Care colleghe e cari colleghi,
siamo oggi qui su sollecitazione di tre assemblee sezionali che hanno chiesto, come da Statuto, l’indizione dell’Assemblea generale, all’indomani della iniziativa disciplinare nei confronti dei magistrati della Corte di appello di Milano che hanno trattato il procedimento di estradizione nei confronti del cittadino russo Artem Uss.
Prima di entrare nel vivo dei lavori assembleari, è per me un dovere, che sento in maniera convinta e commossa, ricordare, in segno di particolare vicinanza, le popolazioni dell’Emilia-Romagna, che hanno vissuto e vivono giorni difficilissimi per gli eccezionali eventi climatici che hanno devastato quelle bellissime terre.
A loro rivolgo il mio pensiero, certo di interpretare i sentimenti dell’intera Assemblea.
Siamo vicini ai colleghi che operano in quei territori, siamo allo stesso modo vicini a tutti i concittadini che ora devono trovare la forza, con il sostegno della nostra intera comunità, per ripartire, per ricostruire, per risollevarsi da una spaventosa tragedia.
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Dai distretti giudiziari, ora assemblee ora giunte sezionali hanno fatto seguire un coro di voci preoccupate, hanno espresso tutte il bisogno di una discussione aperta sull’iniziativa ministeriale, che coinvolga anche estranei all’ordine giudiziario, nella radicata convinzione che quell’atto del Ministro incide su una materia che non è affare esclusivo dei magistrati.
Quella iniziativa tocca alcuni colleghi, a cui esprimo la mia personale solidarietà, ma attiene a interessi che trascendono quelli dei singoli e del Corpo professionale a cui appartengono.
In gioco è un bene collettivo, di cui al più i magistrati possono essere custodi, attenti custodi che avvertono il dovere di lanciare l’allarme ove si avvedano che quel bene viene messo in pericolo.
Il bene a cui alludo, lo si è ben compreso, è l’indipendenza dei magistrati, come singoli e come ordine, dal Potere politico, e ciò senza disconoscere o voler noi mettere in discussione le attribuzioni costituzionali che conferiscono al Ministro della giustizia il potere disciplinare nei confronti dei magistrati stessi.
La nostra indipendenza vive e si innesta in un quadro di responsabilità a cui nessuno intende sottrarsi.
Siamo consapevoli che l’indipendenza è tributaria del principio di responsabilità e che è impensabile che possa affermarsi se non in stretto raccordo con una adeguata disciplina che sappia individuare e punire le carenze e le violazioni dei doveri del ruolo.
Con la stessa ferma e incondizionata adesione al disegno della legge fondamentale, che prende forma proprio dall’intreccio tra indipendenza e responsabilità, ci confermiamo nella consapevolezza di quanto sia fragile, e perciò bisognoso di costante attenzione, l’equilibrio fissato dal Costituente, che fa sì che l’una non mortifichi l’altra.
Un equilibrio fatto di norme, di principi e di regole, ma anche di sensibilità istituzionali e culturali, senza le quali le norme faticano un po' di più ad imporsi.
Siamo oggi riuniti a discutere di una vicenda che ha immediata rifrazione costituzionale: come è stato autorevolmente detto (ROMBOLI), il problema della responsabilità del giudice non è solo un problema di ordinamento giudiziario, quanto piuttosto un problema di ordinamento costituzionale, perché coinvolge il tema delle garanzie di indipendenza e il ruolo che la Costituzione assegna al giudice.
Una ragione in più per aprire, come abbiamo fatto, l’assemblea all’intervento di autorevoli giuristi, ai quali abbiamo chiesto di prendere la parola per aiutarci, esprimendo il loro punto di vista esterno all’ordine giudiziario, ad orientare e indirizzare il nostro dibattito in modo da non cedere ad atteggiamenti di chiusura difensiva di fronte ad un atteggiamento ministeriale che non abbiamo compreso, che non siamo riusciti a ricondurre entro le categorie rassicuranti che sanno nettamente distinguere tra responsabilità per comportamenti negligenti e dovere inderogabile dell’autonomia e dell’indipendenza della decisione giudiziale.
Interverranno l’avvocata Valentina Alberta, presidente della Camera penale di Milano che all’indomani della iniziativa ministeriale ha elaborato un documento di forte critica verso quella decisione;
e il prof. Mario Serio, insigne giurista ed intellettuale tra i più attenti nello studio dei fenomeni che attraversano, agitano e vivificano il mondo della giustizia.
É invece assente per impedimenti sopravvenuti, e ce ne rammarichiamo, il prof. Sandro Staiano, presidente dell’Associazione dei costituzionalisti italiani.
Abbiamo anche invitato il presidente dell’Unione delle Camere penali, ma l’avv.to Caiazza non potrà raggiungerci perché impegnato altrove in altra interessante iniziativa. Ci ha fatto pervenire però una bella lettera che, tra le altre cose, sottolinea l’evidente inopportunità di una iniziativa che potrebbe costituire un pericoloso precedente nel delicato equilibrio tra i Poteri dello Stato.
Ringrazio di cuore i nostri ospiti e allo stesso modo quanti non hanno potuto esserci, e mi affido al Presidente dell’assemblea perché dia ai nostri ospiti la parola quando sceglieranno di farlo.
La loro presenza è segno tangibile, oltre che della generosa disponibilità con cui hanno risposto al nostro invito, della volontà dell’ANM di condividere la riflessione sulla giustizia e sulla giurisdizione con gli altri attori del sistema giudiziario, di interpellare sulle questioni centrali l’intero ceto dei giuristi, di cui ci sentiamo partecipi.
Abbiamo esteso l’invito anche ai rappresentanti delle altre Magistrature e dell’Avvocatura dello Stato, ancora una volta perché la premessa di questo confronto assembleare è di dare corso ad una discussione di ampio respiro sui rapporti tra giurisdizione e Politica, tra organi di garanzia e organi di Governo, ovviamente non perdendo di vista la vicenda che ne è l’occasione e ne costituisce il centro tematico.
I magistrati della Corte dei conti si stanno misurando in questi giorni con scelte della maggioranza governativa – di limitazione delle loro funzioni di controllo e dei loro poteri di accertamento – e hanno avvertito, come noi oggi, il bisogno di riunirsi in un’assemblea straordinaria per manifestare preoccupazione e per rendere ancor più avvertita la Politica dei motivi della loro preoccupazione.
Ogni discorso di impronta costituzionale, come il nostro di oggi, non può essere confinato nell’ambito di un confronto tra tecnici, per l’insopprimibile matrice politica che lo qualifica con immediata evidenza.
Ciò non significa che gli altri settori dell’ordinamento siano politicamente muti, tutt’altro: ma la materia costituzionale è quella in cui si esprimono con maggiore intensità di toni le scelte politiche.
Ed anche per questa ovvia considerazione abbiamo ritenuto di invitare alla nostra assemblea il Ministro della giustizia, on. Nordio.
Vogliamo parlare di politica costituzionale della giustizia e sarebbe stato un errore non coinvolgere il Ministro della giustizia che ne è protagonista.
Ma non è soltanto questa la ragione per la quale lo abbiamo invitato.
Abbiamo inteso dare un segno concreto di quanto sia lontano da noi il desiderio di contrapposizione specie preconcetta, di polemica esibita per segnare una presenza sulla scena pubblica.
I tempi e la diffidenza da cui siamo circondati ne fanno avvertire tutta la necessità.
L’ho già detto tante altre volte e lo ripeto: l’Associazione nazionale magistrati non cerca e anzi rifugge lo scontro, ma chiede, con ferma volontà, attenzione.
Proprio perché siamo convintamente rispettosi dei poteri e degli spazi di azione del Ministro, chiediamo che la giurisdizione sia riconosciuta per quello che è e deve essere per conformità alla Costituzione, un potere che non può essere gravato di pesi ulteriori a quello, già di per sé consistente, di rendere giustizia.
Può anche apparire, in determinati frangenti, un potere scomodo agli occhi di chi ha compiti di amministrazione e di governo e ha responsabilità anche sul piano internazionale della relazione tra Stati, ma questo è l’in sé del gioco democratico e non il frutto di un capriccio dei magistrati che si dilettano nel creare ostacoli al governante di turno.
È sbagliato attendersi dalla giurisdizione quel che non può dare per sua fisionomia, e cioè percorrere le stesse rotte che la Politica ciclicamente individua per il perseguimento degli scopi di governo della cosa pubblica.
La ricerca del bene comune è fuori discussione ed è ciò a cui tutti naturalmente guardiamo: ma le rotte in cui la giurisdizione rema non sono e non possono essere le stesse che seguono gli organi degli altri Poteri dello Stato.
La giurisdizione non rema contro, semplicemente segue un’altra direzione, che è quella non di comporre interessi ma di rendere giustizia.
Ed è proprio seguendo questa diversa direzione che realizza la sua missione nell’interesse dello Stato, della sua comunità, degli individui che la compongono o che con essa vengono in contatto.
Chiediamo – anche su questo credo di essere buon interprete del sentire diffuso in quest’Aula e nell’intera Associazione – che l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione siano affermate a parole e nei fatti, nelle dichiarazioni ufficiali e negli atti che traducono l’esercizio di un qualsivoglia potere.
Con queste premesse mi è facile mettere in chiaro altre due coordinate entro cui, a mio giudizio, deve collocarsi e svilupparsi la nostra discussione.
L’Assemblea non si tiene per imbastire un processo al processo disciplinare che è stato promosso;
e non può essere neanche il luogo in cui si anticipa il processo disciplinare che ha il suo giudice naturale nella sezione disciplinare del Csm.
Non è dunque il merito di quella vicenda che possiamo affrontare, per dire se quel collegio della Corte di appello di Milano abbia fatto bene o male.
Lo dirà il Csm, e nutriamo fiducia nel suo giudizio.
Quello che invece ha destato diffusa preoccupazione tra i magistrati è il non essere riusciti a collocare l’iniziativa del Ministro, l’incolpazione che ha elevato, entro gli ambiti che le sono propri, e ciò al di là della fondatezza\infondatezza.
Non siamo in allarme perché riteniamo l’azione del Ministro infondata; ovviamente, se fosse solo questo, non ci ritroveremmo una domenica di giugno in un’assemblea generale.
Siamo in allarme per qualcosa di più radicale, perché dalla lettura per quanto attenta della iniziativa ministeriale – in uno con il provvedimento cautelare oggetto della incolpazione – non abbiamo rinvenuto, nella prospettazione dei fatti sì come articolata nell’addebito, gli indici che possano ricondurla, quanto meno in astratto, sul terreno della rimproverabilità dei comportamenti dei magistrati.
Quell’azione si situa invece, per il modo stesso in cui si prospetta e non già perché se ne debbano approfondire i contenuti, nel giardino proibito della valutazione delle prove e della interpretazione delle norme.
Giardino a cui l’accesso è inibito al Ministro perché errori di interpretazione ed errori di valutazione dei fatti e delle prove, ammesso in ipotesi che ci siano, sono sì censurabili, ma dentro il processo e nei suoi gradi di giudizio.
Non in sede disciplinare, salvo che attingano la soglia della macroscopicità conseguente a grave negligenza, sciatteria, trascuratezza grossolana o si avventurino lungo interpretazioni strampalate, talmente strampalate da essere abnormi.
Non va allora dimenticato, senza aggiungere altro, che l’ordinanza collegiale incriminata non ha negato le esigenze cautelari, non ha scarcerato l’estradando, tutt’altro!
Ha sostituito la misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, misura collocata a stretto ridosso della carceraria.
E tutti i tecnici del diritto sanno che il legislatore vuole che la misura carceraria, se proprio deve essere perché ogni altra si palesa inadeguata, sia applicata indicando le specifiche ragioni per cui si ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura prossima degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico.
Il Ministro della giustizia ha avuto occasione, di recente, di affermare che la Politica non può sindacare il merito dei provvedimenti giudiziari, aggiungendo che allo stesso modo i magistrati non possono sindacare il merito delle leggi.
Non mi soffermo su questa ultima parte, ma la prima, l’insindacabilità politica del merito dei provvedimenti è ciò che ci attendiamo quando si discorre di responsabilità disciplinare.
Il confine tra merito delle scelte giudiziarie e modi, comportamenti con cui ad esse si giunge non può essere alterato, e non solo per non violare la legge ordinaria – nonostante ciò sia già sufficiente per pretendere che non avvenga – quanto per non intaccare l’equilibrio costituzionale nelle relazioni tra politica e giurisdizione.
Poco più di un anno fa ci riunimmo in assemblea per illustrare i nostri buoni argomenti nel richiedere alla Politica una correzione di tiro nell’allora disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario.
Gran parte delle nostre preoccupazioni si concentrarono proprio sulle innovazioni in materia disciplinare, tra le altre sulla previsione di illecito anche per i casi di violazione (grave e reiterata) delle direttive, delle direttive non meglio specificate, senza quindi che venisse e venga chiarito di quali direttive possa trattarsi, in quale settore, su quale materia, da chi impartite.
Il timore di allora, come quello di oggi, è che si creino spazi per penetrare, con la leva disciplinare, negli ambiti delle valutazioni soggette soltanto alla legge e al riparo dalla minaccia della punizione disciplinare.
E allora – qui la preoccupazione – c’è continuità culturale tra la vaghezza di quella norma, inserita con quel suo deficit di tassatività nel nostro sistema, e il modo con cui, almeno in questo caso, è stato interpretato il ruolo del titolare dell’azione disciplinare?
Quella modifica normativa e l’iniziativa del ministro sono i tratti di una stessa parabola la cui traiettoria sembra perdere di vista il nucleo della relazione tra responsabilità e indipendenza del magistrato?
Queste alcune delle domande che ci interpellano con inquietudine e che si inscrivono in una più ampia cornice problematica.
La direzione in cui da anni si incamminano le riforme sulla magistratura ci sta allontanando progressivamente dal disegno della Costituzione.
La prospettiva che prende sempre più consistenza è che la successiva tappa di questa continua esperienza riformatrice segni un ulteriore distacco da quella complessiva, essenziale, architettura.
Non possiamo allora non alzare lo sguardo dalla vicenda disciplinare di cui oggi ci occupiamo; non ci faccia velo che l’ordine del giorno di questa assemblea ha ad oggetto solo e soltanto quella iniziativa.
Siamo tenuti a farlo se vogliamo restare fedeli agli impegni di militanza e di rappresentanza associativa e soprattutto se vogliamo mostraci all’altezza del patrimonio ideale di difesa attenta e generosa dei valori costituzionali di una giurisdizione democratica che nei decenni passati la nostra Associazione, spesso ferita, a volte non solo dall’esterno, ha costruito con l’impegno, la dedizione, l’intelligenza, la generosità di chi ci ha preceduto.
E appena lo facciamo non possiamo non scorgere che il prossimo futuro chiamerà l’Associazione ad una presenza nel dibattito pubblico sulla giustizia ancora più attiva e ancora più difficile.
L’annuncio per fine anno o giù di lì di una poderosa riforma costituzionale, con separazione delle carriere, con l’estromissione del pubblico ministero dal nostro unico ordine, ci chiama ad un rinnovato sforzo per spiegare, per argomentare, per illustrare quel che ci induce ad essere contrari e che merita attenzione.
Non ci sgomenta il monito del Ministro, di cui abbiamo letto qualche giorno fa, e che qualche commentatore ha interpretato come diretto alla ANM anzitutto.
Ha detto il Ministro, a proposito dei prossimi progetti di riforma, che saranno ascoltati i contributi di magistratura e avvocatura, perché tutti degni di essere ascoltati, ma che nessuno potrà condizionare la volontà sovrana, la maggioranza espressa dal popolo con un programma definito.
Non abbiamo dubbi a tal proposito.
Nessuno, meno che mai i magistrati, pensa di condizionare nessuno, meno che mai il Parlamento espressione della sovranità popolare.
Abbiamo però una speranza: che la determinazione con cui i programmi della maggioranza governativa saranno portati avanti non impedirà un ascolto che non si risolva in uno stanco e vuoto rituale, utile solo a poter dire “abbiamo ascoltato tutti”.
Abbiamo infine una convinzione, che sosterrà il nostro impegno nello spiegare le contrarietà: le battaglie ideali per i valori più alti vanno combattute anche se tutto fa pensare che le idee portate avanti soccomberanno, perché più del risultato importa non farsi preda del disincanto che apre la strada al rassegnato realismo.
Le democrazie vivono anche del dovere della testimonianza di idee e di valori e non bisogna dimenticare che quel dovere sociale, direi politico se ciò non esponesse a malevole polemiche e che allora appello come dovere per la comunità, se adempiuto fino in fondo, può rendere in un più ampio ma non indefinito orizzonte temporale quella testimonianza, la nostra testimonianza, inaspettatamente feconda.
A tutti noi un proficuo lavoro.