sotto gli occhi di tutti che da un po’ di tempo il concetto di nomofilachia si è modificato, ovvero si è molto esteso, fino, direi, a confondersi e sovrapporsi a quello della vincolatività dei precedenti della Corte di Cassazione, soprattutto se provenienti dalle Sezioni unite. In nome del trattamento paritario di tutti i cittadini di fronte alla legge, in nome della prevedibilità delle decisioni, e in nome della certezza del diritto, nomofilachia oggi significa che i giudici debbano, salve rarissime eccezioni, conformarsi agli orientamenti della Cassazione, con meccanismi non molto diversi da quelli della stare decisis del sistema di common law. Per dare una idea di questo più incisivo modo di intendere la nomofilachia credo che niente possa essere più eloquente se non riportare l’opinione di nostri magistrati di assoluto prim’ordine, ovvero due giudici della Corte Costituzionale e due Presidenti della Corte di Cassazione.
In un primo scritto si legge: “Il ruolo della Corte di Cassazione nella sua funzione nomofilattica ha avuto nuovo impulso (...) nel loro insieme queste disposizioni realizzano appunto la forza del precedente come forma attenuata del principio di stare decisis. In tal modo il nostro ordinamento si avvicina a quelli di common law perché il precedente, pur sempre non vincolante, viene presidiato con misure processuali dirette a favorire la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione”[2].
In un altro: “Pur in assenza di un obbligo di conformazione, vi è un’innegabile influenza del precedente autorevole (...) è indubbio che l’autorevolezza cresce in relazione alla posizione del giudice nell’ordine giudiziario, pur con alcune oscillazioni ed incongruenze, negli ultimi sviluppi della disciplina processuale emerge la ricerca di meccanismi che incentivino e garantiscano la coerenza, l’uniformità e la prevedibilità delle risposte alla domanda di giustizia (...) In conclusione, gli sviluppi normativi dell’ultimo decennio appaiono orientati ad incrementare il peso del precedente in generale e dei precedenti delle sezioni unite in particolare.”[3]
Ed infine in un terzo: “L’affermazione del valore soltanto dichiarativo della giurisprudenza ed il corollario che se ne trae in ordine al valore debole del precedente peccano in un certo grado di astrattezza e sono sempre più soggetti a forti torsioni, dando luogo a non poche contraddizioni, tanto più in un epoca di progressivo avvicinamento, se non addirittura di tendenziale integrazione, degli orientamenti giuridici dell’Europa continentale con quelli anglosassoni di common law nei quali la regola dello stare decisis ha un valore molto più pregnante. Già il fatto che in questi ultimi ordinamenti detta regola sia tuttora espressa ricorrendo ad una formula latina la dice lunga sulla comune radice dell’istituto”[4].
Le posizioni sembrano convergere su questo: non si ritiene che i giudici del merito debbano obbligatoriamente uniformarsi agli indirizzi della Corte di Cassazione, perché ovviamente questo (ancora) non sarebbe conforme al nostro sistema di diritto; tuttavia è lasciato intendere che tale conformazione debba essere il modo normale di rendere giustizia, anche per l’ormai forte avvicinamento del nostro sistema di civil law con quello anglosassone, che appunto prevede il vincolo del precedente. E v’è, inoltre, insieme a questa idea, che potremmo etichettare di nomofilachia rafforzata, l’altra, che è quella dell’esistenza di una sempre più marcata gerarchizzazione della giurisdizione, visto che l’autorevolezza cresce in relazione alla posizione del giudice nell’ordine giudiziario. Tutti, insomma, convergono sul fatto che ci si trovi oggi alla ricerca di meccanismi che incentivino e garantiscano la coerenza, l’uniformità e la prevedibilità delle risposte alla domanda di giustizia, e dunque che la nomofilachia sia un criterio di rilevanza costituzionale assoluto nell’esercizio della funzione giurisdizionale.
1.2. In proposito, mi piace ricordare che questo orientamento, che mi sono permesso di definire di nomofilachia rafforzata, trova, se si vuole, sulla sua strada, un amico autorevole del passato, ovvero niente meno che Piero Calamandrei[5]. Piero Calamandrei, infatti, non solo teorizzò che la funzione prima e assoluta della Corte di cassazione dovesse essere quella della nomofilachia, ma anche sostenne che per il raggiungimento di detto scopo la legge doveva sottrarre alla Corte di Cassazione il sindacato sugli errores in procedendo[6], e doveva introdurre misure tali da fissare un giusto rapporto tra il numero dei ricorsi da decidere e le capacità della Corte di provvedervi[7], tanto che da altra parte Piero Calamandrei arrivava addirittura a scrivere che la Corte di cassazione “rende giustizia ai singoli soltanto nei limiti in cui ciò le possa servire per raggiungere il suo scopo di unificazione della giurisprudenza”[8]. Ovviamente, a quel tempo, nessuno prese in grande considerazione queste tesi di Piero Calamandrei, che apparivano a (quasi) tutti i processualisti e costituzionalisti di allora sue personali intemperanze, e basta, per convincersi di ciò, leggere la recensione che Enrico Finzi fece dei lavori di Piero Calamandrei sulla Cassazione[9], o ancora riportare il più tardo pensiero di Salvatore Satta, che contestava le (fantasiose) ricostruzioni storiche fatte dal processualista fiorentino[10], o infine dar menzione della voce ancor più autorevole, e tutta in senso contrario, di Lodovico Mortara[11].
Oggi, però, i tempi sono cambiati, e tutti sono invece d’accordo che la ragione normale in grado di giustificare l’esercizio della giurisdizione della Cassazione non sia affatto, come pretendeva Lodovico Mortara, il “reclamo del cittadino che reputa leso il proprio diritto dalla sentenza del giudice inferiore”, bensì esattamente la necessità che questa dia indicazioni generali sui modi di interpretazione della legge, ovvero la nomofilachia. Di Lodovico Mortara non si ricorda più nessuno, mentre Piero Calamandrei è ancora nel pensiero e nella bocca di tutti; per Piero Calamandrei è giunto il momento del riscatto[12].
1.3. Insomma, poiché il tema della nomofilachia non è tema isolato nel contesto del nostro sistema di tutela dei diritti, e poiché la trasformazione della nomofilachia in vincolatività del precedente non è passaggio che non abbia conseguenze su altri diritti costituzionali afferenti alla tutela dei diritti, e poiché qualcuno potrebbe oggi difendere le posizioni di quella che ho definito nomofilachia rafforzata asserendo che altro non è se non l’intuizione di Piero Calamandrei di cento anni fa, a me sembra opportuno porre sull’argomento alcune precisazioni, nonché ricordare taluni precedenti storici che hanno interessato l’argomento.
A ciò sono dedicate le pagine che seguono.
2. Direi in primo luogo questo: se guardiamo alle origini della Corte di cassazione intesa in senso moderno, dobbiamo prendere le mosse dal Tribunal de cassation istituito con decreto del 27 novembre 1790. Esso, nell’idea primordiale dei rivoluzionari, ed in particolar modo di Robespierre, non doveva essere un organo giudiziario ma un organo di controllo costituzionale, da porre al fianco del potere legislativo per sorvegliare, e se del caso sanzionare, gli organi giudiziari qualora questi si fossero sottratti all’osservanza della legge. In questo quadro Prieur affermava nella seduta dell’Assemblea dell’11 novembre 1790 che il Tribunal de cassation doveva essere “une sentinelle établie pour maintien des lois”[13].
Il Tribunal de cassation, però, in verità, e fin dall’inizio, manteneva la struttura processuale che già si era formata prima della Rivoluzione presso i Conseil des parties, e quindi il Tribunale, salve rare eccezioni, più che controllare il potere legislativo, provvedeva ad annullare, su istanza di un litigante, le sentenze che contenessero una contravention espresse au texte de la loi, ovvero svolgeva le funzioni tipiche di un organo giurisdizionale. Con queste caratteristiche, che niente (direi) avevano a che vedere con la funzione di uniformare gli orientamenti della giurisprudenza, l’istituto della Corte di cassazione passava dalla Francia all’Italia[14]. Faceva una prima e breve apparizione nel periodo napoleonico, e veniva poi recepita in forma più stabile e convinta nei sistemi giudiziari di molti stati italiani preunitari: nel Regno delle due Sicilie, che accoglieva l’idea di una Corte di cassazione con le leggi processuali del 29 maggio 1817 e 26 marzo 1819[15]; nel granducato di Toscana, che istituiva il Consiglio supremo di giustizia con il regolamento per i tribunali del 27 aprile 1814[16] e poi con il Motu proprio del 6 agosto 1838 lo trasformava in una vera e propria Corte di cassazione[17]; nel Regno di Sardegna, che istituiva la Corte suprema di cassazione con il regio editto del 30 ottobre 1847[18]. Tutte queste Corti, ad istanza di parte, provvedevano a controllare la legalità delle sentenze portate alla loro attenzione e ad annullare quelle pronunciate in violazione della legge. Non v’era, in quel periodo, se non in modo del tutto indiretto e assai marginale, l’idea che la Corte suprema potesse assolvere anche la funzione di evitare contrasti giurisprudenziali fornendo l’orientamento da seguire nel futuro per i casi dubbi[19], tanto che un giurista quale Pisanelli affermava che l’istituzione della cassazione non è volta ad “impedire la difformità nell'applicazione del diritto”[20], visto che “la cassazione italiana fu organizzata fino dall'origine in modo tale da escludere che potesse avere come scopo essenziale l'uniformità della giurisprudenza”[21], e considerato altresì che v’era da evitare che con la cassazione si avesse: “una bella massa di casi, in cui ciascuno, con un po’ di fatica di schiena e assai poco lavoro di testa, possa trovare il suo caso”[22].
A seguito dell’Unità d’Italia la cassazione veniva recepita nella legge sull’ordinamento giudiziario r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626, tanto nei processi civili quanto in quelli penali; e ciò avveniva, però, si badi, con il mantenimento delle cassazioni esistenti nel periodo anteriore all’unità, ovvero con le Corti di cassazione di Torino, Firenze, Napoli e Palermo, alle quali veniva aggiunta dieci anni dopo, ovvero nel 1875, una nuova Corte di cassazione per la capitale. Che alla cassazione del regno d’Italia non venissero in particolare affidate funzioni di nomofilachia è di nuovo confermato tanto dall’art. 73 dello Statuto albertino, per il quale “L’interpretazione delle leggi in modo per tutti obbligatorio spetta esclusivamente al potere legislativo”, quanto dalla stessa legge sull’ordinamento giudiziario, che non conteneva alcuna disposizione analoga all’attuale art. 65 r.d. 12/41 ma semplicemente all’art. 122, nel dare la funzione della Corte di cassazione, afferma che essa assicura la “esatta osservanza della legge”. E d’altronde, anche a volere, la funzione di nomofilachia poteva essere svolta solo indirettamente e con grandi difficoltà in quel periodo per due semplici ragioni: a) perché le Corti erano una pluralità; b) e soprattutto perché le decisioni della Corte, per il diritto processuale di allora, non erano nemmeno vincolanti per il giudice del rinvio[23], cosicché immaginare una funzione prevalente di uniformità degli orientamenti in un simile contesto appariva veramente arduo.
3. Questa situazione, che vedeva operare in Italia ben cinque corti di cassazione, sarebbe durata per il diritto civile lungo tempo, e precisamente fino al 1923, quando, con il r.d. 24 marzo 1923 n. 601, venivano soppresse, a favore della Corte di Cassazione di Roma, le Corti di Torino, Firenze, Napoli e Palermo.
Può dirsi che la soppressione delle Corti regionali fu dettata da ragioni di nomofilachia? Io direi di no.
Chi vada infatti a rileggersi gli scritti in argomento del periodo compreso tra il 1860 e l’inizio del nuovo secolo, nota che le discussioni ruotavano soprattutto sul dilemma “Corte di Cassazione” oppure “tribunale di terza istanza”, ovvero avevano ad oggetto la scelta (una più francese, l’altra più legata alle tradizioni italiche) tra un organo giurisdizionale supremo che giudichi solo del diritto con funzioni meramente rescindenti, oppure un organo giurisdizionale supremo che giudichi in terza istanza nel merito, senza particolari limiti di cognizione[24]. Certo, tra i fautori della cassazione non mancavano voci, anche autorevoli, volti a rilevare come l’uniforme interpretazione delle leggi difficilmente si potesse ottenere con ben cinque Corti di Cassazione nel Regno[25] , ma non mancavano nemmeno voci, non meno autorevoli, per le quali “coloro i quali desiderano e sperano mediante l'istituzione di unica Corte di Cassazione questo risultato (l’uniformazione della giurisprudenza), non debbono essere uomini che abbiamo molta pratica e famigliarità con gli affari giudiziari”[26]. Ad ogni modo credo sia fuori da ogni possibile, seria, discussione, che il r.d. 24 marzo 1923 n. 601 non veniva posto in essere dall’esigenza di consentire una più uniforme interpretazione della legge, ma, tutto al contrario, per soddisfare i giochi di potere di allora, e per la preferenza del governo fascista appena arrivato al potere, per ragioni evidenti, di avere una unica Corte di Cassazione, e di averla a Roma[27].
Si trattava, soprattutto, di provvedere ad una gerarchizzazione del sistema giudiziario[28] e di comprimere quella maggiore indipendenza della magistratura che la pluralità delle Corti aveva fino a quel momento assicurato[29]. E di ciò, credo, si trova conferma nella immediata riforma dell’ordinamento giudiziario, avvenuta con il r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786, poiché questa, nell’assegnare all’unica Corte di Cassazione di Roma la funzione nel nuovo sistema, adoperava infatti, con l’art. 61, la stessa, identica, espressione usata dalla legge sull’ordinamento giudiziario del 1865 n. 2626, ovvero che la cassazione ha la funzione “dell’esatta osservanza della legge” ma non anche quella della “uniformità della giurisprudenza”[30]. E se con riferimento al r.d. 1865/2626 si poteva rilevare che la mancata individuazione della funzione della cassazione nella uniformità della giurisprudenza poteva dipendere dalla circostanza che in quel momento storico erano presenti nel paese quattro Corti di Cassazione, lo stesso non si poteva più dire con riferimento al r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786, poiché in quel momento il sistema provvedeva proprio all’unificazione della Corte. Anzi, il confronto tra il decreto sull’ordinamento giudiziario del 1865 rispetto a quello di riforma del 1923 prova l’esatto contrario, poiché la circostanza che, esattamente nel momento in cui si giunge alla Corte di Cassazione unica tuttavia si mantiene l’individuazione della funzione della stessa sempre e solo nella “esatta osservanza della legge” senza niente aggiungere circa l’uniformità della giurisprudenza, prova che la cassazione unica rispondeva, appunto, ad una logica di potere e di accentramento, ma non anche ad una di nomofilachia, che il legislatore continuava a non menzionare.
4. Ed infatti, la c.d. funzione di nomofilachia, a livello di norma positiva, emerge solo, per la prima volta, nel 1941, con la nuova legge sull’ordinamento giudiziario n. 12, non esistendo niente di simile, come abbiamo detto, né presso le Corti dell’Italia pre-unitaria, né nella legge di ordinamento giudiziario della nuova Italia unita (r.d. 2626/1865), né, ancora, nella legge di ordinamento giudiziario a seguito dell’unificazione della Cassazione in Roma con la contestuale soppressione delle Corti regionali (r.d. 2786/1923). È solo, infatti, con l’art. 65 del r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, che per la prima volta, a norma di legge, si afferma che la Corte di Cassazione “assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale”. Ora, io credo non dovrebbe essere oggetto di dubbio che il passaggio dalla sola “osservanza della legge” degli anni 1865 e 1923, alla “uniforme interpretazione” e alla “unità del diritto oggettivo nazionale” del 1941, costituisca lo sviluppo e il risultato di quegli orientamenti politici e dottrinali pubblicisti manifestatisi per tutto il ventennio, ovvero sia il risultato di quello che il fascismo non riuscì a fare nel 1923, appena preso il potere, e invece riuscì a realizzare nel 1941, dopo quasi vent’anni di governo. Non dovrebbe infatti essere opinabile che la dizione dell’art. 65 r.d. 12/41 sia tipica di quel periodo, e rispondente alla logica autoritaria e gerarchica propria del fascismo. Da segnalare, poi, che appena un anno prima dell’approvazione della legge sull’ordinamento giudiziario, il governo di Mussolini aveva approvato altresì il codice di procedura civile (r.d. 28 ottobre 1940 n. 1443), il quale, però, nel disciplinare la cassazione, disponeva un accesso alla Corte in modo non difforme a quello già esistente nel codice di rito del 1865. Ed infatti, l’accesso in cassazione per la giustizia civile non trovava limiti alcuno nella disciplina del nuovo codice, né si introducevano misure, limiti, o filtri alla possibilità delle parti di impugnare le sentenze di grado di appello (o in unico grado) al fine di favorire la “unità del diritto oggettivo nazionale”, né, ancora, si pensò di escludere dal sindacato della Corte gli errores in procedendo, così come sosteneva Piero Calamandrei, che al contrario venivano ammessi con il n. 4 dell’art. 360 c.p.c.; e addirittura il codice del ‘40 ampliava il campo di operatività della cassazione, prevedendo altresì il ricorso per questioni attinenti alla motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. ovvero per circostanze sconosciute al vecchio testo dell’art. 517 n. 7 c.p.c. 1865, che si riferiva solo a contraddizioni del dispositivo[31], con esclusione di ricorso sia per contraddittorietà tra motivi e dispositivo[32], sia per contraddittorietà tra motivi[33].
5. Dopo la caduta del fascismo i temi della Cassazione e della nomofilachia venivano affrontati in Assemblea costituente, e va a tal fine ricordato in primo luogo il dibattito avutosi presso la seconda sottocommissione, nelle sedute dal 20 dicembre 1946. Piero Calamandrei, infatti, che faceva parte della sottocommissione, e del quale abbiamo già detto circa le sue idee in punto di nomofilachia, provava a inserire tale principio in Costituzione. Presentava un progetto che all’art. 12, 2° comma recitava che: “al vertice dell’ordinamento giudiziario, unica per tutto lo Stato, siede in (...) la Corte di Cassazione, istituita per mantenere l’unità del diritto nazionale attraverso la uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale e per regolare le competenze fra i giudizi”[34]. Tal progetto trovava però l’opposizione di Targetti, il quale (così espressamente dai verbali) “dichiara di avere personalmente molti dubbi circa la necessità assoluta, invariabile attraverso il tempo dell’unicità della cassazione”[35]. Alla posizione di Targetti aderiva, con talune precisazioni, Bozzi, e poi Ambrosini, Di Giovanni e Castiglia[36]. Calamandrei veniva messo in minoranza, ed il progetto di costituzionalizzare il principio di unicità della Corte di Cassazione e di nomofilachia non aveva seguito, tanto che lo stesso Calamandrei, dopo anche il successivo intervento di Targetti nella seduta pomeridiana del 20 dicembre 1946[37], “dichiarava di aderire alla proposta di Targetti e di ritirare il capoverso in esame”[38]. Parallelamente, va pure ricordato, che Giovanni Leone presentava un progetto, ove però, con l’art. 17, si statuiva semplicemente che “in ogni causa devono essere osservati tre gradi di giurisdizione”[39]. È evidente che tale progetto, contrariamente a quello di Piero Calamandrei, non aveva come scopo quello di costituzionalizzare il principio di nomofilachia e di unicità della Corte, ma solo quello di assicurare ai cittadini il terzo grado di giudizio, inteso come controllo di legalità nell’applicazione della legge. Su tale progetto prendevano la parola altri componenti, quali Ambrosini e Di Giovanni, i quali manifestavano perplessità non tanto relativamente al principio, quanto alla opportunità di inserirlo in costituzione piuttosto che nei codici di procedura[40]. Giovanni Leone insisteva, asserendo che “è proprio attraverso le norme di procedura che viene più facilmente elusa la garanzia del cittadino al ricorso”[41], ed anche il Presidente Conti “è d’avviso che tale formula potrebbe essere inserita fra i principi generali”[42]. Si arrivava, così, nella seduta del 31 gennaio 1947[43], all’approvazione di un testo, ovvero dell’art. 102 del progetto, il quale disponeva che: “Contro le sentenze pronunciate in ultimo grado da qualsiasi organo giudiziario ordinario o speciale è sempre ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione”[44].
6. Al plenum dell’Assemblea costituente, dunque, arrivava il progetto di Giovanni Leone, e non quello di Piero Calamandrei, e tuttavia Piero Calamandrei non si dava per vinto. Piero Calamandrei, infatti, con dubbio comportamento, dopo aver ritirato il capoverso in questione in sottocommissione come sopra riportato, riproponeva il medesimo testo bocciato e ritirato per la costituzionalizzazione del principio di nomofilachia anche in Assemblea[45]. Avverso ciò prendeva però la parola di nuovo Targetti, ricordando la vicenda della sottocommissione e il ritiro dello stesso Piero Calamandrei di quel testo, e rimprovera il collega: “L’onorevole Calamandrei si contraddice”[46]. La proposta di Piero Calamandrei non aveva quindi seguito in Assemblea, la quale, tutto al contrario, discuteva del solo progetto di Giovanni Leone; e poiché l’idea di accogliere il principio secondo il quale è generalmente riconosciuto a tutti il diritto di accedere alla Corte di cassazione per il controllo di legalità dei provvedimenti che incidono su diritti non trovava contrasto alcuno[47], il testo provvisorio, senza sostanziali modificazioni, veniva approvato dall’Assemblea, e andava a formare l’odierno art. 111 Cost.[48]. Nessuna menzione della nomofilachia, dunque, veniva data nella carta costituzionale e nessuna traccia di contenuto analogo a quello dell’art. 65 r.d. 12/41 o di quello proposto da Piero Calamandrei in sottocommissione all’art. 12, 2° comma, si trova così oggi nell’art. 111 Cost. Mi sia consentito aggiungere, a chiusura di questa parte, che questa chiara vicenda, che risulta espressamente dai verbali dei lavori dell’Assemblea costituente, non è praticamente riportata da nessuno. Tutti oggi convengono sul fatto che il valore della nomofilachia sia un valore costituzionalmente protetto, e a tal fine vengono richiamati gli artt. 3 e 111 Cost.; nessuno però riporta quanto successe in Assemblea costituente in punto di nomofilachia. È posizione legittima ritenere che il valore della nomofilachia sia riconducibile a principi costituzionali; tuttavia completezza di informazione vorrebbe che, in ogni caso, da parte di tutti, prima di esprimere giudizi, non si prescindesse da una vicenda così precisa, e direi assolutamente imprescindibile, per disquisire circa la costituzionalità o meno del principio di nomofilachia. Si può ritenere oggi che la nomofilachia sia un valore costituzionale, non si può però tralasciare che questa non era la posizione dei nostri costituenti[49].
7. Ad ogni modo, possiamo a questo punto passare agli anni successivi della nostra età repubblicana. Direi fino agli anni ‘80, il valore della nomofilachia non era certo negato, nessuno lo ha mai negato, e tuttavia lo stesso era riconosciuto, se si vuole anche conformemente alle vicende di cui all’Assemblea costituente, senza quella forza che esso ha oggi. Mi sia qui consentito ricordare in proposito, tra gli stessi giudici, le posizioni di Senese[50], di Pivetti[51], e di Franceschelli[52]. Sostanzialmente, è ovvio che quando una Corte è posta al vertice dei mezzi di impugnazione, inevitabilmente svolge (anche) una funzione di guida ed indirizzo dei giudici dei gradi inferiori, e quindi inevitabilmente svolge una funzione che possiamo ricondurre alla nomofilachia. E tuttavia l’esercizio di questa funzione si realizza in modo secondario, indiretto, ovvero decidendo le sorti di una impugnazione. Altrimenti non si capisce perché il giudizio sia attivato dalle parti private, perché le parti private se ne debbano assumere i costi e i rischi di soccombenza, perché le parti private possano rinunciarvi per transazione così come prevede l’art. 390 c.p.c.; altrimenti l’iniziativa processuale dovrebbe essere lasciata sempre in mano alla Procura generale, il concetto di soccombenza non dovrebbe esistere; nessun privato ne dovrebbe sopportare in proprio i costi, e anche il sistema della lite, del contraddittorio, delle parti contrapposte, non avrebbe (un gran) senso in un processo la cui funzione prima è quella di nomofilachia.
Quand’è, allora, che la posizione sulla nomofilachia muta? Ebbene, io direi che muta parallelamente all’aggravarsi della crisi della Corte di Cassazione: più negli anni successivi si rileva lo stato di crisi della Cassazione, più parallelamente si afferma che la sua funzione è quella di nomofilachia[53]. È una posizione comprensibile dal punto di vista pratico, non dal punto di vista teorico. Visto che il carico di lavoro della Corte di cassazione ammontava già a 10.517 ricorsi negli anni 1985-1986[54], si inizia ad interrogarsi sulla funzione primaria di essa[55], e a formulare le prime ipotesi per sgravare la Corte di tale ruolo[56]. E, in questo contesto, poco dopo, prende corpo una distinzione prima per niente usata, che è quella tra ius constitutionis e ius litigatoris. Questa terminologia, a mio parere, segna un passaggio concettuale ulteriore in punto di nomofilachia: se fino ad allora, direi, i più riconoscevano che la funzione prima della Cassazione fosse quella di fornire ai cittadini il controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito, e quindi il suo compito primo fosse quello di decidere i ricorsi, con l’avvento di questa contrapposizione terminologica l’ordine si inverte, e si comincia a sostenere che prima viene la funzione di nomofilachia e solo dopo quella della decisione dei ricorsi. Per ius constitutionis, infatti, si intende la funzione pubblica della Corte di Cassazione, ovvero quella di nomofilachia, mentre per ius litigatoris si intende la funzione privata, ovvero quella di decidere i ricorsi. Conviene, vista la rilevanza del tema, spendere qualche parola in più su questa contrapposizione che ancora oggi è in uso.
8. Come ho già avuto modo di sottolineare, la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris risale al tardo diritto romano ma con un significato del tutto diverso da quello oggi dato[57].
Esattamente, il diritto romano distingueva la quaestio facti dalla quaestio iuris, e da tali questioni potevano discendere, per la sentenza, l’error iuris e l’error facti. Per evitare che, grossolanamente, e come in origine, l’error iuris comportasse la nullità della sentenza, e l’error facti rendesse invece necessario l’appello a fronte di una sentenza da considerare valida, nel diritto romano tardo classico si pose la distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris, e si stabilirono criteri di questo genere: a) la sentenza era da considerare contra ius constitutionis quando pronunciata con errori di diritto sulla esistenza e/o sul contenuto delle norme, ovvero con errori giuridici posti nella premessa maggiore dell’attività logica del giudice; b) la sentenza era invece da considerare contra ius litigatoris quando viziata da errori nella ricostruzione del fatto, oppure da errori di diritto non rientranti nella categoria dello ius constitutionis, quali quelli relativi alla sussunzione della norma al fatto, legati alla premessa minore dell’attività logica del giudice[58]. La sentenza contra ius constitutionis era da ritenere inesistente, e la sua inesistenza/nullità poteva esser fatta valere in ogni tempo; al contrario la sentenza contra ius litigatoris era valida ed efficace, e solo, per sanare l’errore commesso dal giudice, poteva essere oggetto di impugnazione[59].
Tutto ciò si trovava in modo chiaro nel Digesto (49.8.1.2.): Contra constitutiones autem iudicatur, cum de iure constistutionis, non de iure litigatoris pronuntiatur; quo casu appellatio necessaria est[60].
Orbene, ci si chiederà che pertinenza abbia questa contrapposizione, divenuta poi di moda, con la Corte di Cassazione, prima ancora che con la nomofilachia. Ed infatti non ha pertinenza, e non a caso se torniamo al Regno d’Italia di ius constitutionis e ius litigatoris non v’è traccia né nel Commentario del codice di procedura civile di Mancini-Pisanelli-Scialoja, né nella imponente voce monografica “Cassazione” di Enrico Caberlotto del Digesto Italiano. Di più: è espressione che non si trova mai, parlando del giudizio e della Corte di cassazione, fino agli anni ’20. Non la si trova nel Trattato di Luigi Mattirolo, nel Commentario di Ludovico Mortara, nelle Istituzioni di Giuseppe Chiovenda. Né queste espressioni sono state, non dico studiate, ma nemmeno usate, dai giuristi del passato che si occuparono della cassazione: da Giuseppe Pisanelli a Carlo Lessona, da Matteo Pescatore a Vittorio Emanuele Orlando.
8.2. Riscopre invece la distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris Piero Calamandrei con uno scritto minore giovanile[61]. Con esso, tuttavia, Calamandrei si limitava a richiamare la contrapposizione per come si era formata in età tardo-classica, senza storpiature particolari[62], avvertendo che la distinzione però avrebbe perso di significato con il basso medioevo”[63]. Dalla sentenza inesistente perché contra ius constitutionis alla sentenza appellabile perché contra ius litigatoris si passava così alla sentenza che, ove non impugnata, e in quanto passata in giudicato, era sempre efficace e vera, sulla falsariga di quello che per noi sarebbe stato successivamente l’art. 162 c.p.c. Di nuovo, si potrebbe ribadire che la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris, per come sorta storicamente e per come riportata dallo stesso Piero Calamandrei, non ha pertinenza con il giudizio di cassazione. Il problema è che, successivamente, Piero Calamandrei si cimentava con il tema della cassazione, e scriveva su essa, come è noto, due ponderosi volumi; e in quei volumi, ovviamente, non faceva a meno di riportare quanto aveva già precedentemente scritto, e quindi riportò anche lo scritto giovanile sopra menzionato, ma lo fece nella parte introduttivo-storica dello studio sulla cassazione (vol. I, 21 e ss.; e 46 e ss.), senza attribuire a questa contrapposizione alcun valore specifico. Prova ne è che queste dissertazioni del Calamandrei non condizionarono la successiva dottrina sulla cassazione, che continuò ad occuparsi del tema senza quasi mai, ancora, far riferimento allo ius constitutionis e ius litigatoris. Niente di ciò, infatti, si trova ancora nella Logica del giudice e il suo controllo in cassazione di Guido Calogero, nel Manuale di Enrico Redenti, nella voce dell’Enciclopedia del Diritto di Salvatore Satta, nel Manuale di Virgilio Andrioli, nel saggio Il vertice ambiguo di Michele Taruffo; e così di seguito.
Solo ai nostri giorni si ripesca questa contrapposizione, e le si attribuisce un senso tutto nuovo: così, contra ius constitutionis non sono più le sentenze inesistenti perché pronunciate dal giudice in assenza o spregio di norme giuridiche; contra ius constitutionis sono viceversa tutte le sentenze che consentono alla cassazione di poter emanare pronunce aventi funzione di nomofilachia, ovvero pronunce in grado di fissare principi giuridici da rispettare in futuri casi. Parimenti contra ius litigatoris non sono più le sentenze con errata ricostruzione dei fatti o con violazione di legge relativamente alla sua applicazione concreta al fatto, ma sono tutte le questioni che interessano solo il ricorrente, e non consentono alla cassazione, con la pronuncia che le si chiede, di svolgere funzione di nomofilachia.
8.3. Dunque, sia consentito, la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris per anteporre la funzione di nomofilachia a quella della decisione dei ricorsi può ritenersi operazione concettuale senza alcuna base storica, ovvero può semplicemente considerarsi frutto di una invenzione, perché la funzione della Corte di Cassazione non è né di ius constitutionis né di ius litigatoris, e perché la contrapposizione ha origini e significato del tutto diversi, che niente hanno a che vedere con la Corte di Cassazione, e tanto meno con la sua funzione di nomofilachia.
9. Però, al di là di tutto questo, negli anni ancora successivi il principio di nomofilachia ancor più si rafforza. Esso diviene, se non un proprio e vero diritto tiranno, quanto meno un’esigenza che prevale, e deve prevalere, su tutte le altre.
La dottrina si assesta nel ritenere la nomofilachia un valore costituzionale da ricondursi allo stesso art. 3 Cost..[64]: e addirittura taluni iniziano a sostenere che lo stesso art. 111 Cost. andrebbe abrogato nella parte che qui interessa[65], o quanto meno letto in modo tale da assicurare che “il numero dei ricorsi sui quali la Corte abbia a pronunciarsi nel merito sia tendenzialmente ridotto” affinché “la Corte si pronunci solo quando la violazione di legge denunciata involga una questione di rilievo generale o sia stata risolta in contrasto con orientamenti costanti della corte”[66]. L’idea che inizia a prendere corpo è quella che la funzione di nomofilachia debba assicurarsi con la riduzione del diritto al ricorso, e a prova di ciò può essere portato il nuovo art. 360 bis c.p.c. di quegli anni[67].
Con il nuovo millennio gli interventi sulla nomofilachia si fanno sempre più forti e radicali[68]; e se si volge uno sguardo alla dottrina più recente, si scopre che, in realtà, attualmente, non abbiamo più una nomofilachia, ma infinite sfumature di essa: abbiamo una nomofilachia diretta e una indiretta[69], una nomofilachia statica e una nomofilachia dinamica, una nomofilachia di settore e una nomofilachia orizzontale[70], e poi una nomofilachia calcolabile[71], e una nomofilachia da studiare unitamente e in raffronto ad altri fenomeni: nomofilachia e solipsismo[72], nomofilachia e monoprotagonismo[73], nomofilachia e cronofilachia[74] ecc... Insomma, la nomofilachia è una e tante cose insieme, è una nomofilachia creativa[75], da analizzare quale “risposta legislativa alla postmodernità del discorso giuridico”[76], e da brandire, come “sempre più spesso infatti fa la Corte di Cassazione, come un randello”[77]. L’uniformità delle decisioni diventa un valore che supera tendenzialmente ogni altro, e la contrapposizione tra precedente vincolante della common law e precedente persuasivo della civil law, qualcosa che deve perdere la sua forza e tendenzialmente venire meno.
10. Stiamo così marciando, silenti e disattenti, verso la fine della libertà nell’interpretazione della legge. Della nomofilachia si esaltano i valori, ma se ne omettono i pericoli e degli inconvenienti. Il valore della nomofilachia è quello dell’ordine, e certo l’ordine è un principio cardine nell’amministrazione della cosa pubblica. Però, sia consentito, l’ordine, in una democrazia, è un valore se ogni tanto, accanto a sé, ha anche il disordine, poiché se al contrario tutto è invece sempre e solo ordine, allora lì qualcosa potrebbe entrare in crisi. Un contrasto di giurisprudenza è certamente un fenomeno negativo nell’amministrazione della giustizia; ma se un domani non dovessero più esserci contrasti in giurisprudenza, ciò sarebbe ancora peggio. Poiché un contrasto di giurisprudenza significa, in buona sostanza, che l’ordinamento accede ad un principio di libertà; un contrasto di giurisprudenza significa che i giudici sono liberi, e la libertà dei giudici è la condizione prima perché tutti noi lo si possa essere. Al contrario, se si manda ai giudici il messaggio che questi non devono interpretare la legge ma devono aderire all’interpretazione che della legge è già stata data; se si dà ai giudici una banca dati sempre più completa ed attrezzata in modo che su tutto sia possibile trovare un precedente; se si digitalizza il processo e si creano per il giudice degli automatismi che forniscono agevolmente la risoluzione dei casi; e se infine, fatto tutto questo, si aggiunge che se il giudice non dovesse trovare in quell’automatismo la risoluzione del caso questi non dovrebbe egualmente interpretare la legge ma rimettere la questione alla Corte di Cassazione ai sensi del nuovo art. 363 bis c.p.c., allora, evidentemente, noi non potremo più dire che i giudici si distinguono soltanto per funzioni, perché in realtà, non sarà più così; allora noi non potremo più sostenere che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, perché in verità vi saranno altre cose, diverse dalla legge, in grado di determinarli; allora noi non potremo più affermare che la magistratura è un potere diffuso, perché non v’è diffusione del potere se la facoltà dello ius dicere è rimasta solo al vertice. E se il lavoro dei giudici si ridurrà a meri adempimenti burocratici, allora i giudici non si sentiranno più i destinatari di una funzione primaria dello Stato, si sentiranno dei semplici dipendenti, atti a sbrigare delle pratiche, per niente soddisfatti del lavoro svolto. E uno Stato democratico non può avere dei giudici che lavorino così.
In estrema sintesi, la nomofilachia non è un bene come la salute, che più se ne hai meglio è; è un bene che deve trovare dei limiti e dei bilanciamenti, come li ha sempre avuti, poiché altrimenti rischia di compromettere altri valori, altri principi, altre esigenze non meno rilevanti. E che la magistratura costituisca un potere diffuso, è un bene al quale non possiamo rinunciare.
10.2. Il rafforzamento della nomofilachia non poggia, poi, a pensarci, su niente, e lo scopo di questo saggio è proprio quello di ricordare questa evidenza: non sulla storia, poiché nella storia della nostra Italia la nomofilachia non ha mai rappresentato un punto centrale nella funzione giurisdizionale esercitata dalla Cassazione; non sulla Costituzione, poiché in Assemblea costituente, se si esclude Piero Calamandrei, nessuno pensava che la nomofilachia potesse essere una tecnica giudiziaria da ricondurre a principio costituzionale, e nessuno immaginò infatti di trasformare il precetto dell’art. 65 r.d. 12/41 in norma costituzionale; non sulla contrapposizione tra ius consistitutionis e ius litigatoris, poiché abbiamo visto che trattasi di una contrapposizione che ha origini totalmente diverse, che niente hanno a che vedere con la Corte di Cassazione; non su un valore ideologico, perché è fuori discussione che la nomofilachia abbia un aspetto autoritario, possa presupporre una struttura gerarchizzata della magistratura, tanto che da un punto di vista normativo la si trova infatti disciplinata solo nell’art. 65 del r.d. 12/41, ovvero in una normativa che fu varata dal fascismo: non la si trova nella legge di ordinamento giudiziario r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626, non la si trova nella legge di ordinamento giudiziario r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786, non la si trova nella Costituzione, non la si trova in altre leggi dell’età repubblicana. E dunque, il rafforzamento della nomofilachia, da parte sua, non ha che ragioni pratiche: essa ha preso corpo in modo direttamente proporzionale alla crisi della Corte di Cassazione; più la Cassazione è entrata in crisi per l’alto numero dei ricorsi, più si è diffusa l’idea di una nomofilachia forte. Ma la crisi della Cassazione non può costituire la ragione per portare la nomofilachia a dimensioni analoghe a quelle dello stare decisis. La nomofilachia ha già creato una miriade di ipotesi di inammissibilità dei ricorsi prima inesistenti, ha già ridotto i casi nei quali l’accesso in cassazione è possibile, ha già trasformato le udienze pubbliche in camere di consiglio e le sentenze in ordinanze; ora evitiamo che essa soffochi anche la libertà dei giudici di interpretare la legge. Noi non abbiamo ragioni per rincorrere i sistemi di common law; quei sistemi, infatti, hanno delle compensazioni che noi non abbiamo, e una storia completamente diversa dalla nostra.
10.3. Chiudo con un ricordo. Negli anni ’90, prima dell’arrivo della SSM, ho avuto l’onore e la fortuna di essere stato chiamato più volte a Frascati per i corsi formativi organizzati dal CSM. Lì ho avuto la possibilità di confrontarmi e discutere con magistrati che ovviamente ancora oggi bene ricordo; una grande e indimenticabile soddisfazione per me. Ricordo il mio entusiasmo di essere lì: restavamo lì a giorni, lì si mangiava, si dormiva, si passava anche il tempo libero passeggiando nel giardino. Uno di quei magistrati, in uno di quegli eventi, a tavola, una volta, facendo riferimento ai giovani che partecipavano ai corsi, mi disse: “Si tratta soprattutto di trasmettere loro il senso della giurisdizione, e dobbiamo averlo noi per prima questo senso della giurisdizione.” Il discorso non si sviluppò: io non chiesi all’interlocutore cosa intendesse per senso della giurisdizione, né l’interlocutore ritenne di dovermelo spiegare. Ricordo però che l’interlocutore disse questa cosa con un tale orgoglio, un tale senso di appartenenza, una tale consapevolezza del suo significato, che quella frase ancora oggi io non l’ho dimenticata. Mi fu subito chiaro che per senso della giurisdizione egli intendeva una cosa precisa, che non aveva bisogno di essere spiegata: si trattava di quella sintesi tra libertà e responsabilità che costituisce il compito primo, fondamentale, del giudice. Ebbene, credo sia necessario che quel senso della giurisdizione non si smarrisca, che ogni giudice continui a sentire quel senso, che abbia sempre la convinzione che nello svolgimento della delicata funzione dello ius dicere, nessuno sta sopra di lui, solo la legge, così come vuole l’art. 101, 2° comma Cost. Diceva Giuseppe Borrè: “Tutto ciò che è “super” ha in sé un virus nemico dei valori della giurisdizione”.
*Già in Ambientediritto, fasc. 1, 2023.
[2] Così espressamente AMOROSO – MORELLI, La funzione nomofilattica e la forza del precedente, in AA.VV., La cassazione civile, Bari, 2020, 473.
[3] CURZIO, Il giudice e il precedente, Quest. Giustizia 4/2018, 37 e ss.
[4] RORDORF, Stare decisis: osservazioni sul valore del precedente giudiziario nell’ordinamento italiano, Foro it., 2016, V, 279.
[5] CALAMANDREI, La cassazione civile, ora in Opere giuridiche, Napoli, 1976, VI, VII; ed in forma più ridotta anche in ID., Cassazione civile, voce del Nuovo Digesto it., Torino, 1937, XVI, 981 e ss.; nonché ID., Per il funzionamento della cassazione unica, Riv. dir. pubbl., 1924, 317 e ss.
[6] V. infatti CALAMANDREI, La cassazione civile, cit., VII, 390 e ss.; ID, Cassazione civile, voce del Nuovo Digesto it., cit., 1031.
[7] V. infatti sul punto TARUFFO, Il vertice ambiguo, Bologna, 1991, 55, per il quale “Calamandrei.........lega il tema della cassazione unica ad una serie di interventi di riforma che gli appaiono necessari per consentire alla Corte di svolgere in modo ottimale le sue funzioni”.
[8] CALAMANDREI-FURNO, Cassazione civile, voce del Noviss. Digesto, Torino, 1968, II, 1056.
[9] Sul punto v. infatti la recensione di E. FINZI, Recensione a P. Calamandrei, in Arch. Giur., 1922, 107 e ss.: “Quanto alla sua concludenza, dirò francamente che la dottrina del Calamandrei mi ha lasciato assai perplesso: io temo forte che il bell’edificio, costruito con mirabile arte dialettica, sia piuttosto debole nella sua fondamenta” (FINZI, op. cit., 123). Finzi, infatti, ritiene che l’errore in cui cade Calamandrei sia proprio quello di considerare la nomofilachia come funzione prima, e fors’anche unica, della Cassazione. Continua FINZI, op. cit., 123: “....che lo scopo di nomofilachia non possa più essere nell’essenza stessa dell’Istituto, anche il C. tende a riconoscere.........storicamente si dimostra che ogni istituto di nomofilachia deve essere estraneo all’ordinamento giudiziario..............Ad escludere poi la nomofilachia dalle finalità tipiche della cassazione moderna, alle ragioni logiche e storiche ricordate, se ne aggiunge un’altra di indole sociologica”.
[10] Così SATTA, Corte di cassazione, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1962, X, 797 e 799, per il quale vi sono: “ricerche pressoché impossibili, perché bisognerebbe aver vissuto in quel tempo”, e “tale diversità sarebbe data dallo scopo che sarebbe stato attribuito alla Corte (ignoto al Tribunal) di unificare la giurisprudenza. Noi siamo scettici”, Per talune note critiche alla ricostruzione storica della Cassazione in Calamandrei v. anche TARUFFO, Il vertice ambiguo, cit., 49. Per le (possibili) ragioni per le quali Calamandrei assunse certe posizioni (soprattutto nel secondo volume) v. CIPRIANI, Il progetto del guardasigilli Mortara e i due volumi di Calamandrei, in Giust. Proc. civ., 2008, 791 e ss.
[11] MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, 1923, II, 21-22: “La Corte di cassazione non è istituita per la difesa astratta del diritto obiettivo, ma per mezzo di tale difesa tende a reintegrare il diritto subbiettivo dei litiganti, al pari di ogni altro organo della funzione giurisdizionale……..poiché il reclamo del cittadino che reputa leso il proprio diritto dalla sentenza del giudice inferiore è la causa normale che provoca l’esercizio della sua giurisdizione”.
[12] Chi mi conosce, sa quanto io ami Piero Calamandrei, a mio parere il più grande processualista del ‘900 (v. SCARSELLI, In devoto omaggio, Pisa, 2022, 87 e ss.).
Però, sulla Cassazione, Piero Calamandrei è un mistero.
È un mistero che è stato (anche) oggetto di particolare indagini, e non posso, in questo contesto, non ricordare Franco CIPRIANI, Piero Calamandrei e l’unificazione della Cassazione, in AA.VV., Poteri del giudice e diritti delle parti nel processo civile, Napoli, 2010, 275 e ss.; e poi ancora CIPRIANI, Piero Calamandrei e la procedura civile, ed. II, ESI, Napoli, 2009; ID, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, 317 e ss.; ID, Scritti in onore dei patres, Milano, 2006, 435 e ss..
[13] V. già SCARSELLI, La crisi della cassazione civile e i possibili rimedi, Giusto proc. civ., 2010, 653 e ss..
[14] A conferma di ciò ricordo l’art. 2 del decreto 27 novembre 1790, che, nel fissare i compiti del nuovo Tribunal de cassation, espressamente asseriva: “Les fonctions du tribunal de Cassation seront de prononcer sur toutes les demandes en Cassation contre les Jugements rendu en dernier ressort, de juger les demandes de renvoi d’un tribunal à un autre pour cause de suspicion légitime, les confluite de jurisdiction et les règlements de juges, les demandes de prise à partie contre un tribunal entier” (in CABERLOTTO, Cassazione e Corte di cassazione, voce del Digesto, Torino, 1887-1896, VII, I, 36). Dunque, al momento, nessun riferimento, nemmeno indiretto, si faceva ad una presunta funzione del Tribunal de cassation di uniformare gli orientamenti giurisprudenziali.
[15] PICARDI, Giuseppe Pisanelli e la cassazione, Riv. dir. proc., 2000, 637.
[16] Vedilo in PICARDI-GIULIANI, Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2004, II, VI.
[17] V. SCARSELLI, La corte di cassazione di Firenze (1838 – 1923), Giusto proc. civ., 2012, 623; ed anche in SCARSELLI, Per un ritorno al passato, Milano, 2012, 195 e ss.
[18] Vedilo anche nel Codice di procedura civile del regno di Sardegna a cura di PICARDI-GIULIANI, Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2004, II, XII. Nello Stato pontificio veniva accolta l’idea di una Corte di terzo grado, seppur con significative differenze rispetto al modello francese, con il Regolamento gregoriano del 10 novembre 1834 (v. PICARDI-GIULIANI, Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2004, II, X), mentre l’idea di una Corte di Cassazione non veniva accolta per niente nel Lombardo-Veneto, atteso che la legislazione austriaca e tedesca rimase estranea a questa istituzione (v. anche PICARDI, Il regolamento giudiziario di Giuseppe II e la sua applicazione nella Lombardia austriaca, Riv. dir. proc., 2000, 36).
[19] Lo sostiene anche TARUFFO, Il vertice ambiguo, cit., 63, nota 13, per il quale “Di essa (della nomofilachia) non vi è traccia, infatti, né nella disciplina della Cassazione in Francia, né in quella delle legislazioni italiane preunitarie e unitaria”.
[20] PISANELLI, Relazione ministeriale sul progetto del codice di procedura civile, presentata al Senato nella tornata del 26 novembre 1863, La legge, 1865, V, 237.
[21] G. SAROCCHI, S. LESSONA, E. FINZI, E. BARSANTI, A. TELLINI, Sul problema delle Cassazioni territoriali, Firenze, 1923, 7.
[22] CARCANO, La cassazione e lo statuto, Mon. Trib., 1872, XIII, 31.
[23] V. in proposito MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile, 1896, IV, 1080, per il quale “Per le parti della sentenza che furono cassate, e per le quali si fece luogo al rinvio, il giudice del rinvio, ha, nel sistema della legge vigente, una giurisdizione PIENA, LIBERA, ASSOLUTA....... (maiuscolo di Mattirolo)...........Questa giurisdizione non gli è già delegata dalla Corte di cassazione.........il giudice del rinvio è investito direttamente ed esclusivamente della sua giurisdizione dalla legge”.
[24] Per questo dibattito v. infatti CABERLOTTO, Cassazione e Corte di cassazione, cit., VII, I, 41 e ss. (il titolo I della voce è infatti intitolato dall’autore: “Cassazione o Terza Istanza?”); ed anche F.S. GARGIULO, Cassazione, voce dell’Enciclopedia giuridica italiana diretta da P.S. Mancini, Milano, 1905, III, II, 21 e ss.
[25] Una delle più autorevoli in tal senso fu quella di MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile, cit., IV, 866 e ss.
[26] MANCINI, Discorso tenuto alla Camera dei Deputati nella Seduta del 20 febbraio 1865, VIII legislatura Sessione 1863-65, in Discorsi parlamentari, Roma, 1893, 217.
[27] V. gli studi indicati nella nota che segue, e CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, 235, per il quale: “Mussolini, dunque, in pochi mesi riuscì a fare quello che non si era riusciti a fare in sessant’anni”.
E non a caso, infatti, tal cosa, predicata da taluni (ma contrastata da altri) per oltre sessanta anni, veniva a realizzarsi proprio con l’avvento del fascismo, e in modo del tutto singolare, poiché si realizzava con un decreto (r.d. 601/1923) emanato in forza di una legge delegata, la legge 3 dicembre 1922 n. 1601, che non consentiva affatto una simile decisione, poiché la delega fissata in quella legge aveva ad oggetto il solo “riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione” (v., sul punto, MECCARELLI, Le corti di cassazione nell’Italia unita, Milano, 2005, 33), riordino che difficilmente poteva comportare anche l’abolizione di uffici giudiziari dell’importanza delle Corti di cassazione di Torino, Firenze, Napoli e Palermo.
Si tratta, pertanto, di un colpo di mano, e non certo di una decisione presa con l’analisi e la compiuta ponderazione delle problematiche emerse fin dal 1865, colpo di mano confermato anche dalla successiva rimozione di Mortara dalla presidenza della Corte, avvenuta con r.d. 3 maggio 1923 n. 1028 (v. CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 236 e ss.) e la nomina del nuovo presidente nella persona di Mariano D’Amelio.
E conferma di ciò si trova ancora nelle pagine di S. LONGHI, Presentazione a Studi in onore di Mariano d’Amelio, Roma, 1933, I, V, per il quale: “Soltanto da Roma devono emanare le massime della interpretazione della legge, le quali tanto più contribuiscono alla prosperità del popolo quanto più sono sapientemente interpretate con fermezza e con costanza di decisioni per i casi analoghi”.
[28] V. infatti anche MAROVELLI, L’indipendenza e l’autonomia della magistratura italiana, dal 1848 al 1923, Milano, 1967, 272 e ss.; nonché TARUFFO, La giustizia civile in Italia dal ‘700 a oggi, Bologna, 1980, 216 e ss.
[29]È cosa riconosciuta anche da CALAMANDREI, Cassazione civile, voce del Nuovo Digesto it., cit., 1030, che sulla scelta della cassazione unica del ’23 scrive: “Il rafforzamento dell’autorità dello Stato operatosi in Italia in quest’ultimo decennio, non poteva che rafforzare insieme l’idea che sta alla base della cassazione............l’idea romana della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato, della supremazia dello stato sulla volontà individuale”.
[30] Lo rileva anche TARUFFO, Il vertice ambiguo, cit., 63, per il quale “il t.u. sull’ordinamento giudiziario (introdotto con il r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786) non cambia nulla per quanto attiene alla funzione della Cassazione”.
[31] Così Cass. Firenze 4 luglio 1887, Temi veneta, 1887, 397.
[32] V. infatti Cass. Firenze 6 giugno 1887, La Legge, 1887, II, 726.
[33] V. infatti Cass. Torino 12 agosto 1884, La legge, 1884, II, 657.
[34] V., infatti, La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, Camera dei Deputati, 1976, VIII, 1958.
[35] op. cit., VIII, 1958.
[36] V. ancora op. cit., VIII, 1958-9.
[37] op. cit., VIII, 1961.
[38] op. cit., VIII, 1962.
[39] op. cit., VIII, 1957.
[40] op. cit., VIII, 1957.
[41] Così, espressamente, il verbale dei lavori, in op. cit., VIII, 1957.
[42] op. cit., VIII, 1957.
[43] op. cit., I, LXVIII.
[44] op. cit., VIII, 1958.
[45] V. seduta pomeridiana del 27 novembre 1947, op. cit., 415
[46] TARGETTI, op. cit., V, 4169.
[47] V. ancora op. cit., V, 3659 e ss.
[48] Per questi aspetti v. e MARTONE, Unicità della cassazione e unità della giurisdizione nei lavori dell’Assemblea costituente, in Atti del convegno Giurisdizione e giudici nella Costituzione, Roma 18 giugno 2008, in Quaderni del CSM, 2009, n. 155, 100 e ss.
[49] Salve mie mancanze, il dato lo trovo espresso in modo chiaro solo in IMPAGNATIELLO, Il concorso tra cassazione e revocazione, Napoli, 2003, 391: “Quel che è certo è che l’art. 111 Cost. non fa alcun riferimento alla nomofilachia, neppure solo indiretto”.
[50] SENESE, Funzioni di legittimità e ruolo di nomofilachia, Foro it. 1987, V, 263: “Mi pare difficilmente contestabile l’osservazione che la nascita dell’istituto della cassazione e della funzione di nomofilachia sia storicamente e strutturalmente legata ad un modello statuale accentrato, geloso della sovranità nazionale, gerarchizzato, ed ad una struttura piramidale della giustizia, e che tutto diverso sia il modello statuale disegnato dal nostro sistema costituzionale”.
[51] M. PIVETTI, Osservazioni sul modello di Corte di Cassazione, in MANNUZZU – SESTINI, Il giudizio di cassazione nel sistema delle impugnazioni, Democrazia e diritto, 1/1992, 274, menzionato da IMPAGNATIELLO, cit., 391: “È certo che tale compito (la nomofilachia) non è l’unico né il principale tra quelli attribuiti alla suprema Corte, sicché la sua realizzazione non può in alcun caso essere perseguita a scapito della funzione consistente nell’assicurare alle parti la garanzia del caso concreto”.
[52] FRANCESCHELLI, Nomofilachia e Corte di cassazione, in Giustizia e costituzione, 1986, 39: “In un sistema caratterizzato dal pluralismo..........il bene supremo della giustizia, non è........una staticità e uniformità di giurisprudenza....ma è, al contrario, una disponibilità ad intendere il nuovo e ad interpretare il pluralismo, e quindi ad un confronto continuo di posizioni”.
[53] Per tutto questo dibattito in quegli anni v. DENTI, A proposito di Corte di Cassazione e di nomofilachia, Foro it., 1986, V, 417; TARUFFO, La Corte di cassazione e la legge, Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, 349; CHIARLONI, La cassazione e le norme, Riv. dir. proc., 1990, 982; ID., Efficacia del precedente giudiziario e tipologia dei contributi della giurisprudenza, Riv. trim. dir. proc. Civ., 1989, 118; MONTESANO, Aspetti problematici del potere giudiziario, id., 1991, 665; LA GRECA, Quale cassazione? Proposte dell’assemblea generale, Dir. pen. e proc., 1999, 784; ed ancora CHIARLONI, Un mito rivisitato: note comparative sull’autorità del precedente giurisprudenziale, Riv. dir. proc., 2001, 614.
[54] V. PROTO PISANI, Cassazione civile e riforme costituzionali, Foro it., 1998, V, 167.
[55] AA.VV., Per la corte di cassazione, Foro it., 1987, V, 205 e ss.; AA.VV., La cassazione civile, id., 1988, V, 1 e ss.
Successivamente BORRÈ – PIVETTI – ROVELLI, Dibattito su…..la cassazione e il suo futuro, Quest. Giust., 1991, 817; PIZZORUSSO, La corte suprema di cassazione: problemi organizzativi, Doc. giustizia, 1991, 5, 15.
[56] V. anche BRANCACCIO, Della necessità urgente di restaurare la Corte di cassazione, Foro it., 1986, V, 461. Precedentemente MIRABELLI, Discorso di commiato del primo presidente della Corte di cassazione, Foro it., 1985, V, 222.
[57] SCARSELLI, Sulla distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris, Riv. dir. proc., 2017, 355 e ss.
[58] V. in argomento ORESTANO, L’appello civile in diritto romano, Torino, 1953, 276; LAURIA, Contra constitutiones, in Studi e ricordi, Napoli, 1983, 79; PUGLIESE, Note sull’ingiustizia della sentenza nel diritto romano, in Studi in onore di Emilio Betti, Milano, 1962, III, 775.
[59] Sulla nullità della sentenza SCIALOIA, Procedura civile romana, Roma, 1894, 266; F. VASSALLI, Studi giuridici, Milano, 1960, III, 1, 389 e ss.
[60] Peraltro, in quel passo, non si dà una definizione della contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris, ma si procede con un esempio.
Si dice: se il giudice dichiari che né il numero dei figli, né una determinata età, né alcun privilegio in capo al richiedente possano esonerarlo dai servizi pubblici (munera) o dall’ufficio della tutela (ovvero il giudice, contrariamente al diritto vigente, affermi l’inesistenza di una norma in vigore), egli pronuncia contra ius constitutionis, e la sua sentenza è inesistente/nulla. Se invece il giudice non neghi che dette circostanze possano effettivamente comportare l’esonero dai servizi pubblici o dalla tutela, così come infatti le norme dispongono, ma non le accerti per errore nella persona del richiedente, egli allora pronuncia contra ius litigatoris, e la sentenza in questi casi, al contrario, è valida ed efficace, e solo può essere rimossa con l’impugnazione dell’appello.
Il passo del Digesto, e questa esemplificazione, vengono così comunemente interpretate dalla dottrina romanista nel senso che la contrarietà allo ius constitutionis, e quindi la nullità della sentenza, vi è quando il giudice, nel sillogismo logico, erra nel porre la premessa maggiore, affermando, anche in via di interpretazione, l’esistenza di una norma che non esiste, o negando l’esistenza di una norma che c’è. Viceversa se il giudice pone correttamente la premessa maggiore, ma erra nella ricostruzione del fatto, o nel percorso logico che, data la premessa minore del fatto, porta alla conclusione, allora il giudice pronuncia sentenza contra ius litigatoris.
Vi sono, ovviamente, tra gli studiosi di diritto romano, discussioni sull’interpretazione del principio del Digesto, e per queste possiamo rinviare agli studi giuridici, ad esempio, di Filippo Vassalli o di Riccardo Orestano; ma sono discussioni su aspetti di contorno, che non interessano il problema che qui stiamo affrontando.
Per quello che a noi interessa, si ribadisce, il giudice pronuncia contra ius constitutionis quando erra nel porre la regola giuridica della premessa maggiore del sillogismo; pronuncia al contrario contra ius litigatoris quando erra nella ricostruzione del fatto o nella sussunzione della norma al fatto.
[61] CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Rivista critica di scienze sociali, 1914, 8 e ss.; anche in Studi sul processo civile, Padova, 1930, I, 143.
[62] CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Rivista critica di scienze sociali, cit., 146: “La distinzione delle sentenze in due classi, secondo che esse violassero lo ius constitutionis o lo ius litigatoris si basava dunque su un criterio di ordine costituzionale. Finché il giudice si limitava a commettere errori nell’accertamento del fatto o nell’applicazione della norma al fatto, egli rimaneva nel campo di funzioni a lui demandato, e, se commetteva degli errori, li commetteva nell’ambito del suo potere (ius litigatoris); ma se il giudice si metteva in aperto contrasto col precetto della legge allora eccedeva il potere che l’ordinamento pubblico gli aveva attribuito e non funzionava più come organo giurisdizionale (ius constitutionis).”
[63] V. CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Rivista critica di scienze sociali, cit., 153, ovvero quando si inizia invece a ritenere che: “la sentenza passata in giudicato pro veritate habetur e la sua autorità è tanta che essa può fare de non ente ens, de falso verum et de albo nigrum.”
[64] CROCE, La lunga marcia del precedente: la nomofilachia come valore costituzionale?, a proposito di Corte costituzionale 30/2011, Contratto e impresa, 2011, 847.
[65] Così CHIARLONI, Sui rapporti tra funzione nomofilattica della cassazione e principio della ragionevole durata del processo, in www.judicium.it.; ed anche CARPI, L’accesso alla Corte di cassazione ed il nuovo sistema di filtri, nel Convegno Giurisdizione di legittimità e regole di accesso nell’esperienza europea, (Roma, 5 marzo 2010, organizzato dalla Corte suprema di Cassazione), per il quale dovremmo pensare “alla modifica dell’art. 111, 7° comma, della Costituzione, attraverso un più moderno bilanciamento della garanzia per il singolo con la garanzia, questa sì fondamentale, per e dell’ordinamento”.
[66] Così PROTO PISANI, Sulla garanzia costituzionale del ricorso per cassazione sistematicamente interpretata, Foro it., 2009, V, 381; ma v. già ID., Crisi della cassazione: la (non più rinviabile) necessità di una scelta, Foro it., 2007, V, 122. Precedentemente in argomento v. DENTI, L’art. 111 della costituzione e la riforma della cassazione, Foro it., 1987, V, 228.
[67] In questo senso v. già l’art. 131 del progetto della commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, che nell’ottobre del 1987 prevedeva che “contro le sentenze è ammesso ricorso per cassazione nei casi previsti dalla legge, che assicura comunque un doppio grado di giudizio”. In argomento BILE, La commissione bicamerale e la corte (“suprema”?) di cassazione, Giust. Civ., 1998, II, 65.
[68] LA TORRE, La corte di cassazione italiana all’inizio del duemila, Foro it., 2000, V, 107; CARBONE, Organizzazione del lavoro della cassazione e ordinamento giudiziario, Corr. Giur., 2000, 124.
[69] v. E CARBONE, Quattro tesi sulla nomofilachia, Politica del diritto, 2004, 599; G.S. COCO, Esatta interpretazione e nomofilachia: appunti critici, Legalità e giustizia, 2006, I, 7.
[70] COSTANTINO, Appunti sulla nomofilachia e sulle nomofilachie di settore, Riv dir. proc., 2018, 1443; SPANGHER, Nomofilachia rinforzata, serve trasparenza, Diritto penale e processo, 2018, 985; CARRATTA, Il P.M. in cassazione promotore di nomofilachia, Giur. it., 2018, 772; CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, 2017, 364.
[71] CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, cit., 364.
[72] CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, cit., 364.
[73] COMOGLIO, Nomofilachia o nomoprotagonismo?, Nuova giur. civ. comm., 2011, 10253.
[74] AULETTA, Dalla nomofilachia alla cronofilachia: le Sezioni unite esigono il tempestivo deposito della sentenza munita di relata, Riv. dir. proc., 2010, 180.
[75] CARRATTA, L’art. 360 bis c.p.c.e la nomofilachia creativa dei giudici della cassazione, Giur. it., 2011, 885.
[76] CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, cit., 364.
[77] SASSANI, Si dice nomofilachia ma non si sa dove il sia, Riv. es. forzata., 2011, 4.
di Paola Ghinoy
Sommario: 1. La questione affrontata - 2. La certezza del diritto come valore - 3. I casi di “imprevedibilità strutturale” della decisione: 3.1. Le questioni nuove - 3.2. Le clausole generali - 3.3. L’adeguamento a principi sovranazionali specifici e determinati – 3.4. La mancata rispondenza sopravvenuta delle norme al contesto di riferimento – 4. Il ruolo del giudice del lavoro
1. La questione affrontata [1]
La domanda che mi viene posta dal moderatore è la seguente: «Nella loro attività interpretativa i giudici possono esprimere una volontà soggettiva in conflitto con quanto dichiarato dalla “legge”? Se ciò è possibile, come possono farlo rispettando l’etica costituzionale della funzione giudiziaria?
Prendendo a prestito le parole di Omar Chessa “la discrezionalità chiamata in causa dai concetti valutativi incorporati nel diritto deve essere esercizio di ratio e non di voluntas”.
Del resto, l’onere della motivazione impone al giudice di prendere in considerazione, e di confrontarsi, con le diverse concezioni e interpretazioni accreditate nel dibattito teorico e giurisprudenziale e gli prescrive di fornire argomenti coerenti, pertinenti, idonei a sorreggere la valutazione alla quale egli giunge.
Così Gino Scaccia che, che riferendosi proprio al giudice, con una sintesi felice precisa: “La sua discrezionalità soggettiva è in tal modo contenuta dall’esigenza di oggettivizzarsi in un percorso motivazionale basato sulla coerenza tra le parti del discorso, la plausibilità rispetto ai paradigmi interpretativi e applicativi preminenti, la corrispondenza delle conclusioni raggiunte a una complessiva ragionevolezza”.
Per altro verso, l’elasticità dei concetti giuridici e la difficoltà per il giudice di riempire la cornice dispositiva attingendo a principi consolidati e stabili paradigmi culturali, porta ad ampliare i confini della creatività giurisprudenziale: soprattutto in questi casi il giudice è tentato di essere infedele alla legge ingiusta forzando gli strumenti dell’interpretazione, pur di ricondurla a un ideale di equità e ragionevolezza, ma incontra i limiti sistemici della separazione dei poteri.
In conclusione, quali sono i presupposti e limiti della discrezionalità del giudice-interprete?»
La domanda è fondamentale e investe i presupposti e limiti della discrezionalità del giudice-interprete. Gli interventi sul tema di Riccardo Del Punta, anche fortemente critici rispetto a certe impostazioni interpretative, non sono mancati, e hanno avuto il pregio di invitare anche noi magistrati ad un’auto-analisi e ad interrogarci sulla nostra identità di giuristi. [2]
Cercherò quindi di affrontare questi temi, senza la pretesa di rispondere esaurientemente, ma esponendo il frutto di una riflessione che mi ha accompagnato nel corso della mia vita professionale e che ancora mi accompagna.
2. La certezza del diritto come valore
Siamo tutti consapevoli del valore della certezza del diritto e della prevedibilità della decisione.
Ricordava Norberto Bobbio che il diritto o è certo o non è diritto. Un diritto non prevedibile lede il principio di eguaglianza, in quanto la difformità di decisioni su casi simili implica che due situazioni uguali vengano trattate in modo difforme. La certezza del diritto è insomma, per Bobbio, ma non solo per lui, il fondamento dell’eguaglianza e della legalità. Una sollecitazione forte alla prevedibilità delle decisioni viene anche dagli economisti, che ricordano come l’alea dei giudizi scoraggia gli investimenti dall’interno e dall’ esterno del Paese.
Assai significativo è che il Presidente della Repubblica, che è anche il Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, alla cerimonia d’inaugurazione della terza sede della Scuola Superiore della Magistratura a Castel Capuano lo scorso 15/05/2023 abbia sentito il bisogno di sottolineare la funzione dichiarativa assolta dalla giurisprudenza, con esclusione di qualunque efficacia direttamente creativa. Ha altresì ribadito che l’uniformità delle decisioni non rappresenta un limite all’attività decisionale, ma ne costituisce un punto di approdo, in quanto è diretta a promuovere la prevedibilità delle decisioni e, dunque, la loro comprensibilità e la loro autorevolezza.
Non possiamo sottrarci a tale richiamo.
Ho quindi potuto particolarmente apprezzare nel corso delle mie funzioni di Consigliere della Corte di Cassazione gli sforzi effettuati per la sua attuazione.
Un particolare rilievo in tal senso ha rivestito la rigorosa applicazione del terzo comma dell’articolo 374 cpc, introdotto dal d.lgs 2 febbraio 2006, n. 40, secondo cui «se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso». Si tratta di una norma introdotta nella prospettiva della prevenzione e del superamento dei contrasti, quindi del rafforzamento della funzione nomofilattica assegnata dall’articolo 65 della legge di ordinamento giudiziario alla Corte di cassazione e, in particolare, della garanzia della uniforme interpretazione e applicazione del diritto oggettivo. La norma, come è stato scritto, presenta una forte valenza di principio [3], perché con essa si afferma, per la prima volta nel nostro ordinamento, «un (sia pur circoscritto) valore legale del precedente», prevedendosi un vincolo di coerenza al quale la sezione semplice della Corte di cassazione è tenuta ad attenersi nel concreto esercizio della giurisdizione.
La ricerca dell’uniformità delle decisioni ha condotto nella Sezione lavoro della Corte di Cassazione anche ad un significativo sforzo organizzativo, con la divisione dei collegi in aree tematiche e lo spoglio accurato delle sopravvenienze, al fine di trattare questioni omogenee in specifiche udienze “dedicate”, così da evitare contrasti inconsapevoli ed armonizzare le soluzioni di casi analoghi.
3. I casi di “imprevedibilità strutturale” della decisione
Vi sono tuttavia situazioni ed altri contesti per i quali esiste una sorta di “imprevedibilità strutturale” della decisione (secondo la locuzione utilizzata da Oronzo Mazzotta) [4]. Casi che mettono l’interprete di fronte a situazioni non risolvibili sulla base del richiamo ai precedenti e che come tali impegnano il Giudice ad uno sforzo interpretativo autonomo.
Casi che, a ben vedere, mettono in crisi la “giustizia predittiva”, pur nelle sue elaborazioni più attente [5].
3.1. Tra i primi vi è la decisione delle questioni nuove, in relazione alle quali non si è ancora consolidato un orientamento di merito né tantomeno è intervenuto un chiarimento di legittimità.
Per queste ipotesi potrà giovare il rinvio pregiudiziale introdotto con il D.lgs n. 149 del 2022, la c.d. riforma Cartabia, all’art. 363-bis c.p.c.
In base a tale nuovo istituto, il giudice di merito può rimettere alla Corte di cassazione la soluzione di una questione esclusivamente di diritto, necessaria alla definizione anche parziale del giudizio e che non sia stata ancora risolta dalla Corte di cassazione, a condizione che la questione presenti gravi difficoltà interpretative e sia suscettibile di porsi in numerosi giudizi.
La decisione della Cassazione è vincolante solo nell’ambito del processo in cui viene resa, ma non vi è dubbio che essa costituirà un precedente di riferimento anche per i giudici che comunque si troveranno ad affrontare la medesima questione.
Tale istituto non sarà comunque risolutivo dei possibili contrasti, considerato che il principio di diritto reso dalla Cassazione potrà operare solo con riguardo alla questione devoluta, che risente della ricostruzione della fattispecie e delle allegazioni e conclusioni delle parti in quel giudizio, sicché non potrà essere idoneo a dirimere tutte le possibili questioni analoghe.
3.2. Altra ipotesi di c.d. imprevedibilità strutturale della decisione è quella determinata dall’applicazione delle clausole generali, ovvero di quelle fattispecie in cui il criterio di valutazione non è individuato, ma richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione richiama tacitamente (per il diritto del lavoro particolare rilievo assumono tra le altre la buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto e la giusta causa di risoluzione del rapporto) [6]. Rispetto ad esse è lo stesso legislatore che ha costruito una sorta di indeterminatezza intenzionale, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo.
Il legislatore con l'art. 30, co. 1, della L. n. 183 del 2010 ha inteso limitare la discrezionalità interpretativa del giudice del lavoro nei casi nei quali le disposizioni di legge in tema di rapporto di lavoro privato o pubblico contengano clausole generali, escludendone il sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.
Ciò non esclude tuttavia che nel caso delle clausole generali il giudice di merito debba operare in concreto, determinando soluzioni non puntualmente prevedibili ex ante, con la conseguenza che la mediazione fra i contrapposti interessi delle parti deve necessariamente essere operata sul campo e con riferimento ad una specifica fattispecie.
Non si può in proposito far altro che affidarsi alla tipizzazione giurisprudenziale creatasi nel tempo, al fine di appagare quelle esigenze di uniformità che consentono, a loro volta, di assicurare una certa prevedibilità della decisione, sempre che non sopravvengano modifiche negli stessi parametri esterni da applicare.
3.3. Si può poi presentare la necessità di adeguamento a principi sovranazionali che impongano la disapplicazione di norme in contrasto.
Ancora di recente, nella sentenza del 19 settembre resa in Causa C-113/22, nell’affermare che deve essere considerata discriminatoria – e in quanto tale lesiva dei principi di diritto comunitario – la normativa spagnola che prevede una integrazione della pensione di invalidità soltanto per le madri e non anche per i padri, la Corte UE ha ribadito al punto 41 della motivazione che quando una discriminazione, contraria al diritto dell’Unione, sia stata constatata e finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il rispetto del principio di uguaglianza può essere garantito solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata. In tale ipotesi, continua la Corte UE, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e deve applicare ai componenti del gruppo sfavorito lo stesso regime che viene riservato alle persone dell’altra categoria.
Ciò è quanto è avvenuto in Italia nel caso del caso dell’assegno per il nucleo familiare disciplinato dall’art. 2 del d.l. 69/1988 convertito in l. 153/1988, in relazione al quale dopo gli interventi della Corte di Cassazione, della Corte UE , ancora della Corte di Cassazione ed infine della Corte Costituzionale con la sentenza n. 67/2022, si è definitivamente chiarito l’ obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la normativa interna che escludeva di prendere in considerazione i familiari del soggiornante di lungo periodo che risiedano in un paese terzo.
In tali casi, che non sono limitati alla normativa antidiscriminatoria ma attengono a tutte le direttive che pongano principi specifici e determinati, si può realizzare, per definizione e sino ad un nuovo intervento del legislatore, uno scollamento ad opera dei giudici rispetto alle decisioni adottate nel rispetto della normativa nazionale, non più coerente con i principi del sistema complesso di norme nel quale ci troviamo ad operare.
3.4. Esiste poi un’ulteriore specie d’ imprevedibilità che deriva dal legislatore stesso, in particolare quando quest’ultimo non è intervenuto (non ancora, o non ha la forza politica per intervenire) su una determinata situazione o su un determinato istituto del quale sia acclarato il superamento.
Si pongono infatti casi in cui le norme, quali risultanti per effetto dell’interpretazione che si è andata consolidando, non rispondono più al mutato contesto sociale sottostante.
Si pensi al recente dibattito sulla natura precettiva dell’art. 36 della Costituzione e all’ammissibilità dell’intervento giudiziale sull’ammontare delle retribuzioni previste dai contratti collettivi.
L’art. 36 della Costituzione, com’è noto, stabilisce il diritto di ogni lavoratore “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”.
La norma comprende quindi due principi: quello della proporzionalità e quello della sufficienza della retribuzione; il primo legato alla funzione corrispettiva, e più propriamente al sinallagma contrattuale, e il secondo espressione della funzione sociale della retribuzione e, quindi, del valore sociale assegnato al lavoro dalla Carta costituzionale. Si tratta di due facce ricomposte in una nozione unitaria di retribuzione che tiene insieme le due funzioni, rispondenti rispettivamente a una logica economicistica e a una logica sociale.
In merito alla rispondenza dei trattamenti economici con i principi di proporzionalità e sufficienza previsti dall’art. 36 Cost., la giurisprudenza ha tradizionalmente utilizzato, quale parametro per esprimere un giudizio di proporzionalità e sufficienza della retribuzione riconosciuta ai lavoratori, le tabelle retributive previste dalla contrattazione collettiva.
La scelta della Costituente fu infatti quella di non attribuire espressamente alla legge il compito di stabilire un salario minimo al fine di non ostacolare l’azione sindacale. Nell’impianto costituzionale, i contratti collettivi stipulati a norma dell’art. 39, vale a dire dalle organizzazioni sindacali registrate e dotate di personalità giuridica, avrebbero dovuto avere efficacia erga omnes, vale a dire efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto stesso si riferisce.
La mancata attuazione dell’art. 39 aprì il problema dei tanti lavoratori che non potevano beneficiare dell’applicazione di un contratto collettivo in quanto il datore di lavoro, non affiliato ad alcuna associazione datoriale, non era giuridicamente tenuto alla sua applicazione.
La giurisprudenza, tuttavia, nel corso del tempo ha posto la diretta percettività dell’art. 36 della Costituzione, in maniera del tutto svincolata dall’art. 39. Nel caso della mancanza di una retribuzione pattuita dalle parti, è il giudice che la determina in esecuzione dell’art. 2099 c.c., ricavandola proprio dai minimi tabellari di cui ai contratti collettivi. La retribuzione prevista dalla norma collettiva era ritenuto il parametro più idoneo a specificare (nei confronti dei non iscritti) la retribuzione prevista dall'art. 36 Cost.
Nel nostro ordinamento vi sono, del resto, numerose norme che assurgono a parametro di legalità i trattamenti economici e normativi previsti dai CCNL di settore sottoscritti dalle OOSS comparativamente più rappresentative. Tali CCNL, ad esempio, sono il termine di riferimento della legittimità del trattamento retributivo del socio lavoratore di cooperativa (si veda l’art. 7, comma 4, del d.l. n. 248/2007 convertito in L. 31/2008). L’ art. 30 IV comma del codice degli appalti vigente (D. Lgs. 50/16) prevede che “Al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. La l. n. 199 del 29 ottobre 2016, legge sul caporalato, ha riformato l’art. 603 bis c.p., individuando un’elencazione degli indici di sfruttamento dei lavoratori, tra i quali vi è quello della “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.
In definitiva, l’ordinamento giuridico conferma la valutazione data dalla richiamata giurisprudenza, secondo la quale il trattamento sancito dal CCNL costituisce parametro di legittimità rispettoso dei principi sanciti in via generale dall’art. 36 Cost.
La contrattazione collettiva tuttavia però ha cambiato volto: si è assistito a una progressiva frammentazione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, alla moltiplicazione dei contratti collettivi sottoscritti per le stesse categorie (ad oggi ne risultano depositati presso il CNEL 1.037 tra lavoro pubblico e privato), alla deregolazione e aziendalizzazione, anche per via legislativa, della contrattazione, alla diffusione dei contratti c.d. “pirata”, siglati da organizzazioni sindacali prive di effettiva rappresentatività.
Il datore di lavoro privato del resto, nella sua libertà sindacale (e con l’eccezione delle società cooperative di cui si è detto), non incontra vincoli nella scelta della sigla sindacale cui aderire e del relativo contratto collettivo da applicare.
Ed allora, si comprende come i giudici di merito, ed ora anche la Corte di Cassazione (vedi da ultimo le sentenze n. 27771, 27713, 27769 del 2 ottobre 2023 e le altre rese all’esito della stessa udienza tematica del 14.9.2023) abbiano affermato che la presunzione di rispondenza delle previsioni dei contratti collettivi all’art. 36 della Costituzione è relativa e può essere superata qualora risulti in giudizio la prova contraria, che può emergere sulla base di indicatori economici e statistici. Non può infatti escludersi a priori che il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva, pur dotata di effettiva rappresentatività, risulti in concreto lesivo del principio di proporzionalità e/o di sufficienza. È dunque possibile far valere in giudizio l’insufficienza della retribuzione prevista dal CCNL applicato, con richiesta di applicazione di diversa retribuzione risultante da altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe.
4. Il ruolo del giudice del lavoro
Mi pare che alla luce di tutto quanto detto si possa affermare che la messa in crisi dell’interpretazione consolidata in certi casi non costituisce una sfida persa della prevedibilità, ma una spinta dal basso all’adeguamento del sistema.
E in questo senso si apprezza il ruolo dell’attività giurisprudenziale di sviluppo del diritto positivo per la soluzione di nuovi problemi di decisione, come scriveva Luigi Mengoni.
Ne deriva che il sistema oggi deve leggersi come un insieme aperto al nuovo senza perdere la memoria del passato, che è cristallizzato nell’elaborazione acquisita in primo luogo, nonché ovviamente nella tavola dei valori costituzionali.
Sebbene le pressioni cui il giudice è sottoposto per smaltire il ruolo lo focalizzano sui parametri di produttività, è però essenziale che egli non perda l’attenzione al contesto sociale e sovranazionale in cui il sistema opera: in questa complessa e delicata attività di ricucitura il ruolo del giudice del lavoro è infatti ineliminabile, perché costituisce l’estremo terminale della giustizia ed è un essenziale mediatore sociale.
[1] Questo scritto costituisce il testo rivisto dell’ intervento tenuto alla Tavola Rotonda “Ideologie e tecniche nell’interpretazione del diritto del lavoro“ coordinata da Vincenzo Antonio Poso, tenutasi a Lucca nel Convento di San Cerbone il 24 settembre 2023 in occasione delle Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, intitolate “Lavoro Persona Mercato, Sulla strada tracciata da Riccardo Del Punta”.
[2] V. R. Del Punta, Il giudice del lavoro tra pressioni legislative e aperture di sistema, in Rivista italiana di diritto del lavoro 2012,1,461; R. Riverso-C. Ponterio, Quale Giudice del lavoro? In Rivista italiana di diritto del lavoro 2012,1,720 ed ancora R. Del Punta, Il giudice e la Costituzione, in Rivista italiana di diritto del lavoro 2012,1,723.
[3] V. “Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione civile” di Alberto Giusti, in https://www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/582/qg_2018-4_12.pdf.
[4] O. Mazzotta, L’interpretazione nel diritto del lavoro, istruzioni per l’uso, in Lavoro e diritto n. 2/3 del 2014, pgg. 263/272.
[5] V. L. Viola, La giustizia predittiva del lavoro, Lavoro Diritti Europa 2023, https://www.lavorodirittieuropa.it/images/VIOLA_1.pdf.
[6] V. E. Scoditti, Clausole generali e certezza del diritto, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/clausole-generali-e-certezza-del-diritto.
di Luigi Cavallaro [1]
Per strano che possa sembrare ai nostri giorni, bisogna ammettere che, nell’ambito della giurisprudenza del lavoro, l’enfasi sul ruolo “politicamente creativo” dell’interpretazione giudiziale, che costituisce un portato ormai diffusamente condiviso delle più recenti teorie dell’interpretazione del diritto, non ha per lungo tempo messo capo ad alcuna contrapposizione tra il giudice e il legislatore: al netto degli eccessi imputabili, nei primi anni ’70, a taluni pretori giustamente definiti “d’assalto”, la disciplina positiva dei rapporti di lavoro era stata per un buon quindicennio dalla metà degli anni ’60 di segno spiccatamente progressivo e volta all’inveramento di tutte le promesse che la Costituzione repubblicana aveva rivolto al mondo del lavoro; e sebbene gli anni ’80 fossero stati anni di riflusso e i primi ’90 perfino di magra, gli interventi normativi non avevano comunque intaccato il formidabile nucleo di tutele eretto a presidio dello statuto del lavoratore dipendente.
Non c’è dunque da stupirsi se, nella sua relazione al convegno nazionale del Centro Studi Domenico Napoletano dell’aprile 2014, Riccardo Del Punta rilevava come per almeno un cinquantennio il tema dell’interpretazione non aveva mai avuto motivo di porsi pubblicamente al dibattito: dominando nella giurisprudenza del lavoro una sorta di “concettualismo progressista”, in virtù del quale tutto il sistema giuslavoristico si poteva considerare logicamente deducibile da un unico principio ordinatore, quello di protezione del lavoratore subordinato in quanto soggetto debole, il criterio di verità del diritto del lavoro e la direzione di fondo dell’attività interpretativa erano affatto prevedibili, al punto che “il dichiarato, o presupposto, anti-cognitivismo di principio si risolveva […] in un cognitivismo di fatto”.
Questo stato di cose è bruscamente cambiato allorché, dopo l’adesione alla moneta unica (1992), il nostro ordinamento giuslavoristico ha cominciato ad aprirsi alle istanze liberalizzatrici provenienti dall’Unione Europea, in ossequio alle quali il legislatore interno ha progressivamente smantellato i presidi fondamentali intorno ai quali era stata eretta la cittadella fortificata del nostro diritto del lavoro: dall’introduzione del lavoro interinale (1997) alla liberalizzazione dei contratti a termine (2001), dalla c.d. legge Biagi (2003) al Collegato lavoro (2010), fino ad approdare alla c.d. riforma Fornero (2012), che ha infranto il tabù della reintegrazione nel posto di lavoro prevista dall’art. 18 St. lav., e alla successiva e conseguente disciplina dei decreti delegati dal c.d. Jobs Act (2015): che, vale la pena ricordarlo, è un acronimo per Jumpstart Our Business Startups Act, ossia “legge per lo sviluppo delle nostre imprese in fase di decollo”, e non una riscrittura nella lingua d’Albione dell’italianissimo “Statuto dei lavoratori”.
Di fronte ad una valanga di così ampia portata, una parte della giurisprudenza del lavoro si è in effetti messa di traverso, cercando di sterilizzare o quanto meno di minimizzare le conseguenze delle innovazioni normative che riscrivevano al ribasso diritti e tutele; e richiamata da una dottrina che, assurta nel frattempo a consigliere del Principe, le rimproverava di non volersi far carico degli ulteriori valori ed obiettivi che il diritto del lavoro era andato in quegli anni introiettando, essa – Costituzione alla mano – ha fieramente e pubblicamente ribadito il suo non possumus: chi non ne avesse memoria, potrà utilmente rileggere la discussione che, una decina d’anni fa, vide opporsi sulle pagine della Rivista italiana di diritto del lavoro lo stesso Del Punta e due colleghi appartenenti a Magistratura democratica, Carla Ponterio e Roberto Riverso.
Una reazione irragionevole? A sentire molti e autorevoli interventi che si sono succeduti in queste due giornate di conversazione, parrebbe di sì. Pur con qualche distinguo, la dottrina mainstream mi pare infatti abbastanza consentanea sull’idea che le riforme dell’ultimo ventennio non avrebbero in alcun modo rovesciato il segno progressista della legislazione del lavoro, ma ne avrebbero piuttosto accompagnato la normale evoluzione da un modello tutto incentrato sulla protezione del lavoratore ad uno più attento alle sue istanze di libertà: un po’ come quei buoni genitori, che, via via che i figli crescono, rinunciano, magari con rammarico e certo con preoccupazione, a seguirli passo passo per proteggerli da ogni pericolo e si acconciano a concedere spazi sempre crescenti alla loro autonomia individuale. Del resto, non era forse dedicato all’auspicio di “un diritto del lavoro maggiorenne” il sottotitolo di un notissimo libro che Pietro Ichino pubblicò poco meno di trent’anni fa, in cui, con lucida antiveggenza, si prefiguravano le traiettorie ed i sentieri sui quali si sarebbero poi incamminate le riforme del nostro diritto del lavoro? E non è forse nel segno della riflessione di un filosofo progressista come Amartya Sen che lo stesso Riccardo Del Punta ha spiegato il senso complessivo delle riforme ultime, che – abbandonata l’assurda pretesa di ingabbiare i lavoratori a vita in occupazioni divenute inefficienti – si propongono piuttosto di affidare a percorsi formativi funzionali allo sviluppo delle loro capabilities la possibilità che essi trovino nuove e migliori occasioni di lavoro?
Per quanto, ripetiamo, autorevolmente sostenuta, si tratta invero di una tesi assai discutibile. Amartya Sen, prima d’essere filosofo, è stato (ed è) un insigne economista affatto interno al mainstream neoclassico ed insignito del premio Nobel per l’economia per i suoi contributi all’economia del benessere e alla teoria delle scelte sociali, tutti costruiti all’insegna del più rigoroso individualismo metodologico; e a guardarla bene, la sua teorica delle capabilities non è più che una riverniciatura nel linguaggio compassionevole della sinistra liberal anglosassone delle assai più becere teorizzazioni sul “capitale umano” di Gary Becker (altro premio Nobel per l’economia), con le quali condivide l’assunto di fondo secondo cui la disoccupazione troverebbe la sua causa causans in deficit riguardanti l’offerta di lavoro: una leggenda che gli economisti ortodossi si tramandano dai tempi di Adam Smith, alla cui Teoria dei sentimenti morali (1758) non a caso si è rifatto lo stesso Sen per argomentare l’idea che quei poveracci deficitari di “capitale umano” non andrebbero abbandonati a se stessi (come invece sostenuto da Becker), ma piuttosto aiutati a sviluppare le abilità e le competenze necessarie a trovare un’occupazione.
Un approccio del genere, che scarica sui disoccupati la responsabilità della loro disgraziata condizione, non solo oblitera che la disoccupazione contemporanea assai più grandemente dipende da problemi che concernono la domanda di forza-lavoro e la distribuzione del reddito tra capitale e lavoro (come ha spiegato, inascoltata e anzi brutalmente zittita, una lunga tradizione del pensiero economico che da Marx, Keynes e Kalecki arriva ai nostri Sraffa, Garegnani e Pasinetti), ma soprattutto dimentica che la “libertà” dei lavoratori presuppone la piena occupazione: come scrisse Joan Robinson (una grande economista che fu discepola diretta di Keynes e non ebbe mai il Nobel per l’economia: et pour cause), “la prima funzione della disoccupazione […] è quella di mantenere l’autorità del padrone sul lavoratore comune. Il padrone è normalmente in posizione di dire: ‘Se non vuoi il lavoro, ci sono molti altri che lo vogliono’. Quando il lavoratore dice ‘Se non mi vuoi, ci sono molti altri che mi vogliono’, la situazione è radicalmente mutata.” Che è come dire che solo allora, cioè in condizioni di piena occupazione, i lavoratori possono efficacemente perseguire l’obiettivo della loro libertà.
Nemmeno può più sostenersi che l’abbassamento delle tutele del lavoro potrebbe comunque servire a conseguire la piena occupazione, come vent’anni fa affermavano non solo il mainstream neoclassico ma anche le maggiori istituzioni economiche internazionali, come il Fmi, l’Ocse e la Banca mondiale: una dopo l’altra, tutte, alla prova dei fatti, hanno dovuto ammettere che nessuna diminuzione delle tutele del lavoro ha effetti statisticamente significativi sull’occupazione e sulle altre variabili macroeconomiche; e sempre più studi recenti (ma non di parte mainstream, naturalmente) hanno semmai evidenziato una significativa correlazione tra la diminuzione di quelle tutele e l’abbassamento dei salari: che è un altro dei problemi con cui le nostre società sono adesso chiamate drammaticamente a misurarsi.
Quando, in anni passati, mi son trovato, proprio qui a San Cerbone, ad argomentare queste e simili cose, Riccardo si arrabbiava: “Questi marxisti!”, diceva, sobbalzando sulla sedia. Salvo che questi sono i miei convincimenti personali; e non hanno mai avuto rilievo alcuno nella mia esperienza di giudice del lavoro.
Di più: non dovevano né potevano averne alcuno. Ho sempre pensato che avesse ragione Lodovico Mortara a sostenere che, quando si accosta al testo della legge, il giudice dovrebbe sempre dimenticare le sue opinioni personali e politiche; e non meno presente, nella mia esperienza, è stato un monito di Salvatore Satta, secondo cui il giudice che scegliesse di farsi legislatore si renderebbe responsabile di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Sono convincimenti che ho rafforzato nel corso degli anni (dei decenni, ormai) e che mi hanno indotto a distanziarmi sempre più dalle posizioni di certa magistratura sedicente “progressista”, a molti dei cui esponenti imputo precisamente un’idea dell’esercizio della giurisdizione che mi pare incompatibile con il comma 2° dell’art. 101 Cost.: prendere espressamente e sistematicamente le parti di qualcuno – si tratti del lavoratore, del migrante, del tossicodipendente o di chi altri si voglia – e piegare il testo della legge alla necessità di dargli ragione equivale a non essere più terzo rispetto alla vicenda processuale, dunque a non essere più un giudice; e pretendere di farlo in nome della Costituzione è perfino ridicolo, sol che si pensi che nella Costituzione c’è tutto e il suo contrario (con la sola eccezione del fascismo) ed è compito esclusivo del legislatore – salvo il controllo di legittimità costituzionale – bilanciare gli interessi che in ogni umana vicenda si contrappongono.
Per dirla con una battuta, l’idea che i giudici possano fare la rivoluzione mi pare non soltanto anticostituzionale, ma perfino antimarxista, se il marxismo può vantare ancora una qualche pretesa epistemica. La verità è che quando il conflitto di classe si riduce a controversia di lavoro, i lavoratori come classe hanno già perso; e il fatto che qualcuno di loro possa vincere semplicemente perché trova un giudice che prende sfacciatamente le sue parti dovrebbe ripugnare a chiunque abbia un’idea anche soltanto “borghese” dell’uguaglianza.
Si dirà che un’impostazione di questo genere, nella misura in cui pretende di contenere il soggettivismo giudiziale e di riaffermare la centralità del Parlamento nel circuito della produzione normativa, è affatto ideologica; e certo le si contrapporranno altre visioni, più sensibili alle antiche suggestioni dell’“uso alternativo del diritto”, secondo cui il giudice, lungi dall’acquietarsi al disposto della legge quale manifestazione della volontà politica del legislatore, dovrebbe piuttosto farsi interprete delle istanze di giustizia che emergono dalla realtà sociale, ricercando nei principi consegnati alla Costituzione e alle carte sovranazionali dei diritti il modo per soddisfarle anche a prescindere dalla diversa (o avversa) volontà del legislatore.
Ma qui bisogna intendersi. È indubbio che, su un piano astratto, la centralità del Parlamento o la centralità del giudice possono essere considerate opzioni ideologiche equivalenti. Ma se dall’astratto teorizzare scendiamo al concreto del dato normativo, subito ci accorgiamo che i nostri costituenti hanno operato al riguardo una scelta precisa: lo testimoniano gli artt. 70 ss. e 101, comma 2°, Cost., che, insieme all’art. 49 disegnano un sistema in cui alla politica legislativa di matrice parlamentare è riservata la posizione dominante, mentre a quella giurisdizionale una solo servente. Non ci può essere perciò contraddizione maggiore nell’invocare i principi costituzionali per sostituire al bilanciamento operato dal legislatore quello voluto dal giudice: posto che in tale bilanciamento si esprime la discrezionalità politica del legislatore (sulla quale nemmeno la Corte costituzionale dovrebbe intromettersi: art. 28, l. n. 87/1953), bisognerebbe semmai riconoscere non soltanto che la legge altro non è che “politica giuridicizzata”, ma soprattutto che la soggezione del giudice alla legge, di cui all’art. 101 comma 2° Cost., si esprime anche come soggezione a quella politica e all’ideologia che per suo tramite si manifesta: nient’altro che questo dice l’art. 12 prel. c.c. quando impone al giudice di interpretare la legge secondo l’“intenzione del legislatore”.
Insomma, se è vero che nessuna ideologia può parlare per leggi fintanto che resta minoritaria, non è meno vero che il giudice non può prestare ascolto ad una ideologia minoritaria senza con ciò stesso violare gli artt. 101 Cost. e 12 prel. c.c.; e se pure una sentenza oltre la legge di un giudice “progressista” può apparire come un passo in avanti verso l’uguaglianza sociale, costituisce al tempo stesso – lo notò opportunamente Uberto Scarpelli molti anni addietro – un passo indietro rispetto all’eguaglianza politica: “alle decisioni politiche prese dall’organo della rappresentanza politica, il Parlamento, tutti concorriamo, sia pure in maniera minima, indiretta ed esposta ad ogni sorta di pressioni e compressioni; il giudice che si svincoli dalla legge è invece per me, cittadino, il portatore di un potere autocratico, al quale io resto estraneo, un piccolo despota, benché certo, nel caso del giudice progressista, un despota illuminato.” Fermo restando che non bisogna essere storici di professione per sapere che gli attacchi più feroci al positivismo giuridico vennero portati nella Germania nazionalsocialista, dove il presidente del Volksgerichsthof amava ripetere che “le leggi sono da interpretare e da applicare sul fondamento della presupposizione della giustizia materiale e dell’ingiustizia materiale”, e che l’impiego di argomentazioni naturalistiche e/o moralistiche è da sempre appartenuto all’arsenale di quei giuristi conservatori che, di fronte alla minaccia rappresentata da legislatori progressisti, intendevano apprestare ostacoli e difese onde mantenere lo status quo.
Ecco perché, tornando in conclusione alla mia esperienza, una volta riconosciuti gli intenti “liberalizzatori” perseguiti dalla legislazione del lavoro nell’ultimo trentennio e, in specie, il ruolo residuale che, nel nuovo sistema normativo, avrebbe dovuto assumere la reintegrazione nel posto di lavoro rispetto all’indennizzo economico, di quelle leggi e dell’intenzione che le animava ho fatto nel mio lavoro scrupolosa applicazione, ad onta del mio personale e silenzioso dissenso. Che poi questo fatto mi abbia guadagnato presso molti colleghi, avvocati e professori universitari la nomea di giudice “di destra” è destino tanto singolare quanto inevitabile, del quale non posso che prendere atto. “Di destra sono quelle leggi”, mi verrebbe fatto di obiettare, ma Riccardo si arrabbierebbe e sobbalzerebbe ancora una volta sulla sedia: “Questi marxisti!”.
[1] Testo rivisto dell’intervento tenuto alla tavola rotonda “Ideologie e tecniche nell’interpretazione del diritto del lavoro”, in occasione delle Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi “Lavoro Persona Mercato. Sulla strada tracciata da Riccardo Del Punta” (Lucca, Convento di San Cerbone, 23-24 settembre 2023).
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. La vicenda contenziosa - 2. La decisione – 3. Conclusioni.
1. La vicenda contenziosa
La statuizione del Consiglio di Stato origina da una controversia di natura monitoria, in quanto la società appellata agiva per l’esecuzione del giudicato derivante da un decreto ingiuntivo del Tribunale di Cagliari al fine di ottenere il pagamento di una somma nei confronti di un’azienda sanitaria sarda.
Quanto deciso dal G.O. veniva portato all’attenzione del Tar sardo che, con la sentenza n. 124 del 14 novembre 2018, accoglieva il ricorso, dichiarando l’obbligo della P.A. di provvedere all’esecuzione del giudicato e, per il caso di persistente inadempimento, nominava commissario ad acta[1] il Direttore Generale dell’Assessorato alla Sanità della Regione Sardegna, con facoltà di delega.
Ricevuta la nomina dal Tar, il funzionario pubblico acquisiva la prova dell’avvenuto pagamento di tutte le fatture integranti la sorte capitale del decreto ingiuntivo azionato e ne dava atto con una doppia nota a sua firma.
In sostanza il commissario ad acta, organo straordinario del giudice d’ottemperanza, espletava la sua funzione al fine di assicurare una piena tutela della P.A. oggetto di potere sostitutivo[2].
L’appellata notificava reclamo, affinché il Tribunale disponesse l’integrale esecuzione del decreto ingiuntivo; di contro il commissario ad acta, aveva dichiarato che nulla era più dovuto dall’azienda sanitaria cosicché l’appellata proponeva reclamo, con ricorso ex art. 114 avverso i predetti atti del commissario.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna con la sentenza n. 770 del 30 settembre 2019, accoglieva il ricorso, ritenendo - in conformità alla tesi della ricorrente - irrilevante il pagamento disposto dalla P.A. prima del decreto ingiuntivo.
L’azienda sanitaria soccombente proponeva appello, per ottenere la riforma della sentenza impugnata e il conseguente rigetto integrale del ricorso originario. In particolare, l’appellante articolava i motivi di ricorso in appello nei seguenti termini:
- l’erroneità della sentenza n. 770 del 30 settembre 2019 gravata, in quanto contrastante con il giudicato costituito dal decreto ingiuntivo n. 1443/2017 del Tribunale di Cagliari, la cui esecuzione era oggetto del giudizio di ottemperanza;
- il giudicato non può che essere eseguito attraverso l’esecuzione dei pagamenti in esso previsti, consistente nel pagamento delle fatture poste a base del provvedimento monitorio, ed eseguite dall’Azienda appellante.
2. La decisione
Il giudice di secondo grado, prima di entrare nel merito della questione, svolgeva delle considerazioni di natura preliminare relative alla qualificazione dell’avvenuto incasso, nello specifico si soffermava sull’istituto dell’adempimento parziale dell’obbligazione, ex art. 1176 c.c., ed escludeva l’applicazione di questi al caso de quo in quanto la somma già corrisposta dalla P.A. in alcun modo poteva essere considerata di natura creditoria, sia a titolo di eccezione di compensazione che di altro; tale qualificazione trovava giustificazione in quanto il pagamento del debito risulta rilevante sul piano oggettivo, ed estingue l’obbligazione, anche se effettuato anteriormente alla sentenza che dispone la condanna al pagamento della somma[3].
Inoltre precisava che il requisito oggettivo dell’adempimento è la conformità della prestazione eseguita in relazione alla determinazione della prestazione dovuta che, nella specie, trattandosi di somma di denaro non poteva che consistere nell’esatta corrispondenza della somma versata a quella indicata nel decreto ingiuntivo di cui è stata chiesta l’esecuzione.
Orbene è indubbio che nella sentenza in commento, il giudice amministrativo veniva chiamato ad esercitare una giurisdizione estesa al merito[4], con la conseguenza che l’indagine doveva essere estesa alla propedeutica verifica dell’inadempimento da parte della P.A; invero, non si tratta di sollevare eccezioni che avrebbero dovuto essere illustrate in sede di opposizione al provvedimento monitorio[5], bensì di rimarcare l’insussistenza dell’inadempimento, che costituisce il presupposto indefettibile della stessa ammissibilità del giudizio di ottemperanza, sicché il giudice è stato chiamato a valutare se e quali effetti abbia prodotto sul decreto ingiuntivo non opposto in ragione del successivo contratto transattivo intervenuto tra le parti, trattandosi di una questione preliminare di merito che il giudice è tenuto a risolvere per valutare se sussiste il diritto di agire in via esecutiva al fine di verificare se il diritto incorporato nel decreto ingiuntivo portato in esecuzione era realmente esistente oppure sia venuto meno per il pagamento già eseguito dal debitore, in epoca anteriore al decreto ingiuntivo.
Non a caso, l’avvenuto adempimento della intera somma rileva ipso iure, con la conseguenza che il debitore che ha pagato il suo debito, eseguendo la prestazione dovuta, resterà liberato dal debito non essendo mai giustificata dall’ordinamento una indebita locupletazione sotto qualsiasi forma[6].
Il rimedio generale dell’exceptio doli risponderebbe ad un principio di solidarietà che impone a ciascun contraente di esercitare i propri diritti selezionando, fra più modalità possibili, quella meno incisiva della sfera giuridica altrui, assecondando i canoni portanti del nostro ordinamento di correttezza e buona fede, che impongono al titolare del diritto di astenersi dal porre in essere condotte che, seppur formalmente lecite, si traducono in una lesione del diritto della controparte.
Il giudice si è soffermato a sottolineare come nel rapporto tra il privato e l’amministrazione vi sia l’obbligo dirispettare le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza.
Il Collegio si è dunque persuaso del principio per il quale - qualora il creditore abbia ottenuto una sentenza di condanna e in sede di esecuzione e chieda l’esecuzione, senza tenere conto dell’adempimento già effettuato in precedenza – si sia in presenza di un suo comportamento non corretto, che abilita il debitore a chiedere al giudice di esecuzione – sostanzialmente con una exceptio doli - di rilevare il precedente pagamento: una tale difesa, del resto, configura una eccezione in senso lato, dal momento che l’avvenuto pagamento, finanche parziale, può essere rilevato anche d’ufficio, quando emerga dagli atti[7].
L’aver agito in sede giurisdizionale per ottenere dall’amministrazione la totalità della somma dovuta, nonostante la stessa sia stata in precedenza incassata, connota la condotta dei privati per mala fede e scorrettezza e, dunque, il collegio ha ritenuto di accogliere integralmente l’appello condannando l’appellata alle doppie spese di giudizio.
3. Conclusioni
L’attuazione del giudicato ed il delicato rapporto intercorrente tra questo e l’esecuzione dello stesso dinanzi al giudice dell’ottemperanza[8] costituisce, da tempo, occasione di riflessione in ordine alla sua natura e alle divergenze che possono scaturire allorché si tratti di dare compiuta attuazione alle sentenze del giudice civile[9].
In una prospettiva costituzionale, il giudizio di ottemperanza non deve necessariamente modellarsi ed essere inquadrato sul processo esecutivo ordinario, attese le peculiarità funzionali del giudizio amministrativo, che può essere esteso al merito e dotato di potenzialità sostitutive e intromissive nell'azione amministrativa, non comparabili con i poteri del giudice dell'esecuzione nel processo civile.
Pertanto, nel nostro ordinamento, non esiste un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole processuali tra i diversi tipi di processo (civile e amministrativo), potendo i rispettivi ordinamenti processuali differenziarsi sulla base di una scelta razionale del legislatore, derivante dal tipo di configurazione del processo e dalle situazioni sostanziali dedotte in giudizio.
In sostanza, il legislatore ha delineato due modelli fortemente diversificati: se da un lato il giudizio d’ottemperanza rappresenta il punto di caduta più avanzato del confronto fra il principio di effettività della tutela e il principio di separazione fra i poteri, dall’altro il giudizio esecutivo richiama in causa, oltre al principio di effettività della tutela, i diritti fondamentali della proprietà sui beni (e i crediti).
Il bilanciamento di tali principi è funzionale all’effettività della tutela giurisdizionale, garanzia riconosciuta dall’art. 24 Cost., che permette di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, tutela che ovviamente comprende anche la fase dell’esecuzione forzata[10].
È indubbio che la tutela in sede esecutiva sia componente essenziale del diritto di accesso al giudice: l’azione esecutiva rappresenta uno strumento indispensabile per l’effettività della tutela giurisdizionale poiché risulta essere l’unico mezzo capace di soddisfare le pretese creditorie in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore.
Tuttavia, la fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, proprio in quanto componente intrinseca ed essenziale della funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria, in ragione del fatto che “il principio di effettività della tutela giurisdizionale […] rappresenta un connotato rilevante di ogni modello processuale”[11].
Certamente uno dei casi che viene sottoposto in maniera regolare dinanzi al G.A., riguarda l’attuazione del giudicato contenente l’adempimento dell’obbligazione relativo al pagamento di una somma di danaro, derivante per lo più da provvedimenti di natura monitoria che, nel caso di specie, presenta la peculiare caratteristica di essere stata adempiuta, ratione temporis, dalla P.A. prima del decreto ingiuntivo.
La sentenza in commento è connotata dal particolare aspetto in ordine ai profili cognitori – di regola rimessi al G.O. – che nel caso di specie vengono esercitati dal G.A. il quale, per l’appunto, estende la propria valutazione non solo all’ottemperanza pura e semplice, ma interviene ed estende il suo potere decisorio a delle valutazioni prodromiche utili a verificare se il diritto portato in sede di ottemperanza sia ancora esistente o meno.
La decisione, dunque, ricalca i precedenti giurisprudenziali del Consiglio di Stato che sul punto sono abbastanza fermi nel mantenere inalterato l’orientamento assunto[12].
In virtù della natura del giudizio di ottemperanza, il giudice amministrativo esercita una giurisdizione estesa al merito[13], ove si afferma che rientra nel perimetro della cognizione del giudice dell’ottemperanza valutare se e quali effetti abbia prodotto sul decreto ingiuntivo il successivo contratto transattivo intervenuto tra le parti.
Il dato temporale dell’adempimento dell’obbligazione di pagamento, seppur consente in un primo momento di azionare il processo monitorio non è sufficiente a condannare l’obbligato anche in sede amministrativa, poiché si realizzerebbe di fatto una ripetizione di pagamento.
Non a caso, ove il giudice dell’ottemperanza venga chiamato a risolvere tali questioni questi deve svolgere delle valutazioni preliminari utili a stabilire se sussiste il diritto di agire in via esecutiva, al fine di verificare se il diritto incorporato nel decreto ingiuntivo portato in esecuzione sia attualmente esistente o sia venuto meno per volontà delle parti.
Del resto, l’adempimento parziale rileva ipso iure, con la conseguenza che il debitore che ha pagato in parte il suo debito – se è condannato a pagare il credito per l’intero – resterà obbligato solo per la differenza, non essendo mai consentita dall’ordinamento una indebita locupletazione sotto qualsiasi forma[14].
Deve, dunque, essere dato il giusto risalto ai relativi doveri e comportamenti gravanti reciprocamente su amministrazione e privato.
Sebbene dalla giurisprudenza sia costantemente ricordato, forse in maniera risonante, in riferimento alla condotta tenuta dall’amministrazione, che ai sensi dell’art. 97 Cost. deve agire con imparzialità e in ossequio al principio del buon andamento, anche al fine di ritenere sussistenti forme di responsabilità della stessa[15], tale attenzione grava e deve essere richiesta in maniera parimenti pregnante alla parte privata[16], onerata ad agire secondo le clausole generali di correttezza e buona fede, i cui principali riferimenti normativi si trovano negli articoli 1175 e 1375 del codice civile ai quali, com’è noto, devono essere improntati i rapporti fra i consociati tenuti, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, al rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà[17].
A tale scopo e a maggior tutela dei privati, sprovvisti delle competenze necessarie a svolgere valutazioni di tipo tecnico, è certamente invocabile una maggiore cautela da parte dei legali che dovrebbero far desistere la parte assistita ad intraprendere azioni infruttuose in virtù della responsabilità professionale che caratterizza la prestazione d’opera intellettuale, di cui all’art. 2229 c.c., instaurata col proprio cliente.
[1] La dottrina sul commissario ad acta e sul giudizio di ottemperanza è molto vasta, a titolo non esaustivo ma significativo si rinvia ai contributi di: D. Vaiano, Il commissario ad acta nel sistema dei giudizi di ottemperanza, Roma, 1996; G. Orsoni, Il commissario ad acta, Padova, 2001; A. Cioffi, Sul regime degli atti del commissario ad acta nominato dal giudice dell’ottemperanza, in I Tribunali Amministrativi Regionali, 2001, 1, II, p. 1 ss.; V. Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Enc. giur., Agg., Vol. VI, Milano, 2002, p. 284 ss.; S. D’Antonio, Il commissario ad acta nel processo amministrativo: qualificazione dell’organo e regime processuale, Napoli, 2012; S. Pignataro, Il commissario ad acta nel quadro del processo amministrativo, Bari, 2019.
[2] Sulle funzioni del commissario ad acta si è espressa l’Ad. plen. 25 maggio 2021 n. 8.
[3] Cons di Stato Sez. IV, n. 3058 del 2021; Cass. civ., sez. I, n. 9912 del 2007.
[4] Cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12 aprile 2017, n. 1704; sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638; cfr. in particolare, Cons. Stato, sez. V, 4 luglio 2018, n. 4093.
[5] Secondo il pacifico e costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, non è possibile dedurre in sede di opposizione all’esecuzione promossa in base a titolo di formazione giudiziale fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto azionato anteriori alla formazione del titolo stesso (cfr., fra le tante: Cass. civ., VI, ordinanza 14 febbraio 2020, n. 3716).
[6] Sul diritto ad ottenere la restituzione dell’indebito in caso di doppio pagamento, Cass. civ., Sez. III, 15 febbraio 2019, n. 4528.
[7] Sul principio dell’exceptio doli il Cons. di Stato, sez. V, 22 marzo 2023, nel caso di specie, tratta di una fattispecie in cui si chiede di effettuare al giudice dell’ottemperanza un giudizio di cognizione di merito, non ammesso in quanto il giudicato copre il dedotto ed il deducibile.
[8] Il giudizio di ottemperanza nasceva in stretta correlazione con l’attribuzione al giudice ordinario del potere della disapplicazione. Tale giudizio è, quindi, figlio dell’esigenza di garantire una più incisiva tutela rispetto al provvedimento illegittimo, ma nel rispetto del principio della separazione dei poteri.
L’obbligo di conformarsi al giudicato civile è stato, in origine, concepito come obbligo dell’Amministrazione di annullare l’atto amministrativo disapplicato, annullamento precluso al giudice ordinario in virtù del principio di separazione dei poteri. Nel corso del tempo, dopo che la giurisprudenza ha esteso il rimedio anche alle sentenze del giudice amministrativo, regola oggi contenuta nell’art. 112 c.p.a., il giudizio di ottemperanza ha visto accentuarsi la funzione, strettamente connessa al riconoscimento della giurisdizione di merito, di sostituzione dell’Amministrazione (inottemperante) al fine di assicurare l’adempimento della pronuncia giurisdizionale, pur nella consapevolezza che detta sostituzione non avviene nell’esercizio del potere di cura dell’interesse pubblico attribuito dalla legge, ma solo con riferimento al decisum ottemperando (trovando titolo nella sentenza medesima).
[9] Una precisa ricostruzione in termini unitari dell’istituto dell’ottemperanza, sia con riferimento al giudicato civile sia a quello amministrativo, cfr.: F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, 3/2018, 171-215, Id., Giudicato e ottemperanza, in F. Francario, Garanzia degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, sez. II, Napoli, 2019; F. Taormina, L’ottemperanza al giudicato. La giustizia nell’amministrazione, in Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., Atti dei seminari tenuti presso il Consiglio di Stato (30 novembre 2017) e il Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli (6 febbraio 2018), B. Capponi - A. Storto (a cura di), Napoli, 2018, 163-258; A. Storto, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, 139 e ss.; A. Police, Giudicato amministrativo e sentenze di Corti sovranazionali. Il rimedio della revocazione in un’analisi costi benefici, 181 e ss; G. Montedoro, Esecuzione delle sentenze CEDU e cosa giudicata nelle giurisdizioni nazionali, 199 e ss.
[10] Corte cost. 22 giugno 2021 n. 128.
[11] Corte cost. 5 dicembre 2018 n. 225.
[12] Nella risoluzione di una vicenda abbastanza analoga il Cons. Stato sez. IV, n. 3058 del 2021 è addivenuto alle stesse conclusioni richiamando i medesimi principi.
[13] Cons. Stato, sez. IV, 12 aprile 2017, n. 1704; sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638; cfr. in particolare, Cons. Stato, sez. V, 4 luglio 2018, n. 4093.
[14] Ex plurimis, sul diritto ad ottenere la restituzione dell’indebito in caso di doppio pagamento, Cass. civ., Sez. III, 15 febbraio 2019, n. 4528.
[15] In generale, Cons. Stato, sez. V, 10 agosto 2018, n. 4912; sez. III, 16 maggio 2018, n. 2920; con specifico riferimento alla responsabilità precontrattuale, Cons. Stato, sez. II, 20 novembre 2020, n. 7237; sez. V, 2 maggio 2017, n. 1979; sez. IV, 23 agosto 2016, n. 3671; Ad. Pl., n. 5 del 2018.
[17] Cfr., Cons. Stato, sez. II, 4 giugno 2020, n. 3537.
di Maria Laura Maddalena
Sommario: 1. Premessa. 1.1. Perché un esame di diritto comparato della materia espropriativa. 1.2. Come è nata l’idea di questa ricerca. 1.3. Panoramica degli elementi comuni e differenziali riscontrati tra i vari Paesi esaminati. 2.1. La disciplina dell’espropriazione in Francia: il procedimento di espropriazione. 2.2. Il controllo del giudice amministrativo sulla dichiarazione di pubblica utilità. 2.3. Il riparto di giurisdizione tra “voi de fait” e “emprise irrégulière”. 2.4. Il superamento del principio di intangibilità dell’opera pubblica e i limiti alla restituzione del bene illegittimamente espropriato. 3.1. L’espropriazione in Spagna: la procedura di esproprio. 3.2. Conseguenze del ritardo nella procedura di esproprio. 3.3. La tutela giudiziaria e il caso di “via de echo”. 4. L’espropriazione per pubblica utilità nel diritto inglese (“Compulsory purchase of land”). 5. L’espropriazione per pubblica utilità in Germania. 6. Conclusioni.
1. Premessa
1.1. Perché un esame di diritto comparato della materia espropriativa.
Un esame di diritto comparato in materia di espropriazione di pubblica utilità, nonostante si tratti di un tema poco studiato in Italia, è tuttavia, ad avviso di chi scrive, di particolare interesse per una molteplicità di ragioni.
In primo luogo, occorre considerare che tutti i Paesi europei sono chiamati a confrontarsi con l’art.1 del Protocollo n. 1 della Convenzione dei diritti dell’uomo e con la giurisprudenza della Corte EDU sul tema. È pertanto sicuramente utile comprendere quali risposte i vari ordinamenti europei abbiano dato su questi temi.
Inoltre, non va dimenticato che la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea all’art. 17 prevede che nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa.
La rilevanza di tale previsione, tuttavia, è piuttosto marginale, in concreto.
Infatti, l’art. 51 della Carta prevede che essa si applica agli Stati membri solo se ed in quanto essi agiscano “nell'attuazione del diritto dell'Unione” e l’espropriazione per pubblica utilità non è di per sé materia coperta dal diritto UE[2], ma disciplinata dal diritto interno degli Stati membri. Né, a mente del secondo comma dell’art. 51, la Carta introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’UE, modificando le competenze e i compiti definiti dai Trattati.
Pertanto, come ha affermato la Cassazione, “la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, alla luce della clausola di equivalenza sancita dall'art. 52, par. 3, non ha determinato una "trattatizzazione" indiretta e piena della Cedu, la quale è predicabile solo per le ipotesi nelle quali la fattispecie sia disciplinata dal diritto europeo e non già da norme nazionali prive di alcun legame con il diritto dell'Unione europea[3].
Nonostante ciò, è evidente che la presenza di una tale previsione in una fonte così qualificata del diritto dell’Unione non possa non svolgere un ruolo, quanto meno sotto il profilo dell’interpretazione, nella giurisprudenza degli Stati membri, anche quando si controverta di fattispecie regolate solo dal diritto interno, come nel caso della espropriazione finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche. Infatti, anche la giurisprudenza della Corte di giustizia UE, quando ha trattato della tutela della proprietà in ambito UE si è sempre ispirata ai Principi costituzionali degli Stati membri.
Infine, una terza ragione, che tuttavia caratterizza tutte le indagini di diritto comparato, si fonda sulla generale constatazione che lo studio delle discipline degli altri Paesi consente spesso all’interprete di meglio comprendere, tramite le differenze e similitudini riscontrate, il proprio ordinamento, come se lo si guardasse da fuori, liberandosi dai condizionamenti della propria tradizione giuridica, anche al fine di prospettare eventuali soluzioni alternative maggiormente efficaci alla prova dei fatti. Peraltro, talvolta – come vedremo – si scopre che gli altri ordinamenti hanno seguito lo stesso percorso argomentativo, pur nell’ambito di diversi riferimenti normativi.
1.2. Come è nata l’idea di questa ricerca.
In questo quadro, la presente ricerca ha preso le mosse da due semplici domande: 1) la CEDU ha riscontrato anche in altri Stati europei, come avvenuto in Italia, casi di violazione dell’art. 1 del protocollo n. 1 per la realizzazione di espropriazioni indirette o di fatto? 2) come si comportano gli altri ordinamenti nel caso in cui vuoi per l’annullamento o per la sopravvenuta inefficacia di un atto della procedura, l’esproprio finisca per essere privato della sua base legale? Viene disposta in questi casi la restituzione del bene al privato o si cercano soluzioni alternative al fine comunque di preservare l’interesse pubblico sotteso al mantenimento in mano pubblica dell’opera ancorché illegittimamente realizzata? In relazione al primo quesito, una semplice disamina delle pronunce CEDU mostra che, a parte alcune risalenti pronunce riguardanti la Grecia (sent. del 24.6.1993, Papamichalopulos e altri c. Grecia) e alcuni casi recenti riguardanti la Turchia (Sarica et Dlaver c. Turchia, 27.10.2010), Romania (caso Vergiu c. Romania, 11.1.2011) il Portogallo (Rolim Comericial s.a. c. Portugal, X sez. 16.4.2013, riguardante appunto un caso di espropriazione di fatto in cui la corte suprema portoghese non aveva ritenuto di poter disporre la restituzione del bene nello stato iniziale poiché la privazione della proprietà perseguiva comunque un obiettivo sociale) in cui la Corte ha ravvisato la violazione del principio di legalità di cui all’art. 1 del protocollo n.1, i casi concernenti l’Italia, se si guarda al recente passato, appaiono sicuramente i più numerosi. Per meglio comprendere le ragioni di questo fenomeno, si è ritenuto di confrontare le procedure di esproprio nei vari Paesi europei, circoscrivendo però questa indagine a Francia, Spagna, Regno Unito e Germania).
Per cercare di dare una risposta al secondo quesito, la ricerca si è concentrata in particolare l’attenzione sui casi in cui, nei Paesi esaminati, si riscontra l’assenza o il venir meno della “base legale” per procedere ad una legittima espropriazione. Si tratta delle ipotesi della c.d. espropriazione indiretta, dove l’amministrazione agisce in via di fatto (voi de fait o via del echo) ovvero ultra vires. Si esamineranno quindi le soluzioni adottate dai vari Paesi europei esaminati in tale ipotesi.
La ricerca è stata effettuata in primo luogo sui testi normativi e giurisprudenziali, in alcuni casi tradotti, e su alcuni studi di diritto di autori stranieri, elencati nella bibliografia.
1.3. Panoramica degli elementi comuni e differenziali riscontrati tra i vari Paesi esaminati.
Si può fin d’ora anticipare che in quasi tutti i Paesi si rinvengono alcuni aspetti simili e altri invece profondamente diversi rispetto alla nostra disciplina dell’espropriazione, che probabilmente possono essere utili al fine di spiegare il minor contenzioso per violazione dell’art. 1 del protocollo 1 della Convenzione rispetto alla situazione italiana:
1) in molti casi, il procedimento si articola in una struttura bifasica: una prima parte relativa alla dichiarazione di pubblico interesse per la realizzazione dell’opera pubblica e una seconda fase concernente il trasferimento della proprietà e la corresponsione dell’indennizzo. Inoltre spesso (ad esempio in Germania e in Spagna) vi è un esplicito raccordo normativo, ben presente anche nel nostro TU dell’espropriazione, con la previa pianificazione urbanistica.
Va invece rilevato che non ho rinvenuto nella mia ricerca profili relativi al tema dei vincoli preordinati all’esproprio e alla loro indennizzabilità.
2) Un aspetto di profonda differenza che si riscontra è che spesso si ha il coinvolgimento dell’autorità giudiziaria già nella fase del trasferimento della proprietà per la determinazione dell’indennizzo e addirittura in alcuni casi per l’adozione del provvedimento di esproprio (come avviene in Francia e in UK) e non solo in funzione di controllo successivo dell’attività amministrativa già esercitata, il che garantisce la corresponsione del pieno ristoro del proprietario espropriato.
3) L’indennizzo è generalmente calcolato in tutti i Paesi esaminati in base al valore di mercato del bene, principio che sicuramente stempera molto l’interesse sotteso alla declaratoria della illegalità dell’esproprio, che invece nel nostro ordinamento, fino a poco tempo fa, costituiva l’unico modo per ottenere un risarcimento pieno.
4) Addirittura in Germania, il valore dell’indennità di esproprio viene maggiorata rispetto al valore di mercato del bene per compensare la circostanza che il trasferimento del bene è avvenuto con una procedura espropriativa. Inoltre, in Francia e in Spagna è prevista la corresponsione di un ristoro monetario aggiuntivo nel caso in cui si siano verificate espropriazioni prive di base legale.
5) Spesso si registra il coinvolgimento degli interessati nella fase preventiva della procedura espropriativa, mediante strumenti di inchiesta pubblica o dibattito pubblico (Francia, Gran Bretagna, Germania), spesso con un contraddittorio non meramente scritto, come avviene in Italia, ma anche in forma di incontro pubblico, il che probabilmente facilita la risoluzione anticipata di possibili controversie.
6) Si prevede come regola il pagamento dell’indennizzo debba avvenire prima che l’amministrazione entri in possesso del bene, anche se poi ad esempio in Spagna e Francia, come in Italia ed anche in Germania, è possibile per l’amministrazione entrare in possesso del bene in via d’urgenza, salvo deposito di quanto offerto in pagamento.
7) È frequente il ricorso a commissione di tecnici ed esperti per determinare il valore del bene da espropriare (in Spagna, Regno Unito e Germania);
8) sono efficacemente favorite (soprattutto in Germania e nel Regno Unito) forme di negoziazione con i proprietari da espropriare per giungere ad un negozio traslativo della proprietà del bene, con conseguente deflazione del contenzioso.
9) Un aspetto comune al nostro ordinamento e che caratterizza, dal punto di vista processuale, quasi tutti i Paesi esaminati ( con l’eccezione della Spagna) è che il sindacato sugli atti della procedura espropriativa appartiene al giudice amministrativo ove esistente (o al giudice specializzato per la pubblica amministrazione come in Inghilterra e Galles come l’Hight Court), mentre le questioni sulla determinazione dell’indennizzo sono di spettanza del giudice ordinario (Lands Tribunals in UK e giudice ordinario in Francia e Germania).
10) Altro aspetto comune quanto meno all’ordinamento francese e inglese (oltre che italiano) sempre dal punto di vista processuale è che laddove si rinvenga l’esercizio da parte della amministrazione di una attività materiale di impossessamento del bene privato, che non risulti collegata in alcun modo con l’esercizio del potere (voi de fait, ultra vires, ecc.) il giudice ritenuto competente è quello ordinario. Viceversa in tutti i casi in cui sussista un collegamento con l’esercizio del potere (anche solo con riferimento all’intervenuto annullamento di atti della procedura espropriativa) il giudice resta quello amministrativo.
Cercherò dunque di illustrare per ciascuno di questi Paesi i tratti salienti della procedura di espropriazione, mettendo in risalto, ove possibile, le più rilevanti pronunce delle CEDU intervenute in materia nei confronti dei vari Paesi.
2.1. La disciplina dell’espropriazione in Francia: il procedimento di espropriazione. L’espropriazione per causa di pubblica utilità in Francia è disciplinata dal “Code de l’expropriation pour cause de utitlité publique”, composto, come il nostro testo unico sull’espropriazione, da una prima parte composta da norme di rango legislativo e da una seconda parte da norme regolamentari, che si occupano dei profili di dettaglio. Tali norme regolamentari però nell’ordinamento francese sono emanate dal Conseil d’Etat.
Il principio previsto dal codice civile francese (articolo 545), che risale alla dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, è che: "nul ne peut être contraint de céder sa propriété, si ce n’est pour cause d’utilité publique et moyennant une juste et préalable indemnité". “Nessuno può essere costretto a cedere la sua proprietà se non per una causa di utilità pubblica e per mezzo di una giusta e preventiva indennità.”
Va subito detto che le condanne nei confronti della Francia per mancato rispetto della Convenzione EDU sono poche[4] e non risulta che la Francia sia stata invitata a modificare la disciplina della espropriazione per conformarsi ai principi del diritto europeo o convenzionale.
La procedura espropriativa, sin dal 1810, è distinta in due fasi: una amministrativa, durante la quale viene dichiarata la pubblica utilità dell'opera e la trasferibilità dei beni, l'altra giudiziale che dà luogo, in assenza di accordo bonario, al trasferimento della proprietà e all’indennizzo dei proprietari. Il modello napoleonico bifasico, pure con varie modifiche, si è mantenuto attraverso i secoli.
Il Code de l’expropriation prevede, come primo atto della procedura, la dichiarazione di pubblica utilità, che deve essere adottata all’esito di una previa “enquête publique”, vale a dire di una inchiesta pubblica, effettuata da un commissario o da una commissione di inchiesta, nella quale si perviene, nel contraddittorio con i proprietari, alla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
Vi sono due tipologie di inchiesta pubblica, quella di diritto comune, relativa alla realizzazione di opere non suscettibili di incidere sull’ambiente, della durata di minimo 15 giorni, e quella finalizzata alla realizzazione di opere che per la loro natura, localizzazione o dimensione sono suscettibili di avere un impatto negativo sull’ambiente o sulla salute umana, della durata di almeno un mese. In questo secondo caso, il progetto dell’opera deve essere accompagnato da uno studio di impatto ambientale.
I risultati dell’inchiesta pubblica sono comunicati a tutti i soggetti interessati.
La dichiarazione di pubblica utilità, adottata all’esito dell’”enquête publique”, deve contenere e motivi e le giustificazioni che del carattere di utilità pubblica dell’opera e può essere impugnata dinanzi al giudice amministrativo nel termine di due mesi dalla sua pubblicazione.
Essa deve pervenire entro un anno dalla chiusura dell’inchiesta pubblica.
La validità della dichiarazione di pubblica utilità non può eccedere i 5 anni oltre i quali (in mancanza di proroga, se il trasferimento non ha avuto luogo si deve procedere con una nuova dichiarazione di pubblica utilità.
Il provvedimento è adottato di norma dal Prefetto o dal Ministro, tuttavia va sottolineato che un decreto del Conseil d’Etat individua le categorie di lavori e di opere che devono essere dichiarate di interesse pubblico dallo stesso Conseil d’Etat. (si tratta di autostrade, aeroporti, canali di navigazione, creazione o prolungamento di linee ferroviarie nazionali di lunghezza superiore a 20 km, centrali elettriche, ecc. ovvero di tutte le opere di maggiore rilevanza).
Accanto all’inchiesta pubblica vi è l’”enquête parcellaire” volta alla determinazione esatta delle particelle da espropriare.
Questa fase serve ai proprietari per sapere esattamente che essi rischiano di essere assoggettati alla procedura espropriativa e serve inoltre a raccogliere tutte le informazioni utili su eventuali inesattezze catastali al fine di identificare con certezza gli attuali proprietari.
L’inchiesta particellare si conclude con il decreto prefettoriale di espropriabilità, che può essere impugnato dinanzi al giudice amministrativo entro due mesi da ciascun proprietario.
La seconda fase della procedura concerne il trasferimento di proprietà, che può avvenire o su accordo delle parti o in via autoritativa, mediante un’ordinanza pronunciata non dall’amministrazione ma dal giudice dell’espropriazione, designato nell’ambito dei magistrati appartenenti al Tribunal de grande istance, il quale appartiene all’ordine giudiziario e non è un giudice amministrativo.
Un aspetto interessante è che l’ordinanza di espropriazione determina il trasferimento della proprietà ma, secondo quanto affermato dal Conseil constitutionnel sin dalla decisione del 25 luglio 1989 e recepito dal codice dell’espropriazione, l’immissione in possesso da parte dell’amministrazione è subordinata al fatto che l’indennizzo di esproprio sia stato pagato. [5]
In casi di urgenza (art. 15.9 del Code de l’espropriation), tuttavia, il giudice può fissare l’indennizzo o un ammontare provvisionale di esso e disporre immediatamente l’immissione in possesso, in cambio del pagamento dell’indennizzo[6].
L’ordinanza di trasferimento della proprietà, essendo un provvedimento di natura giurisdizionale, può essere impugnata solo per ricorso per Cassazione per i vizi di incompetenza, eccesso di potere e vizio di forma.
In assenza di accordo tra le parti, il giudice dell’espropriazione determina anche l’indennizzo dovuto. Questa determinazione può essere impugnata dinanzi alla Corte d’appello, la cui decisione è suscettibile ancora di ricorso per Cassazione.
L’indennizzo, come afferma costantemente il Conseil constitutionnel, deve coprire interamente il pregiudizio diretto, materiale e certo causato dall’espropriazione. Vanno inoltre risarcite le spese accessorie (spese per l’acquisto di un bene analogo, spese per lo spostamento dell’impresa in un altro sito, ecc.).
Il pregiudizio morale, invece, non è indennizzabile (così il Conseil costitutionnel, sent. del 21.1.2011). Su tale limitazione tuttavia si è espressa negativamente la Corte europea dei diritti dell’uomo. (CEDU, 11 aprile 2002, Ricc. 46044/99, prec.).
Per la determinazione del valore degli immobili il giudice può anche nominare un esperto. Dovrà essere preso in esame sia la consistenza del bene che l’uso effettivo al quale esso adibito. Per la determinazione del valore deve farsi riferimento alla data dell’ordinanza che trasferisce la proprietà.
Nella procedura di determinazione dell’indennizzo, è prevista l’audizione delle parti e del direttore dei servizi fiscali, che svolge le funzioni di Commissario del Governo dinanzi al giudice dell’espropriazione. Egli garantisce gli interessi economici dello Stato e degli enti pubblici e può fare appello.
Nel caso Yvon contro Francia, deciso dalla CEDU con sentenza del 24.04.2003, si è posta la questione di compatibilità di questa figura con l’art. 6 della Convenzione. La Corte ha ritenuto che la presenza del funzionario pubblico del procedimento giurisdizionale, dotato di particolari competenze e di informazioni maggiori, a fianco dell’amministrazione espropriante, costituisse una lesione del principio di parità delle parti, attribuendogli una posizione dominante, idonea ad influire sulla decisione del giudice, e ha quindi ravvisato una violazione dell’art. 6 della Convenzione[7].
L'articolo L. 13-17 del codice di espropriazione prevede che l'importo dell'indennità principale, fissato dal giudice dell'espropriazione, "non può superare la stima effettuata dal servizio dei beni o quella risultante dal parere emesso dalla commissione di operazioni immobiliari, se un trasferimento gratuito o a pagamento, meno di cinque anni prima della data della decisione sul trasferimento di proprietà, ha dato luogo a un accertamento amministrativo reso definitivo ai sensi della normativa tributaria o a una dichiarazione di importo inferiore a tale stima". L'obiettivo perseguito da tali disposizioni è quello di dissuadere i proprietari che hanno sottovalutato il loro patrimonio nell'ambito delle loro dichiarazioni fiscali o negli atti di trasferimento, a sopravvalutarli in un secondo momento nel caso in cui siano oggetto di una procedura di espropriazione. In una decisione del 20 aprile 2012, il Consiglio costituzionale ha ritenuto tali diposizioni conformi a Costituzione, in quanto il legislatore persegue il fine di evitare frodi fiscali. In ogni caso però il giudice dell’espropriazione dovrà tener conto dell’andamento del mercato, cosicché permane in capo ad esso un margine di apprezzamento discrezionale.
Solo dopo un mese dal pagamento dell’indennizzo o la consegna in deposito di detta somma, in caso di rifiuto di ricevere il pagamento, il giudice dispone l’immissione in possesso del bene. Entro un mese gli occupanti sono tenuti a lasciare libero l’immobile, altrimenti il giudice dell’espropriazione può disporre la loro espulsione. Se dopo 5 anni, gli immobili espropriati non sono stati adibiti allo scopo previsto o hanno cessato di essere usati per questi fini, i precedenti proprietari possono chiedere la retrocessione, nel termine di 30 anni.
I tratti salienti della procedura di esproprio in Francia sono dunque in primo luogo il coinvolgimento dell’autorità giudiziaria (il giudice dell’espropriazione) nella fase di determinazione dell’indennizzo e nell’adozione dell’ordinanza di trasferimento del bene, nonché per l’immissione in possesso.
Vi è dunque un presidio giudiziario a tutela del diritto di proprietà mentre secondo la nostra Costituzione l’intervento obbligatorio del giudice in via preventiva è solo previsto in caso di lesione delle libertà fondamentali.
Va tuttavia rilevato che il giudice in questa fase non pronuncia previo contraddittorio ma solo verificando la sussistenza della dichiarazione di pubblica utilità e dell’ordinanza di trasferibilità dei beni e di tutti i presupposti di legge.
Nella sua decisione del 12 maggio 2012, il Consiglio costituzionale ha tuttavia ritenuto che le disposizioni in esame non pregiudichino le esigenze di un giusto ed equo procedimento derivanti dall'articolo 16 della Dichiarazione del 1789, anche se la procedura di trasferimento della proprietà non è contraddittoria, il Consiglio ha rilevato che il giudice si limita esclusivamente a verificare che il fascicolo trasmessogli dall'autorità espropriatrice sia costituito secondo le prescrizioni del codice degli espropri. Esistono, inoltre, altri rimedi, contro la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di trasferibilità e contro lo stesso provvedimento di esproprio che possono essere impugnati mediante ricorso in Cassazione[8].
Altro profilo rilevante è che il pagamento dell’indennizzo deve sempre precedere l’immissione in possesso del bene da parte dell’amministrazione o l’acquisto della proprietà.
Infine, un aspetto di enorme interesse è il ruolo centrale svolto dal Conseil d’Etat nella fase di adozione della dichiarazione di pubblica per le opere di maggiore impatto e comunque il forte sindacato da parte del giudice amministrativo su tale atto, quando esso viene adottato dal Ministro o dal prefetto.
2.2. Il controllo del giudice amministrativo sulla dichiarazione di pubblica utilità (segue). Il giudice amministrativo francese esercita un controllo approfondito sulla legittimità della dichiarazione di pubblica utilità, in quanto deve verificare:
– che l’operazione risponda ad una finalità di interesse generale;
– che l’espropriazione costituisca l’unico modo per realizzare l’operazione, non essendoci altre possibilità alternative (clausola di sussidiarietà);
– che gli inconvenienti di ordine sociale, i costi economici e le lesioni della proprietà privata non siano eccessivi rispetto all’interesse generale che l’operazione soddisfa (bilanciamento) (arret Commune de Lavallois –Perret, CE19 ottobre 2012).
La teoria del bilanciamento degli interessi è stata elaborata dal CE nel 1971 (arret Ville Novel Est, 28 maggio 1971). Si tratta di un controllo sulla discrezionalità amministrativa avente un’incidenza massima, consentendo al giudice di sostituire il suo apprezzamento a quello dell’amministrazione. Nella pratica, tuttavia, quasi mai il giudice ritiene che gli inconvenienti per la proprietà privata siano eccessivi rispetto ai vantaggi pubblici, a parte i casi di sproporzione manifesta.
Si rinvengono invece casi in cui è stata ritenuta affetta da detournement de povuoir una dichiarazione di pubblica utilità la cui finalità principale sia stata unicamente di favorire l’interesse privato (ad es. facilitare l’accesso ad una proprietà privata, la creazione di un centro ippico privato, ecc.).
2.3. Il riparto di giurisdizione tra “voi de fait” e “emprise irrégulière”. Come si è visto, la procedura di esproprio vede il giudice amministrativo come giudice della dichiarazione di pubblica utilità mentre il giudice dell’espropriazione, che appartiene all’ordine giudiziario ordinario, è competente sulla determinazione dell’indennizzo e pronuncia l’ordinanza di trasferimento della proprietà. Il giudice ordinario ha tuttavia anche giurisdizione in caso di voie de fait (via di fatto) che viene definito come un attentato ad una libertà fondamentale o al diritto di proprietà quando l’atto o il comportamento dell’amministrazione sia manifestamente insuscettibile di essere ricollegato ad un suo potere. (Il verbo usato è “rattacher” che vuol dire letteralmente riattaccare.)
L’ipotesi più semplice è quella in cui l’amministrazione decida di impossessarsi di un terreno senza giustificazione di un titolo e senza utilizzare le vie legali dell’espropriazione (Cour de Cassation, 30 novembre 1994, arret San Ferréol –d’Aurore).
In realtà, tuttavia, le ipotesi in cui è stata riconosciuta una voi de fait ( e dunque la giurisdizione ordinaria) sono molto rare.
Infatti, la giurisprudenza della Cour de Cassation e del Coinseil d’Etat ha elaborato la figura della “emprise irrégulière”, la quale riguarda solo le lesioni della proprietà privata immobiliare e si rinviene nei casi in cui l’impossessamento di un terreno privato da parte di un’amministrazione pubblica sia avvenuto sì in modo irregolare, ma è tuttavia possibile rinvenire un collegamento con l’esercizio del potere.
In questi casi, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo.
La prima distinzione tra voi de fait e emprise irrégulière si trova in un arrêt della Cour de Cassation del 1996 (SCI Azul residence, 7 maggio 1996). Il caso riguardava la presa di possesso di un terreno espropriato in virtù di un’ordinanza di esproprio che poi era stata cassata. La Corte ha rilevato che sebbene in via di principio l’annullamento dell’ordinanza abbia effetto retroattivo e che, pertanto, l’apprensione del bene avrebbe dovuto essere considerato come voit de fait, tuttavia un’analisi più pragmatica deve indurre a considerare che al momento della presa di possesso del bene, l’impossessamento risultava in effetti autorizzato, il che ha come conseguenza che questa attività si ricollegava all’esercizio di un potere dell’amministrazione.
Di contro, la Cour de Cassation ha ritenuto che vi fosse voi de fait in un caso di costruzione di un canale sulla proprietà privata realizzata senza titolo, sulla base di reiterate autorizzazioni di occupazione temporanea, finalizzate solo a consentire il deposito dei materiali di scavo e a permettere la circolazione dei macchinari (Demaine immobilizer de la Muette, 5 maggio 2010).
Il Tribunal des conflicts, in una storica pronuncia del 6 maggio 2002 (arrêt Binet), ha affermato in particolare che la competenza del giudice ordinario per voi de fait si rinviene in assenza di alcun collegamento con l’esercizio del potere e quando nessuna procedura di regolarizzazione sia stata avviata. In tutti gli altri casi non si ha la voi de fait ma una “emprise irrégulière”.
Un’interpretazione ulteriormente restrittiva della voi de fait è stata prospettata sempre dal Tribunal des conflicts nella sentenza del 17 giugno 2013 (arrêt Bergoend), che ha stabilito che essa si può ravvisare solo quando oltre alla mancanza di collegamento con l’esercizio del potere e della procedura di regolarizzazione, vi è anche l’estinzione del diritto di proprietà. L’uso della parola estinzione è significativa e va a sostituire la precedente espressione più ampia di “privazione”.
Nel caso di specie, il Tribunale ha affermato che l’installazione, anche senza titolo, di un'opera pubblica sul suolo di un privato non costituisce un atto manifestamente insuscettibile di essere collegato a un potere che l'amministrazione ha.
Si trattava della realizzazione di un’opera pubblica di distribuzione di energia elettrica, che non è qualificabile come un atto manifestamente non ricollegabile ad un potere dell'ente incaricato del pubblico servizio e non comporta, inoltre, l'estinzione di un diritto di proprietà. In questi casi, dunque, è stato affermato che la giurisdizione spetta al giudice amministrativo.
Più di recente, nella sentenza del 15 dicembre 2016 , anche la Corte di Cassazione francese ha ribadito che va ricondotta alla voi de fait quella aggressione al diritto di proprietà che, oltre a non essere ricollegabille all’esercizio di un pubblico potere ne comporta l’estinzione.
Le parole della nostra Corte cost. nella sentenza n. 204/2004 e soprattutto nella sentenza n. 191/2006 sul collegamento all’esercizio del potere e sulla distinzione tra comportamenti meri e comportamenti amministrativi, ricollegabili sia pure mediatamente all’esercizio del potere, ai fini del riparto di giurisdizione, sembrano proprio riecheggiare un tale modo di ragionare, espresso quasi dieci anni prima dalla Cour de Cassation francese.
Nell’ordinamento francese, né a seguito di voi de fait nè in caso di emprise irreguliere vi è trasferimento del diritto di proprietà dal privato alla pubblica amministrazione.
Il problema tuttavia si pone quando l’opera pubblica risulti nel frattempo essere stata realizzata.
2.4. Il superamento del principio di intangibilità dell’opera pubblica e i limiti alla restituzione del bene illegittimamente espropriato.
La giurisprudenza francese ha dovuto affrontare una tematica identica a quella che in Italia ha condotto in passato alla elaborazione dell’istituto di cui all’art. 42 bis TU espropriazioni.
Dopo aver in un primo tempo elaborato anche in Francia la figura della espropriazione indiretta, la giurisprudenza francese è però poi giunta al superamento dell’originario principio della intangibilità dell’opera pubblica ma con opportuni temperamenti, in modo da tutelare comunque l’interesse pubblico. Le somiglianze con l’elaborazione giurisprudenziale e normativa italiana sono notevoli, soprattutto – come si vedrà tra breve – laddove la valutazione circa la restituzione dell’opera viene ricollegata alla esistenza di procedure di regolarizzazione o sanatoria ex post, ma quello che emerge è che l’approccio francese appare tutto sommato ispirato ad una logica di buon senso, che la CEDU non ha fino ad ora mostrato di censurare.
Vediamo più in dettaglio l’evoluzione della giurisprudenza francese sul punto. Occorre partire dall’art. 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, il quale protegge la proprietà come diritto sacro e inviolabile, del quale nessuno può essere privato se non quando la necessità pubblica, legalmente dichiarata, lo esiga in modo evidente e a condizione di una giusta e predeterminata indennità. Si tratta di una formulazione che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo ha sostanzialmente richiamato. Una espropriazione dunque non può essere legittima se l’opera per la quale essa è effettuata non presenta i caratteri della utilità pubblica. Il giudice della utilità pubblica, come si è già detto, è il giudice amministrativo, dinanzi al quale va impugnata la dichiarazione di pubblica utilità.
Cosa accade nel caso in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia annullata? La giurisprudenza risalente aveva elaborato in questi casi, in applicazione del principio della intangibilità dell’opera pubblica, inaugurato nel 1853 (Conseil d’Etat, caso Robin de Grimaoudière 7.6.1853), la teoria della expropriation indirecte, con effetti analoghi alla nostra acquisizione invertita. In sostanza, il giudice si rifiutava di disporre la demolizione dell’opera pubblica ancorché edificata su terreni privati non regolarmente indennizzati, ma fissava invece l’ammontare dell’indennizzo dovuto e disponeva il trasferimento della proprietà dei terreni alla amministrazione.
A seguito di alcune pronunce della CEDU (sent. del 24.6.1993, Papamichalopulos e altri c. Grecia), la giurisprudenza francese ha abbandonato la teoria della espropriazione indiretta (Cour de cassation, arret 6.1.1994 Cts Baudon de Mony c/EDF).
Permaneva però di fatto il principio di intangibilità dell’opera pubblica, cosicché veniva negata la restituzione del bene e il proprietario aveva solo diritto ad una specifica indennità, senza poter ottenere la restituzione in natura (Cour de Cassation, arret Bergerioux, 4.4.2002).
Un primo problema che ha affrontato la giurisprudenza francese in questi casi riguarda l’individuazione del giudice competente quando sia richiesta la demolizione o lo spostamento dell’opera pubblica illegittimamente realizzata.
Fu il Tribunal des confilcts che, nel disciplinare il riparto di competenza tra giudice amministrativo e ordinario in un caso, già citato sopra (l’affaire Binet, 6.5.2002), avente ad oggetto il rifiuto dell’amministrazione di distruggere o spostare un’opera pubblica, nell’affermare la sussistenza della giurisdizione amministrativa, a meno che l’opera pubblica non sia stata edificata in voie de fait, ovvero in mancanza di alcun atto che possa in alcun modo riconnettersi all’esercizio di un potere pubblico e nessuna procedura di regolarizzazione sia stata iniziata. In questo secondo caso, infatti, la competenza sarebbe del giudice ordinario.
Dunque il collegamento con l’esercizio del potere e l’avvio di una procedura di regolarizzazione radicano la giurisdizione amministrativa sulla domanda di restituzione del fondo illegittimamente trasformato dalla costruzione dell’opera pubblica.
Il Conseil d’Etat, tuttavia, nel 2003 (arret del 29.1.2003 Syndacat Dipartimental de l’elecrticité et du gaz) ha adottato una interpretazione leggermente differente da quella del Tribunal des conflicts nel caso Binet. Infatti, ha ritenuto di dover prendere in considerazione, ai fini del riconoscimento della propria giurisdizione, non solo se un’attività di regolarizzazione fosse stata avviata ma anche se essa fosse semplicemente possibile; mentre per la Cour de Cassation e per il Tribunal des conflicts occorre che la procedura di regolarizzazione non solo esista ma sia anche stata effettivamente iniziata.
A seguito della pronuncia Binet, il giudice amministrativo francese si è visto riconoscere una competenza generale in materia di azioni di demolizione o di spostamento di opere pubbliche consequenziali all’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità, essendo le fattispecie di competenza del giudice ordinario di voi de fait – come si è visto - molto rare. (In questi casi, infatti, anche la competenza sulla domanda di demolizione dell’opera pubblica illecitamente realizzata spetterebbero al giudice ordinario.)
Successivamente, la giurisprudenza – mutando rispetto al precedente orientamento tradizionale sostenuto nell’arrêt Binet - ha ritenuto compente il giudice amministrativo anche per la domanda di risarcimento del danno, in modo che possa disporre sia la rimozione dell’emprise irrégulière sia la riparazione pecuniaria.
Inoltre, nella stessa sentenza del 29 gennaio 2003 (Syndacat départemental de l’électricité ed du gaz des Alpes maritimes), il Conseil d’Etat ha sottolineato che il giudice nel decidere se ordinare o meno la demolizione di un’opera pubblica debba anche prendere in considerazione da una parte gli inconvenienti che la presenza dell’opera provoca per il proprietario del terreno e l’altra parte le conseguenze per l’interesse generale della demolizione, e deve valutare quindi se, nella comparazione tra i vari interessi, la demolizione dell’opera pubblica non costituisca una misura eccessiva per l’interesse generale.
Il Consiglio di Stato nella citta sentenza ha dettato il "protocollo pretorio" dell'azione per la demolizione di un'opera pubblica irregolarmente ubicata su proprietà privata.
Secondo questo protocollo, spetta al giudice amministrativo:
1) verificare se sia possibile la regolarizzazione mediante sanatoria dell'opera pubblica;
2) in caso contrario, effettuare una valutazione costi benefici e consentire la demolizione dell'opera pubblica nella misura in cui " non comporti un eccessivo pregiudizio all'interesse generale".
Per fare questo, deve tener conto degli svantaggi della presenza della struttura per i proprietari del fondo e delle conseguenze della demolizione per l'interesse generale.
Può dunque affermarsi che se il principio della intangibilità dell’opera pubblica più dirsi in teoria superato, tuttavia le condizioni perché un ordine di demolizione di un’opera pubblica sia effettivamente emanato dal giudice amministrativo, con restituzione del terreno al privato illegittimamente espropriato, sono effettivamente molto restrittive. Inoltre, non sembra tale ipotesi discostarsi molto da quella censurata dalla CEDU in numerose pronunce contro l’Italia.
Va tuttavia rilevato che in taluni casi (ad esempio nel 2011) il Conseil d’Etat, dopo aver annullato la dichiarazione di pubblica utilità, ha effettivamente ordinato la distruzione di un opera pubblica irregolarmente edificata (un porto turistico) e la remissione in pristino dello stato dei luoghi, ma per la verità, non tanto al fine di tutelare l’interesse dei proprietari bensì in considerazione dell’interesse pubblico alla preservazione di uno spazio naturale fragile e al mantenimento della biodiversità (arrêt Communauté d’agglomentation du lac de Bourget del 20.5.2011).
Un altro caso di enorme interesse da segnalare, anche per la sua sorprendente coincidenza anche temporale con un’analoga decisione del nostro Consiglio di Stato di annullamento non retroattivo, riguarda l’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità per la realizzazione di un eliporto presso l’ospedale di Laon per vizi di procedura.
In questa decisione, il Consiglio ha ritenuto che l’annullamento retroattivo della dichiarazione di pubblica utilità avrebbe provocato un danno eccessivo al servizio di aiuto medico urgente e pertanto ha ritenuto di disporre l’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità a decorrere da un termine di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, in modo da consentire nel frattempo l’adozione di una nuova dichiarazione di pubblica utilità immune dai vizi procedurali riscontrati (Conseil d’Etat 19.7.2011).
Nel 2005 è stata introdotta una nuova norma nel codice dell’espropriazione (art. 223.2) secondo la quale, una volta che il giudice amministrativo ha annullato in modo definitivo una dichiarazione di pubblica utilità o un decreto di espropriabilità, il proprietario espropriato può far constatare al giudice dell’espropriazione l’assenza di base legale per il trasferimento di proprietà.
La norma prevede che i soggetti espropriati possono chiedere al giudice l’accertamento della circostanza che il trasferimento della proprietà è avvenuto senza base legale e domandare il suo annullamento.
Il giudice amministrativo constata l’assenza di base legale per il trasferimento di proprietà e statuisce sulle conseguenze dell’annullamento di esso.
Le parti saranno dunque convocate davanti al giudice insieme al commissario del Governo Il proprietario potrà quindi ottenere, se è possibile, la restituzione dell’immobile ovvero il pagamento dei danni.
In ogni caso deve essere pagata all’espropriato una specifica indennità per il pregiudizio causato dall’operazione irregolare.
In conclusione, possiamo dire che il percorso giurisprudenziale francese non appare aver seguito vie tanto dissimili da quelle seguite dalla Corte costituzionale e dai giudici italiani né per quanto riguarda il riparto di giurisdizione né in relazione alla soluzione da adottare in caso di domanda di restituzione di terreni su cui siano state realizzate, in modo illegittimo, opere di interesse pubblico. L’unica differenza che appare rilevante, e che forse è la ragione per cui non si rinvengono sostanzialmente condanne da parte della CEDU nei confronti della Francia come invece è avvenuto per l’Italia, appare la circostanza che – forse in maniera più pragmatica – il giudice francese ha abbandonato subito la costruzione teorica della espropriazione indiretta e ha rimesso direttamente all’autorità giudiziaria, anziché alla stessa amministrazione mediante un procedimento successivo ai sensi dell’art. 42 bis Tu espropriazioni, la decisone circa la possibilità o meno di disporre la restituzione del bene illegittimamente trasformato dalla amministrazione con la realizzazione dell’opera pubblica, previa regolarizzazione della procedura.
3.1. L’espropriazione in Spagna: la procedura di esproprio. La disciplina dell’espropriazione in Spagna è forse quella più simile alla disciplina italiana. La legge sull’espropriazione forzata risale al 1954 e tuttavia è stata più volte modificata, anche di recente.
Il Tribunale costituzionale ha ritenuto la sua compatibilità con la costituzione del 1978, che all’art. 33, dopo aver statuito la “funzione sociale” della proprietà (usando le stesse parole del nostro art. 42 Cost), al comma 3 recita: “nessuno può essere privato dei suoi beni e diritti se non per causa giustificata di utilità pubblica o di interesse sociale, previa corresponsione dell’indennizzo e in conformità con il disposto delle leggi”. Il pagamento del giusto prezzo (justiprecio) non necessariamente deve essere preventivo, ammettendosi anche le espropriazioni di urgenza.
Per la legge spagnola, il “justiprecio” deve garantire una compensazione integrale della perdita patrimoniale subita dall’espropriato. Esso pertanto deve essere in grado di consentire all’espropriato di sostituire il bene espropriato con un altro avente le stesse caratteristiche e pertanto deve essere calcolato al valore di mercato.
Il momento cui far riferimento per la determinazione del valore del bene è quello in cui inizia il procedimento di esproprio, con irrilevanza di successivi mutamenti di prezzo. Per la determinazione del justiprecio non vanno considerati il valore sentimentale o affettivo, tuttavia alla somma così definita si aggiunge un “premio del afecciòn” pari al 5% dell’importo del justiprecio.
Vanno anche indennizzate le perdite e i danni derivanti dall’attività di esproprio. Per esempio, in caso di espropriazione di un negozio, il valore dell’indennizzo comprenderà non solo il valore del locale ma anche la perdita della clientela ecc.
La procedura di espropriazione è molto simile a quella della legge italiana. Il primo requisito è la previa dichiarazione di utilità pubblica o di interesse sociale. Questa è di norma contenuta in una legge in forma generica ed è implicita nell’approvazione dei piani di realizzazione di opere pubbliche.
Essa necessita quindi di una specificazione che si effettua mediante una dichiarazione di necessità dell’occupazione che specifica nel dettaglio beni e diritti concreti che si intendono espropriare, i quali devono essere solo e soltanto quelli indispensabili per il perseguimento del fine e che siano idonei dal punto di vista tecnico e sociale per il conseguimento del fine pubblico.
È su questi parametri che viene svolto il controllo di legalità mediante il ricorso al giudice del contencioso adminstrativo (la Audiencia general).
Per quanto riguarda la determinazione del “justiprecio”, naturalmente è possibile che le parti addivengano ad un accordo, altrimenti la procedura procede mediante un’offerta di indennizzo da parte dell’amministrazione o da parte del proprietario e se questa non viene accettata si procede alla determinazione del valore del bene da parte di un collegio (Jurado Provincial de Expropiación) composto da un magistrato, che lo presiede, designato dal presidente della Audiencia, da un avvocato dello Stato, da due funzionari tecnici, un rappresentante della camera di commercio o del collegio professionale o della organizzazione, e infine un notaio. Si tratta di un organo che dovrebbe comprendere in sé sia le funzioni peritali che quelle giudiziali. In esso infatti dovrebbero essere rappresentati sia gli interessi fiscali dello Stato che gli interessi patrimoniali della proprietà privata, nonché tutti gli aspetti tecnici, compresi quelli – di competenza notarile – relativi alle transazioni immobiliari. La sua capacità di determinare effettivamente un giusto prezzo di espropriazione è tuttavia molto criticata.
La procedura in totale non dovrebbe durare più di 50 giorni. Avverso questa determinazione, che deve essere approfonditamente motivata, può essere proposto ricorso contencioso administrativo.
Il pagamento deve essere effettuato dopo sei mesi dalla determinazione del justiprecio. Decorsi i sei mesi, la somma produrrà interessi legali.
In caso di controversia o di rifiuto da parte del proprietario di accettare il pagamento, l’amministrazione può effettuare il deposito della somma presso la Cassa depositi.
Solo dopo il pagamento del prezzo, l’amministrazione può immettersi nel possesso dei beni espropriati per via amministrativa.
È possibile, come si diceva, anche una procedura di occupazione urgente, prima del pagamento del justiprecio. Essa era nata come strumento eccezionale per le ricostruzioni dopo la guerra civile, nel 1939, ma poi è diventata quella in concreto più frequente.
In questi casi occorre una determinazione del Consejo de Ministros o della Comunidad autonoma corrispondente. Essendo la procedura più rapida, spesso nella pratica si ricorre ad essa anziché a quella generale, similmente a quanto avviene in Italia. In questi casi è previsto il previo deposito di una somma a titolo di indennizzo per il pregiudizio: entro il termine di 15 giorni i terreni devono essere espropriati.
3.2. Conseguenze del ritardo nella procedura di esproprio. Il c.d. danno da demora costituisce una specificità del diritto spagnolo. L’art. 56 della ley de l’espropriation forzosa prevede infatti che se, dopo sei mesi dall’inizio del procedimento di esproprio non è ancora stato determinato il justiprecio, l’amministrazione è tenuta a pagare un indennizzo, che consisterà negli interessi legali del justiprecio, da liquidarsi retroattivamente una volta che esso sia stato definitivamente determinato.
Il regolamento precisa tuttavia che la responsabilità per il ritardo va imputata a chi l’ha causato, cosicché essa non verrà pagata se è imputabile all’espropriato.
Decorsi quattro anni senza il pagamento della quantità fissata, si dovrà procedere a rinnovare la valutazione delle cose o dei diritti oggetto di esproprio.
Si discute inoltre in giurisprudenza se l’eccessiva durata del procedimento di espropriazione possa essere sanzionata, in applicazione delle regole generali sul procedimento amministrativo, con la “caducidad” ovvero l’estinzione del procedimento. Si tratta di una sanzione prevista in via generale dall’art. 44 della legge sul procedimento amministrativo comune, per tutti i procedimenti aventi effetti sfavorevoli ovvero finalizzati all’adozione di atti restrittivi, tra cui anche il procedimento di espropriazione. In senso contrario, tuttavia, si è pronunciato il Tribunal Supremo nel 2012, sostenendo che il procedimento di esproprio è un procedimento complesso e la fase concernente la determinazione del justiprecio è posta nell’interesse del privato espropriato. Inoltre, il Supremo ha sottolineato che la legislazione speciale espressamente prevede il danno da demora appunto per indennizzare il privato espropriato per il ritardo nella procedura di determinazione dell’indennizzo.
3.3. La tutela giudiziaria e il caso di “via de echo”.
Gli atti della procedura di esproprio compresi quelli relativi alla determinazione del justiprecio possono essere impugnati con recurso contencioso administrativo dinanzi a la Audiencia (tribunale collegiale) in prima istanza.
Si può dedurre il vizio di sostanza o di forma e la violazione o l’omissione dei precetti della legge sull’espropriazione. Nel caso di contestazione della determinazione dell’indennizzo occorre che si lamenti che il valore determinato sia inferiore di almeno un sesto rispetto a quello invocato.
Anche nel diritto spagnolo si è posto il problema della c.d. espropriazione di fatto che costituisce forse la più comune manifestazione della c.d.via de echo[9], sostanzialmente corrispondente alla voi de fait del diritto francese.
Va subito chiarito però che essa non incide sulle questioni di riparto di giurisdizione tra giudici del contencioso admnistrativo e giudici civili, posto che la legge dell’espropriazione espressamente attribuisce la competenza anche in caso di via de echo alla giurisdizione amministrativa.
La via de hecho è prevista dall’art. 53.1 della legge 29/1998 sul contencioso administrativo e si realizza quando l’amministrazione agisce al di fuori della sua sfera di competenza, ovvero prescindendo dal procedimento stabilito.
Di essa non si occupa espressamente la legge generale del procedimento n. 39 del 2015, che non la nomina, tuttavia, all’art. 97.1, detta legge proibisce alle amministrazioni pubbliche di porre in essere attività materiali che limitino i diritti dei privati senza che sia stata previamente adottato il provvedimento che ne costituisca il fondamento giuridico.
La dottrina e la giurisprudenza hanno definito variamente la nozione di via de echo.
Il Tribunal costitucional ritiene che l’amministrazione incorra in via de echo sia se esercita poteri che non le sono stati conferiti sia se, pur esercitando tali poteri, agisce andando oltre il procedimento stabilito. Essa pertanto comprende sia le attività materiali attuate dalla amministrazione senza aver adottato previamente l’atto amministrativo che ne costituisce il fondamento giuridico, sia quelle attività materiali di esecuzione che eccedano l’ambito riconducibile all’atto amministrativo previamente adottato.
Altra giurisprudenza[10] vi include anche l’attività materiale posta in essere in attuazione di atti viziati da nullità di pieno diritto (nulidad de pleno derecho) per incompetenza o per vizio sostanziale del procedimento.
A questi casi la giurisprudenza ha ricondotto la assenza di informazione pubblica previa e l’adozione dell’atto di necessità dell’occupazione e l’omissione di notificazione di quest’ultimo agli interessati.[11]
Di questi casi si occupa espressamente l’art. 125 della legge sull’espropriazione, definendo la via de echo con riferimento alle ipotesi in cui senza i requisiti sostanziali della dichiarazione di utilità pubblica o di interesse sociale, senza dichiarazione di necessità di occupazione e senza previo pagamento del deposito, l’amministrazione occupi la cosa oggetto di espropriazione.
In questo caso, il soggetto interessato potrà ottenere la tutela possessoria.
Si tratta di una precisazione normativa necessaria giacché altrimenti si sarebbe dovuto applicare il divieto generale di ricorrere contro l’amministrazione mediante interdetti possessori.
La norma tuttavia non esclude altre forme di tutela e in particolare il ricorso alla giurisdizione contenzioso amministrativa, compente – come si è detto – per espressa disposizione di legge anche in caso di via de echo. Inoltre, nel caso in cui si riscontri la via de echo, la restituzione in natura del bene illecitamente appreso è teoricamente prevista, sempre che lo stato di cose lo consentano in quanto l’opera pubblica non sia stata nel frattempo edificata. Laddove invece tale restituzione non sia possibile, verrà liquidato un risarcimento costituita dal justiprecio al quale va aggiunta una percentuale del 25% per compensare il pregiudizio derivante dalla privazione illegittima della proprietà.
Di recente, però, la giurisprudenza ha affermato che nel caso di espropriazioni illecite debba riconoscersi la riparazione integrale del danno realmente causato e che quindi non occorra riferirsi ai più rigidi criteri per la determinazione del justiprecio ma direttamente al valore di mercato del bene.
A questa somma vanno poi aggiunti gli interessi legali a decorrere dalla data dell’occupazione del bene. A proposito della questione della restituzione del bene e della riduzione in pristino dello stato dei luoghi, il Tribunal Supremo ha dichiarato, con sentenza del 6 novembre 2007, che qualora l’opera pubblica o di interesse pubblico sia già realizzata ed essa soddisfi l’interesse generale, non è ragionevole ordinare la riduzione in pristino. In sostanza, il giudice deve apprezzare la situazione concreta e può sia ordinare la riduzione in pristino e la restituzione del bene in natura sia disporre, in alternativa, il pagamento di un indennizzo in sostituzione della restituzione del bene. Il presupposto, in questo secondo caso, è l’impossibilità, accertata nel processo, di eseguire in natura la sentenza. Tuttavia, i motivi che possono determinare tale impossibilità – sia fisica che giuridica – possono essere vari: la circostanza che sono state costruite case che sono state vendute a terzi in buona fede, oppure che sono state destinate a fini o servizi di utilità pubblica.
In questi casi, il giudice può accordare la sostituzione della restituzione del bene col pagamento dell’indennizzo, sempre che la decisione sia motivata e che non si tratti di mere difficoltà o molestie. In sostanza, i giudici spagnoli semplicemente constatano che – come affermato dal Consejo de Estado nel 1962 – nel caso in cui la sentenza intervenga quando l’esecuzione dell’opera è già stata effettuata, essa si scontra con fatti consumati e inamovibili, rispetto ai quali l’unica tutela dell’espropriato è quella risarcitoria (indemnizaciòn).
Inoltre, in molti casi l’effetto della sentenza è solo quello di imporre all’amministrazione di rinnovare il procedimento. Come si vede, la problematica che da noi ha dato vita all’istituto di cui all’art. 42 bis TU edilizia, viene semplicemente risolta dai giudici spagnoli, come anche da quelli francesi, nell’ambito di definizione delle modalità di esecuzione della sentenza. E’ pertanto rimesso allo stesso giudice l’apprezzamento se in concreto sia possibile o meno la riduzione in pristino o il ristoro per equivalente, tenendo in debito conto anche l’interesse pubblico al permanere dell’opera pubblica.
Non si ravvisano approfonditi tentativi di ricostruzione dogmatica circa la giustificazione del titolo di acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione, ma ci si limita al semplice rinvio al concetto di impossibilità della restituzione in natura.
La natura del sistema giurisdizionale spagnolo, nel quale il giudice amministrativo è solo un giudice specializzato, fa sì che non vi sia – come in molti altri paesi – differenza tra il giudice degli atti della procedura di esproprio e il giudice della determinazione dell’indennizzo, ma tutte le competenze sono concentrate in capo ai magistrati del contencioso administrativo, anche nel caso di via de echo. Detto giudice è anche compente per tutte le questioni di risarcimento per danni, connessi alla procedura di esproprio. Non vi è dunque alcuno spazio lasciato al giudice civile e questa costituisce una peculiarità dell’ordinamento spagnolo rispetto agli altri ordinamenti in cui quasi sempre si ravvisa una sfera di competenza in capo al giudice civile, in particolare per quanto attiene alle controversie sulla determinazione dell’indennizzo.
4. L’espropriazione per pubblica utilità nel diritto inglese (“Compulsory purchase of land”).
Il compulsory purchase of land è un meccanismo legale attraverso il quale alcuni enti (denominati acquiring authorities) possono acquistare beni immobili senza il consenso dei proprietari.
Prevista da numerose leggi speciali a seconda del tipo di progetto al quale l’esproprio è finalizzato, l’espropriazione per pubblica utilità in Gran Bretagna è stata disciplinata in modo generale dal Acquisition of Land Act del 1981.
Questa legge prevede che l’acquisto coattivo di terra possa essere proposto da governi locali, dal governo nazionale e amministrazioni varie e anche da società commerciali (esercenti servizi pubblici per esempio per l’acqua o l’energia elettrica), per la realizzazione di opere di interesse pubblico (infrastrutture, autostrade, ferrovie, ecc.). Spesso si tratta di opere approvate nei piani di sviluppo locali (development plans). Tuttavia, va subito sottolineato che la procedura è sempre sottoposta ad un controllo accentrato a livello governativo, in quanto ogni procedimento deve essere autorizzato da un Ministro competente. Addirittura in taluni casi particolari, è necessaria l’autorizzazione del Parlamento: ad esempio nei casi in cui l’area da espropriare appartenga ad un ente locale o faccia parte del patrimonio indisponibile (National trust), se si tratti di un luogo aperto e di uso comune, a meno che non venga assicurata la sostituzione con un altro spazio, infine se si tratti di siti di antichi monumenti o archeologici.
Venendo più in dettaglio, va detto che la procedura[12] si articola in due fasi: quella di autorizzazione dell’esproprio e quello di determinazione della “compensation”, ovvero dell’indennizzo, con contestuale trasferimento del diritto di proprietà.
Il primo passo della fase autorizzatoria è – come si diceva – un “order” da parte della amministrazione procedente, il quale non ha effetti nei confronti del proprietario espropriato, e serve solo a dare avvio alla procedura.
Esso è redatto dalla stessa autorità espropriante e deve contenere l’esatta indicazione del terreno da espropriare, la finalità dell’esproprio, l’autorità espropriante e la fonte normativa sulla cui base si agisce.
Esso è accompagnato da uno Statement of Reasons che indica le ragioni per cui si procede con un CPO.
Il CPO va pubblicato per due settimane sui giornali locali e notificato individualmente a ciascuno dei proprietari. Vanno quindi lasciati almeno 21 giorni per la formulazione di eventuali obiezioni. Se nessuno dei proprietari formula obiezioni, l’ordine viene confermato dal Ministro competente; se anche uno solo dei proprietari obietta, va fissata un’audizione (hearing) con l’autorità espropriante e i proprietari, inoltre è possibile avere una interlocuzione scritta con il consenso dei proprietari, oppure – se viene convocata una “public inquiry” alla quale tutte le persone interessate possono partecipare, anche eventualmente per iscritto.
L’autorità espropriante deve comunque tentare di negoziare con i proprietari prima della public inquiry per trovare un accordo.
La public inquiry si svolge dinanzi ad un ispettore nominato dal ministro, secondo norme approvate nel 2007, the Compulsory Purchase (Inquiries Procedure) Rules. Si tratta di un tecnico, un ingegnere o architetto.
Le parti devono portare le loro prove e l’ispettore più anche effettuare visite sul sito.
Nel corso dell’inquire si applicano le norme della “natural justice” cioè, benché non si tratti di un procedimento giudiziale, del diritto al contraddittorio e della correttezza del procedimento (fairness).
Si apre quindi una fase di negoziazione, in cui l’autorità espropriante cerca di tener conto delle obiezioni mosse. Il Ministro, quindi, deve decidere se confermare l’ordine, tenendo conto delle obiezioni mosse e dei risultati dell’udienza o nell’incontro pubblico e del report dell’ispettore, dal quale può in teoria anche discostarsi. La conferma ministeriale, che deve essere notificata agli interessati e motivata, segna la fine della fase di autorizzazione.
La notizia della conferma deve essere pubblicata su uno o più giornali locali.
La conferma ministeriale del Compulsory Purchase Order è sottoposta a judicial review secondo un regime speciale e più restrittivo rispetto a tutte le altre ipotesi di judicial review.
Essa infatti deve essere impugnato entro 6 settimane (anziché negli ordinari 3 mesi) dalla pubblicazione dell’atto di conferma e può essere contestato solo se esorbita dai poteri attribuiti dalla legge sull’acquisizione dei suoli (“is not within the powers of this Act”) oppure per violazione di prescrizioni contenute nella stessa legge (“any requirement of this act has not been complied with”). Il ricorso va indirizzato alla Hight Court, nell’ambito della quale ora è istituita una sezione specializzata che si occupa solo di judicial review (Administrative court), la quale può sospendere cautelarmente l’efficacia delle operazioni fino a conclusione del procedimento.
La sospensione cautelare è di fatto concessa molto raramente. Tuttavia, nonostante ciò le amministrazioni di norma non procedono nelle operazioni di esproprio poiché temono che l’atto possa essere annullato e che siano proposte eventuali azioni di danno. Wade[13]sostiene quindi che via sia in sostanza una “sospensione virtuale”.
La Corte, se verifica che l’atto effettivamente esorbita dai poteri attribuiti dalla legge o che gli interessi del ricorrente sono stati sostanzialmente pregiudicati, annulla l’atto o in toto o limitatamente alla parte di esso che lede la proprietà del ricorrente.
In sostanzia, si tratta di un controllo di mera legalità (statutory review), in quanto solo questo tipo di violazioni di legge possono essere fatte valere.
Si discute molto per stabilire quali siano in concreto queste violazioni di legge che possono esser fatte valere: si tratta in primo luogo del classico atto “ultra vires” e in secondo luogo di minori irregolarità procedurali.
In pratica, il giudice valuterà:
1) se l’atto è ultra vires, ovvero esorbita i limiti del potere attributo dalla legge;
2) se sono state commesse violazioni procedurali;
3) se l’ispettore o il ministro non hanno assunto una corretta decisione, in quanto non ci sono prove a supporto della decisione intrapresa o sono state prese in considerazioni ragioni irrilevanti e trascurati profili di rilievo.
Naturalmente anche l’autorità espropriante potrà impugnare, per gli stessi motivi, un eventuale atto di rifiuto di conferma.
L’efficacia di questa autorizzazione dura tre anni, decorsi i quali il potere di esproprio si estingue. Spesso tuttavia le Corti impongono tempi molto più stretti ritenendo che un ingiustificato ritardo nel completamento della procedura di esproprio possa essere inteso come abbandono della procedura, con conseguente perdita del potere di eseguire l’esproprio.
Inoltre, in caso di ritardo, il proprietario può compulsare il soggetto procedente ad agire e può chiedere il ristoro dei danni da ritardo, se nel frattempo ha subito perdite.
Entro i tre anni, o anche in termini inferiori, l’amministrazione espropriante deve giungere ad un accordo sulla somma da pagare come compensazione dell’acquisto coattivo della proprietà.
Dopo la fase di autorizzazione, per giungere al trasferimento del bene, l’autorità procedente può sempre tentare un accordo oppure seguire due procedure: quella del Notice to treat/Notice to entry o quella del General vesting order.
È tuttavia possibile anche iniziare con la procedura del Notice to treat e poi spostarsi su quella del General vesting order.
Secondo la prima procedura, va effettuata, da parte dell’amministrazione espropriante, una diffida a trattare per la determinazione dell’indennizzo e per il trasferimento del bene (“notice to treat”). Il proprietario può rispondere all’autorità emanante con un notice of claim for compensation, entro 21 giorni dalla comunicazione, così dando avvio alla trattativa per la determinazione della compensation.
L’autorità espropriante può anche decidere di tirarsi indietro entro 6 settimane, se ritiene che il valore del terreno sia troppo elevato.
A seguito dell’avvio di queste trattative si può addivenire, con l’accordo del proprietario, ad un vero e proprio contratto di vendita.
Il proprietario deve però dimostrare il proprio titolo e trasferire la proprietà del bene. Se il proprietario non deposita il notice to claim, o comunque non si addiviene ad alcun accordo, la procedura continua per la determinazione della “compensation” dianzi al giudice. Le relative controversie sono di competenza dei Land Tribunals.
L’espropriante può pagare la somma determinata anche direttamente dinanzi al giudice, se il proprietario rifiuta di accettarla, ottenendo un documento unilaterale di compravendita con il quale la proprietà viene definitivamente acquisita dall’espropriante.
Essa deve essere determinata in base al valore di mercato, in applicazione del principio di equivalenza l’espropriato ha diritto a mantenere la sua situazione inalterata, senza avvantaggiarsi e senza essere danneggiato dalla espropriazione.
In casi particolari, dove non vi è un mercato, il valore va determinato con riferimento al costo di acquisto di un terreno equivalente altrove.
La compensation può anche essere effettuata in natura ed essere costituita ad un altro terreno. E’ importante sottolineare che sull’espropriato grava l’obbligo di mitigare gli effetti economici negativi della procedura espropriativa, altrimenti essi non gli verranno riconosciuti.
In aggiunta al valore del bene verranno riconosciuti i danni morali, ovvero il disturbo e il ricorso ad una procedura forzosa. Si tratta in genere di un incremento del 10 per cento.
Il valore del bene va determinato comunque con riferimento al momento in cui vi è il trasferimento del possesso.
Dopo il notice to treat, l’autorità espropriante può comunicare un “notice to entry”, nel quale rende nota la data in cui prenderà possesso del fondo (entro tre giorni dalla notifica).
In ogni caso, l’acquisto del titolo di proprietà avverrà solo all’esito del giudizio dinanzi ai Land Tribunals o mediante accordo.
La procedura alternativa è quella della “General Vesting declaration”, che è una procedura autoritativa che consente non solo l’immissione in possesso del bene da parte dell’autorità espropriante ma anche il trasferimento coattivo della proprietà ad essa, acquisto che si verifica non prima del ventottesimo giorno dalla comunicazione dell’atto.
Una volta effettuata la General vesting declaration, il diritto di proprietà si converte nel diritto alla compensation e il giorno del trasferimento della proprietà è quello a cui far riferimento per la valutazione dell’immobile. Secondo una circolare governativa, la General vesting declaration va comunque effettuata al massimo entro tre anni dalla confirmation del compulsory purschase order.
5. L’espropriazione per pubblica utilità in Germania.
La Costituzione tedesca, all’art. 14, al comma 3, stabilisce che l’espropriazione può essere solo consentita per il pubblico bene. Essa può solo essere ordinata per gli scopi previsti dalla legge che determini anche la natura e la quantità dell’indennizzo. Questo deve essere determinato stabilendo un equo bilanciamento tra il pubblico interesse e l’interesse dei soggetti lesi. In caso di controversie circa l’ammontare del compenso, può essere proposto ricorso dinanzi alle corti ordinarie.
Ci sono molte leggi che legittimano l’espropriazione sia a livello nazionale che degli Stati federali.
In genere si tratta di leggi sulle infrastrutture (nuove strane, autostrade, ferrovie, aeroporti, reti elettriche, impianti nucleari, ecc.) ma ci sono anche leggi che consentono l’espropriazione per altre ragioni, ad esempio per la protezione della natura e del paesaggio, per la protezione di monumenti, dell’acqua o per la realizzazione di opere pubbliche previste dai piani urbanistici e di sviluppo. Ci sono più di venti leggi a livello federale e nazionale in materia di espropriazione. Tuttavia i principi sono comuni. In primo luogo occorre una causa di pubblica utilità, ovvero per il pubblico bene, normalmente contenuta nei piani urbanistici o di sviluppo[14].
Viene poi in rilievo la c.d. clausola di sussidiarietà, che impone all’amministrazione di tentare di ottenere l’acquisto della proprietà in altri modi prima di ricorrere all’espropriazione (mediante un accordo o anche una riallocazione del terreno). In sostanza, l’amministrazione deve provare di non essere riuscita ad ottenere il terreno in altro modo.
L’amministrazione deve inoltre dimostrare di non poter perseguire la finalità pubblica con misure meno invasive della proprietà, ad esempio espropriando solo una parte del terreno o mediante l’imposizione di servitù. Pertanto, in primo luogo l’autorità espropriante deve presentare una “ragionevole offerta” al proprietario. Si tratta di un passaggio di enorme importanza: infatti se questa offerta è effettivamente ragionevole, e tuttavia non viene accettata, essa costituirà un limite per la quantificazione dell’indennizzo ed eventuali incrementi di valore del bene intervenuti successivamente saranno irrilevanti. In questo modo vengono scoraggiate tattiche dilatorie. Se invece il tribunale riconoscerà che l’offerta non era ragionevole, la procedura espropriativa non potrà proseguire se non a seguito della presentazione di una nuova “ragionevole offerta”. L’autorità espropriante, inoltre, deve dimostrare in termini di capacità economica e tecnica di essere in grado, in tempi rapidi, di realizzare l’opera di pubblica utilità.
Anche soggetti privati possono farsi promotori di espropriazioni purché agiscano per fini di pubblica utilità (si pensi alle scuole, agli ospedali, alla società esercenti servizi pubblici, ecc.).
Nel caso Boxberg del 1987, la Corte costituzionale Federale ha statuito che l’aumento dei posti di lavoro e lo sviluppo economico sono solo un bene pubblico indiretto, essi pertanto non possono costituire una causa di pubblica utilità ai fini di attivare una procedura espropriativa. Questo orientamento è stato poi confermato. La procedura di esproprio prevede che l’autorità competente sia quella al più alto livello. Essa deve garantire una giusta procedura e un giusto indennizzo. È infatti in posizione di indipendenza rispetto all’amministrazione espropriante.
Le fasi della procedura prevedono:
1) una pre – negoziazione, che si apre con la ragionevole offerta di pagamento;
2) una procedura amministrativa preliminare, in cui l’autorità responsabile verifica i requisiti per iniziare la procedura vera e propria; in questa fase, viene nominato un collegio di esperti per valutare la congruità della ragionevole offerta e per determinare il valore del bene. Anche durante questa fase la procedura generalmente si conclude con l’accordo delle parti.
3) la procedura ufficiale, che prevede una audizione delle parti. Essa si apre con un avviso pubblico dell’avvio della procedura. Anche in questa fase si tenta sempre di raggiungere un accordo tra le parti, le quali possono anche accordarsi solo sul trasferimento di proprietà e non anche sulla determinazione dell’indennizzo. In effetti si calcola che solo il 10 per cento dei casi non si definiscono in via amichevole. In questi casi, l’autorità espropriante dispone l’espropriazione e determina autonomamente l’indennizzo.
Spesso, sulla base dell’urgenza, il richiedente può essere immesso nel possesso dell’area prima della conclusione della procedura. In questo caso, egli deve previamente versare la somma offerta come “offerta ragionevole”.
La quantificazione dell’indennizzo, secondo le linee guida entrate in vigore nel 2008, deve contemperare il privato e pubblico interesse, ma deve comunque fondarsi sul principio di equivalenza, per cui l’espropriato deve essere messo in grado di acquistare un terreno della stessa qualità e caratteristiche. La determinazione del valore del bene secondo i prezzi di mercato viene affidato a un comitato di esperti, riconosciuto in modo ufficiale, e la valutazione è fatta secondo criteri standard. La data per la determinazione del valore è quella dell’atto di trasferimento della proprietà o – se vi è stata immissione anticipata nel possesso – quella dello spossessamento. Vanno inoltre computati eventuali ulteriori danni: per esempio dovuti al frazionamento del terreno, perdita di profitti e costi per il dislocamento dell’attività in altro sito, perdita della clientela ecc.
L’indennizzo può anche essere disposto in natura o mediante il riconoscimento di altri diritti. Non sono previsti specifici limiti temporali in cui la procedura deve concludersi, ma si richiede che la procedura sia la più rapida possibile.
È tuttavia prevista la possibilità di revocare l’esproprio se il beneficiario non effettua i pagamenti entro un mese da quando la decisione dell’amministrazione procedente che determina l’indennizzo è stata assunta.
Per quanto riguarda la tutela giurisdizionale, come in Italia, le controversie relative alla determinazione dell’indennizzo spettano ai giudici ordinari mentre l’impugnazione dell’atto di esproprio è di competenza del giudice amministrativo.
La Corte europea dei diritti dell’uomo si è occupata di recente del diritto tedesco in materia di esproprio in relazione ad un caso particolare, concernente l’esproprio senza indennizzo dei c.d. “nuovi contadini” della ex Germania dell’est, i quali erano stati assegnatari di terre a seguito della riforma agraria durante il regime comunista. Una legge tedesca, adottata dopo la riunificazione (1992) aveva statuito che i Land potessero espropriare senza indennizzo queste terre a meno che gli attuali proprietari, eredi dei “nuovi contadini”, non svolgessero più attività agricola.
La Corte, ribaltando il giudizio, della Camera del 22.2.2004, nella sent. della Grande Camera del 30 giugno 2005 (Jahn e altri c. Germania), ha ritenuto che ricorressero nel caso di specie quelle eccezionali circostanze che giustificano l’esproprio senza indennizzo, trattandosi di regolamentare il passaggio dall’economia socialista al regime di libero mercato.
In sostanza la Corte ha ritenuto che vi fosse il fondamento normativo, costituito da norme chiare e compatibili con la Cost. tedesca, secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale federale. Che vi fosse lo scopo legittimo di riportare chiarezza nei rapporti proprietari a seguito della riforma agraria socialista, richiamando a questo scopo la propria giurisprudenza che riconosce un amplissimo margine di apprezzamento discrezionale allo Stato nazionale in caso di adozione di particolari misure di pubblico interesse (caso Lithgow e altri c. Regno Unito, 8 luglio 1986, concernente la nazionalizzazione delle industrie navali. In quell’occasione, la Corte aveva ritenuto non illegittima la previsione di un indennizzo inferiore al valore di mercato). I commentatori hanno criticato questa pronuncia in quanto in altri analoghi casi (Ex re della Grecia c. Grecia 23 novembre 2000, in relazione alla transizione tra la monarchia e la repubblica in Grecia, e James e altri c. Regno Unito del 21.2.1986), l’obbligo di un qualche indennizzo, anche se non necessariamente parametrato al valore di mercato del bene, era stato affermato. Si è inoltre constato che la legge tedesca, nel sottrarre la proprietà agli eredi dei “nuovi contadini” aveva privato di effetti una legge del 1990, volta proprio, all’indomani della caduta del muro, a favorire la transizione verso il libero mercato[15].
6. Conclusioni.
La rassegna sopra effettuata delle procedure di esproprio nei vari ordinamenti europei mette in luce l’esistenza di molti aspetti comuni e di alcuni tratti – ai quali si è già fatto cenno all’inizio di questo studio – differenti: in particolare, il coinvolgimento dell’autorità giudiziaria – spesso – già nella fase del procedimento, soprattutto per la determinazione dell’ammontare dell’indennizzo, a garanzia dell’effettivo ristoro dei proprietari incisi dal procedimento secondo il principio dell’equivalenza.
Va inoltre detto che in alcuni Paesi (Gran Bretagna) il sistema stesso scoraggia la possibilità di fenomeni di espropriazione indiretta in quanto l’immissione in possesso del bene viene subordinata alla definizione della procedura in via amichevole o alla risoluzione definitiva della controversia giudiziale. Inoltre, grande attenzione è quasi ovunque riservata alla predisposizione di strumenti per favorire la definizione in via amichevole della procedura di esproprio.
È emerso, infine, che tutti i Paesi esaminati si sono trovati a dover affrontare e risolvere il problema della sorte dell’opera pubblica realizzata nonostante l’assenza di base legale della procedura espropriativa (per annullamento di atti del procedimento o per realizzazione di attività meramente materiali di impossessamento non autorizzate da provvedimenti amministrativi).
In tutti questi casi, si è valorizzato l’interesse pubblico come condizione ostativa alla restituzione del fondo illegittimamente trasformato, facendo ricorso a strumenti di sanatoria o regolarizzazione ex post e comunque alla impossibilità di eseguire una condanna alla restituzione del bene al privato illegittimamente espropriato.
Ciò nonostante, come si è detto, sono piuttosto rari i casi in cui altri Paesi oltre l’Italia hanno subito condanne per il fenomeno della espropriazione indiretta.
Quale può esserne la ragione?
In primo luogo, può dirsi che vi sono ragioni di ordine sistematico, prima fra tutte quella dell’ammontare dell’indennizzo.
Infatti, in tutti i Paesi esaminati, l’indennizzo viene quantificato con riferimento al valore di mercato e talvolta anche maggiorato, mentre da noi, fino a poco tempo fa, esso era significativamente inferiore al valore di mercato del bene, il che ha certamente determinato la presentazione dinanzi alla Corte di Strasburgo di numerose azioni, e quindi le conseguenti condanne da parte della CEDU nei confronti dell’Italia.
Inoltre, va certamente rimarcato che in Italia, per una serie di ragioni anche storiche, la “patologia” nel procedimento espropriativo è diventata la regola (si pensi ai numerosi annullamenti della dichiarazioni di pubblica utilità dovute a violazione dell’art. 7 della l. 241/90 che hanno determinato l’assenza di “base legale” del procedimento espropriativo), mentre negli altri Paesi era certamente l’eccezione.
Quello che si è detto sopra chiarisce come la questione della espropriazione di fatto (voi de fait o via de echo) o della realizzazione dell’opera pubblica in assenza di un procedimento espropriativo legittimo sia stata trattata in modo sostanzialmente non dissimile dall’Italia almeno anche da Spagna e Francia, le quali, senza teorizzare esplicitamente l’espropriazione indiretta, anzi formalmente ripudiandola, giungono poi in sostanza agli stessi risultati.
In sostanza, i giudici dei Paesi europei esaminati sembrano limitarsi a constatare che la prevalenza dell’interesse pubblico preclude nella maggior parte dei casi la restituzione del bene illegittimamente trasformato e impone una misura risarcitoria, senza troppo approfondire il tema delle modalità di trasferimento della proprietà, rimesso ad una procedura di regolarizzazione ex post.
Non si rinvengono invece ricostruzioni teorico dogmatiche similari alla nostrana “occupazione appropriativa” né fonti normative che, come il nostro attuale art. 42 bis, abbiano fornito rigorosa base legale per risolvere il problema della espropriazione indiretta o di fatto. Anzi, alcuni commentatori francesi hanno ammesso che il rifiuto di restituzione del bene al privato illegittimamente espropriato costituisce espropriazione indiretta, al pari delle ipotesi sanzionate dalla CEDU.
In definitiva, quello che è emerso, è che la misura restitutoria del terreno illegittimamente espropriato appare veramente rara in tutti gli altri ordinamenti e comunque recessiva di fronte all’interesse pubblico al mantenimento dell’opera pubblica, sia pure indebitamente realizzata.
È stata invece ampiamente valorizzata la regolarizzazione dell’espropriazione, particolarmente enfatizzata dalla giurisprudenza francese, o della rinnovazione del procedimento, prospettata in alcune pronunce dal giudice spagnolo.
Ampio spazio inoltre viene ovunque riservato alle misure risarcitorie, comprensive (con l’eccezione della Francia) anche del danno da “disturbo” o del danno morale ovvero (come in Spagna) da uno speciale indennizzo per la privazione illegittima della proprietà, a tutela delle posizioni dei privati lesi della loro situazione proprietaria.
In conclusione, solo la nostra Cassazione ha elaborato così a chiare lettere una ricostruzione dogmatica che prevede l’acquisizione della proprietaria da fatto illecito, mentre negli altri ordinamenti ci si è limitati a non disporre la restituzione del fondo.
In sostanza, sembrerebbe che la questione, tanto enfatizzata, dalla Corte EDU circa la carenza di “base legale” nella espropriazione indiretta, sia stata posta dinanzi ai giudici europei con tanta chiarezza solo nei giudizi concernenti l‘Italia.
Viene dunque da chiedersi – è una provocazione – se non sia stata propria la nostra forse eccessiva raffinatezza concettuale, nella elaborazione di una soluzione giuridica al problema della espropriazione di fatto, che ha portato solo noi ad affermare principi evidentemente incompatibili con la CEDU e ha collezionare, quindi, così tante condanne.
Per fortuna, l’attuale art. 42 bis ha ora risolto il problema. Si tratta in verità di una norma assi più strutturata e garantista dei generici richiami a “regolarizzazioni” fatte in altri ordinamenti, così mostrando che il nostro rigore nella elaborazione delle categorie giuridiche e la nostra raffinatezza teorica può anche essere volta a trovare soluzioni di buon senso e conformi ai principi della CEDU.
Bibliografia essenziale
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[1] Relazione tenuta al Corso dal titolo: Le procedure espropriative, a venti anni dall’entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del 2001, tenutosi presso il Consiglio di Stato il 16 e 17 marzo 2023.
Il presente scritto aggiorna, modifica e approfondisce un precedente scritto dell’autrice, Maria Laura Maddalena, L’espropriazione per pubblica utilità in Europa, alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: esperienze nazionali a confronto, apparso su www.lexitalia.it (2014).
[2] Sul punto la giurisprudenza della Corte è stata sempre chiara nell’affermare che l'obbligo di rispettare i diritti fondamentali definiti nell’ambito dell’Unione vale per gli Stati membri soltanto quando essi agiscono nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione (sentenza del 13 luglio 1989, Wachauf, causa 5/88, Racc. 1989, pag. 2609; sentenza del 18 giugno 1991, ERT, Racc. 1991, pag. 1-2925; sentenza del 18 dicembre 1997, Annibaldi, causa C-309/96, Racc. 1997, pag. I-7493) e non in materia non coperte dal diritto UE.
[3] Ne consegue che è stato affermato dalla Cassazione che non è ravvisabile alcuna "disciplina" da parte delle norme dell'U.E. nella generica previsione, contenuta nell'art. 17 par. 1 della Carta, del diritto alla percezione di una "giusta indennità" da parte del soggetto privato della proprietà per "causa di pubblico interesse", trattandosi di disposizione che non è espressiva del regolamento di una "materia" di interesse comunitario ed è priva di attitudine regolatrice di situazioni indeterminate in quanto non inclusiva di alcun criterio o parametro determinativo.”
[4] Simon Gilbert, Expropriation et Convention européenne des droits de l’homme, p. 73-86 , 2016. https://doi.org/10.4000/crdf.591
[5] In caso di appello della decisione del giudice sull’entità dell’indennizzo, è consentita la presa di possesso dell’immobile previo pagamento di quanto offerto in pagamento e di quanto determinato dal giudice.
[6] Il Conseil Costitutionell 15 luglio 1989 ha ritenuto conforme a costituzione tale disciplina.
[7] Cfr. Pierre Tifine, Le droit de l'expropriation à l'épreuve de la procédure de question prioritaire de constitutionnalité, 2014, https://www.lexbase.fr/article-juridique/20362349-doctrine-le-droit-de-l-expropriation-a-l-epreuve-de-la-procedure-de-question-prioritaire-de-constit.
[8] Pierre Tifine, Le droit de l'expropriation à l'épreuve de la procédure de question prioritaire de constitutionnalité, 2014, https://www.lexbase.fr/article-juridique/20362349-doctrine-le-droit-de-l-expropriation-a-l-epreuve-de-la-procedure-de-question-prioritaire-de-constit.
[9] José R. Chaves García, La vía de hecho: un virus administrativo endémico, 2020, https://elconsultor.laley.es/Content/Documento.aspx?params=H4sIAAAAAAAEAMtMSbF1CTEAAmNDY3NjM7Wy1KLizPw8WyMDIwMDcyMDkEBmWqVLfnJIZUGqbVpiTnEqAGsXJ-U1AAAAWKE.
Juan José González López, La responsabilidad por vía de hecho en la expropiación a la luz de la disposición adicional de la ley de expropiación forzosa.
[10] La sentenza del Tribunal Supremo, Sala de lo Civil, 616/1993.
[11] Tribunal Supremo, Sala de lo Contencioso-Administrativo, 15 ottobre de 2008.
[12] https://www.gov.uk/guidance/compulsory-purchase-and-compensation-guide-1-procedure#introduction.
[13] Sir William Wade, Administrative law, Oxford, 1994, 756.
[14] Winrich Voss, Compulsory Purchase in Poland, Norway and Germany – Part Germany, TS 3F – Compulsory Purchase and Compensation I.
[15] Ulrike Deutsch, Expropriation without Compensation – the European Court of Human Rights sanctions German Legislation expropriating the Heirs of “New Farmers”, inGerman Law Journal Vol. 06 No. 10, in www.germanlawjournal.com.
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