*Relazione al convegno di Modanella 16-17 giugno 2023 “Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione”
Indice: 1. Il giudice amministrativo di fronte alla dissoluzione del provvedimento e del procedimento amministrativo. - 2. L’incerto confine tra giurisdizione di legittimità e di merito. - 3. L’esaurimento del potere a prescindere dal carattere vincolato della decisione e la sostituzione nella cura discrezionale dell’interesse pubblico. Orientamenti della giurisprudenza. - 4. Osservazioni conclusive.
1. Il giudice amministrativo di fronte alla dissoluzione del provvedimento e del procedimento amministrativo.
Oggi come oggi, (quello del) “giudicare” è certamente un mestiere difficile.
Ovviamente lo è sempre stato, perlomeno da quando ha assunto le forme di un giudizio umano razionale e ha dismesso quelle del vaticinio sacerdotale di una volontà divina, di una giustizia divina. La perfezione, com’è noto, non è di questo mondo. L’errore è insito nella natura e nelle attività umane e anche la giustizia umana è fallace. Anzi. Qualsiasi sistema di giustizia dà per scontato che lo sia, nonostante la competenza, l’impegno e lo zelo che il giudice possa avere e impiegare nella decisione di una causa. E’ infatti immanente in qualsiasi sistema la previsione di mezzi d’impugnazione, cosa inconcepibile se si postulasse che una sentenza non possa essere sbagliata, ingiusta. Ma questo rientra nella fisiologia del sistema, anche perché il giudizio del giudice deve necessariamente maturare nell’ambito di un perimetro di conoscenza e di un arco temporale limitati. L’attività del giudice, volta ad accertare la verità tra contrapposte ricostruzioni della stessa, non può durare all’infinito, ma deve necessariamente svolgersi tra un momento iniziale e uno finale, ben definiti (la domanda e la pronuncia). L’accertamento della verità è stretto da questi confini perché deve necessariamente esserci un momento conclusivo dell’attività di accertamento e di assunzione della decisione. Res judicata pro veritate habetur. Non è la verità assoluta, ma qualcosa che ci va il più vicino possibile. Nessuno può mai garantire che, in assoluto, non ci siano errori nel giudizio.
Oggi come oggi, si è però molto arricchita, direi a dismisura, la complessità degli ordinamenti giuridici e, con essa, la comprensibilità e la governabilità dei medesimi. Il sistema delle fonti troppo spesso sfugge ormai alla sovranità e alla regolazione statuale e l’inserimento in un sistema sovranazionale multi livello rende ormai instabili persino le stesse decisioni rese dagli organi giurisdizionali nazionali di ultima istanza. Per altro verso, lo stesso Stato sempre più spesso crea, moltiplica e diversifica al suo interno le fonti, aumentando la confusione e l’incertezza e sempre più spesso legifera – come dire - in progress, pregiudicando la stabilità e la conoscibilità delle norme effettivamente applicabili ad un caso di specie (le leggi di “semplificazione” sono un vero e proprio paradosso). Non mi pare si possa cioè seriamente dubitare che il paesaggio giuridico odierno nel quale si muovono giudici e giuristi, soprattutto quello italiano, sia più difficile perché è più complesso e che ciò renda oggettivamente più difficile il mestiere del giudice.
Ma questo vale per qualsiasi giudice del nostro ordinamento nazionale.
Se veniamo al “nostro” Giudice amministrativo, il discorso assume una complessità senz’altro maggiore in ragione di diverse peculiarità che si rendono immediatamente evidenti.
Il quadro della complessità e della conseguente difficoltà di decidere si arricchisce, nel caso del Giudice amministrativo, di un ulteriore elemento di complicazione destinato ad operare come un vero e proprio fattore destabilizzante.
La dissoluzione ovvero la tendenziale scomparsa della decisione amministrativa.
Si tratta di una tendenza in atto ormai da tempo.
La frantumazione del potere decisionale e la moltiplicazione delle competenze derivate da spinte autonomistiche e pseudo federaliste; il riposizionamento della linea di confine tra pubblico e privato derivato da politiche di liberalizzazione e dal principio di sussidiarietà; la complessità e la lungaggine dei tempi del procedimento amministrativo da osservare per giungere ad una decisione; la “paura della firma” ingenerata dal timore d’incorrere in responsabilità per decisioni da assumere in contesti normativi oscuri e contraddittori; l’ulteriore fattore di confusione derivante dal crescente se non ormai abituale impiego dello strumento del commissariamento (per consentire, alla stessa amministrazione che sarebbe ordinariamente competente, di provvedere “in deroga a qualsiasi altra disposizione vigente”) o dalla teorizzazione della necessità di abbandonare modelli autoritativi per impiegare forme di diritto cd “gentile” (per persuadere i destinatari dell’utilità e bontà dell’attività dei pubblici poteri) per cercare di recuperare garanzie di risultato dell’azione amministrativa; sono tutti fattori che hanno portato alla decostruzione della categoria tradizionale del procedimento amministrativo e alla scomparsa della decisione amministrativa provvedimentale. La decisione amministrativa destinata a produrre gli effetti giuridici costitutivi modificativi o estintivi di un rapporto di diritto pubblico ormai sempre più spesso non viene assunta al termine di un procedimento amministrativo concepito come sequenza di atti preparatori tra loro legati da un rapporto di necessaria presupposizione, tale da consentirne la successiva verifica sotto il profilo della logicità e della validità giuridica.
Sempre più spesso il modello procedimentale è completamente abbandonato imputando direttamente al soggetto interessato la produzione degli effetti giuridici e le conseguenti responsabilità. L’impiego del modello dell’autodichiarazione del soggetto interessato non è più limitato ad atti meramente preparatori ma si estende alla fase costitutiva degli effetti del rapporto giuridico. DIA, SCIA, CILA e via dicendo.
Le misure di semplificazione procedimentale consentono di provvedere prescindendo dall’acquisizione dell’assenso e delle valutazioni delle amministrazioni portatrici di un interesse diverso da quello primario. Il già complesso istituto del silenzio si è arricchito delle figure del silenzio non impediente (art.16 l. 241) e del silenzio assenso tra PA. (art. 17 bis, l. 241) e il silenzio assenso da eccezione è divenuto regola generale (art.20, l.241).
Per altro verso, è divenuto ormai abituale l’impiego dell’atto avente forza di legge per provvedere alla cura concreta di interessi pubblici specifici e determinati allorquando vi sia la volontà politica di raggiungere un certo risultato. Non si è più di fronte al problema teorico tradizionale di ammettere o meno la possibilità che, in via eccezionale, possa aversi una legge – provvedimento. Siamo di fronte a un dato di sistema che dimostra come, dopo l’illusione di aver separato la politica dall’amministrazione distinguendo tra attività d’indirizzo e di gestione, la politica si è riappropriata dell’amministrazione degli interessi concreti spostandola al più elevato livello dell’esercizio di funzione legislativa. Il che, paradossalmente, ne garantisce peraltro l’immunità in quanto le decisioni si ammantano della forma legislativa e non amministrativa.
Insomma, nel terzo millennio la cura in concreto dell’interesse pubblico, in un numero sempre crescente di casi, ipotesi e situazioni, non passa più per l’attività amministrativa. O perché l’Amministrazione non è in grado di decidere; o perché evita di decidere in quanto timorosa delle responsabilità conseguenti alla decisione; o perchè la decisione si consuma già tutta al livello legislativo.
2. L’incerto confine tra giurisdizione di legittimità e di merito.
Lo scenario che abbiamo oggi di fronte, contraddistinto dalla dissoluzione o evanescenza della decisione amministrativa, intesa come atto conclusivo dell’esercizio di una data funzione amministrativa, in gran parte dei casi priva il giudice amministrativo del termine di riferimento certo del suo operato e lo costringe in un certo senso a reinventarsi.
Ma, si dirà, qual è il problema ? oggetto del giudizio amministrativo ormai non è più l’atto, la sua mera legittimità, ma il rapporto sottostante; e il giudizio ha ormai ad oggetto la pretesa che, in nome del principio di effettività, il giudice amministrativo è tenuto ad assicurare se l’attore ha ragione. Tanto più che, dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, i suoi poteri non sono più limitati e ha tutti i mezzi per poterlo fare, sia cognitori che decisori; ivi compresa la possibilità di condannare al rilascio del provvedimento richiesto (art. 34, co. 1, lett. C c.p.a.) e, volendo, di indicare le misure attuative del giudicato e di nominare il commissario ad acta già in sede di cognizione (art. 34, lett. E c.p.a.).
In parte ciò è ovviamente vero, ma occorre intendersi su alcuni snodi fondamentali prima di trarre conclusioni troppo affrettate.
Uno di questi passa proprio per la distinzione tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di merito; distinzione troppo spesso e troppo sbrigativamente ritenuta quasi un mero retaggio storico sulla base dell’assunto, appena ricordato, che quella amministrativa sarebbe ormai sempre e comunque una giurisdizione piena, una full jurisdiction, non più astretta dai limiti tradizionalmente propri del giudizio di legittimità.
E sul punto bisogna intendersi bene, perché una cosa è assumere, correttamente, che il giudizio di legittimità, dopo le storiche sentenze della Corte costituzionale sull’istruttoria e l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, non ha più i limiti di cognizione che l’hanno contraddistinto in passato e consente al giudice di accedere pienamente ai fatti di causa; altra assumere che la cognizione sia estesa al merito anche nella giurisdizione di legittimità e che anche i poteri decisori (leggi : sostitutivi) siano gli stessi, sì da poter ritenere, erroneamente, che non vi sia più motivo per mantenere la distinzione.
Affermare che la distinzione sia venuta meno è affermazione eccessivamente disinvolta e sbrigativa.
Certamente alcuni tratti distintivi sono venuti meno: non c’è più differenza circa i mezzi istruttori ammissibili; la sostituzione è possibile se l’attività è vincolata e priva di profili di discrezionalità. Ma la distinzione è mantenuta nel codice del processo amministrativo, così come è conservata la configurazione della giurisdizione di merito come una giurisdizione eccezionale, esercitabile solo nei casi in cui è espressamente prevista.
Sono due indicazioni estremamente chiare, dalle quali un’interpretazione scientificamente corretta del sistema non può prescindere.
E’ dunque il caso di riflettere sul perchè, sin dall’origine, la giurisdizione di merito è stata concepita come eccezionale, praticabile cioè nei soli casi espressamente previsti dal legislatore e non in via generale. La ragione è nel fatto che essa postula e implica la possibilità di completa sostituzione del giudice all’amministrazione nella cura dell’interesse pubblico, nella scelta della soluzione più giusta per il caso concreto. E il carattere eccezionale vale di per sé solo a sottolineare, anche a voler prescindere dai principi generali dell’Ordinamento, che la piena sostituzione del giudice, anche se amministrativo, all’amministrazione, in linea di principio è vietata. E’ l’elasticità del principio della separazione dei poteri che ne consente la sua modulazione: al giudice ordinario è vietato annullare gli atti amministrativi; cosa che è invece consentita al giudice amministrativo riposizionando tuttavia il confine sulla linea del divieto di sostituzione piena, ammessa solo eccezionalmente.
Ammettere che, in casi eccezionali, il giudice amministrativo possa sostituirsi pienamente all’amministrazione, implica infatti necessariamente ammettere anche che il giudice debba poter conoscere e ponderare direttamente gli interessi coinvolti nell’azione amministrativa per stabilirne l’assetto ritenuto più giusto nel caso concreto ed adottare la decisione in luogo dell’amministrazione inadempiente. Non è un caso che il caso più importante di giurisdizione estesa al merito sia rappresentato dal giudizio di ottemperanza, che non corrisponde ad un’unica ben determinata materia, ma individua qualsiasi ipotesi in cui vi sia stato un precedente accertamento giudiziale della illegittimità dell’azione amministrativa e l’amministrazione insista nel tenere una condotta non conforme a legge. Il persistere dell’inadempimento, successivamente all’accertamento giurisdizionale della sua sussistenza, giustifica l’intervento sostitutivo pieno del giudice.
Se sono queste le ragioni che, in breve, spiegano il carattere eccezionale della giurisdizione di merito, è evidente che esse non sono minimamente scalfite dal fatto che, per accertare la sussistenza di un vizio di legittimità dell’azione amministrativa, il giudice possa avvalersi a tal fine, anche nella giurisdizione generale di legittimità, di qualsiasi mezzo di prova previsto dal codice di procedura civile, ad eccezione dell’interrogatorio formale e del giuramento. E (non sono scalfite) nemmeno dal fatto che, anche nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità, il giudice possa comunque condannare al rilascio del provvedimento richiesto, poiché, per definizione, stante l’esplicito richiamo dell’art. 34, lett C c.p.a. ai limiti di cui all’art 31, 3 co. c.p.a., questa ipotesi non è formulata in termini generali, ma suppone, per poter essere praticata, che non vi siano margini di scelta discrezionale e che residui unicamente un’attività vincolata. Così come non può assumere rilevanza la possibilità di indicare sin dal momento della cognizione le misure attuative del giudicato (art. 34, lett. E c.p.a.) perché la decisione da eseguire rappresenta comunque un prius rispetto alla misura attuativa che può e deve muoversi nel rispetto e nei limiti della prima (in tal senso la disposizione viene correttamente applicata ad esempio dalla recente pronuncia Cons Stato Sez. Sesta 12 5 2023 n. 4800, in un caso in cui, accolta la domanda di condanna al pagamento di una somma di danaro, vengono subito definiti tempi e modalità del pagamento e nominato il commissario ad acta.
Il fatto che in sede di giurisdizionale di legittimità non vi siano più limitazioni dei mezzi istruttori ammissibili, così come il fatto che sia possibile condannare al rilascio del provvedimento richiesto se l’attività si presenta interamente vincolata, non sembrano dunque offrire spunti interpretativi tali da consentire di stravolgere il fondamentale criterio interpretativo derivante dal sistema, che mantiene ferma la distinzione e le attribuisce un preciso significato: “nell’esercizio di tale giurisdizione (di merito) il giudice può sostituirsi all’amministrazione”.
La posizione del legislatore e del codice del processo amministrativo è dunque molto chiara: il confine tra giurisdizione di legittimità e di merito esiste ed è volto a differenziare il potere decisorio in relazione all’affare trattato (sostituzione piena dell’amministrazione e conseguente venir meno anche della limitazione della cognizione ai soli profili di legittimità).
A fronte di ciò, lo story telling giuridico più in voga, valorizzando oltre misura spunti esegetici offerti da disposizioni in realtà saldamente ancorate al ricorrere di ben precisi presupposti, sembrerebbe ritenere la distinzione obsoleta e ormai superata.
3. L’esaurimento del potere a prescindere dal carattere vincolato della decisione e la sostituzione nella cura discrezionale dell’interesse pubblico. Orientamenti della giurisprudenza.
3.1. Fatte queste premesse, direi che l’interrogativo che ci siamo posti pone una domanda la cui risposta appare tutt’altro che scontata.
Come si sta dunque reinventando il giudice amministrativo del terzo millennio a fronte della dissoluzione delle categorie del procedimento e della decisione provvedimentale?
La tentazione di assumere (sia ben chiaro: per puro spirito di servizio nei confronti della Nazione) un ruolo di supplenza, per colmare il vuoto lasciato dalla dissoluzione della decisione amministrativa è dietro l’angolo; e con essa la tentazione di estendere tale ruolo anche alle ipotesi in cui l’attività provvedimentale, come dire, esiste e resiste, nel convincimento che l’inefficienza amministrativa sia ormai endemica.
La più significativa emersione di questa tendenza è data dalla teorizzazione del principio del c.d.one shot, più o meno temperato. In nome del principio di effettività, si assume in tesi che, a seguito della sentenza, l’amministrazione conservi il potere di provvedere una sola volta o due al massimo, forse tre; dopo di che esso si esaurisce, legittimando il pieno intervento sostitutivo del giudice all’amministrazione. A prescindere dal fatto che la “cosa giudicata” o anche il solo accertamento recato dalla sentenza esecutiva lasci o meno ancora spazi di scelta sul modo di provvedere. Cosa che, ovviamente, è appena il caso di sottolineare, è possibile unicamente se si postula l’avvenuta scomparsa del confine tra giurisdizione d legittimità e di merito
La teorizzazione è intelligente e le intenzioni sono sicuramente encomiabili perché, come ho già sottolineato, il ruolo di supplenza è assunto generosamente e responsabilmente dal giudice amministrativo nell’interesse della Nazione. Ma credo sia nondimeno doveroso interrogarsi sulle conseguenze che ciò produce sul sistema, di giustizia e non solo.
Vediamo il caso forse più noto che continua comunque a rimanere punto di riferimento obbligato (Cons. Stato, Sez. Sesta, 25 febbraio 2019 n. 1321). La vicenda è nota: abilitazione scientifica nazionale più volte negata ad un candidato, da tre diverse commissioni, con diverse motivazioni. Di fronte all’ultimo diniego, il giudice amministrativo esclude che via sia un contrasto con il giudicato, ma ritiene che l’amministrazione abbia ormai comunque perso, esaurito il potere di negare l’abilitazione. Secondo il giudice, dopo l’intervento del “fatto” del giudicato, l’ulteriore diniego non è più una cosa razionalmente credibile ed è indicativo di una condotta capziosa, equivoca e contraddittoria. Nell’esercizio dell’ordinaria giurisdizione di legittimità (non di merito, essendo pacifico non trattarsi di materia di ottemperanza al giudicato) e senza che il ricorrente nemmeno lo avesse chiesto (al di fuori quindi del principio della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato), il giudice si sostituisce quindi al giudizio della commissione (rectius: di tre commissioni) e ordina il rilascio dell’abilitazione
La domanda che mi faccio e pongo a tutti è la seguente: la pronuncia rappresenta il naturale epilogo delle premesse in precedenza ricordate? è cioè il naturale epilogo del fatto che il giudice amministrativo possa oggi conoscere pienamente dei fatti di causa e che possa condannare al rilascio del provvedimento richiesto?
Direi proprio di no. E questo è il punto.
Non ricorre alcuna delle premesse che potrebbero essere invocate per giustificare la scomparsa della distinzione. La pronuncia non dice che l’Amministrazione ha perso il potere di provvedere diversamente perché si era in presenza di un’attività ormai interamente vincolata. Dice che l’ha perso e basta, perché ha provveduto dopo il “fatto” del giudicato.
Ma allora il giudice, si dirà, avrà almeno provveduto dopo aver svolto un’adeguata istruttoria nel corso della quale avrà sicuramente operato un accesso diretto ai fatti di causa? Non si sarà cioè limitato a verificare sufficienza e logicità del giudizio espresso dall’amministrazione, ma avrà letto, esaminato e valutato in prima persona o a mezzo di consulenti tecnici titoli e pubblicazioni presentate dal candidato. Niente di tutto questo. Il giudice ordina il rilascio dell’abilitazione senza aver letto e valutato i contributi scientifici del ricorrente. Ritiene cioè irragionevole il giudizio della commissione, ma non fornisce anche una diversa motivazione sul perché i titoli dovrebbero esser ritenuti tali da giustificare un giudizio di piena maturità scientifica del candidato. O meglio: ritiene irragionevole che si possa avere ancora “fiducia” nelle commissioni di concorso.
Detto per inciso, oggi saremmo peraltro fuori anche dalla possibilità di applicazione del sopravvenuto art. 10 bis l. 241, perché si tratta di un concorso pubblico.
il punto, comunque, non è tanto di stabilire se la decisione sia tecnicamente o intrinsecamente errata in diritto, Sotto questo profilo, è noto, l’ingegneria giuridica del Consiglio di Stato forse non ha eguali. Il problema è un altro. E cioè se sia giusto oppure no che il giudizio di tre diverse commissioni di concorso, formulato da ben quindici professori universitari di ruolo di prima fascia estratti a sorte, possa essere sostituito senza aver previamente fatto la stessa istruttoria fatta dalle tre commissioni (senza aver cioè previamente valutato titoli e pubblicazioni secondo le vigenti disposizioni normative) per giungere ad una diversa conclusione.
Ammesso e non concesso che, al di fuori della giurisdizione di merito, sostituzione piena possa esserci, presupposto necessario perché ciò possa avvenire è che il nuovo giudizio venga formulato e che venga formulato dopo aver rinnovato l’istruttoria con piena conoscenza dei fatti già valutati dall’amministrazione.
3.2. Questo credo sia il vero punto nodale da affrontare. E cioè se la sostituzione nelle valutazioni di merito o tecnico discrezionali possa essere giustificata sulla base di un mero giudizio di ragionevolezza, di persuasività della motivazione; ovvero se si possa sostituire interamente la decisione senza aver rinnovato completamente l’attività istruttoria necessaria con accesso pieno e diretto ai fatti.
Personalmente lo escludo, ma direi che in ogni caso dovrebbero essere ben ponderate le conseguenze se questo metodo viene applicato nell’ordinario svolgersi della giurisdizione generale di legittimità.
Nel leading case citato, il Consiglio di Stato rilascia l’abilitazione scientifica nazionale senza aver letto e valutato le pubblicazioni presentate dal ricorrente. L’accesso pieno, immediato e diretto ai fatti, anche mediante CTU, non si consuma. E siamo in presenza di una ponderata e ponderosa sentenza di merito resa nei confronti di un interesse pretensivo.
Ma pensiamo anche a quello che può avvenire nei confronti di provvedimenti ablatori, specie quando la lite viene definita con effetti irreversibili già nel giudizio cautelare, senza riformare il provvedimento amministrativo ma sostituendo comunque l’amministrazione nel giudizio discrezionale, prestando un ossequio di pura facciata alla discrezionalità amministrativa. Due casi di recente attualità mi paiono sotto questo profilo emblematici: la partita di calcio Napoli - Eintracht Frankfurt e quello dell’orsa JJ4. Partita di Champions League: per motivi di ordine pubblico, in considerazione dei gravi disordini scoppiati nell’incontro di andata e ritenuta sussistente una situazione di grave pericolo, l’Autorità di pubblica sicurezza vieta la vendita dei biglietti ai residenti in Germania; il TAR ritiene che il provvedimento non sia motivato in maniera rigorosa e che la misura sia sproporzionata e che, conseguentemente, il pericolo per la sicurezza pubblica, prospettato solo genericamente, è in realtà insussistente. Il divieto viene rimosso, i tifosi tedeschi acquistano i biglietti, vengono a Napoli e il centro della città viene messo a ferro e fuoco dagli scontri tra le tifoserie.
Nei boschi del Trentino si aggirano orsi importati dalla vicina Slovenia in attuazione di appositi programmi di ripopolamento finanziati dalla Unione europea. Uno di questi JJ4, com’è purtroppo noto alle cronache, ha recentemente ucciso un runner che si allenava nel bosco. Era già la seconda volta che JJ4 uccideva qualcuno in quelle aree. Per tutelare la sicurezza e l’incolumità degli abitanti e dei frequentatori delle aree prossime alla zona dell’incidente, la Provincia autonoma ordina l’abbattimento dell’orsa JJ4. Il provvedimento viene sospeso dal GA assumendo che sicurezza e incolumità possano essere tutelate diversamente.
Si potrebbe ricordare che secondo Alberto Romano, il giudizio cautelare dovrebbe in realtà essere ritenuto un’ipotesi di giurisdizione di merito. Ma rimane il fatto, che è quanto mi preme sottolineare, che il giudizio viene sostituito senza svolgimento di un’analoga o più approfondita istruttoria diretta sui fatti, sempre e solo sulla base della ritenuta irragionevolezza o non persuasività della motivazione dell’amministrazione.
Per tornare a provvedimenti decisori aventi forma e contenuto di sentenza, mi limito a ricordare un altro solo precedente, non solo perché espresso al livello più alto della giurisdizione amministrativa, ma anche perché anch’esso sicuramente emblematico: le Adunanze plenarie “balneari”, nn. 17 e 18 del 2021. Si tratta di pronunce assolutamente raffinate sotto il profilo della scienza giuridica, che mostrano tuttavia chiaramente come nell’occasione il giudice amministrativo, più che decidere una causa, abbia ritenuto doveroso accollarsi l’onere di colmare un vuoto decisionale generato, prima ancora che dall’amministrazione, dallo stesso legislatore. Lo sforzo è compiuto generosamente e in maniera encomiabile, ma gli istituti giuridici, processuali e non, impiegati nel ragionamento subiscono quasi tutti una forzatura o una torsione innaturale per raggiungere lo scopo prefisso di trovare una giusta soluzione al problema lasciato aperto dall’inerzia del legislatore e dell’amministrazione. A cominciare dalla dichiarazione d’inammissibilità di tutti gli interventi, produttiva dell’effetto di limitare il contraddittorio alle sole parti principali del giudizio a quo, laddove la questione di massima di particolare importanza, sollevata d’ufficio con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, derivava proprio dalla considerazione “degli effetti ad ampio spettro che inevitabilmente deriveranno su una moltitudine di rapporti concessori”. Si potrebbe proseguire con la dichiarazione, da nessuna delle parti in causa mai richiesta nei giudizi pendenti, dei criteri che dovranno essere seguiti dal legislatore nel provvedere al riordino della materia, sia sotto il profilo della disciplina del rapporto concessorio, che dei criteri di selezione dei futuri concessionari e delle relative procedure. E si potrebbe continuare ancora con la falsa disapplicazione, ma in realtà piena sostituzione del legislatore nello stabilire al 2023 la possibile durata massima di proroga delle concessioni. E ancora con i principi affermati in tema di modulazione degli effetti dell’annullamento, in tema di demanio e interesse transfrontaliero, in tema di autotutela e in tema di giudicato e jus superveniens. Il ruolo di supplenza svolto per colmare il vuoto decisionale finisce con l’allontanare il giudice dal processo e dalle sue regole
4. Osservazioni conclusive.
In conclusione, direi che è innegabile l’emersione di una linea di tendenza del Giudice amministrativo a sostituirsi pienamente all’Amministrazione, anche al di fuori dei casi di giurisdizione di merito, giudizio di ottemperanza in primis, nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità.
Due osservazioni al riguardo.
La prima è che ciò avviene sotto la spinta dell’intrecciarsi delle teorizzazioni della giurisdizione amministrativa in termini di full jurisdiction con un malinteso principio di effettività della tutela giurisdizionale.
Sotto il profilo della full jurisdiction, ho già ampiamente sottolineato come la presunzione che il giudice amministrativo abbia oggi una giurisdizione piena o non legittima la scomparsa della distinzione. La sostituzione è possibile quando è possibile, non come regola generale; e dovrebbe in ogni caso essere consentita non sulla base della mera esistenza della possibilità di avere un pieno accesso ai fatti per cui è causa, ma sul presupposto che ciò avvenga effettivamente. Senza adeguata istruttoria, senza una diretta e immediata conoscenza dei fatti, la sostituzione, fondata unicamente su valutazioni di irragionevolezza o non persuasività della motivazione, non ha ragion d’essere e rischia di essere un rimedio peggiore del male.
E anche sul principio di effettività ci si dovrebbe intendere meglio. Il principio vuole che il processo faccia conseguire all’attore che ha ragione tutto e proprio quello che le norme di diritto sostanziale che egli assume violate gli garantiscono. Non trasforma per ciò solo il processo in una fonte di beni non garantiti da norme di diritto sostanziale. Chi partecipa ad una procedura di gara o a un concorso pubblico non ha diritto di vincerlo e l’ordinamento protegge il suo interesse a concorrere senza subire discriminazioni ingiustificate. Invocare il principio di effettività per autorizzare il giudice ad adottare la decisione che gli ritenga più giusta secondo le circostanze del caso di specie, a prescindere dall’utilità garantita dalle norme che si assumono violate, implica infatti negare il carattere strumentale del processo. Ma su questo punto, dal momento che in ultima analisi toccherebbe la natura e la consistenza dell’interesse legittimo, potrebbero aprirsi discussioni infinite, incomprimibili nello spazio delle presenti osservazioni conclusive. Mi limito solo a sottolineare un dato che può essere pacifico; e cioè che il giudice amministrativo giudica delle liti in cui la realizzazione all’aspirazione alla conservazione o all’ottenimento di un dato bene della vita è condizionata dal previo esercizio di potestà pubblicistiche che sono attribuite per la cura di interessi pubblici, superindividuali.
La seconda osservazione muove dalla domanda che mi sono costantemente posto durante tutta l’elaborazione del presente scritto: ma vale la pena rimuovere il confine? Penso ovviamente di no. Forse soprattutto perché penso che la conservazione salvaguardi non solo l’amministrazione, ma lo stesso processo amministrativo.
L’analisi svolta ha mostrato che tra le conseguenze della dissoluzione della linea di confine tra giurisdizione di legittimità e di merito v’è infatti in primo luogo quella per cui il giudice amministrativo viene sempre più risucchiato in un ruolo di supplenza dell’amministrazione e che ciò rischia di compromettere le garanzie e le certezze che un sistema di diritto processuale deve invece mantenere saldamente ferme. Ciò che forse più mi preme sottolineare al riguardo è che il mantenimento della distinzione deve esser quindi letto non solo in funzione di garanzia di una riserva di amministrazione, ma anche in funzione di garanzia dell’esercizio della funzione giurisdizionale da parte del giudice amministrativo. La piena sostituzione dell’amministrazione, anche al di fuori del momento dell’ottemperanza, porta con sé il rischio che il modello processuale e le certezze che esso deve offrire vengano progressivamente e quasi inavvertitamente abbandonati e finiscano con lo scivolare nuovamente su archetipi paracontenziosi tipici di un’amministratore di ultima istanza.
Auspico ovviamente che ciò non debba mai avvenire e il mio auspicio trova conforto nelle parole del Presidente Maruotti che, nella Relazione tenuta in apertura del corrente anno giudiziario, ha più volte sottolineato l’importanza del fatto che il giudice amministrativo sia percepito come arbitro imparziale proprio perché la sua ragion d’essere, nello Stato di diritto, è di rappresentare il baluardo della legalità e della legittimità dei provvedimenti amministrativi.