ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. le possibili definizioni della bellezza nella teoria generale e nel diritto positivo. - 2. Bellezza e cultura. - 3. Le diverse prospettive di inquadramento e il ruolo delle istituzioni e dei soggetti privati nella conservazione e diffusione della bellezza. - 4. Le diverse concezioni del paesaggio come depositario della bellezza. - 5. Il diritto al borgo e il diritto del borgo: tra bellezza perduta e bellezza trattenuta. - 6. Considerazioni finali.
1. Le possibili definizioni della bellezza nella teoria generale e nel diritto positivo.
Il titolo del convegno “diritto” e “bellezza” consente di giocare con le parole. E quindi i termini si possono variamente comporre: diritto alla bellezza, diritto della bellezza e bellezza del diritto, ad esempio quest’ultima rispetto alla bruttura delle leggi attuali; e che evoca la distinzione tra l’ordine dello ius e il disordine della lex.
Il diritto alla bellezza compare già da qualche tempo nella letteratura giuridica, dove si tende ad aprire il discorso sulla base della premessa che la bellezza è un concetto non racchiudibile in una formula definitoria certa, al pari della definizione di cultura. In realtà ciascuno di noi dentro di sé conosce gli effetti, definitivi o transeunti, dell’esperienza della bellezza, ma non sa dire cosa sia[1].
Questo per il giurista non è un gran male, visto che già nel diritto romano si avvertiva della pericolosità delle definizioni giuridiche. Accontentiamoci della empirica distinzione tra la bellezza soggettiva, legata al gusto di ciascuno, e la bellezza in senso oggettivo, come un insieme di elementi che se rispondono a dati canoni (ad es. armonia) fanno sì che l’oggetto dell’osservatore possa considerarsi ‘bello’. Inoltre il concetto di bellezza cambia a seconda del periodo storico preso in considerazione, nonché del luogo e della cultura del popolo che lo abita. Così come diverse sono le forme in cui essa si esprime, basti pensare alle arti, alle lingue, alla letteratura, al paesaggio e al bene culturale[2].
In ogni caso la definizione, tra quelle proposte, che più sembra soddisfare è quella che vede nella bellezza “la dimensione antropologica fondamentale per la realizzazione personale dell’individuo e per lo sviluppo complessivo della società”[3]. Tale definizione postula l’esistenza di una dimensione individuale e una dimensione collettiva della bellezza.
Quindi se ne devono occupare il diritto privato e il diritto pubblico.
È utile ricordare che il diritto è morfologia della prassi e persegue fini pratici, per cui si prescinde dalle concezioni filosofiche e dalla logica astratta. Questo ci consente di affermare che al centro del sistema che alla bellezza, direttamente o indirettamente, si richiama, si pone l’attività giuridica delle persone fisiche e dei poteri pubblici e privati.
Il diritto soggettivo, ma anche l’interesse legittimo, sono entrambi delle categorie storiche con cui il giurista vuole indicare un interesse materiale giudicato meritevole dall’ordinamento (art. 1322 cod. civ.), che lo delaicizza, dandogli protezione giuridica. Ad esempio, ed è particolarmente calzante, l’art. 12 del Codice dell’ambiente e del paesaggio, espressamente contempla la verifica dell’‘interesse culturale’ da parte del Ministero dei beni culturali.
Non si rinvengono norme che espressamente contemplino un diritto individuale o collettivo alla bellezza.
La Costituzione, all’art. 9, anche nella versione recentemente riformata, non usa il vocabolo ‘bellezza’, nonostante abbia dato dignità altissima a concetti provenienti dalle dottrine ecologiste, come l’ambiente, le future generazioni, lo sviluppo sostenibile e gli animali. Parimenti il riformato art. 41 -nell’inserire, accanto all’utilità sociale, la salute, l’ambiente, la sicurezza, la libertà e la dignità umana, quali nuovi limiti all’iniziativa economica privata- non stabilisce espressamente che l’iniziativa economica non deve andare a detrimento della bellezza delle cose e dei luoghi.
Tuttavia se lo si guarda alla luce della tutela della bellezza, per come cercheremo di definirla, gli si fornisce il vero senso di come debba essere interpretato, ossia non solo come una disposizione che impone di tutelare e valorizzare cose culturali, ma anche di salvaguardare l’interesse dei consociati a trarre da essi gli effetti emozionali che solo la bellezza può dare. Inoltre la collocazione nella medesima disposizione della promozione della cultura, unitamente alla ricerca scientifica e tecnica, tutela non solo la bellezza che deriva da ciò che è stato, ma anche quella che deriverà da ciò che sarà.
Il vocabolo ‘bellezza’, di cui già parlavano le giustamente famose leggi Bottai del 1939 ma anche la legge Croce n. 778 del 1922, compare a più riprese nell’art. 136 del d. l.vo 22 gennaio 2004, n. 42 (il già ricordato codice dei beni culturali e del paesaggio), laddove nello stabilire i criteri per l’individuazione dei beni paesaggistici, usa espressioni come ‘cospicui caratteri di bellezza naturale, ‘non comune bellezza’ e ‘bellezze panoramiche’.
A livello comunitario, va ricordata la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società (Convenzione di Faro, dalla città portoghese dove è stata stipulata il 27 ottobre del 2005, sottoscritta dall’Italia nel 2013 e finalmente ratificata con la legge 1 ottobre 2020, n. 133). In forza di essa si riconosce che “il diritto al patrimonio culturale è inerente al diritto a partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” affermando altresì “una responsabilità individuale e collettiva nei confronti del patrimonio culturale”. Inoltre stabilisce che “la conservazione del patrimonio culturale, ed il suo uso sostenibile, hanno come obiettivo lo sviluppo umano e la qualità della vita” e che “il patrimonio culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione”. Infine “l’esercizio del diritto al patrimonio culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altri diritti e libertà”.
Quindi i dati normativi immettono direttamente l’interprete nel campo cui rinvenire un possibile diritto alla bellezza, ossia i beni culturali e il paesaggio, nonostante l’assorbimento di quest’ultimo nell’ambiente latamente inteso. Con l’avvertenza che il diritto alla bellezza delinea un campo più largo.
2. Bellezza e cultura.
Fare della bellezza l’oggetto di un diritto postula l’esigenza di individuare, oltre al già visto interesse protetto, sia i soggetti che ne sono titolari sia il suo contenuto; il che poi consente di classificarlo tra le varie tipologie dei diritti, individuali sociali dominicali personali di godimento e così via.
Il punto nodale è stabilire il rapporto tra cultura e bellezza, che non sembrano essere la stessa cosa, a meno che non si voglia ritenere che vi sia una perfetta identità per cui la bellezza sarebbe sinonimo di cultura e viceversa. E così il discorso si potrebbe chiudere, concludendo che la bellezza sia l’espressione enfatica “del diritto al patrimonio culturale”, che è l’unico diritto che viene contemplato dai testi normativi sovranazionali. In effetti il patrimonio culturale è naturalmente predisposto ad attivare il sentimento della bellezza.
Si è già fatto cenno all’elemento comune, ossia l’indeterminatezza di entrambi i concetti. Non pochi anni fa, nell’occuparmi della cultura nell’ordinamento giuridico interno ed europeo, e in particolare di come i poteri pubblici l’avessero da sempre assunta tra le proprie finalità essenziali, si arrivò alla conclusione che fosse vero quanto autorevolmente sostenuto da Giannini, ossia che un testo normativo non può adottare predefinizioni o nozioni extragiuridiche totalizzanti. Sicché esso “non può che accettare una nozione del tutto empirica di cultura, ossia quella espressa dalla locuzione di complesso di manifestazioni della vita intellettuale”[4].
Tuttavia delle varie nozioni che mi capitò allora di leggere quella che più si avvicina all’essenza della definizione l’ha fornita Giovanni Paolo II, ossia che “la cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo”[5].
Quindi entrambi i concetti impingono nella dimensione antropologica fondamentale dell’individuo, di cui si è detto. Bellezza e cultura si saldano nell’immanente umanità dell’uomo.
Si può azzardare l’ipotesi che l’ambito occupato dalla cultura sia più ampio rispetto a quello occupato dalla bellezza e che la prima è in funzione, non esclusiva, della seconda. La cultura della persona deve contenere in sé anche la predisposizione a fruire della bellezza del mondo che ci circonda, poiché essa realizza appieno le parti più profonde della personalità e quindi dell’intera società umana (art. 2 della Costituzione).
In questo processo un ruolo fondamentale deve essere svolto dall’educazione scolastica e familiare, che non può limitarsi a sviluppare solamente le facoltà conoscitive della persona, ma anche quelle emotive. In altri termini deve educare anche alle sane emozioni derivanti dalla bellezza, aggiungendo così vita alla vita. Questo entra in connessione con “l’altrove”, ad esempio, della grande poesia leopardiana (oltre la siepe). Ma pare che tutti i veri poeti in quanto tali siano calati nell’altrove (ivi compresa la vita o il nulla che verranno dopo la morte), che è la dimensione naturale della poesia.
E le istituzioni culturali, pubbliche e private, debbono rimuovere tutti gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo sincronico della mente e del cuore della persona (art. 3 della Costituzione). Se esiste, come sembra, un diritto al patrimonio culturale (ossia alla bellezza che da esso deriva) esiste anche la responsabilità di ciascun individuo e dei poteri pubblici e privati qualora esso venga in vario modo pregiudicato[6].
Dalle considerazioni svolte pare che il contenuto del diritto alla bellezza sia costituito dal patrimonio culturale (in cui la stessa legge include anche il paesaggio) identificativo della storia e della civiltà di un popolo e che sicuramente provoca, in maniera quasi naturale secondo l’ordinamento, in chi ne goda l’emozione della bellezza. Tuttavia, come avvertito, il diritto alla bellezza ha una portata più ampia, ossia ha una vocazione universale, visto che ciascuno può rinvenire il sentimento della bellezza ovunque essa si trovi, pretendendone rispetto.
3. Le diverse prospettive di inquadramento e il ruolo delle istituzioni e dei soggetti privati nella conservazione e diffusione della bellezza.
Ma torniamo al terreno più sicuro del sistema legislativo.
Come per la cultura e la scienza, l’ordinamento giuridico prende in considerazione la bellezza almeno da tre angolature diverse: la prima, in cui cerca di definire e delimitare gli ambiti di operatività degli apparati pubblici rispetto all’attività che prende in considerazione l’interesse, appuntato sui beni culturali e il paesaggio, alla bellezza; il secondo, in cui tenta di proteggere tutto ciò che è depositario di bellezza, regolandone lo scambio e la fruizione, secondo trame molto complesse; il terzo, in cui, partendo dalla naturale vocazione universale della bellezza, tenta di radicare una sorta di diritto collettivo alla fruizione delle bellezze. Sicché tutto ruota intorno ai tre protagonisti di siffatte attività, ossia l’apparato pubblico, l’operatore e i movimenti culturali, il fruitore dell’attività culturale in senso lato.
In questa sede, si può solamente osservare come la Costituzione (art. 118, 4 comma), laddove stabilisce che “Stato, Regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”, privilegia la sussidiarietà orizzontale rispetto a quella verticale. Apre così alla partecipazione dei privati nell’amministrazione dei beni culturali, naturalmente predisposti a produrre bellezza, fornendo una importante direttrice nella valorizzazione del patrimonio culturale, che va oltre il confine dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”, di cui tanto si discuteva negli ambienti ministeriali degli anni ’90 (si pensi che allora il prezzo del biglietto per entrare nei musei era considerata una tassa). È utile ricordare l’art. 151, comma 3, del codice dei contratti pubblici del 2016, che non pare toccato dalla imminente riforma del settore, consente di attivare forme speciali di partenariato con enti e organismi pubblici per ottenere il recupero, il restauro e la manutenzione programmatica dei beni culturali immobili, attraverso procedure semplificate.
Vi è una chiara scelta di garantire le libertà sociali, che debbono sopravvivere ai criteri rigidamente economicistici talvolta imposti dalle pubbliche amministrazioni. Non va tuttavia dimenticato che anche il diritto sociale alla bellezza ha dei costi e che i cittadini debbono essere educati a sopportare il ricorso alla fiscalità generale per garantire tale diritto, che non ha una dignità inferiore agli altri diritti fondamentali della persona[7].
Alla fine anche questo implica l’esercizio di una cittadinanza attiva e inclusiva. A tal proposito è utile segnalare come il problema dell’accoglienza e dell’inclusione nel suo rapporto con la cittadinanza non è estraneo al tema della bellezza, data la sua portata universale basata su un concetto metagiuridico quale l’humanitas. Studiosi autorevoli del diritto romano hanno a lungo dibattuto il tema se la struttura della civitas avesse carattere escludente o includente presso l’Impero romano[8].
Da parte degli studiosi più attenti viene segnalata la necessità di istituire un vero e proprio sistema nazionale per la bellezza[9], che vede protagonisti i soggetti pubblici e privati, che possono utilizzare gli schemi organizzativi previsti dal diritto pubblico dell’economia. Una più meditata attenzione da parte del legislatore andrebbe rivolta alle attività culturali e dello spettacolo, ivi compresi i luoghi frequentati in passato da uomini di cultura (si pensi alle trattorie storiche), la cui disciplina è rimasta fuori dal codice dei beni culturali e del paesaggio, che si distacca dalle dizioni contenute in precedenti testi normativi, dapprima il d.P.R. n. 616 del 1977, indi l’art. 148 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, abrogato dallo stesso, che presentavano aperture anche verso beni immateriali, inserendo in un unico elenco tanto i “beni culturali”, quanto le “attività culturali”, intendendosi per tali quelle “rivolte ad affermare e diffondere espressioni della cultura e dell’arte” (lettera f): ne emerge una certa incertezza sul piano della sistemazione concettuale.
In questo possibile disegno i beni culturali, il paesaggio e tutto quanto possa contenere in sé l’interesse alla bellezza sono da considerarsi beni comuni, che sfuggono alla logica dominicale e vanno considerati per il loro valore d’uso. Tanto più che i beni comuni sono stati attratti dalla dottrina e dalla giurisprudenza nell’alveo degli artt. 2 e 3 della Costituzione; e quindi sono strumenti per la realizzazione della personalità umana e tutti debbono potervi accedere[10].
4. Le diverse concezioni del paesaggio come depositario della bellezza.
Il tema prescelto impone alcune brevi considerazioni sul paesaggio.
Esso viene incluso dal Codice sui beni culturali e del ‘paesaggio’ (appunto), al pari del Testo unico del 1999, nel patrimonio culturale, nel quale dunque rientrano (art. 2) “gli immobili e le aree indicati all’art. 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge”.
In attuazione dell’art. 9 della Costituzione e sulla scia della Convenzione europea del paesaggio (20 ottobre 2000), il codice individua l’oggetto della tutela e della valorizzazione nel “paesaggio”, termine con il quale si intende “il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle reciproche interrelazioni” (art. 131). E tale tutela è relativa “a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”.
Dalle espressioni usate dal legislatore risulta evidente il passaggio dall’originaria impostazione estetizzante delle leggi del 1939 a quella attuale, dove diventano centrali i valori che il paesaggio esprime quali “manifestazioni identitarie percepibili” per arrivare poi, a seguito della modifica dell’art. 131 del codice nel 2008, alla nozione di paesaggio come “identità estetica dei luoghi, che siano lo specifico “carattere distintivo” di quel territorio.
Nell’attuale dibattito dottrinario si tende a distinguere la categoria dei beni paesaggistici (aree naturali caratterizzate da singolarità geologica; aree ecologiche di particolare rilievo naturalistico; paesaggi artificiali) da quella dei beni di tipo urbanistico (comprendente le strutture urbanistiche “urbane” ma anche delle campagne). Va da sé che la prima categoria, in cui risultano evidenti le concezioni delle leggi della prima parte del secolo scorso, per fortuna continua ad avere un suo contenuto e la legge non può che andare nel senso della sua conservazione. Tuttavia, per numero e importanza, la seconda categoria è diventata centrale poiché essa costituisce la forma del territorio creata dalla comunità umana che vi è insediata ed evoca la continua interazione della natura e dell’uomo, come forma dell’ambiente. Sicché la conservazione e la tutela riguardano lo stesso ambiente naturale così come modificato dall’uomo, che è intervenuto nelle varie epoche storiche sull’intero territorio nazionale, per cui si rende necessario individuare quali parti dell’opera modificativa dell’uomo siano espressioni delle civiltà che si sono succedute, che poi sembrano ridursi, ma non è poco, alla civiltà contadino-artigianale e a quella industriale. E il criterio che si ispira alla bellezza può essere una guida infallibile in tale opera di identificazione.
Nell’alveo del paesaggio vanno ricondotti anche la flora e la fauna poiché anch’esse concorrono a formare l’ambiente in cui vive e agisce l’uomo.
In conclusione, sembra sia prevalsa la concezione socio-antropologica del paesaggio da includere nell’ambiente, soprattutto per effetto degli studi da tutti apprezzati di Alberto Predieri[11]. Tuttavia la legge non ha dimenticato le bellezze naturali delle leggi del 1939, da conservare e godere. Però è penetrata nelle dottrine e nella giurisprudenza l’idea che paesaggio da custodire e valorizzare sia tutto ciò è stato costruito dagli uomini e che il trascorrere del tempo storico l’ha reso espressivo di un mondo che non c’è più, ma che è ancora in grado sia di raccontare la piccola e la grande storia dei singoli e delle comunità sia di emozionare i contemporanei, che è poi l’essenza della bellezza. In altri termini la bellezza non è solo contemplazione estatica dei luoghi e delle cose, ma soprattutto un modo di vivere.
5. Il diritto al borgo e il diritto del borgo: tra bellezza perduta e bellezza trattenuta.
In questo quadro si inserisce il diritto al borgo.
I diritti sociali nascono da un bisogno che chiede di essere soddisfatto.
Nel nostro caso sia il bisogno sia il diritto sono dati “dalla situazione sulla base della quale i cittadini delle aree interne intendono riscattarsi dalla loro precaria condizione di vita locale rivendicando la pari dignità con le aree più sviluppate, nell’ottica di riappropriarsi della città, dei suoi spazi comuni oramai abbandonati, dei sui luoghi di aggregazione non più frequentati, delle bellezze culturali trascurate; diritto, questo, la cui duplice dimensione allo stesso tempo, soggettiva e collettiva, ha finito per trascendere ad uno stadio in qualche modo più oggettivo, riferendosi ad una condizione che più che riguardare l’individuo in se, ha preso di mira il luogo in cui la comunità insediata, facendo sì che dal ‘diritto al borgo’ si passasse al ‘diritto del borgo’, chiaramente calibrato sui piccoli centri urbani di periferia. Così, partendo dalla posizione sociale e giuridica degli individui, si è preso atto del fatto che il centro di imputazione degli effetti delle iniziative intraprese non dovesse più essere il cittadino in sé ma il luogo in cui si dispiega la sua personalità, nella consapevolezza che tutelando le esigenze emergenti dei piccoli borghi si accorderebbe comunque protezione, seppur di riflesso, alla comunità insediata. In questa direzione, dunque, il ‘diritto al borgo’ si traduce in una sorta di diritto ad esistere e a contare nello scacchiere territoriale italiano, il che implica l’adozione di una serie di attività volte ad assicurare la rivitalizzazione e la rigenerazione, seppur in sintonia con i valori ambientali e culturali territorialmente espressi e le insite prospettive di turismo”[12].
Si è voluto riprodurre fedelmente la felice definizione del diritto al borgo rinvenuta nell’interessante approfondimento di Di Mauro per la sua precisione e completezza.
In esso si avverte l’eco del c. d. diritto alla città, di cui si parla la New Urban Agenda, firmata a margine della terza Conferenza delle Nazioni Unite sulle città sostenibili e gli insediamenti urbani, tenutasi a Quito il 7 ottobre 2016, in cui si fa riferimento all’uguaglianza nell’uso della fruizione delle città e gli insediamenti urbani da garantire a tutti gli abitanti, presenti e futuri, senza discriminazioni.
Anche se non si può non segnalare il momento terribile che stanno attraversando i centri storici delle nostre città, che è quello “delle saracinesche abbassate, delle insegne luminose spente, dei vetri appannati e degli scatoloni accatastati”[13].
Per capire meglio di cosa stiamo parlando, è utile ricordare che dottrina autorevole[14] suddivide i borghi italiani in tre categorie a seconda del diverso processo di antropizzazione che li ha caratterizzati, ossia gli insediamenti storici intrappolati nell’espansione edilizia e nell’agricoltura industrializzata; gli insediamenti storici abbandonati per ragioni naturali (si pensi alla bellissima Roscigno vecchia nel Cilento); i nuovi centri abitativi trasfigurati dal recupero omologante del turismo.
Le caratteristiche comuni di tutte e tre le tipologie sono spesso costituite dal deterioramento del patrimonio abitativo, dal degrado e dall’incuria manutentiva del patrimonio storico artistico, dall’impoverimento del tessuto produttivo, dall’isolamento e lo spopolamento.
Dagli studi dell’Istat (rapporto sul territorio del 2020) i comuni ricompresi nelle aree interne sono pari al 51,4% del totale e rappresentano il 21,9% della popolazione e circa il 60% della superficie nazionale. Si registrano alti livelli di spopolamento e fragilità demografica. Il numero delle persone che vivono stabilmente nei comuni delle aree interne si è ridotto di circa 250.000 unità e l’indice di vecchiaia del 2019 è superiore alla media nazionale in tutte le ripartizioni, con un picco nel nord-ovest. Questo è la conseguenza sia dell’aumento della popolazione anziana, sia della diminuzione di quella giovanile, aggravando lo squilibrio generazionale e minando la sostenibilità della popolazione.
Bisogna riconoscere che vi sono state varie iniziative normative per risolvere la questione delle aree interne del paese. Forse quella dove si rinviene la maggiore consapevolezza del problema riguarda il Piano di ripresa e resilienza (PNRR), che ha tentato di cogliere l’occasione per rilanciare e sviluppare il programma Next Generation Eu (NGEU) dell’Unione Europea, con la mobilitazione di circa 2,1 miliardi di Euro nei prossimi cinque anni. A riprova che i piccoli borghi sono considerati centrali nell’economia territoriale italiana.
Esso è in linea con le iniziative legislative degli ultimi anni. Le più importanti sono state: a) la fondamentale legge “piccoli comuni” o “salva borghi” (L. n. 158/2017) per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni e per la riqualificazione e il recupero dei centri storici; b) le politiche di coesione attuate dalla Strategia Nazionale per le Aree Interne; c) le politiche del Ministro della cultura che ha istituito nel 2017 l’Anno dei Borghi; d) le numerose leggi regionali in materia urbanistica.
Il PNRR ha anche previsto alcune misure specifiche in tema di rigenerazione sociale e culturale dei piccoli siti storici, con l’obiettivo di arginare il fenomeno di marginalizzazione delle aree interne e di correggere i flussi turistici in atto. È importante sottolineare come i flussi turistici debbono assumere nuove forme (c. d. turismo culturale) teso a valorizzare molti altri luoghi pressoché sconosciuti ma che hanno un grande valore culturale, senza impoverire quelli più frequentati.
Diffondere la cultura dei piccoli borghi storici significa attrarre flussi turistici, che a sua volta produce sviluppo economico, ossia nuove iniziative imprenditoriali e creazione di nuova occupazione.
Le dottrine urbanistiche però insistono sulla necessità di coordinare le attività, sviluppando la leale collaborazione tra i diversi livelli territoriali di governo nella decisione ed attuazione degli interventi da realizzare, senza dimenticare il coinvolgimento delle comunità territoriali di riferimento. Questo era mancato nell’attuazione della ricordata legge sui piccoli borghi (la già richiamata L. n. 158/2017), che non prevede un particolare coinvolgimento delle autonomie locali nella fase decisoria.
È importante ricordare come sia necessario promuovere la più ampia partecipazione dei privati sia nella fase della progettazione sia in quella della esecuzione, in attuazione dei ricordati artt. 118 della Costituzione e della Convenzione di Faro sul valore del patrimonio culturale per la società umana.
Si sono volute fornire queste disordinate e molto parziali informazioni al fine di poter dare una certa sostanza al diritto al borgo, che alla luce di quanto esposto all’inizio diventa una sorta di meta-diritto o di diritto-meta, come pure è stato segnalato in dottrina.
Va da sé che se l’altrove è anche uno spazio giuridico, il borgo, proprio per il particolare regime che ne connota i tratti, si inserisce a pieno titolo tra quelle cose che il diritto deve proteggere, favorendo la dimensione emozionale e sentimentale delle persone che in qualche modo si sentono coinvolte.
In altri termini anche tale diritto, alla luce del riformato art. 9 della Costituzione, si inserisce appieno nel diritto alla bellezza e ne costituisce una declinazione importante. E questo proprio perché ha una valenza sociale e individuale al tempo stesso. Infatti anch’esso consente di considerare in maniera unitaria il passato il presente e il futuro. Nel passato rientra il patrimonio artistico e storico, nel presente il paesaggio l’ambiente la biodiversità e l’ecosistema, nel futuro la cultura la ricerca tecnico-scientifica e le future generazioni.
6. Considerazioni finali.
Le conclusioni che si possono trarre, per fermarsi al diritto al borgo, non possono che avere ad oggetto la pluralità dei bisogni che ne costituiscono il fondamento. C’ è il bisogno di coloro che sono restati, quasi mai per scelta; il bisogno di coloro che sono andati via senza mai dimenticare il teatro della loro giovinezza, e che vorrebbero tornare per poco o per sempre (si parla di “turismo delle radici”); il bisogno di chi, stanco della vita estraniante della grande città, vorrebbe vivere in un piccolo borgo che però non sia un museo delle porte chiuse, come è stato definito l’attuale stato dei paesi[15], bensì un luogo di armonia e bellezza. Per soddisfare questo bisogna costruire una economia locale che dia lavoro e possibilità di scambio culturale; cosa sempre più difficile nell’economia globale, che è sempre più omologante. L’omologazione tende a distruggere la bellezza, poiché, annullando le differenze create dalla storia, elimina la diversità di ciascuno di noi che deve esserci nonostante si viva lo stesso tempo storico.
L’imperatore Adriano si sentiva responsabile della bellezza del mondo. Gli attuali governanti debbono quantomeno sentire che la rigenerazione dei piccoli borghi è una necessità storica per la valorizzazione attiva di una parte fondamentale del nostro patrimonio storico-culturale e per contribuire a restituire a tutti noi una vita più umana.
*Relazione tenuta al convegno “Diritto e Bellezza. Verso l’altrove”, VII dialogo tra giuristi, Ravello, 23-24 marzo 2023. Nelle more della pubblicazione degli atti del convegno, la Rivista anticipa la pubblicazione del presente scritto per gentile concessione dell’Autore.
[1] Agostino, Le confessioni, 14-17, dove il concetto viene espresso a proposito del tempo. Ma si veda anche C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017, dove la nozione del tempo diventa un fatto scientifico concreto.
[2] A proposito dell’arte, si veda V. Trione, L’opera interminabile. Arte e XXI secolo, Milano, 1983, 2019.
[3] La definizione è di M. A. Cabiddu, Diritto alla bellezza, in Rivista AIC, fasc. n. 4, 2020, p. 368. Sulla medesima scia si muove il volume A.A. V.V. Le arti e la dimensione giuridica, curato da O. Roselli, Bologna, 2020. Per il rapporto del diritto con la musica si veda il classico S. Pugliatti, L’interpretazione musicale, Messina, 1938, ma anche il recente E. Picozza, Scritti vari su musica e diritto, E. S. 2022. Il rapporto tra diritto e letteratura è indagato nella trilogia, Giustizia e letteratura, a cura di G. Forti, C. Mazzucato, A Visconti, Milano, voll. I, II e III 2012-2014-2016.
[4] Si vedano i fondamentali scritti di M. S. Giannini, I beni culturali, in Riv. Trim Dir. Pubbl., 1976, p. 1026 e Sull’art. 9 della Costituzione, in Scritti in onore di A. Falzea, II, Milano, 1991, p. 435. ss; F. Santoro-Passarelli, I beni della cultura secondo la Costituzione, in A.A.V.V.. Studi per il XX anniversari dell’Assemblea Costituente, II, Firenze, 1969, 430 ss. Per una visione d’insieme con la scienza e la tecnica, G. P. Cirillo, Sistema istituzionale di diritto comune, Cedam, II edizione, 2021, p. 358-373.
[5] Discorso tenuto all’Unesco a Parigi il 2 giugno 1980, sviluppando concetti già contenuti nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, artt. 53-62).
[6] M. Luciani, Costituzione, bilancio, diritti e doveri dei cittadini, in Astrid Rassegna, n. 3, p. 1673 ss.
[7] Si rinvia alle interessanti considerazioni svolte da I. Baldriga, Diritto alla bellezza. Educazione al patrimonio artistico, sostenibilità e cittadinanza, Le Monnier Università, 2018.
[8] A. Palma, Civitas Romana, civitas mundi. Saggio sulla cittadinanza romana, Giappichelli, 2020, p. 57; In senso opposto G. Valditara, Civis Romanus sum, Torino, 2018.
[9] M. A. Cabiddu, op. cit., p. 383 ss.
[10] G.P.Cirillo, op cit, p. 342 ss.
[11] A. Predieri, Urbanistica, Tutela del paesaggio, Espropriazione, Milano, 1969, p. 152 ss.; G. Berti, Problemi giuridici della tutela dei beni culturali nella pianificazione territoriale regionale, in Riv. Amm. Rep. It, 1973, p. 619 ss.; P. Carpentieri, Paesaggio, urbanistica e ambiente. Alcune riflessioni in occasione del centenario della legge Croce n. 778 del 1922, in WWW. Giustizia amministrativa.it.; G. Montedoro, La concezione crociana del paesaggio, in corso di pubblicazione, per i tipi della Editoriale Scientifica, in un volume a cura del Prof. Iannello. Ma sul tema esiste una letteratura assai vasta.
[12] Biagio G. Di Mauro, Il diritto dei borghi nel PNRR: verso una stagione di rigenerazione urbanisticamente orientata alla conservazione e allo sviluppo dei valori locali, in Urb. e Ap. n. 4/2022, p. 458-471.
[13] W. Veltroni, Le nostre città da curare, in Corriere della Sera del 10 marzo 2023. Peraltro, come già scriveva lo studioso risorgimentale, antesignano del federalismo, Carlo Cattaneo nella sua opera del 1858, “La città considerata come principio ideale delle istorie italiane”, “Talora il territorio rigenera la città distrutta”.
[14] P. L. Cervellati, La sorte dei piccoli centri storici: abbandonati, trasfigurati, turisticizzati. Minori e maltrattati, in Bollettino Italia Nostra, 2009 p. 445: Si veda anche il più recente G. A. Primerano, Il consumo di suolo e la rigenerazione urbana, Editoriale Scientifica, p. 219 ss., dove si ritiene che la rigenerazione urbana sia l’unica alternativa sostenibile al consumo di suolo.
[15] F. Arminio, Museo delle porte chiuse, comunitaprovvisoria.wordpress.com.
Sommario: 1. Introduzione: le necessarie, molteplici chiavi di lettura. – 2. La proposta di riforma governativa. – 3. Gli elementi di contingenza. – 4. Le radici del conflitto tra poteri. – 5. I possibili sviluppi.
1. Introduzione: le necessarie, molteplici chiavi di lettura
Manifestazioni di protesta, consecutivamente per settimane, con centinaia di migliaia di partecipanti (in uno stato di poco più di otto milioni d’abitanti)[1]; opposizioni parlamentari sul piede di guerra e riservisti dell’esercito che si appellano alla disobbedienza civile[2]; influenti giuristi locali che denunciano il pericolo di un «coup without tanks», ossia nientemeno che di un colpo di stato senza carri armati[3]; preoccupazioni espresse anche dalle cancellerie di altri paesi liberal-democratici[4]; il Presidente della Repubblica che pubblicamente discute di rischi di guerra civile, e si incarica di mediazioni bruscamente rigettate[5]; alfine, un rinvio della trattazione concesso dal governo in carica, pur acceso propugnatore[6].
Israele è da qualche mese al centro delle cronache, anche internazionali, per via della discussa proposta di riforma della giustizia che il governo Netanyahu VI, insediatosi a fine dicembre 2022, ha subito incardinato presso la neo-costituita Knesset, la locale assemblea elettiva nazionale, dopo averla posta al centro dell’accordo di programma della nuova coalizione di destra vincitrice delle elezioni.
La proposta di riforma - oggi all’esame del parlamento in prima lettura, e saranno necessarie tre approvazioni - è già stata ampiamente discussa nella pubblicistica. Pare tuttavia opportuno ricapitolarne i contorni, e soprattutto interessante sottolinearne le necessarie molteplici chiavi di lettura, che partono dalla contingenza locale e globale ma affondano le proprie radici nella complessa storia costituzionale del paese, «un microcosmo formato da tutte le complessità concepibili»[7], e caratterizzato da un originale evoluzione «a tappe»[8], e da ripetuti conflitti tra poteri, rispetto ai quali siamo al cospetto dell’ultima, possibilmente non definitiva, frontiera.
In altre parole, è senz’altro possibile ragionare della matrice populista, e potenzialmente autocratica, della proposta riforma, che nel prosieguo si analizzerà nel dettaglio, comparandola con altre contemporanee esperienze di cd. democratic backsliding che hanno, in effetti, interessato tipicamente gli assetti dei rapporti tra la magistratura e gli altri poteri dello stato, come nel caso di specie[9]; ma una compiuta comprensione del fenomeno può aversi solo addentrandosi, almeno per sommi capi, nel significato costituzionale dello scontro tra poteri che si profila, ed in particolare nel fondamentale ruolo della Corte suprema di Gerusalemme nello sviluppo ordinamentale d’Israele, i cui portati la proposta riforma vuole espressamente delimitare.
Il contributo si svilupperà pertanto dapprima, nel prossimo paragrafo, descrivendo la proposta e discussa riforma; nel successivo paragrafo, sottolineandone le contingenze, relative alla dimensione politica locale e alle recenti tendenze globali; poi, nel paragrafo ancora successivo, inserendo le ultime cronache che la interessano nella prospettiva della storia costituzionale dello Stato di Israele, ed in particolare del ruolo della locale Corte suprema per la sua evoluzione e dei tentativi di resistenza ai suoi portati; da ultimo, ragionando dei possibili sviluppi che paiono profilarsi.
2. La proposta di riforma governativa
La riforma della giustizia proposta dal governo Netanyahu VI e in discussione alla Knesset si compone di una serie di elementi. Essi vanno partitamente analizzati, al fine di giungere a una visione d’insieme delle sue finalità.
La proposta intende intervenire su cinque fondamentali aspetti del sistema costituzionale israeliano.
La prima dimensione del proposto intervento attiene alle modalità di selezione dei giudici nell’ordinamento.
L’attuale sistema, fondato sulle disposizioni della Basic Law: the Judiciary (la legge costituzionale in materia di ordinamento giudiziario), prevede che i giudici siano nominati da un Judicial Selection Committee composto da nove membri: il Justice Minister e il Chairman Cabinet Minister in rappresentanza del governo, due membri della Knesset usualmente designati in rappresentanza di maggioranza e opposizione parlamentare, due membri della locale Bar Association, ossia designati dall’avvocatura, tre membri in rappresentanza dei giudici della Corte suprema, tra cui il Chief Justice. Sempre attualmente, la nomina dei giudici ordinari avviene a maggioranza semplice tra i membri del Judicial Selection Committee; quella dei giudici della Corte suprema, in esito ad una riforma del 2008[10], avviene a maggioranza di sette membri su nove, così da garantire un sostanziale e speculare potere di veto tanto in capo alla componente magistratuale che a quella politica (composta dai due membri del governo e dal deputato di maggioranza), e così da garantire nomine necessariamente congiunte.
L’attuale proposta governativa mira alla modifica di tale assetto, al fine di dotare la maggioranza politica all’interno dell’eventualmente riformato Judicial Selection Committee di una capacità di decisione sostanzialmente autonoma. L’idea è di modificare la composizione del Committee portandola a undici membri: il Justice Minister, che fungerebbe anche da presidente, due altri ministri designati dal governo, i presidenti del Constitution, Law and Justice Committee, dello State Control Committee, dello Knesset Committee costituiti all’interno dell’assemblea parlamentare (anch’essi, quali presidenti di commissione parlamentare, solitamente riconducibili alla maggioranza), il Chief Justice e altri due giudici della Corte suprema scelti in autonomia dall’organo, due altri rappresentanti scelti dal Justice Minister, di cui uno avvocato. La necessaria maggioranza di sette membri per la nomina di ogni giudice, anche della Corte suprema, sarebbe così facilmente raggiungibile coi soli voti dei componenti in un modo o nell’altro riconducibili al governo in carica: così da potenzialmente dotare quest’ultimo di un pieno controllo su nomine e revoche degli appartenenti all’ordine giudiziario.
La seconda dimensione del proposto intervento attiene alle modalità del controllo di costituzionalità delle leggi in essere nell’ordinamento.
Nel sistema costituzionale israeliano - si vedrà più in dettaglio nei paragrafi seguenti - a partire dagli anni ‘90 s’è sviluppata per via pretoria una forma di controllo di costituzionalità delle leggi, nonostante l’inesistenza di una costituzione unidocumentale e rigida, e l’esistenza di un solo reticolo, incompleto, di cd. Basic Laws emanate nel corso dei decenni, adottate senza la previsione di alcun procedimento aggravato, e sino agli anni ’90 vertenti solo su aspetti organizzativi dei poteri dello Stato. Sulla scorta della adozione nel 1992, da parte della Knesset, delle prime Basic Laws in materia di diritti fondamentali, la Corte suprema d’Israele ha dichiarato, col noto caso United Mizrahi Bank del 1995[11] (non a caso da più parti paragonato alla storica sentenza Marbury v. Madison della Corte suprema degli Stati Uniti che nel 1803 “inventò” il judicial review of legislation[12]), l’esistenza di una «rivoluzione costituzionale» nell’ordinamento, ossia di un preteso cambiamento paradigmatico nella struttura costituzionale del paese e nei rapporti tra potere politico e potere giudiziario, prima modellati sull’ancoraggio alla common law britannica e ad un costituzionalismo “evoluzionista”[13], ma ormai da ritenersi fondati, invece, sulla judicial supremacy[14], e dunque sulla piena possibilità di un controllo giudiziale della conformità delle leggi ordinarie con i disposti delle Basic Laws.
Tale «rivoluzione costituzionale», a far data dal 1995, ha costituito il paradigma ampiamente maggioritario nella lettura della struttura costituzionale d’Israele: ma - pure vedremo più specificamente - tale paradigma interpretativo, seppur largamente adottato, non è mai stato l’unico, ha condotto ad un uso cauto e spesso contestato degli effetti poteri di controllo di costituzionalità delle leggi, e ha sempre conosciuto tentativi «contro-rivoluzionari» da parte del potere politico tesi alla riaffermazione della propria primazia[15].
Ecco dunque che l’attuale proposta governativa in discussione mira alla modifica di tale assetto, e dunque a porre un freno al potere di controllo di costituzionalità delle leggi che la Corte suprema d’Israele s’è arrogata: da un lato, finalmente, sancendone l’esistenza nell’ambito della normazione primaria, mediante l’adozione di una Basic Law: the Legislation sino ad oggi ripetutamente prefigurata ma mai emanata; dall’altro, espressamente limitandolo in due fondamentali sensi, ossia anzitutto vietando il judicial review avente ad oggetto Basic Laws, e dunque sancendo l’impossibilità di controllo giudiziale di «unconstitutional constitutional amendments»[16] (si noti: nell’ambito di un sistema che non differenzia l’adozione di Basic Laws mediante procedimenti legislativi aggravati, e dunque rimanendo solo nominalistica la differenza tra leggi ordinarie e tali “leggi fondamentali”), e poi richiedendo, per la dichiarazione d’incostituzionalità di leggi ordinarie, una pronunzia della Corte suprema in necessaria seduta plenaria di quindici membri, e con un quorum deliberativo dell’80% dei membri stessi.
Fin troppo evidente, in tal ottica, l’intento governativo: una severa actio finium regundorum degli spazi tra potere giudiziario di controllo di costituzionalità delle leggi e potere politico, che, pur istituzionalizzando il primo, ne sancisca significativi limiti procedurali, e soprattutto esoneri dal controllo la normazione attuata nelle forme di Basic Law - senza però che tali forme prevedano, ad oggi, procedure aggravate particolari, e dunque essendo esse alla mercé di maggioranze politiche semplici.
Tale intento di ridefinizione dei ruoli tra politico e giudiziario risulta vieppiù chiaro se poi si guarda alla terza dimensione del proposto intervento, che attiene alla possibilità di cd. override parlamentare delle decisioni della Corte suprema in punto di incostituzionalità della legislazione.
L’idea che si propone è quella di dotare la Knesset in via generalizzata del potere di sovvertire, mediante votazione a maggioranza assoluta (61 deputati su 120), una decisione della Corte suprema che abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge: così ri-affermando, mediante deliberazione assembleare ulteriore, la vigenza della normazione censurata.
La proposta è, come detto, collegata a quella precedente esaminata, anche nei suoi aspetti di dettaglio: nel senso che si prevede che ove la Corte suprema, nel sistema di controllo di costituzionalità riformato, censuri una legge a maggioranza (di almeno 80% dei suoi componenti), la Knesset potrà subito esercitare i poteri di override, purché ciò faccia esplicitamente (ossia deliberando una nuova disciplina normativa in cui si espliciti la volontà di ri-affermazione nonostante il dictum giudiziale), e ciò farà con effetti temporanei di vigenza, di quattro anni o sino al compimento della corrente legislatura, così che sia poi una nuova composizione della Knesset, previe nuove elezioni, a poter affermare definitivamente la perdurante vigenza della legislazione in questione pur censurata; ove invece la Corte suprema abbia censurato la disciplina di legge all’unanimità dei propri componenti, non potrà essere la Knesset nella legislatura corrente al tempo della sentenza a esercitare il potere di override, ma solo potrà essere, eventualmente, una nuova composizione dell’assemblea parlamentare previe nuove elezioni ad esercitare tale potere, il tutto però stavolta con effetti senz’altro permanenti.
Si gioca, con tale proposta, con la generalizzazione di un meccanismo di pretesa soluzione della cd. counter-majoritarian difficulty teorizzata, da noti costituzionalisti americani[17], come insita in ogni esercizio di controllo di costituzionalità delle leggi: con il controllo di costituzionalità si sancisce sì la preminenza di regole e principi di rango costituzionale su deliberazioni legislative di rango ordinario; ma, sul piano istituzionale, si afferma la possibilità che giudici, o organi in ogni caso non eletti o comunque dotati di legittimazione diretta, annullino le volontà dei rappresentanti del corpo elettorale, e dunque agiscano in contrasto con la volontà maggioritaria, e ciò costituirebbe la “difficoltà” di base che alimenta il secolare dibattito sulla legittimità e sulle forme di legittimazione necessarie a tal fine[18].
Il potere di cd. override parlamentare è uno degli svariati sistemi teorizzati e poi applicati, in ambito comparatistico[19], per la pretesa soluzione di tale intrinseco dilemma istituzionale: sancendo una deroga al principio di judicial supremacy, che darebbe all’organo di controllo di costituzionalità l’“ultima parola” sulla questione controversa, si prevede che l’organo politico si possa riappropriare di tale ultima parola, con deliberazione susseguente presa semmai con speciali maggioranze. Ma qui è ovviamente il punto: tale soluzione è invero prevista, in ambito comparatistico, da alcuni sparuti ordinamenti, e tra questi v’è già Israele rispetto a puntiformi disposizioni delle Basic Laws del 1992 sui diritti fondamentali (è insomma previsto che ove queste specifiche disposizioni fungano da parametro in un giudizio di costituzionalità, un override parlamentare è possibile); è di solito accompagnata da limiti di vigenza temporale e relativi ai possibili parametri costituzionali interessati[20]; la proposta in discussione è invece anzitutto relativa alla generalizzazione di tale istituto (relativamente ad ogni possibile parametro di costituzionalità, anche fondamentale), può condurre a ri-affermazioni di vigenza permanenti della legge censurata, e soprattutto si calerebbe in un contesto ordinamentale in cui, s’è detto, non esistono procedimenti legislativi aggravati per l’adozione di Basic Laws (donde il rischio che la disciplina costituzionale parametro sia sostanzialmente messa in dubbio, nella sua effettività, dalla successiva deliberazione che deroghi alla sua applicazione giudiziale), e la maggioranza assoluta di 61 deputati su 120 è usualmente appannaggio della coalizione governativa (donde il rischio che una mera maggioranza politica possa sovvertire in ogni caso decisioni giudiziali di incostituzionalità).
Ancora sostanzialmente collegata è la quarta dimensione del proposto intervento, che attiene alla volontà governativa di vietare ex lege ogni modalità di censura giudiziale dell’azione amministrativa sub forma di controllo di ragionevolezza.
Il vaglio giudiziale della ragionevolezza dell’azione amministrativa è istituto antico che appartiene ab origine all’ordinamento giuridico israeliano: come noto (e come di seguito si vedrà in extenso), tale ordinamento s’è modellato sin da principio con aderenza alla tradizione di common law britannica, che era unificante law of the land ai tempi del Mandato britannico in Palestina precedenti al 1948[21]. È importante rimarcare che all’aderenza a tale tradizione Israele deve anche la cd. original jurisdiction della Corte suprema quale Alta Corte di giustizia (High Court of Justice), supremo tribunale amministrativo destinato, in via diretta, al vaglio degli atti governativi e delle pubbliche autorità[22], che si affianca alla sua appellate jurisdiction quale organo di vertice dell’ordinamento per le questioni civili e penali.
Ciò si rimarca al fine di comprendere come la proposta in discussione sia, nuovamente, indirizzata contro il perenne idolo polemico dell’attuale maggioranza politica conservatrice d’Israele: la Corte suprema, rea in questo caso di avere sviluppato appunto quale Alta Corte di giustizia, a partire dalla fine degli anni ‘70, una invero assai largheggiante giurisprudenza tesa alla sostanziale eliminazione, per via interpretativa, delle principali restrizioni procedimentali al potere di scrutinio degli atti amministrativi e dell’esecutivo, ed in particolare dei requisiti di justiciability (idoneità di una controversia a essere decisa da un giudice) e di standing (legittimazione/interesse ad agire), e che avevano in precedenza impedito di pronunciarsi su molte delle questioni portate, anche informalmente od irritualmente, dinanzi ad essa[23]. La trasposizione di questa innovativa giurisprudenza (in larga parte imputabile all’ispirazione teorica del presidente della Corte Aharon Barak[24], che poi sarà nel decennio successivo il fautore della proclamata «rivoluzione costituzionale» cui s’è accennato) ai procedimenti conosciuti in veste di Alta Corte di giustizia ha finito per conformare un modello di giustizia amministrativa fortemente aperto alle istanze provenienti dalla società, pronto ad affrontare ogni tipo di questione sensibile anche di natura militare, facendo giustizia del motto «everything is justiciable» con cui era stato apertamente teorizzato[25]. Le decisioni paradigmatiche, rispetto ai requisiti processuali in discussione, furono: la sentenza Elon Moreh[26] del 1979, caso particolarmente pregnante che assunse all’epoca il clamore di notevole evento politico, perché la Corte vi sanciva l’orientamento del proprio judicial review anche nei confronti delle azioni governative strettamente connesse con la sicurezza nazionale (in una prima fase rubricate alla stregua di 'political questions'), e lo faceva censurando una decisione in materia di insediamenti ebraici nei territori occupati, forse una delle questioni più delicate e connesse con l’identità dello stato-nazione israeliano[27]; e la sentenza Ressler v. Minister of Defence del 1988[28], con cui la Corte stabilmente definì un criterio di 'standing' pressoché sovrapponibile a qualsiasi lamentela di violazione della rule of law e quindi alla generica sussistenza di un pubblico interesse, anche diffuso, e delineò una distinzione tra casi di «giustiziabilità normativa» e casi di «giustiziabilità istituzionale» che avrebbe inteso restringere, per l'avvenire, la categoria delle political questions ad eccezionali evenienze in cui la scelta di pronunziarsi da parte della Corte stessa avrebbe potuto mettere in dubbio la fiducia dell’opinione pubblica nel suo operato[29]. La Corte ha in tal senso da decenni strategicamente aperto le proprie porte a pressoché ogni tipologia di attore sociale e di sue doglianze; si è così costruita un ruolo centrale nel vaglio di legittimità dei poteri amministrativi e poi anche legislativi e financo di normazione costituzionale, esercitato sino a censurare, di recente, proprio anche sub forma di vaglio di ragionevolezza, l’abuso del procedimento legislativo[30], l’abuso delle forme delle Basic Laws[31], oltre che la violazione dei principi costituzionali.
Evidente allora che la contestazione governativa oggi in discussione non attiene di per sé al vaglio giudiziale di ragionevolezza, ma all’impiego, invero pervasivo, che la Corte ne ha fatto da decenni, sulla scorta di una giurisprudenza largheggiante ma mai sinora messa in discussione.
Da ultimo, la disamina va completata con la quinta dimensione del proposto intervento, che mira alla relativizzazione dell’importante, e “costituzionalizzato”[32], ruolo dell’Attorney General.
Tale organo, monocratico, si ispira anch’esso a forme di common law, ma assume nell’ordinamento israeliano un’originale postura. Anziché essere parte della compagine di governo, come omologhi organi in similari sistemi, ne è una sorta di consigliere giuridico, che però s’atteggia a mo’ di autorità indipendente: lo rappresenta in giudizio, sovraintende alla pubblica accusa, formula pareri, spesso obbligatori[33]. Ma, proprio alla luce dell’indipendenza che gli è conferita, l’azione e i pareri dell’Attorney General sono prese di posizione che spesso impegnano, malvolentieri, il governo.
L’impegno al rispetto da parte del governo delle posizioni dell’Attorney General deriva, nella storia istituzionale d’Israele, proprio dalla tradizione del partito conservatore del Likud, il partito di Netanyahu. Dopo decenni di ininterrotto dominio politico laburista, nel 1977 si insediò il primo governo conservatore guidato da Menachem Begin, allora leader del partito Herut, poi trasformatosi appunto in Likud. Accadde nel 1979 che l’Attorney General allora in funzione, Yitzhak Zamir, esercitò l’azione penale contro funzionari del ministero dell’interno per questione sensibile e sempre relativa al conflitto tra poteri: la rimozione coattiva di una tribù beduina da un’area occupata mentre la Corte suprema, in veste di Alta Corte di giustizia, stava delibando il relativo giudizio e aveva emesso ordinanza cautelare. I membri della compagine governativa si adontarono rispetto all’azione dell’Attorney General, sino a richiederne la rimozione. Il primo ministro Begin non solo si oppose alla richiesta, ma tracciò la linea che da quel momento in poi ha disegnato l’autonomia dell’organo rispetto a quella governativa: «The attorney general has special status in Israel» Begin così iniziava il consiglio dei ministri del 29 aprile 1979 «I don't think this status is carved in stone in the law, but it's enshrined in the custom that has existed since the founding of the state – and the power of custom is like the power of the law. … Because of this status, the cabinet doesn't intervene in the attorney general's considerations. … No bureaucrat in this country is allowed to demand that the attorney general revoke what he has decided on». E concludeva: «The attorney general has reached a certain conclusion, and the cabinet will not cancel it. It has no authority to do so»[34].
Alla luce di questo rapido excursus, ben si possono comprendere le finalità governative attuali, tese a rimodulare la configurazione dell’Attorney General da organo indipendente a mero consulente posto nei ranghi del Ministero della giustizia, a rendere i pareri del medesimo espressamente non vincolanti per il governo, a consentire ai ministri di svincolarsi dalla necessaria rappresentanza giudiziale dell’Attorney mediante la possibilità di rappresentanza su base volontaria da parte del libero foro, in caso di differenza di vedute con costui.
Ovviamente, ha attratto critiche la posizione di un governo non solo esplicito nella sua volontà di diminuire la possibilità di vaglio da parte dei giudici sul proprio operato, ma anche riluttante ad accettare in tal ottica le prese di posizione dell’Attorney General[35].
3. Gli elementi di contingenza.
La proposta governativa di riforma in discussione, di cui si sono sopra delineati i contorni, va anzitutto compresa alla luce degli elementi di contingenza che la contestualizzano nell’attuale temperie, nel paese e a livello comparatistico, e che alcuni osservatori considerano come quelli maggiormente esplicativi[36].
Si è già reso evidente che la proposta di riforma si innesti in un mai sopito conflitto tra poteri, di cui costituisce l’ultima frontiera, almeno dal punto di vista cronologico.
L’idea di una «rivoluzione costituzionale» consumatasi negli anni Novanta, e conducente a pieni poteri di controllo di costituzionalità delle leggi da parte della Corte suprema, in un paese che non ha una costituzione unidocumentale e rigida, è da decenni il paradigma interpretativo maggiormente accettato, ma non è mai stata avallata in senso univoco da ogni strato della complessa, plurale popolazione israeliana. Ciò vale, in generale, per parte significativa del fronte conservatore, ed in particolare vale per i plurimi fronti conservatori religiosi, che temono da sempre un sovvertimento dei delicati equilibri politici di un paese che, sin nella propria Dichiarazione d’indipendenza del 1948, s’è proclamato «Jewish and democratic»: ossia, temono il potenziale impatto laicizzante che l’applicazione iussu iudicis di principi costituzionali liberal-democratici potrebbe avere, ad esempio in settori simbolici ma altamente sensibili quali la gestione pluralistica su base religiosa dei regimi di diritto di famiglia[37] o le storiche esenzioni, pure su base religiosa, dal servizio militare[38].
Da tale constatazione deriva un primo elemento di contingenza da sottolineare: già si erano registrati, da almeno quindici anni, tentativi «contro-rivoluzionari» da parte del potere politico di riaffermazione della propria primazia rispetto alla proclamazione pretoria del potere di controllo di costituzionalità delle leggi, anche nelle gravi forme oggi proposte (o, rectius, riproposte)[39]; la proposta di riforma in discussione però li riunisce, ed è avanzata in un frangente in cui la dinamica politica può concretamente condurre ad una sua adozione.
Occorre infatti considerare che almeno sin dal 2007, e dunque subito successivamente al ritiro di Aharon Barak dalla sua presidenza (e quale carismatica guida), gli attacchi politici alla Corte iniziarono a concretarsi. Chi si fece primo promotore di quella che sarebbe divenuta una serie ripetuta di tentativi di contenimento del potere giudiziario fu l’allora ministro della giustizia Daniel Friedmann, un illustre accademico già voce critica rispetto al tralaticio sistema di nomine giudiziali nel paese[40], e che avrebbe poi anche nella propria produzione scientifica evidenziato aspre critiche sulla «rivoluzione» giudiziale[41]. Fu nell’ambito del suo mandato che si iniziò a prefigurare l’impiego di quel tipico arsenale di metodi che gli studi comparatistici tradizionali e le riflessioni svolte ci fanno facilmente prefigurare, e che s’attualizzano oggi.
In linea con le ragioni critiche del passato, egli propose anzitutto una riforma del sistema di selezione dei giudici, ed in particolare di quelli della Corte suprema, nella prospettiva di un «court packing»[42] in chiave conservatrice, ossia di una ridefinizione degli equilibri di forza al suo interno[43]: ciò in particolare ragionando della possibile riforma della Basic Law: the Judiciary così da emendare la composizione di quel Judicial Selection Committee tradizionalmente incaricato delle nomine, e tradizionalmente dominato dagli stessi giudici della Corte suprema, capaci dunque di porre in atto, sino a quel momento, una sostanziale politica di cooptazione rispetto a professionalità e sensibilità affini.
Altra proposta fu quella di ridefinizione, addirittura mediante legge ordinaria, dell’ambito delle Basic Laws capaci di fungere da parametro in un giudizio di costituzionalità: giacché, da parte critica, si considerava che tra le varie questioni lasciate aperte dal caso United Mizrahi Bank del 1995 vi fosse quella di quali leggi fondamentali potessero fondare i nuovi poteri giudiziali, se solo quelle nuove sui diritti umani del 1992 od anche, opportunamente interpretate, anche quelle passate ed eventuali future[44]. A ciò, viste le polemiche sorte dalla sentenza che per prima aveva interessato la materia[45], si accompagnava l’idea di emendare la Basic Law: Human Dignity and Liberty, cui pur confermare il potenziale valore parametrico, così da esentare le leggi relative alla cittadinanza, visto il loro potenziale simbolico, dal vaglio di costituzionalità[46].
Ancora, si propose di emendare sin da quell’epoca, in altri sensi, la Basic Law: the Judiciary: in particolare prevedendo ex lege la possibilità di judicial review of legislation solo da parte della Corte suprema (mirando a risolvere le pur registratesi incertezze sulla natura diffusa o accentrata dei relativi poteri[47]), e solo mediante deliberazioni di collegi di almeno nove giudici, con almeno due terzi dei voti dei giudicanti in favore (mirando a sradicare i pur registratisi episodi di deliberazioni di invalidità a composizione ristretta).
Non solo. Sostanziando appieno l’idea di una «contro-rivoluzione» chiamata a sradicare i frutti della «rivoluzione» di Barak, e dunque in primis l’idea della judicial supremacy fondata sul potere di controllo di costituzionalità delle leggi, si propose la positivizzazione di un generale potere di ovverride da parte della Knesset rispetto ai dicta giudiziali: così che, nella configurazione dei disegni dell’epoca (comunque più garantistica rispetto a quella oggi propalata), una super-maggioranza di 70 membri su 120 della camera rappresentativa potesse rendere inefficace una dichiarazione di incostituzionalità, riasserendo validità ed efficacia della disciplina di legge censurata[48].
Nessuna delle proposte suddette si fece effettivamente strada, in quell’iniziale frangente come poi successivamente. Ciò nonostante ognuna di esse sia stata destinata a riemergere a più riprese nel dibattito pubblico, ad esempio nel 2012[49] e poi ancora recentemente con il mandato al ministero della giustizia della combattiva conservatrice Ayelet Shaked, la quale propose già in quel frangente l’idea, oggi tornata à la page, di un generale override power legislativo a sola maggioranza assoluta[50].
Solo, nel 2008, s’è emendata la disciplina del Judicial Selection Committee (la cui composizione pur rimase intatta) al fine di richiedere la cennata speciale maggioranza di sette membri su nove per nominare i giudici della Corte suprema: ciò motivando sulla base della delicatezza del ruolo, ma sostanzialmente nella speranza, già in effetti oggi in essere, di ribaltare le usuali dinamiche interne all’organo, che vedevano il sostanziale controllo delle nomine da parte dei giudici stessi, presenti nel Committee nel numero di tre, d’intesa coi membri dell’avvocatura, presenti nel numero di due, e così da privilegiare il peso dei componenti politici (due membri governativi e due membri parlamentari)[51]. Riforma parziale che però non ebbe effetti dirompenti, anzi avendone in fondo di condivisibili: richiamando ad un necessario vasto consenso nelle procedure di nomina, senza possibilità di preponderanze tra frange diverse di componenti.
Va dunque ben inteso in che senso si sottolinei tale primo elemento di contingenza: analoghi tentativi di «contro-rivoluzione» rispetto a quelli odierni si registrano, appunto, da quindici anni almeno; essi però non hanno mai incontrato, nel sistema parlamentaristico israeliano fondato sulla formula proporzionale e dunque indefettibilmente su governi di coalizione[52], l’ampio supporto necessario tra le forze politiche delle varie maggioranze succedutesi, pur se spesso conservatrici e dunque generalmente ostili rispetto all’attivismo considerato liberal della Corte[53].
Terminato tuttavia l’esperimento del governo di larga coalizione Bennett-Lapid in carica tra il 2021 e il 2022 (fondatosi sulla conventio ad excludendum «rak lo Bibi», ossia “tutti dentro fuorché Bibi Netanyahu”), il governo Netanyahu VI oggi in carica si presenta come un potenziale sovvertimento delle dinamiche politiche degli scorsi anni. Esso gode nella Knesset di una maggioranza di supporto solida, che ammonta a 64 deputati su 120; e si fonda su una coalizione che può dirsi quella più a destra della storia di Israele, che federa gli storici alleati ultraortodossi Shas e United Torah Judaism e per la prima volta formazioni di destra radicale quali Otzmà Yehudit, Tkumà e Noam, rispetto alle quali il Likud è, insolitamente, “ala moderata”; e che è resa vieppiù omogenea dalla precedente, risentita esperienza all’opposizione.
Quel che insomma non s’era concretato negli scorsi due decenni, ossia una convergenza di forze conservatrici, sia religiose che più laiche, programmaticamente ostili, nel conflitto tra poteri, rispetto alla Corte e al suo operato, e pronte per ciò a sovvertire il sistema costituzionale, oggi viene in essere: tanto che, in punto di contingenza politica, va registrato che non solo (s’è accennato) la proposta riforma era parte del programma elettorale espressamente propalato dall’attuale maggioranza, e siglato dalle sue forze componenti, ma che, addirittura, in simultanea rispetto alla sua presentazione, che è tesa alla ridefinizione dei poteri costituzionali della Corte, il governo è pure al lavoro sul sensibile tema dell’ampliamento simmetrico dei poteri delle Corti rabbiniche, nell’idea di facoltizzarle ad agire da arbitri in materia civile sulla base del diritto religioso in presenza di accordo delle parti in conflitto – ma dunque ulteriormente tendendo alla delegittimazione del sistema giudiziario civile, e attentando all’uniformità ordinamentale e di trattamento dei cittadini[54].
Il fatto che anche il Likud, quale “ala moderata” di coalizione e soprattutto quale partito tradizionale, sia ormai decisamente spinto ad esacerbare il conflitto tra poteri - almeno ad oggi, e nonostante qualche primo timido recentissimo ripensamento[55] - deriva poi da un secondo elemento di contingenza, che pure va sottolineato.
Benjamin Netanyahu, leader del Likud, è dal 2020 imputato per frode e corruzione dinanzi alla District Court di Gerusalemme. Ciò non solo comporta ragioni nuove di tensione tra coalizione di governo e ordine giudiziario, che aggravano quelle già esistenti e di cui s’è detto; ma ha comportato ripetuti interventi dell’Attorney General che hanno stigmatizzato il conflitto d’interessi del primo ministro rispetto alla proposta riforma giudiziaria, e lo hanno invitato a non assumere, nell’iter legis, un ruolo attivo, in ottemperanza al patto da lui stesso siglato nel 2020[56], su invito proprio dell’Attorney General, per continuare a rivestire legittimamente cariche pubbliche di governo nonostante la delicata posizione assunta[57]. Si è recentemente arrivati addirittura all’approvazione di una specifica disciplina di legge che garantisce l’impossibilità di rimozione del primo ministro dall’incarico per ordine giudiziario, evidentemente fondata sul timore che l’Attorney General potesse richiedere alla Corte suprema misure del genere contro Netanyahu: e subito successivamente all’approvazione di tale discutibile disciplina novella, il primo ministro ha ripreso senza requie il proprio battage polemico sul tema[58].
Ciò spiega facilmente, già di per sé, perché la proposta di riforma sia largamente indirizzata contro la figura indipendente dell’Attorney General, oltre che contro l’ordine giudiziario organizzato.
Va poi ulteriormente rimarcato come, nel sistema israeliano, il circuito Attorney General - High Court of Justice si sia reso depositario di prerogative invero ampie, e di scarsa diffusione, per come delineatesi, a livello comparatistico.
Tra queste vi è quella del vaglio di ammissibilità dei candidati a ruoli parlamentari e di governo: talvolta sulla base di discipline di legge specifiche, tra cui quella di cui all’articolo 7a comma 2 della Basic Law: the Knesset che impedisce la candidatura nell’assemblea a chi inciti al razzismo; talaltra sulla base, più discutibile, di un vaglio di ragionevolezza della candidatura rispetto a elementi ostativi pregressi. Su tali fondamenti si sono registrate esclusioni quali quelle, recenti, dell’estate 2019 relativa alla rimozione dal seggio dei deputati della destra radicale ebraica Gopstein e Marzel[59] - membri del partito Otzma Yehudit dell’attuale Ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir - e del leader del partito Shas Aryeh Deri nel gennaio 2023 quale Ministro dell’interno dell’attuale compagine di governo, giacché reo di evasione fiscale e pregressi episodi corruttivi[60].
Anche in tal ottica, risultano evidenti gli elementi di tensione diretta tra maggioranza governativa attuale e ordine giudiziario.
V’è poi una contingenza che potremmo definire comparatistica, ossia che accomuna Israele ad altri ordinamenti nell’attuale temperie.
A più riprese, nell’inusuale lunga serie di governi guidati da Benjamin Netanyahu tra il 2009 e il 2021 (che è coincisa, non a caso, con la gran parte delle iniziative «contro-rivoluzionarie» che abbiamo descritto) i commentatori hanno ragionato di tendenze populiste della politica israeliana, quando non proprio di arretramento delle sue credenziali democratiche. Si sono stigmatizzati i ripetuti attacchi al potere giudiziario e all’indipendenza della figura dell’Attorney General[61], su cui ci siamo soffermati; ma anche l’adozione di nuove discipline penalizzanti nei confronti delle ONG, ampiamente attive nel paese nell’ambito della tutela dei diritti umani[62]; la centralizzazione del ruolo del Committee of Ministers on Legislation così da controllare, da parte governativa, il calendario dei lavori parlamentari[63]; l’avocazione in capo al primo ministro di plurime deleghe diffusamente esercitate[64].
S’è dunque molto ragionato in tema di preteso coinvolgimento del paese nelle odierne globali tendenze di «constitutional retrogression», o «constitutional capture» o «democratic decay»[65] che dir si voglia: le quali, secondo gli studiosi che più da vicino le hanno studiate, «drawing on comparative law and politics analysis», si invererebbero attorno a cinque tipiche dinamiche istituzionali, ossia la revisione costituzionale, l’eliminazione degli istituti di garanzia, la centralizzazione del potere nelle mani dell’esecutivo, la contrazione o distorsione della sfera pubblica, l’eliminazione della competizione politica[66].
In particolare, specie in punto di eliminazione degli istituti di garanzia e di centralizzazione del potere nelle mani dell’esecutivo, l’attacco all’indipendenza e alla funzionalità della magistratura è tipico di tali tendenze, e ben conosciuto anche in ordinamenti a noi prossimi, persino appartenenti all’Unione europea: si pensi agli ormai noti «usual suspects» Polonia e Ungheria, già oggetto di plurime censure da parte della Commissione europea e della Corte di giustizia in proposito[67], ma anche a casi meno noti come la Romania, ove recenti riforme giudiziarie hanno attirato critiche da parte dei commentatori e delle stesse istituzioni sovranazionali[68].
Proprio dall’accostamento tra analoghe tendenze alla tensione tra potere politico e ordine giudiziario, e a riforme limitanti la capacità della magistratura di svolgere in via indipendente il proprio ruolo, vari analisti hanno potuto osservare, soffermandosi anche su Israele, che «le somiglianze nelle misure adottate in diversi sistemi giuridici e politici, in contesti storici radicalmente diversi, suggeriscono non solo un certo grado di comunanza di idee e obiettivi, ma anche una certa condivisione di esperienze e pratiche da parte di forze illiberali»[69].
Il fenomeno dello scivolamento verso tendenze autocratiche è indubitabile, e certo simile a quello di altri ordinamenti - sebbene nei contesti dell’Est Europa vengano in rilievo mancate compiute transizioni costituzionali di origine relativamente recente, posteriore al collasso dei sistemi socialisti[70], mentre in Israele, vedremo specificamente, il fenomeno è più radicato e, se vogliamo, strutturale, ossia relativo ad un programma di costituzionalizzazione frustrato sin da principio.
L’osservazione di tali tendenze è comunque rilevante, e deve condurci ad una connessa, necessaria, e forse più approfondita riflessione, che pure riecheggia teorizzazioni già svolte proprio relativamente alle esperienze di democratic backsliding dei paesi dell’Est Europa e che ben si attagliano alla nostra analisi degli sviluppi israeliani.
Kim Lane Scheppele, nota studiosa di Princeton, ha icasticamente descritto le riforme costituzionali ungheresi degli scorsi anni come una sorta di sindrome di Frankenstein, proprio nel senso del romanzesco personaggio mostruoso di Mary Shelley, capaci di condurre a un «Frankenstate»[71]: ciò al fine di sottolinearne il potenzialmente mostruoso effetto cumulativo, nonostante la possibile opinabilità di alcune di esse, e al fine di dissuadere gli osservatori, in tempo di tendenze globali al democratic backsliding, dal commentare riforme costituzionali simultanee una ad una, partitamente, nei loro aspetti magari innocui o similari ad altre esperienze comparatistiche, senza considerare il disegno complessivo capace di creare per accumulo, appunto, mostruosità costituzionali.
Tale insegnamento è di particolare utilità per l’analisi della proposta riforma in Israele.
Singolarmente prese, e a un occhio profano, le riforme attualmente suggerite possono sembrare relativamente innocenti, o essere vagamente giustificate proprio anche in ottica comparatistica - e ciò è stato puntualmente fatto nel corso del dibattito degli scorsi mesi[72]: in fondo assegnare le nomine giudiziarie apicali al controllo del governo in carica non è soluzione sconosciuta a ordinamenti liberal-democratici, persino prototipici come quello degli Stati Uniti d’America; richiedere una maggioranza speciale in un collegio giudiziale per la censura costituzionale delle leggi parlamentari può essere una soluzione inedita, ma prima facie forse nemmeno irragionevole, al problema storico, già cennato e onnipresente nelle teorizzazioni in materia, della cd. counter-majoritarian difficulty, specialmente sentito ove non si incarichi per disciplina costituzionale positivizzata un organo ad hoc di tale compito, come invece nella tradizione europea[73]; la stessa idea di consentire all’assemblea parlamentare di sovvertire ex post gli effetti delle decisioni giudiziali di illegittimità costituzionale non è esperienza sconosciuta, anzi è ispirata a modelli noti, Canada e Finlandia su tutti, già persino trasposti in via puntiforme in Israele[74]; e le specificità dei ruoli dell’Attorney General nel sistema israeliano, e la potenziale pervasività della sua figura, risultano certo inedite ad uno sguardo d’altrove, e dunque può non sembrare assurdo concepire una riforma di tali aspetti.
È evidente però che la simultanea proposta di tali riforme non sia un caso, e il suo significato vada apprezzato organicamente, nell’interezza: connotandosi dunque, a prescindere dalla opinabilità di alcuni aspetti, come un sicuro affronto all’equilibro nella separazione tra i poteri, e fondato sull’esercizio di un fenomeno pure ormai noto agli studiosi di diritto costituzionale comparato, quello del cd. abusive constitutional borrowing, ossia sull’«appropriazione di modelli, concetti e dottrine costituzionali liberal-democratici, al fine di far avanzare progetti autoritari»[75]. Difatti, il successo del diritto costituzionale comparato, conclamatosi negli scorsi decenni, e che ha condotto alla rapida diffusione globale di istituti di marca liberal-democratica, porta con sé possibili dinamiche perverse: tra le quali quella che pare in atto proprio in Israele, come anche in altri ordinamenti, ossia la manipolazione e decontestualizzazione di modelli ed esperienze stranieri, asserviti strumentalmente alla giustificazione di soluzioni che tendono a limitare o corrompere, comunque a strumentalizzare, nozioni e istituti che negli ordinamenti di riferimento hanno avuto e hanno ben altro significato[76].
4. Le radici del conflitto tra poteri.
Si è già ampiamente suggerito che una piena contestualizzazione dell’attuale proposta riforma della giustizia in Israele non possa fare a meno di analizzare, a fianco delle sue pur evidenti ragioni contingenti, di cui s’è detto, le ragioni più profonde dell’esacerbato conflitto tra poteri che vi si incarna.
La conoscenza di queste ragioni passa dalla comprensione della storia costituzionale del paese, per intendere come gli attuali snodi siano l’ultima frontiera di un conflitto tra poteri che la attraversa da decenni.
Per comprendere tali sviluppi, occorre tornare all’origine, e dunque alla caratteristica fondamentale dell’ordinamento israeliano, cui già s’è fatto ampio cenno: quella relativa all'assenza di una costituzione propriamente intesa, rigida e unidocumentale.
A propria volta, dette peculiarità hanno precise, e complesse e stratificate, ragioni storiche.
Israele è naturalmente un sistema giuridico cd. “misto”[77] giacché nell'area geografica, già prima dell'edificazione dello stato, originariamente convivevano diritto islamico ed eterogenei complessi di norme civilistiche del periodo ottomano, che si rifacevano a propria volta tanto al sistema di pluralismo particolaristico su base etnica della Mejelle[78] basato sulla Shariya quanto a codici napoleonici tradotti direttamente dal francese al turco[79]; dopo l'affidamento alla Gran Bretagna del mandato sulla Palestina, si sovrappose l'applicazione per factum principis del common law inglese[80]; a seguito delle varie ondate di migrazione di cui si nutrì Israele nei primi decenni di vita, per lo più provenienti dalla Germania e dai paesi dell'Est europeo, si sono innestate su queste basi profonde influenze civilian; ad ulteriore complicazione, le prime facoltà di giurisprudenza del paese furono aperte grazie al sostegno proveniente dagli Stati Uniti, il che consolidò progressivamente il ruolo della cultura, anche giuridica, angloamericana[81]. Si è composto, per stratificazione, un quadro pluralistico (common law, civil law, diritti confessionali) di rara complessità.
Ciò ha influenzato anche la singolare strutturazione costituzionale del paese. L’idea che una costituzione dovesse essere posta al vertice dell’ordinamento d’Israele fu sancita dagli stessi atti fondativi[82]; al momento dell’indipendenza israeliana dal Mandato britannico la rapida adozione di un testo costituzionale era considerata quasi certa[83]; gli eventi si dispiegarono però in maniera differente dalle attese e dagli impegni ufficialmente assunti anzitutto a livello diplomatico.
Il processo costituente formalmente aperto (nel fervido contesto storico del secondo dopoguerra) ebbe un primo intoppo già con la mancata conclusione dei lavori della prevista Assemblea costituente[84], che fu soppiantata dall'organo legislativo ordinario detto Prima Knesset; a livello politico, tanto le formazioni laburiste di maggioranza quanto i vari partiti del cd. «blocco religioso» cominciarono ad esprimere sempre più ampie ed esplicite riserve rispetto alla subitanea scrittura di un testo costituzionale; un primo progetto di costituzione pubblicato, il cd. “Progetto Kohn”, di matrice laica e liberale, fu l'espresso bersaglio critico del nuovo “arco anti-costituzionale”, proprio perché dotato di un chiaro contenuto valoriale, un preciso e progredito sistema di checks and balances, e - per quanto più qui interessa - perché esplicitamente votato ad investire la Corte suprema di poteri espressi di judicial review of legislation[85].
Si palesarono nel frangente le più varie ragioni d'opposizione all'idea di dotare effettivamente Israele di una carta costituzionale: lo stato d'emergenza già incandescente ai confini del paese, che si sarebbe in effetti reso imperituro; l'argomento cd. sociologico di chi voleva evitare di porre decisioni fondamentali vincolanti, in una fase primitiva, per un paese destinato per sua natura a crescere mediante ondate di immigrazione nel futuro[86]; l'idea che la formalizzazione di testi costituzionali fosse appannaggio di paesi interessati da transizioni costituzionali da regimi autoritari, e non necessaria in uno stato di completa nuova formazione; l’influsso del modello della common law e dunque anche del costituzionalismo evoluzionista britannico[87]; l'idea che la già promulgata Dichiarazione d'indipendenza e certe leggi di transizione rispetto al previo regime mandatario potessero già fungere da leggi fondamentali[88]; il problema già vivido della coesione sociale e culturale, in particolare per quel che riguardava il rapporto tra stato e religione, in uno stato che programmaticamente nasceva per essere al contempo «Jewish and democratic»[89].
Su basi tanto ideologiche quanto di contingenza politica venne adottata il 13 giugno 1950 la storica «Risoluzione Harari»[90]: con essa i latenti disaccordi e la dilazione del progetto costituente israeliano vennero in qualche modo ufficializzati, giacché la Prima Knesset incaricò il proprio Constitution, Law and Justice Committe di predisporre la futura costituzione gradatamente, portando all’attenzione dell’assemblea ciascuno dei singoli capitoli man mano approntati[91]; ognuno di questi capitoli avrebbe rappresentato una «legge fondamentale» (Basic Law), da discutere e approvare separatamente; e l’insieme dei capitoli sarebbe solo all'esito confluito in una organica costituzione dello stato[92].
Proprio in riferimento a questa capitale e certo peculiare risoluzione fu coniata, per il contesto israeliano, la nota definizione di «costituzione a tappe»[93].
Sulla natura di questo progetto dilatorio e dilatato di strutturazione costituzionale sono opportune alcune puntualizzazioni.
La prima, la più evidente sin dalla lettura del testo della «Risoluzione Harari»: l'idea era di comporre una serie di capitoli, sotto forma di cd. Basic Laws, la cui riunione alla fine del progetto avrebbe composto una costituzione ancora da ratificare, «a draft constitution for the State». Nulla si prevedeva quanto al valore giuridico di dette Basic Laws nelle more del processo di strutturazione costituzionale, prima del vagheggiato imprimatur finale.
La seconda puntualizzazione. Era formalmente la sola Prima Knesset ad essere incaricata di poteri costituenti, vagliate le Basic Laws ad essa man mano proposte: si pensava insomma ad una dilazione del progetto costituzionale che coinvolgesse lo spazio di una legislatura, intenzione però subito tradita giacché si dovette aspettare la terza legislatura solo per l'adozione della prima legge fondamentale.
La terza, sostanziale, puntualizzazione, cui pure già s’è accennato: nei primi quarant’anni dalla storica risoluzione del giugno 1950, e sulla scorta di questa, furono adottate solo nove Basic Laws, essenzialmente di carattere «organico-istituzionale»[94], disciplinanti cioè l’organizzazione dello stato e le procedure di esercizio dei poteri degli organi costituzionali; molte di queste peraltro si limitarono a codificare e al massimo ad elaborare la normativa precedente, spesso senza alcuna innovazione che si potesse catalogare come di vera «rilevanza costituzionale»[95]. Il riferimento è alle Basic Laws «The Knesset» (1958), «State lands» (1960), «The President» (1964), «The Government» (1968, con emendamenti nel 1992 e nel 2001), «The State economy» (1975), «Israel defense forces» (1976), «Jerusalem» (1980), «The Judiciary» (1984), «The State Controller» (1988): una serie di 'leggi-capitolo', ognuna della quali peraltro non si differenziava sul piano formale dalla normazione ordinaria nemmeno per il procedimento d'adozione, né conteneva esplicite indicazioni al legislatore ordinario affinché completasse quanto stabilito nel proprio dettato, o espressi riferimenti e limiti ai contenuti della legislazione futura.
Quindi, nei suoi settantacinque anni di indipendenza e di sviluppo democratico sulle orme del modello ideologico liberal-democratico, Israele non è mai più riuscito a dotarsi di quel testo fondamentale, unitario e organico, che più volte si era ripromesso di adottare. Il progetto di dilazione e dilatazione mediante adozione graduale di una costituzione si è trasformato per decenni, come ben sottolineato in dottrina[96], in sostanziale astensione.
Occorre allora comprendere che, nei decenni in cui tale astensione politica dalla scelta costituzionale s’è perpetuata, anche nella forma del rifiuto di dotare il paese di un compiuto sistema di controllo di costituzionalità delle leggi, la Corte suprema ha svolto un sostanziale ruolo di supplenza, al contempo espandendo i propri poteri e la propria sfera d’influenza.
Orientando la propria attività istituzionale «alla ricerca di una costituzione»[97], in un'ottica di supplenza rispetto alle astensioni del legislatore, la Corte si produsse, dopo una primitiva fase astensionistica di formalistico rispetto della separazione tra poteri[98], già dalla metà degli anni '50, nella composizione per via pretoria di un aggiornato judicial bill of rights, catalogo di diritti fondamentali non positivizzati ma riconosciuti dalla Corte in assenza di ogni normazione in materia, e da questa tutelati specialmente nella propria veste di Alta Corte di giustizia. Non poteva, specie in questa fase, risalente già al primo decennio di operare della Corte, essere messa in discussione apertamente la supremazia del potere legislativo che derivava dal modello britannico: ma attraverso una composita opera interpretativa, alfine risultante in una vera e propria «costituzione non scritta»[99], la Corte strutturò un'ampia giurisprudenza di “tenore costituzionale” nell'ambito latamente amministrativo, anche su temi sensibili e complessi per il paese (dall’eguaglianza e dal diritto di non discriminazione[100] alla tutela della proprietà contro le illegittime espropriazioni[101], dalla libertà di religione e di coscienza[102] ai diritti politici d’elettorato attivo e passivo[103]).
Poi, a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80, in una fase di piena e matura consapevolezza del proprio ruolo e resasi ormai evidente «l’astensione degli organi politici e amministrativi»[104] da vaste aree di potenziale «decision making»[105], la Corte intensificò ed ampliò lo spettro del proprio interventismo in quest’ottica, mediante la giurisprudenza largheggiante in materia di standing e justiciability cui abbiamo già fatto cenno: in tal modo finendo per conformare un proto-modello di giustizia costituzionale fortemente aperto alle istanze provenienti dalla società, pronto ad affrontare ogni tipo di questione sensibile, secondo il motto «everything is justiciable» propalato da Aharon Barak[106].
Il ruolo «attivista» che la Corte era così venuta assumendo nei primi decenni di sviluppo s’è confermato, e secondo alcuni è deflagrato, con la «rivoluzione costituzionale» degli anni ’90 che essa stessa ha voluto sancire.
Dopo decenni di tentativi abortiti per l’emanazione di una Basic Law: the Legislation che disciplinasse il potere di judicial review[107], o per l’adozione di una Basic Law sui diritti che s’affiancasse a quelle organizzative sui poteri già man mano emanate, e assurgesse a sicuro valore parametrico, nel 1992, con modalità quasi rocambolesche, due Basic Laws in tema di diritti umani videro la luce, le Basic Law: Human Dignity and Liberty e la Basic Law: Freedom of Occupation. Esse nacquero dallo smembramento, tattico, di un'ennesima proposta originariamente organica di legge fondamentale sui diritti politici e civili avanzata dal giurista e politico liberale Amnon Rubinstein, e, complice una serie di contingenze politiche in un clima di fine legislatura[108], passarono quasi inosservate nell'iter parlamentare (e non furono, come usuale, approvate con maggioranze particolari né con procedimenti speciali) e nel dibattito pubblico prima di incontrare, indefettibilmente, il momento della loro richiesta applicazione giudiziale.
Le vicende che seguirono sono però note. Arrivate alla cognizione della Corte con lo storico caso United Mizrahi Bank v. Migdal Cooperative Village, esse furono l’occasione per sancire l'idea che una «rivoluzione costituzionale» era intercorsa nel paese, proprio stante il riconoscimento di un «supra-legislative constitutional status» delle nuove Basic Laws Freedom of Occupation e Human Dignity and Liberty, da cui si fece discendere la naturale possibilità per la Corte suprema di dichiarare l’invalidità della legislazione ordinaria che nel caso di specie non incontrava i requisiti previsti da queste. Israele, nelle parole del Chief Justice, con l’adozione delle leggi fondamentali del 1992 si era conformata all'evoluzione storica della «comunità dei paesi democratici», e aveva preso finalmente parte a quella che Barak ha da più parti definito come la «human rights revolution»[109] caratterizzante la seconda metà del XX secolo. L’idea fondante al centro di una simile rivoluzione gestaltica sarebbe proprio quella dell'importazione del controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi, nel caso di specie in forma di «cooperazione continua»[110] tra la Corte suprema e la Knesset, con il delinearsi in maniera progressiva di una cornice ideale per la protezione espressa dei diritti fondamentali: la Risoluzione Harari, le nove Basic Laws emanate prima degli anni ’90 e i loro emendamenti, i precedenti giurisprudenziali di interpretazione dello status delle leggi fondamentali (pur senza dichiarazione formale di incostituzionalità[111]) e quelli a tutela dei diritti in ambito amministrativo rappresenterebbero tutte tappe coerenti di un unico cammino decrittabile in quest'ottica, coerente con l'idea secondo cui «il ventesimo secolo» sia da leggere come «il secolo del judicial review, attraverso il quale è accordato un reale significato al principio costituzionale, alla democrazia costituzionale e al giusto bilanciamento tra la regola maggioritaria e i diritti umani, tra il collettivo e l’individuo», e che «si potrebbe dire che chiunque consideri antidemocratico il controllo di costituzionalità delle leggi, stia in effetti sostenendo che la stessa idea di costituzione sia antidemocratica»[112], qualunque sia il contesto costituzionale cui ci si riferisce e l'armamentario parametrico a disposizione.
La ‘rivoluzione costituzionale’ - scriveva la Corte - non si sarebbe del resto manifestata in Israele nel mero riconoscimento per tabulas dei diritti umani, da tempo conclamatosi attraverso la fitta rete di leading cases della Corte: piuttosto, essa sarebbe stata e sarebbe «visibile nel mutato status costituzionale dei diritti umani» stessi, i cui fondamenti teorici sarebbero a giustificazione dell’abbandono della teoria della incoercibilità del potere legislativo per lungo tempo sostenuta nel paese, sulla scia del modello di common law[113].
Nasceva così in Israele, in esito ad una pretesa «rivoluzione costituzionale» sancita in via interpretativa, il potere di controllo di costituzionalità delle leggi, tramite invenzione della Corte suprema di Gerusalemme: e veniva a mutare profondamente rispetto al passato l'assetto dei rapporti tra potere politico e potere giudiziario.
L’esercizio effettivo dei poteri di judicial review of legislation è stato, nei decenni, parco, ma assai dibattuto[114]: e se persino le opinioni concorrenti alla storica majority opinion del Chief Justice Barak nel medesimo caso United Mizrahi Bank esprimevano dubbi sui fondamenti interpretativi della Corte[115], e similmente opinavano alcuni eminenti costituzionalisti locali[116], le maggiori opposizioni si ebbero - già lo si è rimarcato - da alcune frange degli schieramenti politici conservatori, e s’ampliarono nel corso del tempo. Del resto, senza poter in questa sede dilungarsi sulle opzioni dottrinali sottese[117], basti registrare un paradosso: per anni s’è assistito nel paese ad uno straniante dibattito, mai davvero sopito, nel cui ambito il presidente della Corte suprema, Aharon Barak, influente personaggio pubblico, discuteva i dettagli della ormai formalizzata costituzione d’Israele, mentre il presidente della Knesset, il Ministro della giustizia, il presidente della Israeli Bar Association ne negavano ancora l’esistenza stessa[118].
Tali basi precarie della pretesa «rivoluzione costituzionale» hanno condotto ai ripetuti tentativi politici «contro-rivoluzionari» che abbiamo discusso, di cui la riforma in discussione è solo l’ultima frontiera.
L’abbiamo sottolineato: già si sono avuti in più occasioni, negli ultimi quindici anni almeno, tentativi di riforma del sistema di selezione dei giudici e di «court packing» in chiave conservatrice, tentativi di riforma del sistema di controllo di costituzionalità anche mediante previsione di supermaggioranze nel collegio della Corte, tentativi di limitazione degli ambiti del judicial review e di previsione di un generalizzato override power parlamentare. Solo, a differenza di oggi, non si coagularono maggioranze politiche capaci di approvare simili riforme.
Certo, le modalità populistiche e la tendenza globale a fenomeni di democratic backsliding paiono aver intensificato la posta in gioco, tanto da condurre oggi a una proposta congiunta di tali strumenti nell’ottica “mostruosa” cui pure abbiamo fatto cenno, sino a mettere in dubbio la storica adesione d’Israele al modello liberaldemocratico che l’ha caratterizzato nel contesto medio-orientale[119].
*
Va in quest’ottica fatto cenno all’ultimo episodio di tentata «contro-rivoluzione» costituzionale precedente a quella attuale: episodio che, vedremo, ci aiuterà sia a contestualizzare appieno le attuali proposte governative nell’ambito dello storico conflitto tra poteri, sia a ragionare di potenziali, futuribili sviluppi.
Nel 2018 il tono del conflitto si alzò nuovamente: in quel frangente, non mediante un’ennesima proposta di riforma istituzionale - che pure è seguita, con magnitudo intensificata - ma mediante un’astuta iniziativa politica della maggioranza conservatrice dell’epoca (sempre guidata dal Likud di Netanyahu).
La provocazione fu così riassumibile: ammettendo la volontà del potere politico di accettare la lettura proposta dalla Corte suprema rispetto all’impianto delle Basic Laws stratificatosi come disciplina di certa natura costituzionale, di per sé capace di fungere da parametro per il judicial review of legislation, in ogni caso lo stesso potere politico potrebbe certo riappropriarsi della prerogativa di scrivere nuove leggi fondamentali, ossia nuove leggi-capitolo di tale impianto costituzionale, così da forzosamente indirizzare la Corte nella propria attività interpretativa.
E la nuova legge capitolo che nel 2018 la maggioranza conservatrice intese aggiungere al reticolo di Basic Laws fu difatti particolare, e così orientata: una Basic Law titolata Israel as the Nation State of the Jewish People, tesa a divenire il preambolo della futura costituzione e dunque il preteso strumento interpretativo di ogni altra legge fondamentale, e perciò tesa a intervenire su temi strutturali lungamente dibattuti nel paese, quali quello dell’identità etnico-religiosa e dei confini territoriali; e, sul piano simbolico, adottata poche ore prima della visita ufficiale del presidente ungherese Orbán, durante la quale Netanyahu dichiarava ampia consonanza con i paesi del gruppo di Visegrád sui temi identitari[120].
L’idea era dunque quella di intervenire attivamente nell’opera di redazione del libro delle leggi costituzionali, e costruire, con tale nuovo capitolo, una «Israel’s new constitutional imagination» radicata su «exclusive ethno-theological values»[121]: mediante la costituzionalizzazione, pur nell’ambito di dichiarazioni di ampio respiro, di principi e regole quali l’idea che il paese sia «national home of the Jewish people» (art. 1a), che il (solo) popolo ebraico sia depositario di diritto all’auto-determinazione (art. 1c), che Gerusalemme, «completa ed unita», sia capitale (art. 3), che la lingua ufficiale sia il solo ebraico e che al più l’arabo goda di mero status speciale (art. 4), che gli insediamenti ebraici siano un patrimonio nazionale da incoraggiare e tutelare (art. 7). E si consideri che lo stesso testo della Basic Law licenziato nel 2018 è risultato essere un compromesso rispetto a ben più radicali visioni originarie: fu espunta in sede di Constitution, Law and Justice Committee l’idea generale che l’intero corpus giuridico israeliano dovesse essere interpretato alla luce dell’art. 1 della nuova Basic Law, subordinando espressamente il carattere democratico di Israele alla sua connotazione ebraica (proposta contro la quale dovette esprimersi pubblicamente anche l’allora Presidente della Repubblica Rivlin)[122]; la primitiva disposizione specifica in tema di promozione degli insediamenti ebraici, poi cassata, includeva persino la possibilità di istituire comunità segregate per religione e nazionalità[123].
Il potenziale discriminatorio della Basic Law: Israel as the Nation State of the Jewish People era insomma evidente e persino professato: e se il suo significato primo era, s’è detto, una riscrittura in chiave conservatrice del libro costituzionale israeliano, il portato subito conseguenziale è stato quello di chiamare, o persino sfidare, l’ordine giudiziario ad una sua applicazione, e ad un vaglio delle regole e dei principi che v’erano dettati.
L’occasione non s’è fatta attendere: con plurimi ricorsi presentati in rapida successione, da parte di partiti d’opposizione e di associazioni riconducibili a minoranze quali quella araba e quella druza, la Corte suprema quale Alta Corte di giustizia è stata subito chiamata a pronunziarsi sulla legittimità della Basic Law del 2018; e dunque, per il tramite, a esprimersi sulla configurabilità nell’ordinamento della dottrina dell’«unconstitutional constitutional amendment», ossia sull’esistenza di un nucleo duro di valore super-costituzionale, intangibile anche mediante legge fondamentale, ad esempio da identificarsi nel concetto identitario della natura «Jewish and democratic» del paese posto come potenziale «clausola di eternità»[124] (come Barak, in un obiter dictum, già suggerì in United Mizrahi Bank[125]); o sulla configurabilità della più ancora radicale teoria dell’«abuso del potere costituente»[126], atta a invalidare non solo emendamenti ma anche l’impiego primigenio di leggi fondamentali[127].
Ciò è avvenuto nel luglio 2021, con l’interessante sentenza Hason[128] pronunziata su tali ricorsi riuniti, in esito ad un partecipato dibattito pubblico nel cui ambito precedenti membri arabi della Corte si sono espressi, nella pubblicistica, a favore della censura della Basic Law[129], mentre l’allora Ministra della giustizia Shaked contestava invece in radice, ancora pubblicamente e in un discusso editoriale, il potere della Corte di vagliare la legittimità delle Basic Laws, pena la sua trasformazione sostanziale in un’assemblea costituente o la sostanziale usurpazione dei relativi poteri[130].
La sentenza Hason è stata un’astuta replica da parte della Corte all’astuta iniziativa politica della maggioranza conservatrice: un esercizio di formale self-restraint interpretativo, che celava però, nemmeno troppo sommessamente, una piena resistenza all’attacco subito sul piano istituzionale nel conflitto tra poteri.
S’è trattato di un rigetto delle varie doglianze poste, a maggioranza di dieci componenti su undici, con l’opinione dissenziente del giudice Karra appartenente alla locale minoranza araba. L’opinione di maggioranza è stata redatta dalla presidente Hayut, e ha affrontato apertamente le varie questioni sostanziali ed istituzionali poste: per quel che qui interessa, con una sorta di sentenza interpretativa di rigetto, negando l’incostituzionalità della nuova Basic Law, nonostante le sue denunziate e riconosciute carenze dispositive, giacché riconosciuto possibile leggere le sue disposizioni «in senso ampio e in armonia costituzionale con tutte le altre Basic Laws», facendo giustizia alla sua natura di «solo capitolo della futura organica costituzione»[131]. La sentenza però, sul piano istituzionale, riaffermava una volta per tutte il ruolo di ultimo interprete da parte della Corte suprema all’interno dell’ordinamento, alla luce della già dichiarata supremazia del diritto costituzionale e dunque del portato della «rivoluzione» del 1995, attestando l’esistenza di un suo ruolo anche a giudicare di possibili incostituzionalità di Basic Laws - in assonanza con le teoriche di common law sulla cd. basic structure doctrine[132] - giacché pur nella «incompletezza dell'impresa costituzionale israeliana» e nella perdurante «assenza di mattoni importanti nella struttura costituzionale»[133] si può già stabilire che il sistema costituzionale abbia fissati alcuni «principi di base che possono non essere modificati dall'autorità costituente»[134], e il cui rispetto deve poter essere posto al vaglio giudiziale.
La sentenza Hason, nell’affermare tale vasto potere della Corte, opportunamente lo legava anche al tema della natura più o meno aggravata del procedimento di revisione costituzionale: così che, in linea con l’esperienza comparatistica, a prescindere da alcune teoriche nazionali del tutto recalcitranti all’idea di identificare limiti impliciti[135], si possa riconoscere l’opportunità della pratica specialmente ove si rinvengano procedure di revisione flessibili e sotto il controllo sostanziale degli esecutivi in carica, con maggioranze parlamentari temporanee e interessi politici di corto respiro, e dunque ove fisiologicamente aumenta la possibilità di abuso del potere di revisione. Ciò giacché in tal ottica, si osserva, il rischio di abusi è maggiore, ove l’organo depositario sostanziale del potere di revisione è il medesimo decisore politico ordinario: la commistione di ordinary politics di breve termine e constitutional politics, che dovrebbero essere di più ampio respiro, conduce alla possibile strumentalizzazione di queste ultime[136]. Riflessioni di tal fatta trovano in effetti sublimazione nel peculiare assetto israeliano: il parlamento, come osservato, è monocamerale; il governo controlla ampiamente l’iter legislativo, o comunque ne è capace; non esiste effettiva separazione verticale dei poteri tra centro ed enti territoriali, a fini di mutuo controllo nell’attività legislativa[137]; il concetto stesso di revisione costituzionale è sfuggente, in assenza di una generale procedura rafforzata per l’adozione e l’emendamento delle Basic Laws e stante il carattere incompleto della costituzionalizzazione[138]; si sono già registrati casi di dichiarato abuso delle forme delle Basic Laws[139], e pure s’è recentemente prodotta una intensificazione sospetta nell’esercizio del potere di revisione[140]; non esiste alcun vaglio giudiziale da parte di corti sovranazionali, come ormai d’uso in vari ordinamenti liberaldemocratici consolidati[141]. In tal ottica, il potere di judicial review sulle Basic Laws sembra imporsi come necessario: altrimenti, dinanzi al riconosciuto esercizio di un potere costituente permanente da parte dell’assemblea elettiva nella continua composizione della «costituzione a tappe», basterebbe alla Knesset impiegare la formale etichetta di legge fondamentale per rendere immune qualsiasi sua normazione dal vaglio giudiziale, e per farsi sostanzialmente potere assoluto – quel che oggi la proposta governativa, si teme strumentalmente, propugna.
E ciò che s’è imposto come necessario s’è anche, in esiti ai descritti ultimi sviluppi, coerentemente concretato: la Corte suprema, dinanzi ad una sfida politica sul proprio ruolo ordinamentale giocata in punto di perimetrazione dei suoi poteri, dopo essersi arrogata in via interpretativa con la «rivoluzione costituzionale» i poteri di judicial review delle leggi ordinarie, ha posto espressamente le basi per un ampliamento del controllo alle Basic Laws, ove contrarie ad un nucleo duro costituzionale riconosciuto in senso antitetico al portato politico della Basic Law: Israel as the Nation State of the Jewish People.
5. I possibili sviluppi.
Situare l’attuale proposta di riforma governativa nella prospettiva del conflitto tra poteri che pervade da decenni il costituzionalismo israeliano non è solo un modo per meglio comprenderne le ragioni.
Certo, è evidente da quanto detto che la riforma della giustizia oggi all’esame della Knesset sia l’ultimo capitolo di uno scontro che affonda le proprie radici nei decenni di sviluppo dell’ordinamento: e che sia anzitutto la riproposizione di meccanismi di pervasivo depotenziamento del ruolo dell’ordine giudiziario già ipotizzati, ma oggi nutriti da una maggioranza governativa solida e da pulsioni populiste/autocratiche globali, e che soprattutto deriva dall’esito non brillante consumatosi nel 2021, con la descritta sentenza Hason della Corte suprema, del tentativo del potere politico di “regolare i conti” nel conflitto tra istituzioni con un intervento diretto sulla sostanza costituzionale del paese, al fine, non riuscito, di addomesticare l’interpretazione giudiziale.
Situare l’attuale proposta di riforma governativa nella prospettiva del conflitto tra poteri, in particolare ragionando sull’esito del depotenziamento della Basic Law: Israel as the Nation State of the Jewish People con la sentenza Hason della Corte suprema, è altresì rilevante giacché ci può aiutare a speculare su quali sviluppi possano porsi in esito all’infervorato dibattitto d’oggidì.
Riuscirà il governo ad imporre la propria riforma ad un paese profondamento spaccato, e sul piede di guerra? Quali dinamiche istituzionali potranno seguire?
Mi pare che ad oggi si profilino tre possibili esiti.
Uno, che all’inizio pareva improbabile, ma che oggi non è da escludere, è relativo al ritiro della discussa proposta, magari per collasso del governo che la propugna, alla luce delle tensioni che potranno derivare anche rispetto al prefigurato rinvio della trattazione parlamentare. Tale esito appare difficile stanti le dinamiche politiche suddette, che vedono sfociare oggi istanze a lungo covate, in un momento considerato finalmente propizio da parte conservatrice dopo anni di attesa; e giacché primissime crepe nella maggioranza di governo dopo settimane di contestazioni si sono già aperte, con il Ministro della difesa Yoav Gallant, del Likud, che ha invocato un periodo di riflessione, e che è stato per ciò solo rapidamente congedato da Netanyahu[142]. Pare chiaro, insomma, che la maggioranza conservatrice tenti di serrare i ranghi, e voglia insistere nella riforma, nonostante la dilazione dell’esame parlamentare da ultimo proposta.
L’altro possibile esito è quello di un compromesso, magari persino di alto significato costituzionale. Da più parti, anche a livello accademico[143], si è iniziato a ragionare su una simile soluzione; e soprattutto se ne è fatto pubblico latore il Presidente della Repubblica Isaac Herzog, con una proposta che sulle prime - complice l’esacerbato dibattito - è stata sdegnosamente rigettata dal governo, ma che è frutto di un’articolata opera di composizione delle diverse posizioni in campo, mediante plurime consultazioni, ed è dunque degna di attenzione come futuribile sbocco, ancora possibile[144]. La proposta di compromesso presidenziale, pubblicata online[145], prevede: una riforma della composizione del Judicial Selection Committee, che comprenda undici membri come da proposta governativa, ma concepita in modo tale da non affidare né alla maggioranza parlamentare né all’opposizione, se coalizzata con le componenti magistratuali e laiche, una forza decisionale autonoma (così da incentivare nomine di compromesso); la definitiva costituzionalizzazione di ogni Basic Law esistente e futura, il cui emendamento o la cui adozione ex novo sarebbero da approvarsi con supermaggioranza parlamentare di 80 deputati su 120; il completamento delle Basic Laws sui diritti del 1992 con il campionario di diritti non espressamente ivi contemplati (il diritto all'uguaglianza e il divieto di discriminazione, nonché i diritti alla libertà di manifestazione del pensiero e di riunione, che pure la Corte già variamente riconduce al concetto di dignità invece già tutelato[146]); l’istituzionalizzazione dei poteri di judicial review of legislation della Corte suprema quale Alta Corte di giustizia, ma con restrizioni, seppure non potenti come quelle nella proposta governativa, quali l’obbligo di deliberazione a maggioranza di due terzi in un collegio di undici giudici[147], e con salvezza dal vaglio giudiziale, in forma espressa e positivizzata, del sensibile tema del servizio militare e delle questioni connesse[148]; assenza di potere di override della Knesset sulle sentenze della Corte, che invece è caposaldo delle proposte governative[149]; conservazione dei poteri di vaglio giudiziale fondato sulla ragionevolezza degli atti amministrativi, eccettuando però le risoluzioni governative puramente politiche, tra cui quelle relative alla nomina e alla revoca dei ministri; salvezza dell’indipendenza dell’Attorney General, pur se ri-configurato nei ranghi del Ministero della giustizia, e conservazione della vincolatività dei suoi pareri, con la possibilità però per il governo di rimuoverlo dall’incarico in caso di disaccordi sostanziali e continuativi coi ministri, previa approvazione in tal senso di un comitato speciale, o di procacciarsi un parere autonomo nei procedimenti giudiziali ove un ministero sia coinvolto e vi sia difformità di vedute con l’Attorney General.
Il terzo possibile esito è quello che conduce alla deflagrazione dello scontro tra poteri, e dunque alla definitiva approvazione della riforma, nelle prescritte tre letture, da parte dell’attuale maggioranza della Knesset, simpatetica con il governo in carica. È nell’ottica di tale opzione che, in particolare, abbiamo approfondito nel paragrafo precedente le vicende del periodo tra 2018 e 2021, e specificamente i portati della sentenza Hason della Corte suprema quale Alta Corte di giustizia. Si rammenterà infatti che in quel giudizio la Corte disinnescò il potenziale esplosivo della Basic Law: Israel as the Nation State of the Jewish People offrendone una interpretazione “conforme a costituzione” ed in particolare allo sviluppo costituzionale come propugnato nei decenni dalla Corte stessa: ma, nel far ciò, la Corte asserì una volta per tutte la propria competenza nel giudicare della costituzionalità di Basic Laws, ossia di leggi costituzionali, considerandosi garante ultimo del nucleo duro della sostanza costituzionale dell’ordinamento e dunque della sua generale tenuta.
A detta di insigni costituzionalisti, di ex Attorney General, di ex giudici apicali locali, tale ruolo di garante ultimo della Corte potrebbe venire sollecitato nel merito con l’approvazione della riforma: la Corte, nel paradossale ruolo di garante finale dei suoi stessi poteri in discussione, sarebbe con ogni probabilità chiamata ad esercitarli, se del caso per un’ultima volta, nel vaglio di una disciplina di Basic Law capace di attentare al quella natura «Jewish and democratic» dell’ordinamento consacrata nella Dichiarazione di indipendenza del 1948, e che osterebbe a discipline, anche in forma di leggi fondamentali, non conformi ai principi di rule of law, separazione dei poteri, indipendenza dell’ordine giudiziario, protezione effettiva dei diritti[150].
Non è prospettiva rosea: sia perché affaccerebbe sull’abisso di incertezza relativo alla disponibilità della maggioranza conservatrice ad accettare l’eventuale responso giudiziale; sia perché si tratterebbe in ogni caso di esercizio opinabile, seppur magari opportuno, dei poteri giudiziali, e che potrebbe non avvenire all’unanimità dei giudici della Corte (già nel caso Hason alcuni di essi si dissero contrari alla possibilità del vaglio di costituzionalità delle Basic Laws[151]), la qual cosa potrebbe condurre a ulteriori strumentalizzazioni sul piano politico e a un indebolimento della posizione dell’ordine giudiziario come necessario contropotere.
*Ricercatore di diritto pubblico comparato presso l'Alma Mater Studiorum - Università di Bologna.
[1] H. Gold, A. Tal, Half a million Israelis join latest protest against Netanyahu's judicial overhaul, organizers say, in Edition.CNN.com, 12.3.2023, disponibile al sito https://edition.cnn.com/2023/03/12/middleeast/israel-protests-benjamin-netanyahu-intl/index.html.
[2] T. Staff, IDF fears more pilots will refuse to serve over judicial overhaul - report, in Times of Israel, 22.3.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/idf-fears-more-pilots-will-refuse-to-serve-over-judicial-overhaul-report/.
[3] D. Israel, Aharon Barak Says Levin’s Justice Reform Is Like ‘a Coup with Tanks,’ Fantasizes about Being Shot by Firing Squad, in JewishPress.com, 8.1.2023, disponibile al sito https://www.jewishpress.com/news/israel/aharon-barak-says-levins-justice-reform-is-like-a-coup-with-tanks-fantasizes-about-being-shot-by-firing-squad/2023/01/08/.
[4] M. Lo Monaco, Scholz bacchetta Netanyahu, Israele ancora in piazza, in Ansa.it, 16.3.2023, disponibile al sito https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2023/03/16/scholz-bacchetta-netanyahu-israele-ancora-in-piazza_f7c832ec-1558-4d5f-bbe0-538f3092745e.html.
[5] T. Staff, Warning of civil war, Herzog unveils framework for judicial reform; PM rejects it, in Times of Israel, 15.3.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/a-golden-path-after-weeks-long-effort-president-debuts-overhaul-compromise-offer/.
[6] A. Tal, R. Picheta, Netanyahu announces delay to Israel judicial overhaul plans amid huge protests, in Edition.CNN.com, 27.3.2023, disponibile al sito https://edition.cnn.com/2023/03/27/middleeast/israel-judicial-overhaul-protests-intl/index.html.
[7] G. Sartori, Parties and Party Systems. A Framework for Analysis, New York 1976, p. 151.
[8] Secondo la definizione di R. Toniatti, Israele: una Costituzione a tappe, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1977, p. 510.
[9] Sottolineano la consonanza, su cui vedremo nello specifico, M. Kremintzer, Y. Shany, Illiberal Measures in Backsliding Democracies: Differences and Similarities between Recent Developments in Israel, Hungary, and Poland, in Law & Ethics of Human Rights, 2020, p. 125, e sulla loro scorta E. Campelli, Le ipotesi di judicial overhaul in Israele. Riflessioni comparate sulla potenziale regressione delle democrazie anche alla luce dei casi di Polonia e Ungheria, in federalismi.it, 7/2023, p. 15.
[10] Che già ha interrotto il denunziato precedente sostanziale dominio da parte dei giudici della Corte suprema nel consesso, considerati sino a quella data capaci di porre in atto una sostanziale politica di cooptazione rispetto a professionalità e sensibilità affini (deliberando a maggioranza semplice con il voto, tradizionalmente concorrente, dei rappresentanti dell’avvocatura e/o almeno di alcuni dei rappresentanti politici).
[11] United Mizrahi Bank PLC v. Migdal Cooperative Village (1995) 49 (iv) PD 221.
[12] Ex pluribus T. Groppi, La Corte suprema di Israele: la legittimazione della giustizia costituzionale in una democrazia conflittuale, in Giurisprudenza costituzionale, 2000, p. 3543, 3554; Z. Segal, The Israeli Constitutional Revolution: the Canadian Impact in the Midst of a Formative Period, in Forum Constitutionnel, 1997, p. 53, 54; M. Halberstam, Judicial Review, A Comparative Perspective: Israel, Canada, and the United States, in Cardozo Law Review, 2010, p. 2393, 2424; ed estesamente sul raffronto Y. Rabin, A. Gutfeld, Marbury v. Madison and its Impact on the Israeli Constitutional Law, in University of Miami International & Comparative Law Review, 2000, p. 303; criticamente infine M. Troper, Marshall, Kelsen, Barak and the Constitutionalist Fallacy, in International Journal of Constitutional Law, 2005, p. 24. Sulla «lucida, sillogistica, universale presentazione teorica del judicial review» nel noto caso Marbury v. Madison, e sul suo ruolo fondamentale, anche sul piano simbolico, negli studi costituzionalistici, v. B. Barbisan, Nascita di un mito. Washington, 24 febbraio 1803: Marbury v. Madison e le origini della giustizia costituzionale negli Stati Uniti, Bologna, 2008, specie pp. 180 ss.
[13] M. Luciani, Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico, in Giurisprudenza costituzionale, 2006, p. 1643, 1652: «E’ noto che si possono contrapporre due modelli di sviluppo costituzionale: quello britannico dell’evoluzione delle regole fondamentali della convivenza sociale attraverso il graduale sviluppo delle leggi, delle consuetudini, della giurisprudenza, e quello continentale dell’evoluzione attraverso passaggi ordinamentali, rotture della continuità, momenti - cioè - costituenti. L’idea della radicalità di tale contrapposizione, molto diffusa tra Ottocento e Novecento, è in realtà risalente: la ritroviamo, in particolare, nella tesi ciceroniana della superiorità della forma di governo romana (“quam patres nostri nobis acceptam iam inde a maioribus relinquerunt”) proprio in ragione della gradualità dei suoi sviluppi».
[14] Per approfondimenti sulla ricostruzione teorica sottostante v. da ultimo S. Gardbaum, What is Judicial Supremacy?, in G.J. Jacobshon, M. Schor (a cura di), Comparative Constitutional Theory, Cheltenham,, 2018, p. 21.
[15] Secondo la nota locuzione di D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, in Constellations, 2009, p. 429
[16] Cfr. Y. Roznai, Unconstitutional Constitutional Amendments: The Limits of Amendment Powers, Oxford, 2017, e, per riferimenti tradizionali, O. Bachof, Verfassungswidrige Verfassungsnormen?, Tubinga, 1951.
[17] In primis A.M. Bickel, The Least Dangerous Branch: The Supreme Court at the Bar of Politics, New Haven, 1986, specie pp. 34 e ss.; sulla «ossessione» di certa dottrina costituzionalistica, specie nordamericana, per la questione v. B. Friedman, The Birth of an Academic Obsession: The History of the Countermajoritarian Difficulty, Part Five, in Yale Law Journal, 2002, p. 153.
[18] Per una utile summa in italiano del dibattito in materia può vedersi L. Mezzetti, Teoria della giustizia costituzionale e legittimazione degli organi di giustizia costituzionale, in Estudios Constitucionales, 2010, p. 307.
[19] Si v. ad es. rispetto al paradigma costituito dalla nota Section 33 della Canadian Charter of Rights and Freedoms, nella dottrina italiana, G. Gerbasi, Problematiche costituzionali sulla clausola nonobstant di cui all'art. 33 della Canadian Charter of Rights and Freedoms, in C. Amirante, S. Gambino (a cura di), Il Canada. Un laboratorio costituzionale, Padova, 2000, p. 241.
[20] V. appunto Sez. 33 della Canadian Charter of Rights and Freedoms: «33. (1) Parliament or the legislature of a province may expressly declare in an Act of Parliament or of the legislature, as the case may be, that the Act or a provision thereof shall operate notwithstanding a provision included in section 2 or sections 7 to 15 of this Charter. (2) An Act or a provision of an Act in respect of which a declaration made under this section is in effect shall have such operation as it would have but for the provision of this Charter referred to in the declaration. (3) A declaration made under section (1) shall cease to have effect five years after it comes into force or on such earlier date as may be specified in the declaration. (4) Parliament or the legislature of a province may re-enact a declaration made under section (1). (5) Section (3) applies in respect of a re-enactment made under section (4)».
[21] Lo sottolinea opportunamente oggi, discutendo della riforma, R. Ziegler, The British Are Not Coming: Why You Can't Compare Israel's Proposed Legal Overhaul to the UK System, in Haaretz, 7.2.2023, disponibile al sito https://www.haaretz.com/opinion/2023-02-07/ty-article-opinion/.premium/the-british-are-not-coming-why-you-cant-compare-israels-legal-overhaul-to-the-uk/00000186-2cdb-d2f6-afe6-3dffe4880000.
[22] Sulla storia dell’istituzione v. da ultimo Y. Sagy, The Missing Link: Legal Historical Institutionalism and the Israeli High Court of Justice, in Arizona Journal of International and Comparative Law, 2014, p. 703.
[23] D. Barak-Erez, Broadening the Scope of Judicial Review in Israel: Between Activism and Restraint, in Indian Journal of Constitutional Law, 2009, p. 118, 119 ss.
[24] Facciamo soprattutto riferimento, a livello di pubblicistica internazionale, ad A. Barak, Judicial Discretion, New Haven, 1989; Id., Forward: A Judge on Judging: The Role of a Supreme Court in a Democracy, in Harvard Law Review, 2002, p. 119; Id., Purposive Interpretation in Law, Princeton, 2005; Id., The Judge in a Democracy, Princeton, 2006, su cui si v. anche H. Neuer, Aharon Barak’s Revolution, in Azure, 1998, p. 5758.
[25] Un modello che è stato definito di «iperattivismo giudiziario», e paragonato per apertura alle istanze sociali al sistema di giustizia costituzionale canadese, da T. Groppi, La Corte suprema di Israele: la legittimazione, cit., p. 3557, sulla scorta della definizione di Y. Dotam, Judicial Accountability in Israel: The High Court of Justice and the Phenomena of Judicial Hyperactivism, in Israeli Affairs, 2002, p. 87 ss.
[26] Izat Muhamad Mustafa Dwaikat and others v. The State of Israel and others (1980) 34(i) P.D. 1.
[27] In proposito, anche con riferimento ai problemi di legittimazione affrontati dalla Corte nell'addentrarsi in simili questioni, R. Shamir, 'Landmark Cases' and the Reproduction of Legitimacy: The Case of Israel's High Court of Justice, in Law and Society Review, 1990, p. 781.
[28] HCJ 448/81, Ressler v. Minister of Defense 35 P.D (1981) 81: una sentenza che si inseriva nella scia di ricorsi a più riprese promossi di fronte alla Corte volti a lamentare l’abuso, da parte del Ministero della Difesa, della propria discrezionalità nel garantire la esenzione dal servizio militare degli studenti delle scuole talmudiche superiori, le Yeshivot.
[29] Così T. Groppi, La Corte suprema di Israele: la legittimazione, cit., p. 3558. Per una più estesa disamina si vedano A.L. Bendor, Are There Any Limits to Justiciability? The Jurisprudential and Constitutional Controversy in Light of the Israeli and American Experience, in Indiana International & Comparative Law Review, 1997, p. 311 e D. Barak-Erez, Broadening the Scope of Judicial Review in Israel, cit., p. 119 ss.
[30] V. HCJ 10042/16 Quantiski v. the Israeli Knesset (Aug. 6, 2017), e il commento di Y. Bar-Siman-Tov, In Wake of Controversial Enactment Process of Trump’s Tax Bill, Israeli SC Offers a Novel Approach to Regulating Omnibus Legislation, in International Journal of Constitutional Law Blog, 13.12.2017, disponibile al sito www.iconnectblog.com/2017/12/in-wake-of-controversial-enactment-process-of-trumps-tax-bill-israeli-sc-offers-a-novel-approach-to-regulating-omnibus-legislation/.
[31] V. HCJ 8260/16 The Academic Center for Law & Business v. Israeli Knesset (Sept. 6,2017), e le riflessioni di S. Navot, Y. Roznai, From Supra-Constitutional Principles to the Misuse of Constituent Power in Israel, in European Journal of Law Reform, 2019, p. 403.
[32] Giacché il suo ruolo è positivizzato tanto nella Basic Law: the Judiciary (1984) che nella Basic Law: the Government (2001).
[33] Sulla figura in extenso E. Ottolenghi, La forma di governo, in T. Groppi, E. Ottolenghi, A.M. Rabello (a cura di), Il sistema costituzionale dello stato di Israele, Torino, 2006, p. 111.
[34] G. Weitz, Netanyahu Hasn't Passed a Single Law, but a Different System of Government Is Already Here, in Haaretz, 11.3.2023, disponibile al sito https://www.haaretz.com/israel-news/2023-03-11/ty-article/.premium/netanyahu-hasnt-passed-one-law-but-a-different-system-of-government-is-already-here/00000186-ccd2-dc44-abe6-cdfad7750000.
[35] J.H.H. Weiler, Israel: Cry, the Beloved Country, in Verfassungsblog, 1.2.2023, disponibile al sito https://verfassungsblog.de/cry-beloved-country/.
[36] V. ancora M. Kremintzer, Y. Shany, Illiberal Measures in Backsliding Democracies: Differences and Similarities between Recent Developments in Israel, Hungary, and Poland, cit., e E. Campelli, Le ipotesi di judicial overhaul in Israele. Riflessioni comparate sulla potenziale regressione delle democrazie anche alla luce dei casi di Polonia e Ungheria, cit.
[37] Cfr. in merito E. Ottolenghi, Profili storici e A.M. Rabello, Costituzione e fonti del diritto, in T. Groppi, E. Ottolenghi, A.M. Rabello (a cura di), Il sistema costituzionale dello stato di Israele, cit., 11 ss.; G. Tedeschi, Le Centenaire de la Mejelle, in Revue internationale. de droit comparé, 1969, p. 125.
[38] Sul punto cfr. la ricostruzione recente di D. Ellenson, The Supreme Court, Yeshiva Students, and Military Conscription: Judicial Review, the Grunis Dissent, and its Implications for Israeli Democracy and Law, in Israel Studies, 2018, p. 197.
[39] D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, cit.
[40] Ivi, 440.
[41] D. Friedmann, The Purse and the Sword: The Trials of Israel's Legal Revolution, Oxford, Oxford University Press, 2016: su cui, criticamente e in chiave comparatistica, F.I. Michelman, Israel’s “Constitutional Revolution”: A Thought from Political Liberalism, in Theoretical Inquiries in Law, 2018, p. 745.
[42] Il riferimento è ovviamente all’antecedente del Judicial Procedures Reform Bill of 1937 nordamericano, con cui il Presidente Franklin D. Roosevelt si propose di emendare le procedure di selezione dei giudici della Corte suprema U.S.A. al fine di ottenere giudizi più favorevoli rispetto alla legislazione sul New Deal; per una recente ricostruzione storica in materia, si v. J. Braver, Court-Packing: An American Tradition?, in Boston College Law Review, 2020, p. 2747.
[43] D. Izenberg, Friedmann Urges Revamping Judges Selection Committee, in Jerusalem Post, 27.3.2007, disponibile al sito www.jpost.com/israel/friedmann-urges-revamping-judges-selection-committee.
[44] C. Price, Israel Cabinet Backs Bill Restricting Supreme Court Review Power, in Jurist.org - Legal News and Commentary, 7.9.2008, disponibile al sito www.jurist.org/news/2008/09/israel-cabinet-backs-bill-restricting/.
[45] HCJ 7052/03 Adalah v. Minister of the Interior (2006) 2 TakEl 1754.
[46] D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, cit., 440.
[47] Su cui v. O Aronson, The Democratic Case for Diffuse Judicial Review in Israel, cit., e, volendo, L. Pierdominici, Diffusione e concentrazione del giudizio di costituzionalità delle leggi in Israele. L’ottica del conflitto tra poteri, in D. Butturini, M. Nicolini (a cura di), Giurisdizione costituzionale e potere democraticamente legittimato, vol. II, Bologna, Bononia University Press, 2017, p. 183.
[48] D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, cit., 440.
[49] A. Bottorf, Israel Bill Would Allow Parliament to Overturn Supreme Court Decisions Cabinet Backs Bill Restricting Supreme Court Review Power, in Jurist.org - Legal News and Commentary, 9.4.2012, disponibile al sito www.jurist.org/news/2012/04/israel-bill-would-allow-parliament-to-overturn-supreme-court-decisions.
[50] Si v. criticamente A. Harel, The Israeli Override Clause and the Future of Israeli Democracy, in Verfassungsblog – On Matters Constitutional, 15.5.2018, disponibile al sito verfassungsblog.de/the-israeli-override-clause-and-the-future-of-israeli-democracy.
[51] Y. Levy Ariel, Judicial Diversity in Israel: An Empirical Study of Judges, Lawyers and Law Students, tesi dottorale depositata alla Faculty of Laws, University College London, disponibile al sito www.ucl.ac.uk/judicial-institute/sites/judicial-institute/files/judicial_diversity_in_israel.yla__1.pdf, p. 50 ss.
[52] E. Ottolenghi, La forma di governo, in T. Groppi, E. Ottolenghi, A.M. Rabello (a cura di), Il sistema costituzionale dello stato di Israele, cit., 79 ss.
[53] M. Mautner, Law and the Culture of Israel, Oxford, 2011, p. 159 ss.
[54] J. Ari Gross, Bills to ban hametz, expand powers of rabbinic courts breeze through committee, in Times of Israel, 19.2.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/bills-to-ban-hametz-expand-powers-of-rabbinic-courts-breeze-through-committee/.
[55] A. Obel, M. Bachner, Two Likud MKs back Gallant’s call to pause overhaul; others urge PM to fire him, in Times of Israel, 26.3.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/several-likud-mks-back-gallants-call-to-pause-overhaul-others-urge-pm-to-fire-him/.
[56] J. Federman, Israel’s Netanyahu pressed to sign conflict-of-interest deal, in Associated Press News, 10.9.2020, disponibile al sito https://apnews.com/article/trials-israel-virus-outbreak-benjamin-netanyahu-910eaed8d1ad6e8d985858c55931450e.
[57] I. Debre, Israeli AG warns Netanyahu broke law on conflict of interest, in Associated Press News, 24.3.2023, disponibile al sito https://apnews.com/article/israel-netanyahu-politics-judicial-overhaul-protests-crisis-courts-aefbf9607a6e3a0e1bb5e3355e733043.
[58] T. Stann, L. Kerrer-Lynn, Knesset passes law shielding Netanyahu from court-ordered recusal 61-47, in Times of Israel, 23.3.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/knesset-passes-law-shielding-netanyahu-from-recusal-in-61-47-final-vote/.
[59] J. Magid, Supreme Court bans extreme-right Gopstein and Marzel from elections, in Times of Israel, 26.8.2019, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/supreme-court-bans-extreme-right-gopstein-and-marzel-from-election-race/.
[60] J. Sharon, AG: Deri’s appointment as minister ‘unreasonable in the extreme’, in Times of Israel, 4.1.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/ag-deris-appointment-as-minister-unreasonable-in-the-extreme/.
[61] Si v. organicamente il report di D. Scheindlin, The Assault on Israel’s Judiciary, in The Century Foundation, 7.7.2021, disponibile al sito tcf.org/content/report/assault-israels-judiciary.
[62] C. Levinson, Netanyahu Seeks to Clamp Down on Human-rights Groups and Bar Funding from Foreign States, in Haaretz, 11.6.2017, disponibile al sito www.haaretz.com/israel-news/1.795078.
[63] Mediante un inedito accordo di coalizione che vincolava ogni parlamentare dei partiti di maggioranza al voto conforme agli indirizzi presi dal Committee ministeriale: lo rileva G. Stopler, Special Symposium–Part 2 of 7: Constitutional Capture in Israel, in International Journal of Constitutional Law Blog, 21.8.2017, disponibile al sito www.iconnectblog.com/2017/08/constitutional-capture-israel.
[64] N. Mordechay, Y. Roznai, A Jewish and (Declining) Democratic State? Constitutional Retrogression in Israel, in Maryland Law Review, 2017, p. 244, 257: «Governmental powers and government departments are concentrated in the hands of Prime Minister Netanyahu, reducing the weight of his coalition partners. At a certain point, Prime Minister Netanyahu has simultaneously been Israel’s Prime Minister, Foreign Minister, Communications Minister, Economy Minister, and Regional Cooperation Minister». La stessa Corte suprema fu investita, quale Alta Corte di giustizia, della questione, giudicata legittima nella sua transitorietà sebbene, espressamente, non opportuna: v. HCJ 3132/15 Yesh Atid v. Prime Minister of Israel (Apr. 13, 2016) (Isr.).
[65] Si v. almeno l’interessante dibattito online Symposium: Constitutional Capture in Israel? ospitato sulle pagine dell’International Journal of Constitutional Law Blog tra il 20.8.2017 e il 26.8.2017, la cui introduzione è disponibile al sito www.iconnectblog.com/2017/08/introduction-to-i-connecticon-s-il-symposium-constitutional-capture-in-israel/, nonché in italiano, volendo, L. Pierdominici, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni. Il costituzionalismo israeliano nel prisma della comparazione, Padova, 2022.
[66] A. Huq, T. Ginsburg, How to Lose a Constitutional Democracy, in UCLA Law Review, 2018, p. 78, 118: «Drawing on comparative law and politics analysis of these cases, we then extract five specific mechanisms by which constitutional retrogression unfolds. These are: (i) constitutional amendment; (ii) the elimination of institutional checks; (iii) the centralization and politicization of executive power; (iv) the contraction or distortion of a shared public sphere; and (v) the elimination of political competition».
[67] Cfr. almeno L. Pech, K.L. Scheppele, Illiberalism Within: Rule of Law Backsliding in the EU, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies, 2017, p. 3, e, in italiano, G. Delledonne, Ungheria e Polonia: punte avanzate del dibattito sulle democrazie illiberali all’interno dell’Unione Europea, in DPCE online, 2020, p. 3999.
[68] E.S. Tănăsescu, The independence of justice as proxy for the rule of law in the EU - Case study – Romania, in Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, 1/2021, p. 103.
[69] M. Kremintzer, Y. Shany, Illiberal Measures in Backsliding Democracies: Differences and Similarities between Recent Developments in Israel, Hungary, and Poland, cit., 152: «it can be noted that the similarities in the measures taken across different legal and political systems, in radically different historical contexts, suggests not only some degree of commonality in ideas and goals, but also some sharing of experiences and practices by illiberal forces».
[70] Cfr. per un inquadramento, tra i vari, L. Mezzetti, Corrosione e declino della democrazia, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2019, p. 441.
[71] K.L. Scheppele, The Rule of Law and the Frankenstate: Why Governance Checklists Do Not Work, in Governance. An International Journal of Policy Administration and Institutions, 2013, p. 559.
[72] Lo sottolinea opportunamente anche J.H.H. Weiler, Israel: Cry, the Beloved Country, cit.
[73] A livello comparato, la previsione dei relativi poteri «expressis verbis in costituzione» è, o dovrebbe essere, la caratteristica fondamentale dei cd. sistemi accentrati di giustizia costituzionale: v. A.R. Brewer-Carias, Judicial Review in Comparative Law, Cambridge, 1989, p. 188; seppure proprio il caso di Israele sia una possibile eccezione, cfr. volendo L. Pierdominici, Diffusione e concentrazione del giudizio di costituzionalità delle leggi in Israele. L’ottica del conflitto tra poteri, cit.
[74] La Basic Law: Freedom of Occupation, emanata nel 1992, fu emendata già nel 1994, su pressione dei partiti religiosi, proprio in esito ad un primo suo sensibile impiego giudiziale, quando, nel caso Mitral Ltd. v. The Prime Minister, 47(5) P.D. 485 (1993) la Corte suprema stabilì la violazione della legge fondamentale in parola da parte della legislazione ordinaria che poneva limiti all’importazione in Israele di carne non kosher, ossia non macellata secondo le regole ebraiche tradizionali. In esito a quella riforma, subito successiva alla pronunzia giudiziale, anche quella Basic Law fu dotata di una notwithstanding clause, che disponeva: «(A) provision of a law that violates freedom of occupation shall be of effect, even though not in accordance with section 4, if it has been included in a law passed by a majority of the members of the Knesset, which expressly states that it shall be of effect, notwithstanding the provisions of this Basic Law; such law shall expire four years from its commencement unless a shorter duration has been stated therein». Si dotò dunque il parlamento dell’ultima parola in tema di costituzionalità di una normativa in materia, purché mediante votazione a maggioranza assoluta e con una disciplina necessariamente a termine quanto ai suoi effetti.
[75] R. Dixon, D. Landau, Abusive Constitutional Borrowing: Legal Globalization and the Subversion of Liberal Democracy, Oxford, 2021, p. 1 ss.: «Legal globalization has a dark side: norms intended to protect and promote liberal democratic constitutionalism can often readily be used to undermine it. Abusive constitutional borrowing involves the appropriation of liberal democratic constitutional designs, concepts, and doctrines to advance authoritarian projects. Some of the most important hallmarks of liberal democratic constitutionalism—including constitutional rights, judicial review, and constituent power—can be turned into powerful instruments to demolish rather than defend democracy».
[76] Cfr. in tal ottica T. Groppi, Il diritto comparato nel prisma delle regressioni democratiche. Recensione al volume di Rosalind Dixon e David Landau, Abusive Constitutional Borrowing. Legal Globalization and the Subversion of Liberal Democracy, Oxford University Press, 2021, in Diritticomparati.it, 28.9.2022, disponibile al sito https://www.diritticomparati.it/il-diritto-comparato-nel-prisma-delle-regressioni-democratiche-recensione-al-volume-di-rosalind-dixon-e-david-landau-abusive-constitutional-borrowing-legal-globalization-and-the-subversion-of-liber/.
[77] Sul punto v. E. Rivlin, Israel as a Mixed Jurisdtiction, in McGill Law Journal - Revue de droit de McGill, 2012, p. 781.
[78] V. ancora E. Ottolenghi, Profili storici, cit.; A.M. Rabello, Costituzione e fonti del diritto, cit.; G. Tedeschi, Le Centenaire de la Mejelle, cit.
[79]A.M. Rabello, Costituzione e fonti del diritto, cit., 42; D. Sassoon, The Israel Legal System, in N. Kittrie (a cura di), Comparative Law of Israel and the Middle East, Washington D.C., 1986, p. 75.
[80] Fu formalmente l'art. 46 del Palestine Order in Council, promulgato nel 1922 con la funzione di costituzione scritta del mandato, ad innestare nel sistema ordinamentale già stratificato il diritto inglese; l'intero complesso sarebbe poi stato confermato in vigore nel neonato stato d'Israele con le disposizioni transizionali dell'art. 11 dell'Ordinanza sulla Legge e l'Amministrazione del 1948.
[81] In tema si vedano le interessanti note di V. Caianiello, Istituzioni e liberalismo, Soveria Mannelli, 2005, pp. 100-101.
[82] La Dichiarazione d'indipendenza del 1948 conteneva, notoriamente, un esplicito riferimento a una costituzione, da adottarsi da parte di un’assemblea costituente da eleggersi non più tardi del primo ottobre di quello stesso anno, in precisa correlazione quindi con l'indicazione contenuta nella Risoluzione ONU n.181 a riguardo: «We declare that, with effect from the moment of the termination of the Mandate being tonight, the eve of Sabbath, the 6th Iyar, 5708 (15th May, 1948), until the establishment of the elected, regular authorities of the State in accordance with the Constitution which shall be adopted by the Elected Constituent Assembly not later than the 1st October 1948, the People’s Council shall act as a Provisional Council of State, and its executive organ, the People’s Administration, shall be the Provisional Government of the Jewish State, to be called ‘Israel’».
[83] «The constitution was perceived as inevitable», secondo G. Goldberg, Religious Zionism and the Framing of a Constitution for Israel, in Israel Studies, 1998, p. 214.
[84] Ciò avvenne mediante una cd. Transition Law approvata tra il 14 e il 16 febbraio 1949, che venne denominata “costituzione transitoria” (Hukkat Hama’avar).
[85] Sul tema A. Radzyner, A Constitution for Israel: The Design of the Leo Kohn Proposal, 1948, in Israel Studies, 2010, p. 1.
[86] A. Anselmo, Costituzione e democrazia: l’esperienza israeliana, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2000, p. 423.
[87] S. Aronson, David Ben-Gurion and the British Constitutional Model, in Israel Studies, 1998, p. 193 ss.
[88] Ibidem.
[89] Sin da quanto statuito nella Dichiarazione d'indipendenza del 1948 e nella Risoluzione ONU n.181; sul tema, in prospettiva comparata, si v. oggi S. Mancini, M. Rosenfeld, The Dilemmas of Identity in a Jewish and Democratic State: A Comparative Constitutionalist Perspective, in G. Sapir, D. Barak-Erez, A. Barak (a cura di), Israeli Constitutional Law in the Making, Oxford, 2013, p. 517.
[90] Dal nome del Membro della Knesset proponente, il giurista Yizhar Harari del Progressive Party.
[91] Previo dissolvimento dell’Assemblea costituente e sua trasformazione in Prima Knesset, dal che deriveranno teorizzazioni diverse sulla perpetuazione del potere costituente in parallelo a quello legislativo ordinario: sia consentito in tal senso il rimando a L. Pierdominici, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni. Il costituzionalismo israeliano nel prisma della comparazione, cit., 22 ss., 83 ss.
[92] Il testo della risoluzione difatti recitava: «The First Knesset charges the Constitutional, Law and Justice Committee with the duty of preparing a draft constitution for the State. The Constitution shall be composed of individual chapters, in such a manner that each shall constitute a Basic Law in itself. Each chapter shall be brought before the Knesset as the committee completes its work, and all chapters together will form the Constitution of the State».
[93] R. Toniatti, Israele: una Costituzione a tappe, cit., 510.
[94] Secondo la definizione di A. Anselmo, Costituzione e democrazia: l’esperienza israeliana, cit., 426.
[95] S. Sager, Israel's Dilatory Constitution, in American Journal of Comparative Law, 1976, p. 88, 94; A. Rubinstein, B. Medina, The Constitutional Law of the State of Israel, Tel Aviv, 1996, p. 377; R. Gavison, A Constitution for Israel: Lessons from the American Experiment, in Azure, 2002, p. 133, 158; A.M. Rabello, Costituzione e fonti del diritto, cit., 43.
[96] D. Barak-Erez, From an Unwritten to a Written Constitution: The Israeli Challenge in American Perspective, in Columbia Human Rights Law Review, 1995, p. 309, 314.
[97] Parafrasiamo qui il titolo di uno storico contributo nello studio dell'azione della Corte suprema, quello di M. Nimmer, The Uses of Judicial Review in Israel's Quest for a Constitution, in Columbia Law Review,1970, p. 1217.
[98] Contrassegnata dai casi Leon v. Gubernik (Acting District Commissioner of Tel-Aviv) (1948) 1 P.D. 58; 1 S.J. 41; Baron v. Prime Minister and Minister of Defence 1 P.D. 109 (1948); Jabotinsky and Kook v. Weizmann, HCJ 65/1951, su cui nello specific M. Mautner, The Decline of Formalism and the Rise of Values in Israeli Law, in Tel Aviv University Law Review, 1983, 503 (oggi in Id., Law and the Culture of Israel, cit.) e D. Kretzmer, Forty years of Public Law, in Israel Law Review,1990, p. 341.
[99] D. Barak-Erez, From an Unwritten to a Written Constitution, cit., 315 ss.
[100] Cargo & Freight Ships v. Finance Minister (1957) 11 PD 1490, 1498.
[101] City of Tel Aviv v. Lubin (FH) (1959) 13 PD 118.
[102] Peretz v. Kfar Shmariyahu (1962) 16 PD 201.
[103] Appello Elettorale 1/65 Yerdor v. Commissione elettorale centrale (1965) PD 19 365.
[104] S. Shetreet, Developments in Constitutional Law: Selected Topics, in Israel Law Review, 1990, p. 368, 405.
[105] Ibidem.
[106] V. nota 25 supra.
[107] Su tali evenienze sia consentito il rinvio a L. Pierdominici, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni. Il costituzionalismo israeliano nel prisma della comparazione, cit., 29 ss.
[108] Che rese meno ferrea la disciplina di partito e più libero il voto di molti degli esponenti tradizionalmente conservatori: ne dà conto anche S. Baldin, La rigidità costituzionale come work-in-progress nell'ordinamento israeliano, in F. Palermo, La «manutenzione» costituzionale, Padova, 2007, p. 266, 271-272.
[109] United Mizrahi Bank PLC v. Migdal Cooperative Village (1995) 49 (iv) PD 221, opinione del giudice Barak.
[110] Ivi, par. 3: «ongoing cooperation». Barak prende apertamente spunto, in proposito, da J. Agranat, The Contribution of the Judiciary to the Legislative Enterprise, in Tel Aviv University Law Review, 1984, p. 233.
[111] Il riferimento è a HCJ 98/69 Bergman v. Minister of Fin. [1969] IsrSC 23(1) 693, su cui si vedano R. Burt, Inventing Judicial Review. Israel and America, in Cardozo Law Review, 1988, p. 2013, 2044, e M. Nimmer, The Uses of Judicial Review in Israel's Quest for a Constitution, cit.
[112] United Mizrahi Bank, opinione del giudice Barak, par. 80: «The twentieth century is the century of judicial review. It imparts real meaning to the principle of constitutionality, to constitutional democracy and to the proper balance between majority rule and human rights, between the collective and the individual. It may be said that whoever argues that judicial review is undemocratic is in effect arguing that the constitution itself is undemocratic».
[113]Ivi, par. 4: «until now the prevailing view in Israel was that ‘the all-powerful legislature may permit harm to citizens without legal or judicial limits’ (Justice Sussman in H.C.J. 163/1957 Lubin v. City of Tel Aviv Yafo, 1958 12 PD 1041, 1079)».
[114] Dettagli, volendo, in L. Pierdominici, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni. Il costituzionalismo israeliano nel prisma della comparazione, cit., 114 ss.
[115] Ivi, 83 ss.
[116] Secondo Ruth Gavison, una delle voci più critiche rispetto all’impianto dottrinale di Barak, «(T)here is no precedent, anywhere in the world, wherein the court decides on the supremacy of basic laws, and confers to itself the power of judicial review of Knesset legislation, without the existence of a full constitutional document and without explicit provision»: R. Gavison, The Constitutional Revolution: A Description of Reality or a Self- Fulfilling Prophecy?, in Mishpatim, 1997, p. 28.
[117] Per cui siano consentiti i rinvii supra alle note 114 e 115.
[118] R. Weill, Hybrid Constitutionalism: The Israeli Case for Judicial Review and Why We Should Care, in Berkeley Journal of International Law, 2012, p. 349, 351: «there has been an ongoing vehement debate in Israel over the existence of a formal Israeli Constitution (including the question of whether a Constitution is even desirable). Thus, scholars and citizens have witnessed bizarre events over the last sixteen years in which the President of the Supreme Court discussed the details of Israel’s formal Constitution, while the Chair of the Knesset, the Minister of Justice, or the head of the Israeli Bar Association denied its very existence during the same discussion. This debate continues today».
[119] Interessanti riflessioni in N. Mordechay, Y. Roznai, A Jewish and (Declining) Democratic State? Constitutional Retrogression in Israel, cit.
[120] U. De Giovannangeli, Netanyahu festeggia l'etnocrazia d'Israele con Orban, smacchiato di antisemitismo, in Huffington Post, 19.7.2018, disponibile al sito www.huffingtonpost.it/2018/07/19/netanyahu-festeggia-letnocrazia-disraele-con-orban-smacchiato-di-antisemitismo_a_23485547/.
[121] A. Jamal, Israel's New Constitutional Imagination: The Nation State Law and Beyond, in Journal of Holy Land and Palestine Studies, 2019, p. 193, 194: «The new hegemonic social and political elites seek to transform the Israeli constitutional identity from one that is based on constructive legal ambiguity into one that is based on exclusive ethno-theological values».
[122] E. Campelli, L’instabile equilibrio costituzionale israeliano: simboli e diavoli della Basic Law sullo Stato Nazione, in Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, 1/2019, p. 87, 93.
[123] Ivi, p. 100.
[124] Ossia come limite alla revisione costituzionale derivante da principio super-costituzionale intangibile: v. ancora O. Bachof, Verfassungswidrige Verfassungsnormen?, Tubinga, 1951.
[125] R. Weill, The Strategic Common Law Court of Aharon Barak and its Aftermath: On Judicially-Led Constitutional Revolutions and Democratic Backsliding, in Law & Ethics of Human Rights, 2020, p. 227, 261: «After the United Mizrahi Bank decision, Barak in dicta in various decisions seems to have created a two-tier system of supra-constitutional law. Already in United Mizrahi Bank, he suggested in dicta that the Court may resort to the doctrine of the “unconstitutional constitutional amendment” or “misuse of constituent power” to invalidate Basic Laws or amendments thereof».
[126] V. sul punto, in ottica comparatistica, R. Dixon, D. Landau, Abusive Constitutional Borrowing: Legal Globalization and the Subversion of Liberal Democracy, Oxford, 2021, in particolare al cap. 6.
[127] Pure già concretamente esplorata dalla Corte in tema di contingenti Basic Laws sul bilancio dello Stato sanzionate come abusive, v. nota 31 supra.
[128] HCJ 5555/18 Hason v. Knesset (July 8, 2021).
[129] M. Bachner, Retired High Court Judge Urges Ex-Colleagues to Overrule Nation-State Law, in Times of Israel, 31.7.2018, disponibile al sito www.timesofisrael.com/retired-high-court-judge-urges-ex-colleagues-to-overrule-nation-state-law/.
[130] A. Shaked, The Basic Law of All of Us, in Israel Hayom, 2.8.2018, disponibile al sito israelhayom.co.il/ opinion/576425.
[131] Hason v. Knesset, opinion del giudice Hayut, par. 44: «sarebbe stato meglio avere una Basic Law (…) che chiarisse che lo Stato di Israele, oltre ad essere lo Stato nazione del popolo ebraico, è anche uno Stato impegnato per la piena uguaglianza dei diritti di tutti i suoi cittadini (…) ma un’altra regola viene in tal senso in rilievo, quella per cui nel condurre il controllo giurisdizionale la Corte non esamina la saggezza della legge. Esamina la sua costituzionalità e non converte in proprie le considerazioni del legislatore».
[132] V. in proposito lo storico caso Kesavananda Bharati Sripadagalvaru & Ors. v. State of Kerala & Anr. (Writ Petition (Civil) 135 of 1970), su cui cfr. anche A. Pillay, The Constitution of the Republic of India, in R. Masterman, R. Schütze (a cura di), The Cambridge Companion to Comparative Constitutional Law, Cambridge, 2019, p. 141, 159.
[133] Hason v. Knesset, opinion del giudice Hayut, par. 18.
[134] Ibidem: «il sistema costituzionale nel suo insieme non lascia spazio a dubbi sul fatto che l'esistenza e l'immagine dello Stato di Israele siano caratterizzate dal binomio ‘ebraico e democratico’ e che questo sia il cuore pulsante della ‘costituzione israeliana’».
[135] Una preziosa disamina è in R. Albert, M. Nakashidze, T. Olcay, The Formalist Resistance to Unconstitutional Constitutional Amendments, in Hastings Law Journal, 2019, p. 639.
[136] D. Grimm, The Basic Law at 60 - Identity and Change, in German Law Journal, 2010, p. 33, 40; D. Conrad, Constituent Power, Amendment and Basic Structure of the Constitution: A Critical Reconsideration, in Delhi Law Review, 1977-1978, p. 14; S. Navot, Y. Roznai, From Supra-Constitutional Principles to the Misuse of Constituent Power in Israel, cit., 421.
[137] M. Kremnitzer, Israel’s War on Democracy Is Here – and the Justice Minister’s Leading the Charge, in Haaretz, 1.8.2018, disponibile al sito haaretz.com/misc/writers/WRITER-1. 5601695: «Israel of all countries needs to recognize the court’s authority to intervene when a constitutional (i.e., Basic) law is involved – to the point of overruling it. Israel has no system of checks and balances like other democracies have, such as having two legislative houses, decentralization of power between states or regions, an obligation to be subject to international treaties or international courts, and so on. There is no real separation between the legislative and executive branches in Israel, and the Knesset’s oversight of the government is not worth much either. The executive branch controls legislation by dint of its majority. The Knesset, and in effect the government, is both the legislative branch and the constitutive authority. Enactment of constitutional (Basic) laws can be accomplished by a regular majority and ordinary legislative procedures. The only element in the legal system with the power to impose checks and balances is the Supreme Court. No wonder those aspiring to absolute rule are acting to castrate it. Let’s say the Knesset were to enact a law enshrining the supremacy of men over women, of heterosexuals over homosexuals, of whites over blacks, of soldiers over people who do not serve in the military and so on. According to Shaked’s approach, the court would have to say ‘Amen.’ How much does the nation-state law – which is in effect a Jewish supremacy law – differ from these examples? And if this is so, our judicial system has become wide open to tyranny, arbitrariness and discrimination, unfettered and unrestrained».
[138] A. Barak, Unconstitutional Constitutional Amendments, in Israel Law Review, 2011, p. 321, 322.
[139] V. ancora HCJ 8260/16 The Academic Center for Law & Business v. Israeli Knesset (Sept. 6, 2017), e S. Navot, Y. Roznai, From Supra-Constitutional Principles to the Misuse of Constituent Power in Israel, cit., 415 ss.
[140] Lo nota il giudice Mazuz nella propria opinion nel caso HCJ 5555/18 Hason v. Knesset., par. 5: «tra il 2015 e il 2021, sono state apportate circa 20 modifiche alle Basic Laws, alcune nel giro di pochi giorni, e ulteriori emendamenti costituzionali sono attualmente sul tavolo»; in tal ottica si consideri che esplicitamente il giudice Rubinstein, nella propria opinion nel precedente e discusso caso HCJ 8260/16 Ramat Gan Academic Center of Law and Business v. Knesset (6 September 2017) (Isr.), par. 35, annotò che «the restraint that the constituent authority takes in amending the constitution obliges also restraint from the court; but the natural continuation is that the less restraint by the constituent authority when it amends basic principles, the wider the willingness of the court to review basic law».
[141] S. Navot, Y. Roznai, From Supra-Constitutional Principles to the Misuse of Constituent Power in Israel, cit., 421.
[142] H. Gold, A. Tal, H. Regan, L. Izso, E. Gotkine, Mass protests erupt in Israel after Netanyahu fires minister who opposed judicial overhaul, in Edition.CNN.com, 27.3.2023, disponibile al sito https://edition.cnn.com/2023/03/26/middleeast/israel-judicial-overhaul-legislation-intl/index.html.
[143] S. Sokol, Right-wing Group Behind Netanyahu's Judicial Overhaul Turns on His ultra-Orthodox Allies, in Haaretz, 26.3.2023, disponibile al sito https://www.haaretz.com/israel-news/2023-03-26/ty-article/.premium/right-wing-group-behind-netanyahus-judicial-coup-turns-on-his-ultra-orthodox-allies/00000187-1d8d-d4ca-afff-1d8d3e690000.
[144] V. sempre T. Staff, Warning of civil war, Herzog unveils framework for judicial reform; PM rejects it, cit.
[145] È disponibile, in ebraico, al sito https://www.mitve-haam.org/.
[146] V. D. Barak-Erez, Broadening the Scope of Judicial Review in Israel, cit.
[147] Il disegno di legge del governo richiede invece una maggioranza dell'80% rispetto al plenum necessario di tutti i 15 giudici dell'Alta Corte.
[148] Ciò consentirebbe essenzialmente alla Knesset di disciplinare a livello costituzionale il diritto degli studenti yeshiva ultraortodossi di ottenere esenzioni dal servizio militare, una questione estremamente controversa che ha diviso il paese per decenni: sul punto v. sempre D. Ellenson, The Supreme Court, Yeshiva Students, and Military Conscription: Judicial Review, the Grunis Dissent, and its Implications for Israeli Democracy and Law, cit.
[149] Sebbene paiano emergere spaccature sul punto, da un punto di vista dottrinale, tra gli ispiratori della riforma: v. S. Sokol, Right-wing Group Behind Netanyahu's Judicial Overhaul Turns on His ultra-Orthodox Allies, cit.
[150] V. variamente le posizioni espresse in D. Bar On, Israel’s High Court Will Strike Down the Coup Legislation, Top Legal Experts Say, in Haaretz, 17.3.2023, disponibile al sito https://www.haaretz.com/israel-news/2023-03-17/ty-article-magazine/.highlight/israels-high-court-will-strike-down-the-coup-legislation-top-legal-experts-say/00000186-eb16-df90-a19e-ebbf15960000.
[151] L’impiego di teoriche come quella della Basic structure doctrine è in effetti, alla luce delle specificità di Israele, discutibile. Negli ordinamenti ove tradizionalmente si ragiona di unconstitutional constitutional amendments esiste difatti una costituzione completa, frutto di un esercizio esaurito del potere costituente: sicché tale dottrina verrà impiegata per vagliare la legittimità del potere di revisione del testo costituzionale che ne è scaturito, quale forma di esercizio di potere costituito. Viceversa, in Israele senz’altro, e anche a detta della Corte suprema, «il processo di composizione della Costituzione non è ancora terminato»: dal che promanano una serie di problemi teorici di non poco conto. Come può ragionarsi di una «basic structure doctrine», se non v’è ancora nemmeno una «full structure» costituzionale? Come può ipotizzarsi una «constitutional replacement doctrine» sul modello colombiano - che dunque facoltizzi il giudice costituzionale a vagliare il portato della revisione, al fine di stabilire se essa modifichi o stravolga il tessuto costituzionale - se la costituzione non è completa, e dunque non può stabilirsi organicamente il suo portato? Come può la Corte desumere limiti impliciti alla revisione ed agire quale «guardiana della costituzione», se il progetto costituzionale è ancora in divenire? Su questi problemi teorici, che esorbitano le finalità del presente scritto, sia consentito il rinvio a L. Pierdominici, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni. Il costituzionalismo israeliano nel prisma della comparazione, cit., 140 ss.
Sommario: 1. Il precedente del 2012 - 2. La rilevanza della questione - 3. I parametri costituzionali della quaestio - 4. La sostenibilità di una pronuncia di illegittimità - 5. Considerazioni conclusive.
Con l’ordinanza n. 23 del 12 gennaio 2023, il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, nella persona di Fabio Gianfilippi, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 354/1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà personale, di seguito OP), “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia, per contrasto con gli art. 2, 3, 13, commi 1 e 4, 27, comma 3, 29, 30, 31, 32 e 117, comma 1 Cost., quest’ultimo in rapporto agli art. 3 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”.
Il diritto alla sessualità dei detenuti giunge, così, nuovamente all’attenzione della Consulta, a distanza di oltre dieci anni dalla sentenza n. 301 del 19 dicembre 2012.
L’oggetto è presto detto: l’ordinamento penitenziario italiano, sia che si consideri “vuoto” di norme in materia, sia che lo si consideri “pieno” di un “operante dispositivo proibizionista”[1], non consente ai detenuti incontri riservati in carcere motivati da ragioni affettive (essendo anche i colloqui dei detenuti del circuito ordinario di media sicurezza, e non soggetti a controllo auditivo, comunque sottoposti ex art. 18 OP a controllo visivo da parte degli operatori di polizia), di fatto impedendo che le persone detenute possano vivere la dimensione della sessualità con il/la propria partner in visita e limitandola a eventuali illeciti penali (atti osceni in luogo pubblico, ex art. 527 cp) consumati più o meno volontariamente con compagne/i di detenzione o con altre persone autorizzate all’ingresso in istituto.
1. Il precedente del 2012
Molti sono gli elementi di novità rispetto alla precedente ordinanza di rimessione dell’Ufficio di Sorveglianza di Firenze del 23 aprile 2012 (meglio conosciuta come ordinanza Fiorillo, dal nome della Magistrata proponente) e alla successiva pronuncia costituzionale; fattori che potrebbero condurre, questa volta, ad un esito diverso e niente affatto scontato.
Con la pronuncia 301/2012 la Corte costituzionale, se da un lato aveva riconosciuto la questione proposta come “una esigenza reale e fortemente avvertita ... che merita ogni attenzione da parte del legislatore”, dall’altro l’aveva ritenuta inammissibile sotto un duplice motivo: uno attinente a un vizio insito nell’ordinanza stessa; l’altro per distinte considerazioni sugli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale.
Con riguardo al primo dei due aspetti, la Corte rilevava l’omissione della rilevanza della quaestio, nell’ambito del procedimento in corso, non essendo specificato nell’ordinanza del giudice fiorentino l’oggetto del reclamo e, quindi, l’inevitabilità della interrogazione della Corte – a parere del rimettente – per decidere il caso concreto.
Sotto il secondo profilo, a giudizio della Corte, un intervento meramente ablativo, volto all’eliminazione del controllo visivo dalla norma, avrebbe prodotto effetti generalizzati sulla platea dei soggetti ristretti, a prescindere dal loro regime detentivo e da specifiche esigenze di sicurezza, pure tutelate dall’ordinamento. Oltre ad avere un’efficacia molto più ampia del necessario, il dispositivo non sarebbe stato neppure sufficiente a garantire il diritto in questione, attesa la necessità di un intervento necessariamente additivo in grado di individuare presupposti, modalità, spazi, tempi, destinatari: disciplina ad hoc riservata alla sola discrezionalità del legislatore. Dunque, secondo il Giudice delle leggi: un diritto, quello alla sessualità, riconoscibile e compatibile con la realtà carceraria ma che, come spesso accade, necessitava di un mirato intervento legislativo per essere cristallizzato, attesa l’inadeguatezza allo scopo della semplice estensione in forma riservata dell’istituto del colloquio ordinario.
2. La rilevanza della questione
Il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, dopo aver richiamato entrambi i profili della precedente pronuncia di inammissibilità, ha opportunamente evidenziato le differenze rispetto alla questione prospettata.
In ordine alla rilevanza della quaestio, viene posto ben in evidenza sia l’oggetto del reclamo (l’impossibilità di godere di spazi di adeguata intimità con la propria compagna) che la posizione giuridica del condannato reclamante. A quest’ultimo è preclusa la possibilità di usufruire di permessi premio, sia per la mancanza di un programma di trattamento penitenziario che già li contempli, sia per le sanzioni disciplinari in cui è incorso che, pur non costituendo elementi sintomatici di particolare pericolosità, sarebbero di ostacolo alla concessione del permesso-premio.
D’altro canto, il Magistrato di Sorveglianza, richiamando la qualificazione da parte della giurisprudenza costituzionale della sessualità come “indispensabile completamento e piena manifestazione” del diritto all’affettività e “uno degli essenziali modi di espressione della persona umana”, e quindi idonea a essere ricompresa “tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione e inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire” (Corte cost. 561/1987), sottolinea come - quand’anche al condannato fosse consentito di esercitare la propria sessualità con lo strumento dell’art. 30 ter OP – si assisterebbe ad un incongruo spostamento di un diritto fondamentale “verso l’orizzonte della premialità”. Viene così esclusa, anche in uno sguardo prospettico, tra i possibili presupposti della concessione della visita intima, la fuorviante logica premiale.
Circa la qualifica di “compagna” della partner, con cui il ricorrente richiede di poter svolgere colloqui riservati, viene sottolineato dal giudice rimettente come non vi sia alcun dubbio che la stessa rientri, a pieno titolo, nella platea dei soggetti legittimati in via regolamentare (art. 37, co. 1, dpr 230/2000) ai colloqui con i detenuti già da prima della equiparazione prevista dalla legge 76/2016 (art. 1, co. 38) e dalla più recente legge 70/2020 che, all’art. 2 quinquies, in materia di colloqui telefonici, equipara espressamente il coniuge con “l'altra parte dell'unione civile, con persona stabilmente convivente o legata all'internato da relazione stabilmente affettiva”.
Di fronte ad un diniego apparentemente legittimo da parte dell’amministrazione penitenziaria che, nel rispetto dell’impianto normativo vigente, è tenuta ad interdire i rapporti sessuali durante i colloqui, il Giudice rimettente ritiene che la Corte costituzionale nel caso di specie non potrà che concludere per la rilevanza della questione al suo vaglio.
3. I parametri costituzionali della quaestio
Sul piano dei parametri costituzionali violati nella forzata astinenza dai rapporti sessuali inframurari, oltre all’inviolabilità dei diritti umani (art. 2 C.), al rispetto dei trattati internazionali (art. 117 in relazione agli artt. 3 e 8 CEDU), alla protezione della famiglia (art 29, 30 e 31 C.) e della salute (art. 32 C.), ai limiti e alla funzione risocializzante della pena (art. 27, 3 comma C) - già evocati dall’ordinanza Fiorillo, seppure con alcuni distinguo - il Magistrato di Spoleto richiama anche l’illegittima compressione della libertà personale e la natura vessatoria della sanzione inflitta. In particolare, viene evidenziato il contrasto con l’art. 13 della Costituzione, ai commi 1 e 4. Il divieto del diritto alla propria sessualità rappresenta, di fatto, una compressione della libertà personale non supportata da alcuna ragione di sicurezza quando il condannato, come nel caso del ricorrente, si trovi in regime di “media sicurezza”, senza alcun provvedimento di controllo della corrispondenza e delle conversazioni. Tale irragionevolezza finisce, inevitabilmente, per configurare una “forma di violenza fisica e morale …che, nella mancanza di una giustificazione sotto il profilo della sicurezza, si volge in mera vessazione, umiliante e degradante”.
Accanto alla sessualità entra in gioco anche il diritto alla genitorialità, intesa come possibilità di procreazione; di tale privazione è vittima anche il/la partner della persona ristretta. Si tratta di un rilievo molto opportuno anche per la sua funzione di ampliare lo sguardo verso gli affetti “non ristretti” e, tuttavia, parimenti vittime della dimensione “bilaterale” della pena[2].
Inoltre, il Magistrato di Sorveglianza, evidenziando il diritto a diventare genitore (sia del ristretto che del partner), ha inoltre implicitamente svelato i molteplici risvolti dell’imposizione del controllo visivo, che travalicano la sola sfera sessuale. A ben guardare, la conservazione delle relazioni affettive, tout court, presuppone il riconoscimento della libertà di comunicare riservatamente; solamente modalità di contatto che assicurino la riservatezza della comunicazione, possono consentire di sviluppare e mantenere legami affettivi “il più normali possibile”, come raccomandano le European Prisons rules[3].
Ad avvalorare l’incapacità di “tenuta” dell’attuale impianto proibizionista sotto il profilo della ragionevolezza, sono le modifiche legislative introdotte dalla cd. riforma Orlando (d. lgs. 2 ottobre 2018, n. 123). Il riformato dispositivo dell’art. 18 OP, pur non modificando l’obbligo che i “colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista … del personale di custodia”, prescrive che i locali in cui si svolgono ne “favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata” e che gli stessi siano “collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto”. Imponendo alle Direzioni di favorire la “riservatezza” dei colloqui con i familiari, la norma sembra, così, suggerire un’indicazione di riforma e di prassi amministrativa virtuosa, per il potenziamento di momenti di incontro e di intimità[4]; tenuto conto che tali colloqui – secondo il testo riformato – dovrebbero avvenire in locali preferibilmente in prossimità dell’ingresso in istituto, all’evidente scopo di evitare, per quanto possibile, disagi e frustrazione da parte dei familiari[5].
Le modifiche più incisive in materia sono, tuttavia, quelle apportate nell’ordinamento penitenziario minorile, con l’introduzione dell’istituto delle cd. “visite prolungate”. Infatti, nel d.lgs. dedicato del 2 ottobre 2018, n. 121, varato in attuazione della stessa legge delega n. 103 del 2017, è stato introdotto l’istituto delle visite per le persone detenute minori di età. La norma, contenuta nell’art. 19 del decreto, statuisce che “al fine di favorire le relazioni affettive, il detenuto può usufruire ogni mese di quattro visite prolungate della durata non inferiore a quattro ore e non superiore a sei ore”. Nel contesto minorile, dunque, il legislatore è riuscito là dove, in quello adulto, ha sempre fallito, prospettando la possibilità di incontri riservati e disciplinando termini e modalità di esplicazione del diritto, come puntualmente suggerito dai giudici costituzionali con la sentenza 301/2012. Il legislatore, alquanto singolarmente, sembra aver traslato la proposta di introdurre l’istituto delle visite, accanto ai colloqui, dagli adulti ai minori autori di reato[6]: una norma disegnata per i primi e attuata per i secondi che conduce – secondo il giudice rimettente - ad un’irragionevole disparità di trattamento, evidentemente non giustificata dalla minore o giovane età degli ospiti degli istituti penali per minori.
Come già avvenuto con l’ordinanza Fiorillo e con la successiva sentenza costituzionale, nell’ottica di integrare le fonti normative interne con quelle sovranazionali, rispetto alla congruità delle scelte nel raggiungere un obiettivo di garanzia dell’ordine e della sicurezza pubblica, è stata opportunamente valorizzata la cornice sovranazionale, sia con riguardo alle carte internazionali che alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di colloqui intimi, fino a farne – in questa sede – ragione di uno specifico vulnus dell’articolo 117, co. 1, Cost., in rapporto agli artt. 3 (divieto di tortura e pene o trattamenti inumani o degradanti) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea dei diritti umani.
Sul punto è utile sottolineare come i giudici di Strasburgo - sebbene abbiano negato la formazione di un vero consensus europeo sulle family visits, apprestando una tutela alquanto marginale, in un primo momento, ed eccessivamente prudente, poi[7] - hanno posto, in capo agli Stati contraenti, delle “positive obligations”[8] derivanti proprio dal diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito all’art. 8 CEDU[9]. L’orientamento, piuttosto recente, prevede, che le autorità statali siano tenute a fornire ai soggetti ristretti - e, se del caso, ai membri delle loro famiglie - una realistica opportunità di esercizio effettivo del diritto alle visite familiari, inteso come assistenza dei detenuti nella creazione e nel mantenimento dei legami extra-murari.
Le recenti aperture della Corte EDU sul tema, unitamente agli altri parametri indicati dall’ordinanza, rappresentano elementi che i giudici costituzionali non potranno ignorare nella valutazione della compatibilità della normativa rispetto all’art. 117 C. Se si volge, poi, l’attenzione agli altri Stati, l’inerzia del legislatore italiano, sul tema della sessualità in carcere, sembra sia diventata oramai quasi un unicum anche nell’ambito dell’Unione europea; dato che rende il nostro Paese maggiormente inadempiente.
4. La sostenibilità di una pronuncia di illegittimità
Quanto, infine, al secondo motivo di inammissibilità della ordinanza Fiorillo (il pericolo di travalicare gli ambiti del potere giudiziario, sconfinando in quello legislativo), il giudice di prime cure osserva come sono trascorsi ormai dieci anni dal monito della Corte Costituzionale che - nel sottolineare la rilevanza della questione anche alla luce delle indicazioni provenienti dagli atti sovranazionali e dall’esperienza comparatistica - sollecitava il legislatore ad intervenire. Un “tempo specialmente lungo”, sottolinea il Magistrato di Spoleto, “senza che… si sia pervenuti ad una effettiva modifica della normativa sul punto qui rilevante”. La protratta inerzia legislativa rispetto alla pronuncia del 2012 rappresenta un “elemento di novità ulteriore”, da valorizzare.
L’ordinanza non si sottrae dal dare atto della tecnica dilatoria, più volta utilizzata dal Giudice delle Leggi, negli ultimi anni, di fronte a profili di discrezionalità legislativa così ampi da inibire un intervento risolutore della Corte. Anziché sostituirsi al legislatore, i giudici costituzionali hanno, di frequente[10], preferito “mettere in mora” il legislatore, concedendogli un termine entro il quale lo stesso è tenuto ad adeguare la normativa sulla scia dei principi enucleati dalla Corte stessa.[11]
È come se il timore degli effetti disarmonici di un intervento meramente demolitorio, sul complessivo equilibrio della disciplina, prevalesse sulla spinta nomofilattica spesso intrapresa dalla Corte in passato. Attenta dottrina[12] ha, tuttavia, sottolineato che, quando la traslazione in avanti della decisione per “esigenze di collaborazione istituzionale” si traduce in un prolungamento della carcerazione, tale tecnica decisoria risulta inadeguata sotto la lente dei diritti e delle libertà, in quanto la permanenza in carcere viene giustificata da una legge accertata incostituzionale, ma non dichiarata tale.
Egualmente, a parere del giudice rimettente, lo stato di particolare sofferenza in cui versa il sistema penitenziario e chi vi è ospitato non può tollerare nel caso di specie l’utilizzo di pronunce dilatorie. Ciò anche in considerazione del lungo lasso temporale di inerzia del legislatore rispetto al monito del 2012, nonostante le indicazioni della cd. Commissione Giostra, i principi della Legge delega n. 103/2017 e i numerosi progetti–pilota sperimentati in vari contesti detentivi[13].
D’altro canto, molto opportunamente il giudice rimettente sottolinea come la disciplina legislativa dei colloqui riservati in ambito minorile costituisce anche un parametro utile al Giudice delle leggi per evitare un intervento meramente ablativo e indicare le concrete modalità di accesso al diritto che sarebbe riconosciuto dall’accoglimento dell’istanza. Secondo l’articolo 19 del citato d. lgs. 121/2018, “le visite prolungate si svolgono in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile un ambiente di tipo domestico” (comma 4); “il direttore dell’istituto verifica la sussistenza di eventuali divieti dell’autorità giudiziaria che impediscono i contatti con le persone indicate …” e “verifica la sussistenza del legame affettivo …” (comma 5), favorendo “le visite prolungate per i detenuti che non usufruiscono di permessi premio” (comma 6). Acquisito il colloquio riservato/visita prolungata come strumento di attuazione di un diritto fondamentale della persona non soggiacente alla prospettiva premiale della progressione trattamentale, l’ordinamento giuridico già offre parametri legislativi in ordine ai tempi, ai modi, ai soggetti autorizzabili e finanche all’ordine di precedenza nell’accesso all’istituto che con una pronuncia di incostituzionalità si verrebbe a configurare.
5. Considerazioni conclusive
In conclusione si può dire che la nuova questione di legittimità costituzionale proposta dal giudice di sorveglianza di Spoleto consente alla Corte costituzionale di tornare a confrontarsi con il tema e la norma impugnata dentro un quadro normativo e argomentativo mutato e arricchito rispetto a quello della sua precedente pronuncia.
Come abbiamo scritto, mutato è il quadro normativo entro cui si inserisce l’articolo 18 della legge 354/1975 sotto due profili. Innanzitutto, nella misura in cui la riservatezza dei colloqui delle persone detenute con i familiari ha assunto rilevanza di principio guida dell’azione amministrativa per effetto della riformulazione del suo comma 3 con la novella del 2018. In secondo luogo, la nuova disciplina delle “visite prolungate” nel nuovo ordinamento penitenziario minorile, nello stesso tempo in cui fa emergere la irragionevole disparità di trattamento tra adulti e minori sollevata dal giudice rimettente, fornisce anche una soluzione legislativa alla mancata disciplina di analoghe visite prolungate agli adulti lamentata dal giudice delle leggi nel 2013 nel caso di un proprio mero intervento censorio.
Sul versante argomentativo, invece, al di là dei nuovi profili di illegittimità evidenziati, il giudice rimettente fa buon uso della giurisprudenza umanitaria della stessa Corte costituzionale[14], secondo cui la natura penale della privazione della libertà per motivi di giustizia si manifesta nella mera privazione della libertà di movimento[15], dovendosi puntualmente giustificare ogni altra limitazione accessoria[16], non in base a generici motivi di ordine e sicurezza, ma a specifiche e contingenti situazioni di prevenzione speciale sotto duplice riserva di legge e giurisdizione. Al di fuori di simili, legittime eccezioni, riconosciute legislativamente nella selezione delle persone autorizzate ai colloqui con i detenuti e nella limitazione o nella possibile censura della corrispondenza in fase cautelare o per particolari categorie di detenuti, un diritto fondamentale della persona detenuta come quello all’esercizio di una sessualità libera e consapevole, strumentale tanto alla tutela della propria salute psico-fisica quanto alla pienezza della propria soggettività umana, non può essere compresso né come effetto implicito dell’esecuzione di un provvedimento giurisdizionale di privazione della libertà, né tantomeno come conseguenza di difficoltà organizzative dell’amministrazione pubblica o di resistenze culturali dei suoi operatori.
Siamo dunque, forse, a un punto di svolta. Con la nuova pronuncia della Corte sapremo se il diritto alla sessualità delle persone detenute non ha potuto fin qui essere garantito per un vuoto normativo di responsabilità del legislatore, come la Corte costituzionale ha affermato con la sentenza del 2013, o per il pieno di un dispositivo proibizionista operante in materia sessuale come parte della capitis deminutio che antiche concezioni retributive della pena portavano con sé.
In questa epoca di passioni tristi, che alimenta usi populistici del diritto e della giustizia penale, spetta ancora una volta alla giurisdizione sciogliere nodi che l’evoluzione della sensibilità civile porta in evidenza. Speriamo che la Corte costituzionale riesca a farsene interprete.
*Ricercatore di filosofia e sociologia del diritto nell’Università di Perugia. Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale per la Regione Lazio.
**Avvocata. Phd. Docente di Esecuzione penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale.
[1] Così A. PUGIOTTO, Della castrazione di un diritto. La proibiizone della sessualità in carcere come problema di legalità costituzionale”, in Giurisprudenza penale, n. 2-bis/2019, pp. 5-14.
[2] In proposito, si veda originariamente J. MATTHEWS, Forgotten Victims. How prison affect the family, London 1983, e nel dibattito italiano sul diritto all’affettività/sessualità dei detenuti e dei loro congiunti, S. TALINI, Diritto inviolabile o interesse cedevole? Affettività e sessualità dietro le sbarre (secondo la sentenza n. 301 del 2012), in Studium Iuris, 2013, pp. 1089 e ss.., A. PUGIOTTO, op. cit., pp. 21-22, e, sull’ordinanza che si commenta, ancora S. TALINI, Un passo decisivo verso la garanzia della sessualità intramuraria?, in Sistema penale, 2023, p. 5.
[3] Raccomandazione R(2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee, adottata l’11.01.2006 e rinnovata nel 2020, https: //rm.coe.int. Le EPR sottolineano anche il dovere delle autorità di facilitare “i contatti con il mondo esterno” e di “permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali”, “fornendo loro l’assistenza sociale appropriata allo scopo” e consentendo di beneficiare di “visite familiari intime per un periodo prolungato”, pari ad esempio a 72 ore (Regola 24-4/5 e Commentario alle EPR).
[4] M. BORTOLATO, Luci ed ombre di una riforma a metà: i decreti legislativi 123 e 124 del 2 ottobre 2018, in Questione Giustizia, 9, 2018. L’autore afferma che “La norma va salutata con estremo favore in quanto apre in qualche modo ad una maggiore considerazione dell’esercizio, tutto “privato”, del diritto all’affettività in ambito carcerario ed apre scenari imprevedibili implicando una possibile sottrazione, seppur limitata, al controllo permanentemente visivo dei colloqui familiari”.
[5] L. AMERIO, V. MANCA, Forma attiva e passiva del verbo amare: riflessioni a margine delle prime applicazioni del D.lgs. n. 123/2018 in materia di affettività e sessualità, in Giurisprudenza penale, 2 settembre 2019.
[6] Nei lavori del Tavolo 5 degli Stati Generali dell’esecuzione penale promossi dal Ministro Orlando in vista dell’adozione del disegno di legge delega, tavolo dedicato ai “Minorenni autori di reato”, non vi è infatti alcun cenno alla visita prolungata.
[7] Per un’analisi approfondita delle pronunce CEDU, cfr. M. E. SALERNO, Affettività in carcere e diritto alle visite familiari. A Strasburgo, tra affermazioni di principio e tutela effettiva, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 2-bis; L. RE, S. CIOFFOLETTI, La pena rimossa. Detenzione e diniego della sessualità nelle carceri italiane, in C. BOTRUGNO e G. CAPUTO, Vulnerabilità, carcere e nuove tecnologie Prospettive di ricerca sul diritto alla salute, Phasar Edizioni, 2020, p. 78. Con riferimento all’ordinanza che si commenta, si veda anche F. MARTIN, Carcere e sessualità: nuovi spiragli costituzionali, in Giurisprudenza penale, 1/2023, pp. 2-6.
[8] Corte EDU, 30 giugno 2015, Khoroshenko c. Russia, ric. n. 41418/04; Corte EDU, Grande Camera, 4 aprile 2018, Correira De Matos c. Portogallo, ric. 56402/12.
[9] Cfr. S. GRIECO, Il diritto all’affettività delle persone recluse, Editoriale scientifica, Napoli, 2022, pagg.9-13.
[10] Cfr. ordinanza n. 207 del 16 novembre 2018, cd. Caso Cappato, in tema di agevolazione al suicidio e ordinanza n.132 del 26 giugno 2020 sulla diffamazione a mezzo stampa, https://www.cortecostituzionale.it/.
[11] Cfr. da ultimo ordinanza n. 97 del 15 aprile 2021 e ordinanza n.122 del 13 maggio 2022 in materia di ergastolo ostativo, https://www.cortecostituzionale.it/.
[12] Cfr. ex plurimis A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo al capolinea? Una mappa per orientarsi, in attesa della sentenza costituzionale, in Studium Iuris, Cedam, fasc. 2/2021, pag.143; M. PASSIONE, Il muro torto. Barlumi di incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, in Diritto di Difesa, Giuffré editore, 27 maggio 2021.
[13] In Italia le stanze dell’affettività esistono solamente in via sperimentale nella Casa di Reclusione di Milano Opera ma vi sono moduli architettonici realizzati da un gruppo di professori di architettura, coadiuvati dal Prof. Renzo Piano, per dar vita ai progetti G124-2019, prime unità abitative per favorire l’incontro con i familiari, per la Casa di Reclusione di Rebibbia, e, all'esterno, per Milano, Padova e Siracusa. In particolare, presso la struttura di Rebibbia femminile è sorto il M.A.MA. (acronimo di Modulo per l'Affettività e la Maternità).
[14] Una nuova giurisprudenza umanitaria delle corti costituzionali, supreme e internazionali, orientata a individuare in concreto il limite legittimo del diritto di punire, oltrepassato il quale il suo esercizio entra in rotta di collisione con i suoi presupposti giustificativi, si è andata affermando dalla fine del secolo scorso in Italia e altri Paesi occidentali. Sulle sue manifestazioni, sulla sua natura e sull’ambivalente rapporto che essa intrattiene nel nostro ordinamento con la tradizionale giurisprudenza rieducativa, si rinvia a S. ANASTASIA, Le pene e il carcere, Milano, Mondadori, 2022, pp. 83 e ss..
[15] Cfr. M. RUOTOLO, La libertà della persona in stato di detenzione, in Osservatorio AIC-Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 6/2021, p. 254.
[16] In virtù di tale argomento A. PUGIOTTO, op. cit., pp. 14-15, sostiene la sussistenza di un ulteriore parametro di illegittimità costituzionale, configurandosi l’applicazione della pena accessoria della mutilazione della sessualità in una violazione del principio di legalità delle pene ex art. 25, co. 2, Cost..
*In precedenza, sul medesimo tema, Interventi giudiziali e proposte di regolazione in materia di suicidio assistito di Giovanni Di Rosa, Il fine vita tra etica e diritto di Ignazio Fonzo e Il cammino incerto del diritto sul fine vita di Roberto Giovanni Conti.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il suicidio in generale: irrilevanza per l’ordinamento penale italiano - 3. Istigazione e aiuto al suicidio - 4. L’omicidio del consenziente: art 579 c.p. e la sentenza della corte costituzionale n. 50/2022 - 5. Un caso concreto di applicabilità dell’art 580 c.p. sotto il profilo dell’istigazione al suicidio - 6. Conclusioni.
1. Premessa
Il quesito posto dal titolo del convegno appare di difficile soluzione in quanto investe considerazioni giuridiche, etiche, filosofiche, storiche e religiose.
In queste poche righe viene riportato il contributo, certamente parziale, di un penalista, di un Pubblico Ministero quotidianamente impegnato nelle aule di giustizia, mediante una non esaustiva, ma ritengo significativa disamina delle principali fattispecie penali in cui può venire in evidenza, ed in effetti è venuto in evidenza, il tema oggetto del convegno, sia mediante brevi accenni ad una vicenda concreta, tuttora sub iudice, che permette di evidenziare come la realtà, al di là del dibattito giuridico sociale etico, politico e religioso che sta sullo sfondo, ponga l’operatore del diritto al cospetto di svariate sfaccettature che possono portare a conseguenza anche non previste e certamente, a mio avviso, assai discutibili.
Il tentativo di fornire una risposta alla domanda iniziale sarà il frutto della ricognizione delle fattispecie penali di cui sopra e, soprattutto, delle sentenze della Corte Costituzionale che hanno affrontato la tematica.
2. Il suicidio in generale: irrilevanza per l’ordinamento penale italiano
In primo luogo viene in considerazione il suicidio, l’atto auto soppressivo autonomo del soggetto che decide di togliersi la vita: l’ordinamento, com’è noto, lo considera un atto né lecito né illecito ma giuridicamente tollerato, sebbene moralmente riprovevole.
Trattasi, come noto, di un fatto che non costituisce reato, ovviamente sia nell’ipotesi ovvia in cui l’evento suicidiario si realizzi, sia in quello in cui la punizione sarebbe comunque possibile, ossia quando l’autore non riesce a realizzare il suo proposito; la mancata punizione dell’aspirante sucida, è evidentemente giustificata solo da ragioni di opportunità politica perché nel periodo storico in cui entrava in vigore il Codice Rocco si registra un rispetto assoluto per il bene vita, non tanto quale forma di tutela avanzata nei confronti dell’individuo in quanto tale, quanto piuttosto per i doveri che l’individuo stesso ha nei confronti della società e della famiglia.
Pertanto un fatto che astrattamente sarebbe punibile perché comunque in contrasto con il rispetto assoluto del bene vita, non viene punito per ragioni di mera opportunità politica.
In questa primissima prospettiva è possibile effettuare una prima, parziale considerazione:
se non vi è un vero e proprio diritto a morire, l’atto auto soppressivo è quantomeno tollerato e non punito, laddove fosse possibile, per ragioni di opportunità.
In ogni caso trattasi di un’ipotesi poco significativa rispetto al tema perché ben più pregnanza hanno le fattispecie di cui all’art 580 c.p. (aiuto al suicidio o istigazione) e art 579 c.p. omicidio del consenziente), che costituiscono un microsistema con il quale il legislatore intende invece punire tutte le condotte di ausilio da parte di terzi per raggiungere il proposito suicida e proteggerli dalle influenze di altri soggetti spinti all’aiuto o all’istigazione, magari per finalità non proprio cristalline.
3. Istigazione e aiuto al suicidio
Art 580 c.p. alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019. Riferimenti al caso dj Fabo.
Una nuova causa di non punibilità a determinate stringenti e tassative condizioni.
Ambito di applicazione.
In primo luogo viene in considerazione la condotta di aiuto materiale al suicidio: è la fattispecie che ha dato vita al dibattito politico e giuridico in corso nella società italiana nonché all’organizzazione di questo convegno, le cui implicazioni non erano neanche lontanamente immaginabili nel 1930.
Il problema è sorto per l’ormai arcinoto caso Cappato che era imputato per aiuto al suicidio avendo accompagnato in Svizzera un soggetto, Dj Fabo, ormai tenuto in vita soltanto attraverso una macchina, completamente paraplegico, che aveva espresso la volontà di praticare il suicidio assistito, legale in Svizzera, in presenza di una complessa procedura che si conclude con l’assunzione da parte della persona di un farmaco letale.
Ebbene, nel corso del processo era stata sollevata questione di costituzionalità e la lettura della sentenza n. 242 del 24/09/2019, che dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi aiuta il suicidio altrui in presenza di determinate condizioni, è assai significativa per la risposta alla domanda iniziale.
I punti fondamentali della sentenza sono i seguenti:
1. in primo luogo la causa di non punibilità individuata dalla Corte riguarda solo le condotte di aiuto materiale, esecutivo di una decisione autonomamente e liberamente già presa dalla persona. Non riguarda la fattispecie affine dell’istigazione, pure punita all’interno della fattispecie di cui all’art 580 c.p. .
2. L’aiuto materiale, nel caso concreto, era consistito nell’accompagnare in auto verso la Svizzera l’aspirante suicida il 25/02/2017 con un atto plateale e pubblico, per richiamare l’attenzione della collettività e poi, al ritorno, il politico si era autodenunciato presso i Carabinieri.
3. In via generale, si legge nella sentenza, l’incriminazione dell’aiuto materiale al suicidio, ancorchè non rafforzativo del proposito della vittima, non è di per sé costituzionalmente illegittimo; inoltre, par 2.2 dall’art 2 Cost e 2 CEDU si ricava il dovere dello Stato di tutelare la vita e non quello diametralmente opposto di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere un aiuto a morire; dal diritto alla vita non può derivare il diritto a rinunciare a vivere.
4. La ratio dell’art. 580 c.p., a prescindere dalla visione del legislatore del 1930 ed alla luce dei precetti costituzionali, è quella di tutelare le persone deboli e vulnerabili che l’ordinamento intende proteggere da una scelta estrema ed irreparabile come quella del suicidio. L’art 580 c.p. è posto a presidio di persone che, avendo deciso di suicidarsi, subiscano interferenze di ogni genere, materiali o morali.
5. Premesso quanto sopra in generale, la Corte (par. 2.3) tuttavia individua un’area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa corrispondente all’ipotesi in cui l’aspirante suicida si identifichi, come nel caso oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, in una persona affetta da
a) patologia irreversibile,
b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che trovi assolutamente intollerabili,
c) tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e
d) sia libera di prendere decisioni libere e consapevoli.
6. Si tratta di condizioni che devono essere tutte compresenti, in cui il soggetto si trova si in vita grazie agli sviluppi della scienza medica e della tecnologia in grado di strapparlo alla morte, ma non in grado di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali.
7. Pertanto l’assistenza di terzi nel morire può essere vista dal malato come l’unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, ad un mantenimento in vita artificiale e non più voluto cui egli ha il diritto di rifiutare secondo l’art 32 Cost.
8. L’unica forma di riconoscimento legislativo per queste ipotesi è quello che consente di interrompere i trattamenti sanitari, rifiutare le cure, (legge 219/2017) anche se vitali, ma non prevede un intervento diretto del medico che possa porre fine alla sofferenza del paziente, così che lo stesso deve subire un percorso più doloroso e straziante anche per i familiari; pertanto, ragiona la Corte, se l’ordinamento permette di porre fine alle proprie sofferenze mediante interruzione delle cure, non si vede perché, in quelle specifiche condizioni, non lo consenta con l’aiuto di terzi.
9. La conclusione della Corte è che il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato, comprese le scelte finalizzate a liberarlo dalle sofferenze ex art 2- 13 e 32 cost. costringendolo ad una sola via per congedarsi dalla vita.
10. La Corte, nell’individuare quindi questa causa di non punibilità, al fine di evitare abusi, individua una procedura, quella già prevista per interruzione dei trattamenti di sostegno vitale, previsti per quelle persone che già versano nelle condizioni sopra individuate per ritenere non punibile l’aiuto al suicidio (art 1 e 2 legge 219/2017), ossia in sintesi: verifica delle capacità di autodeterminazione del paziente, sussistenza di un consenso libero e informato, acquisito nei modi più consoni alle condizioni del paziente, documentata in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o per le persone disabili con modalità che le consentano di comunicare per essere inserito in cartella clinica; inoltre, la volontà è sempre liberamente revocabile. Peraltro, è previsto che il medico prospetti al paziente le conseguenze della propria scelta e le possibili alternative, promuovendo azioni di sostegno, avvalendosi anche di servizi di assistenza psicologica.
Infine, la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio resta rimessa ad una struttura pubblica del SSN, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
11. Resta non disciplinata la questione dell’obiezione di coscienza del medico perché la declaratoria di costituzionalità si limita a rendere legittimo l’aiuto al suicidio in presenza delle condizioni suindicate, senza prevedere un obbligo in tal senso per il medico e, pertanto, resta rimessa al medico stesso la scelta di aiutare o meno il paziente.
12. In ogni caso: è fin troppo evidente che la Corte riconosce uno spazio di liceità della condotta di aiuto ma solo in presenza di rigorosissime condizioni per evitare abusi.
4. L’omicidio del consenziente: art 579 c.p. e la sentenza della corte costituzionale n. 50/2022
La sentenza riguarda la fattispecie di cui all’ art 579 c.p. a seguito di un’iniziativa referendaria che intendeva liberalizzare l’omicidio del consenziente, con abrogazione parziale della norma incriminatrice; sarebbe rimasto punibile solo l’omicidio del consenziente caratterizzato da ipotesi di consenso viziato, cui applicare le sanzioni dell’omicidio volontario.
La Corte rileva subito che in caso di pronuncia di ammissibilità del referendum e successivo suo esito favorevole, l’omicidio del consenziente risulterebbe liberalizzato a tal punto da renderlo legittimo non solo nei confronti del malato terminale prigioniero del proprio corpo che versi in quelle condizioni enucleate nella sentenza 242/2019, ma anche nei confronti di chi si trovasse in situazioni di generico disagio di diversa natura (familiare, affettiva, sociale, economica) fino al cd tedium vitae; inoltre sarebbero irrilevanti le qualità del soggetto attivo autore dell’omicidio (medico o no) nonché le modalità di prestazione del consenso (più sopra è stata citata la complessa procedura indicata dalla Corte per evitare abusi) i mezzi utilizzati (non solo farmaci indolori ma anche, ad es., armi violente e dolorose).
Premesso quanto sopra, la Corte ribadisce a chiare lettere che il diritto alla vita riconosciuto dall’art 2 Cost è da iscriversi tra i diritti inviolabili e cioè tra quelli che occupano nell’ordinamento una posizione privilegiata in quanto appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana.
Il diritto alla vita concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto della persona.
Vietando a terzi di farsi esecutori di altrui richieste di morte, pur validamente espresse, l’incriminazione dell’omicidio del consenziente consente di proteggere, soprattutto, ma non soltanto, le persone deboli e più vulnerabili che magari in un momento transitorio di difficoltà prendono una decisione non ben meditata ma dalle conseguenze irreparabili.
Quando viene in considerazione il bene vita umana, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragione di tutela del medesimo bene, risultando sempre necessario un bilanciamento che ne assicuri una tutela minima.
5. Un caso concreto di applicabilità dell’art 580 c.p. sotto il profilo dell’istigazione al suicidio
Si analizzerà ora l’Art. 580 c.p. sotto il profilo della condotta di istigazione, determinazione o rafforzamento del proposito suicida: è un caso concreto oggetto di indagine e occorre valutare quale disciplina sia applicabile.
L’Imputato, in ipotesi accusatoria, determina o rafforza un proposito suicidiario non definitivo, permettendo alla persona offesa di superare le ultime incertezze.
Trattasi, la vittima, di una persona affetta da patologia fisica e da depressione, entrambe non incurabili e irreversibili ma condizionantesi reciprocamente: la depressione, insorta dopo l’insorgenza della patologia fisica, acuisce i dolori della patologia fisica che incide sull’incremento dello stato di depressione..
È ovvio che, curando entrambe le patologie, la situazione sarebbe migliorata e forse la persona non avrebbe ritenuto inevitabile il ricorso al suicidio assistito.
Peraltro la capacità di intendere e volere della vittima risulta piena ma la persona offesa risulta senz’altro maggiormente influenzabile da terzi, proprio a causa della condizione di debolezza dovuta alla duplice patologia:
Allora ci si pone la domanda di quale sia il trattamento giuridico per questo caso, conclusosi tragicamente con il suicidio assistito all’interno della stessa clinica svizzera ove è deceduto Dj Fabo.
Ricorrono per analogia le condizioni indicate dalla corte Costituzionale con la citata sentenza n. 242/2019?
È giustificabile la condotta di un terzo che per fini ideologici propri, rafforzi un proposito suicidiario ancora incerto, contribuendo a rimuovere le ultime resistenze anche religiose della donna, convincendola a praticare la soluzione del suicidio assistito in Svizzera?
La risposta dovrebbe essere senz’altro negativa.
Non è applicabile, infatti, la causa di non punibilità individuata dalla Consulta per l’ipotesi di aiuto materiale al suicidio, trattandosi della diversa ipotesi di determinazione dell’altrui suicidio sub specie di rafforzamento del proposito suicidiario; inoltre, se anche si ritenesse la condotta sopra descritta come una forma di aiuto materiale (mediante consigli, esortazioni, ecc.) mancherebbero tre delle quattro condizioni individuate dalla Consulta (ossia assenza di una patologia irreversibile, assenza di un trattamento di sostegno vitale (la donna si reca da sola in Svizzera, in aereo) assenza di sofferenze fisiche intollerabili.
L’unico presupposto sussistente sarebbe quello della capacità di intendere e volere, ritenuta da diverse perizie come piena ma la persona offesa, proprio per la sua condizione doppiamente patologica è stata considerata vulnerabile ed influenzabile e pertanto maggiormente esposta a condizionamenti e influenze da parte di terzi che possono incidere sul processo decisionale, a questo punto non più autonomo.
6. Conclusioni
Alla luce di quanto detto, appare evidente che non esiste un diritto incondizionato a morire soprattutto se si chiede l’ausilio materiale o morale di altri.
Con un rapporto di regola ed eccezione, può individuarsi all’interno del sistema, un limitato spazio di non punibilità di condotte di mero aiuto materiale nel rispetto di limitate e stringenti condizioni individuate dalla Corte Costituzionale, peraltro necessariamente tutte compresenti, perché l’ordinamento privilegia il bene vita rispetto alla libertà di autodeterminazione individuale, preoccupandosi della sua tutela minima.
Ci si potrebbe chiedere se questa forma di protezione accentuata del bene vita a discapito del diritto all’autodeterminazione individuale, sia tipica di uno Stato Etico, o di uno Stato Autoritario, ancora, nella migliore delle ipotesi, di uno Stato Paternalistico.
Semplicemente, lo Stato Democratico e Costituzionale in cui viviamo è’ uno Stato che ha cura dei soggetti più deboli e cerca di tutelarli soprattutto rispetto a scelte irreparabili come quella del suicidio, anche e soprattutto riguardo chi, per svariate ragioni, non ultima quella del profitto, aiuta o induce altri soggetti più deboli a compiere scelte magari non ponderate adeguatamente, dalle conseguenze tuttavia irreparabili.
In ogni caso, l’eccezione individuata dalla Corte quale ipotesi di non punibilità dell’aiuto al suicidio è una soluzione da ritenersi convincente; d’altra parte, ritengo che forme più radicali di riconoscimento del diritto a morire, inteso come aiuto al suicidio di soggetti che semplicemente si trovano in un momento di difficoltà transitoria, oppure in uno stato di depressione, privati di qualsiasi forma di tutela pubblica, porrebbe seri problemi di coscienza che, da cittadino, mi sembrerebbero difficilmente giustificabili.
In precedenza, sul medesimo tema, Il fine vita tra etica e diritto di Ignazio Fonzo e Il cammino incerto del diritto sul fine vita di Roberto Giovanni Conti.
Sommario: 1. Una necessaria premessa in ordine all’oggetto dell’indagine. – 2. Le prime decisioni dei giudici civili. – 3. La proposta di regolazione della morte volontaria medicalmente assistita.
1. Una necessaria premessa in ordine all’oggetto dell’indagine.
L’intervento dei giudici costituzionali quanto al procedimento penale instaurato nei confronti di chi, autodenunciatosi per avere aiutato altri a morire attraverso il suicidio assistito, era stato imputato, dopo una prima richiesta di archiviazione, del reato di cui all’art. 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio), poi assolto in giudizio perché il fatto non sussiste, ha prodotto diversi effetti, alcuni immediati e diretti, altri successivi e riflessi ([1]). In merito, infatti, una volta approdata la questione dinanzi al giudice delle leggi, può essere considerata un mero punto di partenza la successiva declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219, recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche reputate dalla stessa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente ([2]).
In questa sede, ovviamente, non interessa porre l’accento sulla tecnica seguita, rappresentata, come è ben noto, da una prima decisione (ritenuta assai discutibile) con la quale si rinvia a un anno esatto dalla pronuncia la successiva trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, rilevando, per un verso, che la tesi del giudice rimettente, nella sua assolutezza, non può essere condivisa, ma evidenziando, per altro verso, che il carattere assoluto del divieto (penalmente sanzionato) di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie ([3]).
Interessa qui piuttosto segnalare, in termini di indicazione per il prosieguo del lavoro, la individuata (sia pure circoscritta) area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa di cui all’art. 580 c.p. Si tratta, in buona sostanza, proprio di quei casi (a cui appartiene anche la vicenda in esame) nei quali l’aspirante suicida si identifichi in una persona a) affetta da patologia irreversibile e b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma rimanga d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Ora, mentre oggi, per il tramite della già richiamata l. n. 219/2017, la decisione di morire potrebbe essere già presa dal malato, con la specifica richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua, non è invece consentito «al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Pertanto, il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care» ([4]). In tale direzione, allora, il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire la (preliminare) irrinunciabile condizione per consentire, poi, la scelta di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente ([5]).
Il richiamo, poi, alla l. n. 219/2017 serve a estendere alle situazioni corrispondenti a quella oggetto del giudizio la introdotta (nuova) procedura, fondata sul riconosciuto diritto ad ogni persona capace di agire «di rifiutare, in tutto o in parte, (…) qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso», nonché di «revocare in qualsiasi momento (…) il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento» (art. 1, comma 5 l. n. 219/2017). Tale procedura infatti consente, ad avviso del giudice delle leggi, di assicurare adeguata risposta a buona parte delle esigenze di disciplina che, indicate nella precedente ordinanza n. 207/2018, avrebbero dovuto essere tenute presente dal legislatore nella predisposizione della richiesta regolamentazione. Il riferimento è, in buona sostanza, alle modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto al suicidio, per garantirne cioè la assoluta lucida consapevolezza e la consequenziale conforme attuazione, dovendosi dunque assicurare in capo al paziente il permanente avvertito dominio sull’atto finale che consente la realizzazione del volontario proposito determinativo. In questo complesso percorso «la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve restare peraltro affidata – in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore – a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale» ([6]), con l’intervento peraltro di un organo collegiale terzo, a tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità, individuato (nelle more dell’intervento del legislatore) nel comitato etico territorialmente competente, le cui funzioni consultive, attribuite dalla specifica normativa di riferimento, sono dirette a garantire e tutelare i diritti e i valori della persona (in particolare quella vulnerabile).
Ora, considerato che sinora il legislatore non è riuscito a intervenire, nonostante il deciso e ripetuto monito giudiziale, la situazione che si è venuta a creare, da un lato, rinviene nel decisum della Corte costituzionale un termine di riferimento ineliminabile sul versante penalistico; dall’altro, però, ha (forse indebitamente) determinato, proprio in ragione dei falliti tentativi di regolazione (su cui si avrà modo di riferire nel prosieguo del lavoro), il ricorso alla giustizia ordinaria civile per ottenere, prospettando un vero e proprio diritto di morire, l’ausilio sanitario pubblico. Proprio ai rapporti tra le prime intervenute decisioni giudiziali e le proposte regolative in materia è dedicato quanto segue.
2. Le prime decisioni dei giudici civili.
Nelle more (purtroppo assai lunghe) della richiesta legiferazione sono già state rese alcune decisioni giudiziali che hanno dimostrato la complessità di dovere affrontare una materia di tal sorta in assenza di una qualsivoglia disciplina regolativa e facendo esclusivamente perno sull’intervento della Corte costituzionale. Da un lato, infatti, non sembra riscontrarsi una unanimità di vedute (probabilmente in ragione della diversità dei percorsi interpretativi) rispetto ai criteri ordinanti di riferimento; dall’altro, altresì, si è probabilmente dato luogo a una sovrapposizione di piani, con il rischio concreto di un ampliamento di fatto di quello spazio entro il quale era stato rigorosamente circoscritta e confinata l’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio, ossia quelle misure poste a tutela, nello specifico e stretto àmbito penalistico, dei soggetti più fragili.
Emblematica in tal senso risulta la vicenda sottoposta al vaglio della giustizia marchigiana, che rigetta il ricorso proposto in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per ottenere da parte dell’Azienda sanitaria unica regionale (ASUR Marche), all’esito degli accertamenti previsti dagli artt. 1 e 2 l. n. 219/2017, la prescrizione del farmaco da assumere per porre fine all’esistenza del ricorrente secondo una modalità «rapida, efficace e non dolorosa», contribuendo peraltro a fare chiarezza su presupposti procedurali di operatività e situazioni giuridiche soggettive interessate ([7]). In disparte i rilievi di parte resistente, sostanzialmente diretti a delineare il reale àmbito di incidenza della decisione costituzionale, il possibile accesso da parte del paziente a quanto già possibile (ossia il rifiuto di trattamenti sanitari e l’accesso alle terapie del dolore), nonché il ritenuto utilizzo improprio dello strumento cautelare, può evidenziarsi da parte dell’organo giudicante, anzitutto, la appropriata delimitazione del richiamato oggetto del decisum costituzionale. Al riguardo, infatti, si esclude correttamente che la Corte costituzionale abbia fondato il diritto del paziente, ricorrendo le ipotesi in cui l’aiuto al suicidio può oggi ritenersi penalmente lecito, «ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la sua decisione di porre fine alla propria esistenza» ([8]); ciò, sia rispetto alla diretta somministrazione del farmaco sia rispetto alla sua preliminare prescrizione.
La successiva ordinanza collegiale, emessa all’esito del giudizio di reclamo, pur confermando l’esclusione di un obbligo in capo al servizio sanitario nazionale, in presenza delle tassative circostanze fissate dalla Corte costituzionale, di prestare assistenza a chi richieda aiuto a morire, ha accolto l’istanza di accertamento della sussistenza dei suddetti presupposti quale verifica il cui esito è, in buona sostanza, pregiudiziale alla non punibilità del concreto aiuto al suicidio ([9]). Si è così escluso il riconoscimento in capo al malato di un vero e proprio diritto di potere scegliere quando e come morire, avvertendosi altresì la problematicità dell’estensione della copertura costituzionale dell’irresponsabilità penale al di fuori dell’àmbito strettamente penalistico. Peraltro, unitamente al rilevato tratto della portata non completamente esaustiva della decisione della Corte costituzionale, si è appropriatamente ribadito il già espresso chiaro distinguo tra ciò che l’attuale disciplina contenuta nella l. n. 219/2017 consente (ossia l’interruzione su richiesta del paziente dei trattamenti di sostegno vitale e la sottoposizione a sedazione profonda continua, producendosi uno stato di incoscienza che poi conduce alla morte) e ciò che invece essa non consente (ossia mettere a disposizione da parte del medico nei confronti del paziente trattamenti atti a determinarne la morte). La tesi pertanto dell’organo collegiale è che «dal “diritto a morire rifiutando i trattamenti” (già riconosciuto dal Legislatore) non si può desumere il riconoscimento del diritto a essere lato sensu “aiutati a morire”, persino tramite il ricorso al Servizio sanitario nazionale, in una modalità di esercizio della libertà personale dal carattere marcatamente pretensivo» ([10]); parimenti, che «non si può ritenere (in materia di prestazioni terapeutiche) che tutto ciò che è tollerato o lecito sia altresì dovuto» ([11]).
Il ragionamento così sviluppato conduce a concludere, in maniera assolutamente condivisibile e limitatamente a quest’ordine di problemi, che il duplice intervento del giudice delle leggi «consente oggi di escludere, sussistendo determinate condizioni, la punibilità di un’eventuale condotta di assistenza al suicidio, ma non consente, altresì, di riconoscere un vero e proprio diritto soggettivo (azionabile in giudizio) ad essere assistiti nel suicidio (attraverso la prescrizione/somministrazione di un “farmaco letale”), a cui corrisponda, dal lato passivo, un obbligo del personale sanitario» ([12]). A questa chiara ed esplicita presa di posizione, peraltro in linea con quanto già statuito in sede reclamata, segue tuttavia una, per così dire, riparametrazione dell’oggetto del giudizio instaurato, rispetto cioè alla richiesta da parte del reclamante nei confronti della struttura sanitaria pubblica di effettuare tutte le verifiche previste dalla stessa decisione dei giudici costituzionali affinché il soggetto interessato possa accedere al suicidio assistito e nessuno sia esposto al rischio di incorrere nella fattispecie penalmente rilevante dell’aiuto al suicidio. Viene così riformata l’ordinanza reclamata, ordinandosi all’Azienda sanitaria unica regionale (ASUR Marche) di accertare quanto richiesto dal paziente tetraplegico, ossia la sussistenza dei presupposti fissati dal giudice delle leggi ai fini della non punibilità dell’aiuto al suicidio e, altresì, la verifica dell’idoneità e dell’efficacia delle modalità e del farmaco individuati ad assicurare una morte il più rapida, indolore e dignitosa possibile, previa acquisizione del relativo parere da parte del Comitato etico territorialmente competente. A fronte del successivo parere favorevole reso il 9 novembre 2021 dal Comitato etico dell’ASUR Marche, quest’ultima con un comunicato del 23 novembre 2021 ha chiarito che sarebbe stato il giudice anconetano a decidere se il paziente richiedente avrebbe avuto diritto o meno al suicidio medicalmente assistito. È stata infine la stessa ASUR Marche alla fine del gennaio 2022 a individuare il farmaco corretto, ossia «il tiopentone sodico, che appare idoneo a garantire una morte rapida e indolore ad un dosaggio non inferiore a 3-5 grammi per una persona adulta del peso di 70 kg. La modalità di somministrazione è quella dell’auto-somministrazione mediante infusione endovenosa».
3. La proposta di regolazione della morte volontaria medicalmente assistita.
Si è già sottolineato l’enorme ritardo che contraddistingue ancora una volta, nonostante i reiterati moniti della Corte costituzionale, l’operato del legislatore. Può in merito rilevarsi che il 13 dicembre 2021 è iniziata nell’aula parlamentare (peraltro semideserta) della Camera dei deputati, e subito rinviata ad altra seduta, la discussione del testo della proposta di legge contenente disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita, varato dalle Commissioni giustizia e affari sociali a più di tre anni dalla prima sollecitazione in tal senso ad opera della Corte costituzionale. I lavori sono poi ripresi il 9 febbraio 2022 e nuovamente rinviati ad altra seduta del mese successivo, a testimonianza dell’attuale assenza di un accordo di fondo tra le forze politiche. In attesa pertanto della conclusione di questo lungo iter parlamentare (nuovamente ripreso il 13 ottobre 2022, all’inizio della nuova legislatura, con la riproposizione dello stesso testo) è possibile richiamare sinteticamente i tratti salienti della prospettata regolamentazione onde rappresentare termini e contenuto del possibile intervento finale del legislatore.
Lo schema approvato dalla Camera dei deputati nel marzo 2022 e trasmesso al Senato per la successiva discussione (ma poi mai varato) si articola in una pluralità di previsioni, che possono essere ricondotte, in maniera assolutamente generale, a profili procedurali-organizzativi, sulla base peraltro di specifici presupposti normativi, nel quadro di un modello che tende a coniugare aspetti di tutela individuale (sia del richiedente sia del personale sanitario) con aspetti di rilevanza collettiva (socio-sanitaria). In questo complesso di regole, volte ad assicurare per legge l’accesso al suicidio assistito, si staglia la peculiare caratterizzazione in chiave procedimentalizzata dell’evento morte, esito cioè di un percorso con presupposti e modalità di esercizio della riconosciuta facoltà della persona richiedente.
Secondo una tecnica di redazione dei testi di legge ormai consolidata, indirizzata ad esplicitare il senso della prediposta normativa, viene premessa la relativa finalità, avendo ad oggetto la disciplina in esame «la facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente e autonomamente alla propria vita» (art. 1). I primi tratti definitori sono poi diretti alla descrizione dell’evento finale, ossia la morte volontaria medicalmente assistita come «il decesso cagionato da un atto autonomo con il quale, in esito al percorso disciplinato dalla presente legge, si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e sotto il controllo del Servizio sanitario nazionale» (art. 2). Vengono, infine, individuati i relativi presupposti, unitamente alla sussistenza delle richieste condizioni, ricalcando (in buona sostanza) quanto disposto dal giudice delle leggi nelle già richiamate decisioni in merito alla declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio).
La richiesta di morte volontaria medicalmente assistita deve infatti provenire da una persona maggiore di età, capace di intendere e di volere e in grado, in quanto pienamente cosciente e padrona di sé, di assumere decisioni libere, attuali e consapevoli, sulla base di adeguate informazioni ricevute e fatte proprie e in ragione dell’intervenuto coinvolgimento in un percorso di cure palliative (destinate, ovviamente, a lenire il suo stato di sofferenza), anche se eventualmente esplicitamente rifiutato (art. 3, comma 1). Mentre, tuttavia, nella prospettiva assunta e formalizzata dal giudice delle leggi, l’accesso alle cure palliative costituisce una pre-condizione (dunque un pre-requisito) della eventuale successiva scelta del suicidio assistito, secondo la predisposta regolamentazione è sufficiente che il malato sia a conoscenza del diritto di accedere alle cure palliative, anche se poi o non risulti essere stato mai in carico alla relativa rete di assistenza oppure abbia espressamente rifiutato tale percorso assistenziale. Tale diversità di formulazione rappresenta uno dei nodi irrisolti dell’attuale dibattito legislativo. La richiesta di morte volontaria medicalmente assistita può essere presa in considerazione, nelle forme e nel rispetto della procedura che a breve saranno richiamate, solo ove la persona si trovi nelle seguenti (concomitanti e non, dunque, alternative) condizioni, ossia sia affetta da patologia (o condizione clinica) irreversibile e con prognosi infausta, con sofferenze fisiche e psicologiche assolutamente intollerabili da parte della medesima, e venga tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, la cui interruzione ne provocherebbe il decesso (art. 3, comma 2).
Al fine di assicurare che il percorso volitivo interno della persona malata e sofferente si traduca in una corrispondente e chiara manifestazione esterna, si prevede che la richiesta in questione presenti alcuni caratteri (o requisiti), sia cioè contraddista dall’essere attuale, informata, consapevole, libera ed esplicita (art. 4, comma 1, prima parte), traducendo in buona sostanza la stessa rappresentazione fornita dal legislatore in tema di consenso (o dissenso) informato rispetto all’inizio o alla prosecuzione di ogni trattamento sanitario a norma della l. n. 219/2017. La volontà deve essere esteriorizzata nella forma scritta (atto pubblico o scrittura privata autenticata) e può essere posta nel nulla in qualsiasi momento e senza particolari formalità, purché comunque ciò avvenga con un mezzo idoneo a manifestare tale volontà contraria (art. 4, comma 1, seconda parte). Emerge dunque, a fronte del richiesto formalismo per introdurre nell’ordinamento una volontà positiva (di accesso, cioè, alla morte volontaria medicalmente assistita), il diverso (e opposto) principio della libertà delle forme per esplicitare una volontà negativa (di revoca, cioè, della richiesta di accesso precedentemente formalizzata). Tale soluzione, che si comprende in una logica di salvaguardia del desiderio di rimanere in vita e che, per certi versi, risulta anche apprezzabile, può tuttavia porre qualche problema di concreto accertamento della (diversa) volontà di revoca, anche se la formula approntata, ossia «con ogni mezzo idoneo a palesarne la volontà», sembra sufficientemente ampia per potere ricomprendere la molteplice varietà delle possibili tipologie.
L’inoltrata richiesta (al medico di medicina generale o al medico che ha in cura il paziente) mette in modo la prevista procedura che si articola in più momenti e coinvolge, correlativamente, più soggetti, individuati rispetto al ruolo che sono chiamati a svolgere nell’àmbito delle competenze assegnate. Il medico (di medicina generale o curante) che riceve la richiesta predispone e invia un rapporto dettagliato e documentato al Comitato etico di valutazione clinica territorialmente competente (organismo multidisciplinare, autonomo e indipendente, la cui istituzione è prevista entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della legge), a cui è affidata la redazione di «un parere motivato sulla esistenza dei presupposti e dei requisiti stabiliti dalla presente legge a supporto della richiesta di morte volontaria medicalmente assistita e lo trasmette al medico richiedente e alla persona interessata» (art. 5, comma 5). Nel caso di parere favorevole il medico provvede alla trasmissione dell’intero incartamento «alla direzione sanitaria dell’azienda sanitaria locale o alla direzione sanitaria dell’azienda ospedaliera di riferimento» (art. 5, comma 7), affinché si provveda al fine di garantire che «il decesso avvenga (…) presso il domicilio del paziente o, laddove ciò non sia possibile, presso una struttura ospedaliera e sia consentito anche alle persone prive di autonomia fisica» (art. 5, comma 7). Laddove, invece, il parere sia contrario (oppure il medico non ritenga di trasmettere la richiesta al Comitato per la valutazione clinica), viene comunque riconosciuta al paziente richiedente la possibilità «di ricorrere al giudice territorialmente competente, entro il termine di sessanta giorni dalla data di ricezione del parere» (art. 5, comma 8). In merito può, però, osservarsi che nel progetto di legge non viene chiarito da che cosa sia determinata la competenza territoriale (ossia se, ad esempio, il luogo del domicilio o della residenza del paziente oppure il luogo, diverso dal primo, in cui questi si trovi, ad esempio proprio per ragioni di salute). Parimenti, mentre è previsto che il parere del Comitato per la valutazione clinica venga trasmesso (oltre che ovviamente al medico anche) alla persona interessata, con la riconosciuta possibilità, in caso di valutazione negativa, del ricorso giudiziale; nulla, invece, viene disposto con riguardo alla conoscibilità della motivata decisione con la quale il medico ricevente decida di non trasmettere la richiesta al Comitato per la valutazione clinica al fine di ottenere il prescritto parere (art. 5, commi 4 e 8), rispetto alla quale statuizione è tuttavia riconosciuta la possibilità (come nell’ipotesi di parere non favorevole del Comitato per la valutazione clinica) del ricorso giudiziale (art. 5, comma 8). La persistente decisione di morte volontaria medicalmente assistita, unitamente alla permanente e attuale sussistenza di tutte le condizioni di ammissibilità della richiesta di cui all’art. 3, è oggetto di previo accertamento da parte del medico presente all’atto del decesso (equiparato a tutti gli effetti di legge al venir meno per cause naturali), con la possibilità di avvalersi anche della collaborazione di uno psicologo (art. 5, comma 10).
In disparte le disposizioni finali, contenute nell’art. 9, deputate a prevedere in capo al Ministro della Salute, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, una serie di incombenze (di non poco momento) per assicurare, sia dal punto di vista organizzativo-sanitario sia dal punto di vista procedurale-informativo, il funzionamento del sistema così predisposto (non ultima la prevista relazione annuale sullo stato di attuazione della legge), di rilievo appaiono la predisposta possibilità di ricorso all’obiezione di coscienza per il personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie (art. 6) e l’introdotta esclusione di punibilità, in particolare ma non con tratti di esclusività, per il medico e il personale sanitario e amministrativo che abbiano dato corso alla procedura di morte volontaria medicalmente assistita (art. 8).
La possibilità di ricorrere all’obiezione di coscienza risulta assolutamente in linea con quanto già formalizzato dal legislatore in ordine a precedenti previsioni normative su temi eticamente sensibili. Il riferimento è, esemplificativamente, alla disciplina contenuta nella legge 22 maggio 1978, n. 194, recante norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza; alla legge 12 ottobre 1993, n. 413, sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale e alla legge 19 febbraio 2004, n. 40, in tema di procreazione medicalmente assistita. Anche in questo caso vengono dettate una serie di prescrizioni per rendere operante l’efficacia dell’atto di obiezione, richiedendosi una preventiva dichiarazione (sempre revocabile) da parte del personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie, da comunicare entro tre mesi dall’adozione del previsto regolamento ministeriale «al direttore dell’azienda sanitaria locale o dell’azienda ospedaliera, nel caso di personale dipendente» (art. 6, comma 1); pur tuttavia, il mancato rispetto del termine indicato non ne preclude la proponibilità, ma solamente la postergazione della relativa efficacia, ossia dopo un mese dalla intervenuta presentazione (art. 6, comma 2).
Il rispetto delle previsioni di nuovo conio è il presupposto per escludere l’applicabilità, anche con efficacia retroattiva, delle disposizioni contenute negli artt. 580 c.p. (che punisce, tra l’altro, l’aiuto al suicidio) e 593 c.p. (che sanziona penalmente l’omissione di soccorso) «al medico e al personale sanitario e amministrativo che abbiano dato corso alla procedura di morte volontaria medicalmente assistita nonché a tutti coloro che abbiano agevolato in qualsiasi modo la persona malata ad attivare, istruire e portare a termine la predetta procedura» (art. 8, comma 1). Nella medesima direzione, del resto, sia pure con riferimento a quanto deciso dal giudice delle leggi e rispetto ai profili disciplinari, si era già mosso il Consiglio nazionale della Federazione degli Ordini dei Medici (FNOMCeO) che all’unanimità ha approvato il 6 febbraio 2020 la modifica dell’art. 17 del codice di deontologia medica, rubricato «Atti finalizzati a provocare la morte». Ai sensi del nuovo testo «Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte. La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare».
Non è ovviamente possibile in questa sede esaminare nel dettaglio le soluzioni adottate dalla proposta di legge (qui assai rapidamente riferite) rispetto agli ordini di problemi che la materia in esame pone; può semplicemente evidenziarsi che il quadro delineato rende ancora più necessaria (e in tempi necessariamente da contingentare) la chiusura del percorso legislativo. Ciò, con maggior precisione, per almeno due ordini di ragioni che corrispondono ad altrettante questioni concrete.
Per un verso, infatti, si sono già richiamati i primi interventi dei giudici civili che, nelle more della richiesta legiferazione da parte del giudice delle leggi, hanno dovuto (sia pure in modo diverso) fare fronte alle prime richieste di intervento del servizio sanitario nazionale, in un non facile contesto decisionale; senza peraltro dimenticare che, nel frattempo, continuano a porsi all’attenzione giudiziale vicende che paiono travalicare i confini tracciati dal giudice delle leggi per escludere la punibilità della condotta ([13]).
Per altro verso, poi, non possono di certo ritenersi sopite le spinte eutanasiche. Vero è che la Corte costituzionale, dinanzi alla quale pendeva il giudizio di ammissibilità in ordine al proposto referendum sull’eutanasia, ha ritenuto inammissibile, nella riunione in camera di consiglio del 15 febbraio 2022, il quesito referendario, ma è stato già preannunciato dai relativi promotori che non demorderanno e che torneranno, dunque, alla carica. Va al riguardo ricordato che la denominazione del quesito referendario proposto dal comitato Eutanasia legale era «Abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale (omicidio del consenziente)». Lo aveva stabilito l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione che, con ordinanza depositata il 16 dicembre 2021, aveva respinto la proposta del comitato promotore di integrare la denominazione con l’espressione «Disponibilità della propria vita mediante consenso libero, consapevole e informato». Si era infatti in merito precisato che la proposta locuzione, la quale nell’intenzione dei promotori intenderebbe rendere chiaro il principio giuridico che l’abrogazione parziale vuole introdurre, ossia la disponibilità della propria vita (in presenza, per l’appunto, di un consenso valido, libero e informato), non trova rispondenza né nella natura abrogativa del referendum (che non è certamente propositivo) né, tanto meno, nella nota decisione del giudice delle leggi, dove il bilanciamento operato non comporta «un varco all’autodeterminazione e alla disponibilità della vita» ([14]).
Proprio richiamando il dibattito innescato dalla proposta consultazione popolare si era rilevato che una legge condivisa sul suicidio assistito avrebbe potuto bloccare la ritenuta deriva referendaria, dovendosi pertanto preferire una disciplina che tenga comunque conto dei principi fondamentali dell’ordinamento e dei diritti della persona a una competizione referendaria (dall’esito incerto) che potrebbe aprire la strada a un caos giuridico con il rischio di liberalizzare l’omicidio di una persona consenziente anche se in buona salute ([15]). La Corte costituzionale ha invece ritenuto inammissibile il quesito referendario perché, a seguito dell’abrogazione, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili.
*Ordinario di Diritto civile nell’Università degli Studi di Catania
([1]) Si tratta della ben nota vicenda che ha visto protagonisti, da un lato, Fabiano Antoniani (noto come dj Fabo), deceduto in Svizzera con ricorso alle pratiche di suicidio assistito; dall’altro, Marco Cappato, accompagnatore del primo per consentire la realizzazione del proposito suicidario. La originaria richiesta di archiviazione da parte dei pubblici ministeri titolari dell’inchiesta era stata motivata nel senso che le pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita quando esse siano connesse a situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile o indegna dal malato stesso, atteso che la condotta di chi rifiuta una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo riconosciuto in ottemperanza al divieto di trattamenti sanitari coattivi, sancito dalla Costituzione; si affermava, altresì, che la giurisprudenza (costituzionale e sovranazionale) avrebbe inteso affiancare al diritto alla vita il diritto alla dignità della vita inteso come sinonimo dell’umana dignità. Per una ricostruzione dei fatti e per una prima, relativa riflessione sia consentito il rinvio a G. Di Rosa, Profili giuridici dell’esistenza, Torino, 2022, p. 112 ss.
([2]) Il riferimento è a Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242, in Nuova giur. civ. comm., 2020, p. 368 ss., con ampio dibattito, ivi, p. 418 ss. Per un primo (autorevole) commento si rinvia ad A. Nicolussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale: dal caso limite della rinuncia a trattamenti salva-vita alla eccezionale non punibilità del suicidio medicalmente assistito, in Corti supreme e salute, 2019, p. 201 ss.; nonché Id., Suicidio medicalmente assistito e autonomia della deontologia medica, in Medicina e Morale, 2019, p. 367 ss.; di rilievo, altresì, L. Violini, Elementi di criticità della vicenda Cappato: una ipoteca sul futuro del “diritto a morire”?, in Corti supreme e salute, 2020, p. 313 ss., che evidenzia profili di criticità sia sul versante sostanziale sia su quello processuale.
([3]) Si tratta di Corte cost. (ord.), 16 novembre 2018, n. 207, in Nuova giur. civ. comm., 2019, p. 549 ss., con commento (previo) di M. Azzalini, Il “caso Cappato” tra moniti al Legislatore, incostituzionalità “prospettate” ed esigenze di tutela della dignità della persona, ivi, p. 540 ss. e in Guida al diritto, 1° dicembre 2018, nn. 49-50, p. 16, con commenti di A. Natalini, Ordinanza monito con rinvio a data fissa, un caso da manuale; A. Porracciolo, Quel dilemma della libera scelta del paziente e G.M. Salerno, Nei principi direttivi indicazioni utili per la futura decisione.
([4]) Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242, cit.
([5]) Si tratta di un profilo, come del resto sottolineato dallo stesso giudice delle leggi, messo in evidenza già dal Comitato nazionale per la bioetica nel parere reso il 18 luglio 2019, dal titolo Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, ove una particolare (appropriata) insistenza sul tema della informazione e dell’accesso alle cure palliative.
([6]) Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242, cit.
([7]) L’ordinanza è di Trib. Ancona, 26 marzo 2021, in www.ilcaso.it.
([8]) Trib. Ancona (ord.), 26 marzo 2021, cit.
([9]) Si tratta della decisione di Trib. Ancona (ord.), 9 giugno 2021, in Corr. giur., 2021, p. 1544 s., con nota di I. Cubicciotti, Il tema del suicidio assistito tra il valore della vita ed il valore della dignità.
([10]) Trib. Ancona (ord.), 9 giugno 2021, cit.
([11]) Trib. Ancona (ord.), 9 giugno 2021, cit.
([12]) Trib. Ancona (ord.), 9 giugno 2021, cit.
([13]) Secondo quanto riportato nell’articolo a firma di F. Ognibene, «Mario» suicida, senza regole, in Avvenire, 17 giugno 2022, p. 12, la morte di Federico Carboni (vero nome di “Mario”), tetraplegico da 11 anni a seguito di un incidente stradale, è stato un suicidio attuato con un potente barbiturico e un apposito macchinario (con l’assistenza di un medico anestesista), attraverso l’attivazione meccanica da parte dello stesso del sistema di somministrazione, ma in assenza dei criteri fissati dalla Corte costituzionale per escludere la ricorrenza della fattispecie penalmente rilevante, mancando il requisito della dipendenza da supporti vitali; da qui il dubbio della ricorrenza, in assenza di qualsivoglia regola in merito, del primo suicidio assistito in Italia.
([14]) Si tratta di quanto riportato nell’articolo a firma di G. Razzano, Referendum, nel nome niente «consenso libero» al fine vita, in Il Sole 24 ore, 17 gennaio 2022.
([15]) Il riferimento è ai numerosi interventi da parte del presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, ultimo tra i quali quello oggetto di un’intervista raccolta da A. Picariello e pubblicata in Avvenire, 14 gennaio 2022, p. 10.
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