ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Indice: 1. Un’attrazione fatale - 2. La parabola della disciplina dell’abuso d’ufficio - 3. Il problema del punto di equilibrio - 4. Rilevanza del contesto in cui matura la riforma del 2020 - 5. L’importanza di una logica di sistema - 6. È davvero necessaria una nuova riforma dell’abuso d’ufficio?
1. Un’attrazione fatale.
In maniera molto efficace, un articolo recentemente apparso su una rivista giuridica è stato titolato “L’attrazione fatale per il delitto di abuso di ufficio” (Gianluca Ruggiero, L’attrazione fatale per il delitto di abuso d’ufficio, in CamminoDiritto.it, 25 01 2023), volendo con ciò l’Autore sottolineare il fatto che il desiderio di rimaneggiare questa fattispecie penale sia praticamente quasi irrefrenabile per qualsiasi Governo che si sia alternato alla guida della nostra Repubblica negli ultimi anni o decenni.
Anche tra i (primi e) principali obbiettivi programmatici della legislatura appena iniziata figura infatti la riforma dell’abuso d’ufficio, nonostante dagli anni novanta in poi il testo originario del 1930 abbia subito non poche e non poco profonde modifiche che lo hanno già di molto allontanato dalla primigenia versione.
Nella sua veste originaria, l’abuso in atti d’ufficio è, come suol dirsi, “innominato”. Nel disegno originario del codice penale del 1930, l’abuso d’ufficio è descritto all’art. 323 con formula semplice, ma molto elastica perché strettamente correlata all’elemento finalistico dell’azione del pubblico ufficiale, il quale viene sanzionato (penalmente) se e quando usa per perseguire finalità diverse da quelle ipotizzate dal legislatore il potere pubblico che gli è stato attribuito : viene punito il pubblico ufficiale che «abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge>>. Nella formulazione originaria, si noti, il termine “abuso” compare sia nella rubrica, che nel corpo della disposizione normativa, esprimendo con ciò chiaramente una stretta correlazione con l’elemento finalistico dell’azione amministrativa.
L’idea dell’abuso ha infatti in sé quella della spettanza del potere che venga esercitato perseguendo finalità diverse da quelle per le quali il potere è stato conferito dalla legge. Si tratta di una considerazione che non rimane limitata all’ambito strettamente penalistico. Specie nei tempi più recenti, la crescente rilevanza assunta nell’ordinamento dalle tematiche dell’abuso del diritto, dell’abuso del processo, del contratto “giusto” (per non parlare della figura tradizionalmente nota al diritto amministrativo come eccesso di potere) mostra chiaramente come la categoria dommatica dell’abuso possa valere per individuare una figura generale correlata all’elemento finalistico dell’azione (e in ptcl alla deviazione dell’azione dal fine).
L’esercizio di un diritto o di un potere giuridico non viene più protetto, ma diviene illecito, se viene compromesso il motivo, la ragione che nella coscienza sociale, come cristallizzata dal legislatore, ne ha giustificato la protezione. L’esercizio del diritto che risulti “sproporzionato” viene sanzionato. E valutare se una certa azione risponda o meno ad un principio di proporzionalità apre inevitabilmente le porte al sindacato sulle ragioni e sulla finalità della protezione di un dato interesse.
In un ordinamento di civiltà giuridica evoluta, che non protegge più il diritto come jus utendi ac abutendi, la tematica dell’abuso d’ufficio merita dunque innanzi tutto di essere inquadrata in una logica più generale di sistema, che deve decidere se e come sanzionare le deviazioni dell’azione concreta dalle finalità per le quali l’ordinamento riconosce determinati interessi, pubblici o privati, come meritevoli di tutela e attribuisce ai soggetti, pubblici o privati, i poteri necessari per la cura di tali interessi: se solo sul piano amministrativo, o anche su quello civile e su quello penale; con intensità diversa e crescente a seconda della gravità dell’abuso.
La figura originaria dell’abuso d’ufficio, destinata ad essere applicata solo in via sussidiaria e comunque stretta dalle figure tipiche del peculato per distrazione e dell’interesse privato in atti d’ufficio, s’iscrive pienamente in un disegno generale che ritiene rilevante e quindi sanziona l’abuso su tutti e tre i piani suddetti (amministrativo, civile e penale). (SISTO : ritiene che ci sia bisogno di tutela penale sotto questo profilo).
Direi che questo è il punto di partenza di qualsiasi discorso sull’abuso d’ufficio.
2. La parabola della disciplina dell’abuso d’ufficio.
La successiva parabola della figura si caratterizza per l’assorbimento in essa della fattispecie dell’“interesse privato in atti d’ufficio” e per la progressiva limitazione della possibilità del sindacato giudiziario attraverso ripetuti tentativi di tipizzare maggiormente l’ipotesi delittuosa, in origine “innominata”.
Il filo conduttore che ispira i diversi interventi che si susseguono è sempre lo stesso: cercare di limitare quella che viene ritenuta un’eccessiva ingerenza del giudice penale nell’attività della PA; e i tentativi vanno sempre nella direzione di limitare quanto più possibile la possibilità d’intervento del giudice penale (nel merito de) sull’azione amministrativa, relegando tale possibilità al mero vaglio di legalità della formale violazione di legge e di regolamento.
Questo processo approda alla riforma del 2020, che interviene sulla riscrittura fatta solo tre anni prima con l’effetto di espungere quasi del tutto la rilevanza dell’elemento finalistico dalla fattispecie: il sindacato del giudice penale sul fine non è più possibile se non è riconducibile ad una violazione di legge in senso proprio. In sostanza: ad una mancanza di potere. Non c’è il potere di perseguire quel dato fine. Il sindacato di ragionevolezza sulla scelta (come vizio autonomo rispetto alla violazione di legge), in ultima analisi, rimane fuori.
Il generico riferimento all’abuso dell’ufficio, rimasto solo nella rubrica dell’art. 323 cod. pen., era stato già dismesso con la modifica del 1997, che aveva individuata la condotta tipica nella «violazione di norme di legge o di regolamento» (ovvero, in alternativa, nella omessa astensione «in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti»). Nel 2020 si specifica ulteriormente che il pubblico ufficiale è punibile unicamente se la condotta è posta in essere “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Nel 2020 il confine viene quindi riposizionato in maniera molto chiara e netta eliminando la possibilità di sindacato sulla discrezionalità
3. Il punto di equilibrio.
Credo che, tutto sommato, il nuovo punto di equilibrio tra le valutazioni discrezionali dell’amministratore pubblico e quelle del giudice penale, sul se e come sia stato effettivamente curato un dato interesse pubblico, potesse esser ritenuto anche soddisfacente, se visto in relazione all’obbiettivo che si è voluto raggiungere nel 2020.
Solo per fare un esempio, cito il caso deciso da Cassazione Sesta Penale sentenza n. 1146 del 8 1 2021, nel quale il Commissario straordinario e Direttore generale di una Azienda Ospedaliera era stato condannato in primo e secondo grado nel presupposto che avesse illegittimamente dequalificato un dato servizio., da struttura complessa a struttura semplice, al fine di demansionare la posizione giuridica ed economica del suo Direttore; finalità desunta da una serie di indici sintomatici, tra cui l'assenza di una seria e urgente finalità riorganizzativa dell'Azienda, neppure esplicitata in atti, e il difetto del necessario presupposto dell'adozione del c.d. atto aziendale.
Figure sintomatiche; vizi procedimentali.
Val la pena ripercorrere la motivazione della sentenza, che illustra in maniera presso che esemplare il punto di equilibrio raggiunto con la riforma del 2020:
“Premesso che la ragion d'essere della figura di reato delineata da una norma di chiusura, come l'art. 323 cod. pen., è ravvisata nell'obiettivo di tutelare i valori fondanti dell'azione della Pubblica Amministrazione, che l'art. 97 della Costituzione indica nel buon andamento e nella imparzialità, i nuovi elementi di fattispecie oggetto della violazione penalmente rilevante - introdotti dalla più recente riforma - sono costituiti dalle <<specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
In luogo del generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione «di norme di legge o di regolamento», si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l'azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti subprimarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali. Di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito - effettuata all'esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati - dell'interesse primario pubblico da perseguire in concreto.
Beninteso: sempreché l'esercizio del potere discrezionale non trasmodi tuttavia in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici - c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità - laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell'alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell'inosservanza dell'obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi.
La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l'apprezzamento dell'inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione "mediata" di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero "cattivo uso" - la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio - della discrezionalità amministrativa. … …
La nuova formulazione della fattispecie dell'abuso di ufficio (ne) restringe l'ambito di operatività (escludendo che assuma rilevanza ai fini della fattispecie penale) la violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità". La sentenza non rappresenta certo un unicum. Tra le tante si può ricordare v. ad es. anche Cassazione Sezione Sesta, 8 1 2021 n 442, (annotata da A. Crismani La discrezionalità amministrativa nel reato di abuso d’ufficio, in GiustiziaInsieme, 29 aprile 2021), nella quale parimenti si afferma in maniera chiara che “La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero “cattivo uso” - la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio - della discrezionalità amministrativa”.
4. Rilevanza del contesto in cui matura la riforma del 2020.
Merita di essere sottolineato il contesto nel quale è maturata la scelta di riposizionare il confine nei termini appena ricordati. La scelta si è consumata infatti in occasione dell’evento pandemico, allorquando si sono dovuti ideare e programmare interventi pubblici straordinari per garantire la ripresa economica del Paese.
Il programma di intervento straordinario voluto dalle Istituzioni europee non solo per contrastare la pandemia, ma per favorire la ripresa e lo sviluppo economico e sociale viene sviluppato in Italia, come noto, dal PNRR. La necessità di evitare il rischio che gli interventi previsti non vengano realizzati e che gli obbiettivi prefissati non vengano raggiunti ha messo in primo piano la questione dell’efficienza amministrativa. Il timore che l’obbiettivo della ripresa economica potesse essere compromesso dall’inefficienza della Pubblica amministrazione ha fatto sì che siano state da subito previste misure destinate ad accompagnare la realizzazione del Piano, approntando uno strumentario giuridico appositamente dedicato a garantire l’efficacia dell’azione amministrativa.
L’intervento legislativo si è a tal fine sviluppato essenzialmente sotto tre distinti profili, convergenti nell’unica finalità di garantire la celere conclusione dei procedimenti e la stabilità delle decisioni.
Le principali misure di “semplificazione” specificamente dedicate ad accompagnare la realizzazione del PNRR sono individuate nel d.l. 16 luglio 2020 n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito con l. 11 settembre 2020 n. 120 e nel d.l. 31 maggio 2021 n. 77 (Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure) e si sviluppano lungo tre linee direttrici.
La prima linea d’intervento ha interessato la disciplina dei procedimenti amministrativi in quanto tali, e si è concretizzata nella previsione di misure di semplificazione, finalizzate a garantire la definizione dei processi decisionali, in tempi rapidi e comunque con certezza della loro conclusione. Il d.l. 76/2020, oltre a introdurre modifiche della disciplina generalmente dettata dalla legge 241/1990, recate dall’art. 12, per garantire la realizzazione degli interventi infrastrutturali di particolare complessità generalizza di fatto l’impiego della figura del Commissario straordinario, prevedendo che i Commissari operino in deroga alla disposizioni di legge in materia di contratti pubblici (“fatto salvo il rispetto dei principi …”) e che possano essere abilitati ad assumere direttamente le funzioni di stazioni appaltante (art. 9). Il dl. 77/2021 prevede invece la possibilità di attivare i meccanismi sostitutivi commissariali (non sostituendo ab origine l’organo, ma solo in corso di attività) in corso di in caso di mancata adozione di atti e provvedimenti necessari all'avvio dei progetti del Piano, ovvero di ritardo, inerzia o difformità nell'esecuzione dei progetti da parte dei soggetti attuatori del PNRR (art. 12), così come nel caso di dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente idoneo a precludere la realizzazione in tutto o in parte la realizzazione di un intervento rientrante nel PNRR o nel PNC (art. 13). Sotto il profilo più strettamente organizzativo, il d.l. 77/2021 prevede l’istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri di una cabina di regia con poteri d’indirizzo, d’impulso e di coordinamento generale sull’attuazione degli interventi del PNRR (art 2); l’istituzione di una Soprintendenza speciale presso il Ministero della cultura con competenza per i beni che siano interessati dagli interventi previsti nel PNRR e con poteri comunque di avocazione e sostitutivi delle Soprintendenze locali nei casi in cui si renda necessario per assicurare la tempestiva attuazione del PNRR (art. 29); l’istituzione di un Comitato speciale presso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici tenuto a esprimersi sui progetti di fattibilità tecnico economica delle opere non solo a livello meramente consultivo, ma con potere anche decisorio, sostitutivo della conferenza dei servizi competente all’approvazione definitiva del progetto nei casi in cui siano stati espressi dissensi in seno ad essa (art 44).
La seconda linea d’intervento è stata quella che lo stesso legislatore a volte ha definita come della “de-giurisdizionalizzazione”, per indicare misure o istituti volti ad evitare o limitare quanto più possibile il rischio che l’intervento del giudice arresti o ritardi la realizzazione degli interventi previsti nel PNRR o nel PNC. Sotto questo profilo, le misure possono distinguersi a seconda che siano volte a limitare la possibilità d’intervento del giudice sull’appalto ovvero a cercare di evitare che dispute o controversie vengano portate e decise in sede giurisdizionale.
L’art 4 del dl 76/2020, espressamente volto a disciplinare il rapporto tra ricorsi giurisdizionali e conclusione dei contratti pubblici, reca diverse disposizioni volte ad assicurare la stabilità dell’aggiudicazione e del conseguente affidamento del contratto. In primo luogo, estende l’applicazione dell’art 125 comma 2 del cpa agli appalti aggiudicati entro il 31 dicembre 2021, il che comporta lo spostamento della tutela sul versante puramene risarcitorio, dal momento che esso statuisce che “la sospensione o l’annullamento dell’affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato e il risarcimento del danno avviene solo per equivalente”. Precisa, in secondo luogo, che “la pendenza di un ricorso giurisdizionale nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto” non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione dello stesso e che “la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento all’interesse della stazione appaltante e a quello nazionale alla sollecita esecuzione del contratto e viene valutata ai fini della responsabilità erariale e disciplinare del dirigente”. Precisa ancora, in terzo luogo, che di norma i giudizi in materia di appalti dovrebbero essere definiti nel merito con sentenza in forma semplificata in esito all’udienza cautelare. Dunque, sembrerebbe d’intendere, a meno che l’aggiudicazione non venga immediatamente sospesa dal giudice amministrativo, il contratto deve essere stipulato e non può esser più caducato e il ricorrente che abbia ragione dovrà limitarsi ad una tutela meramente risarcitoria. Sotto questo profilo, senza entrare nei profili concernenti la costituzionalità di tali norme con riferimento soprattutto all’art 113 Cost., è dunque evidente l’intento di limitare quanto più possibile l’incidenza della pronuncia giurisdizionale sull’affidamento dei lavori.
L’art 6 reca invece previsioni dichiaratamente volte a scoraggiare il ricorso al momento giurisdizionale per la risoluzione di dispute o questioni che possono insorgere nell’esecuzione dell’appalto, al fine di evitare che l’incidente giurisdizionale comprometta o ritardi la realizzazione dell’intervento, recuperando /introducendo la figura del Collegio Consultivo Tecnico. Per i lavori diretti alla realizzazione di opere pubbliche d’importo pari o superiore alla soglia comunitaria, il CCT deve essere obbligatoriamente costituito “per la rapida risoluzione delle controversie o dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso”. L’istituzione rimane facoltativa per i lavori sotto soglia.
La terza linea d’intervento seguita è stata infine quella di rimuovere la difficoltà di assumere decisioni in un quadro normativo, economico, tecnico e sociale estremamente complesso, incerto e farraginoso, intervenendo sul regime giuridico della responsabilità amministrativa e penale dei funzionari pubblici al fine di rimuovere la c.d. “paura della firma”. Sotto questo profilo l’attenzione è stata rivolta all’elemento personale della pubblica amministrazione, al “fattore umano”.
Non si è intervenuti solo sull’abuso di ufficio. Prima ancora (con l’art. 21 del d.l. n 76 del 2020)si è intervenuti sul problema della responsabilità erariale, limitando la responsabilità dei funzionari pubblici per danno erariale alle sole ipotesi in cui ne venga accertato il dolo e precisando che tale limitazione “non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”. L’ulteriore precisazione che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso” vale a chiarire anche che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece sostenuto da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile.
Si è poi intervenuti anche sull’abuso di ufficio, con l’art. 23, circoscrivendo il reato di abuso d'ufficio alla violazione di puntuali disposizioni di leggi e atti con forza di legge da cui non residuino margini di discrezionalità: le parole “in violazione di norme di legge o di regolamento” vengono sostituite con “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalle legge o da atti aventi forza di legge e delle quali non residuino margini di dicrezionalità”, rendendo evidente la già sottolineata tendenza a limitare quanto più possibile la possibilità d’intervento del giudice penale nel merito dell’azione amministrativa.
5. L’importanza di una logica di sistema.
Ho insistito nel richiamare gli elementi del contesto in cui matura la riforma dell’istituto nel 2020, poiché ciò rende evidente come l’intervento riformatore, piaccia o meno la ridefinizione dei confini operata, abbia trovato fondamento giustificativo nell’ambito di un insieme complesso di misure, di diversa natura, dichiaratamente volte a comprimere e sacrificare le garanzie di legalità dell’azione amministrativa a vantaggio di una logica di puro risultato, divenuta prioritaria per non perdere l’occasione irripetibile di utilizzo di risorse straordinarie volte a garantire la ripresa economica dopo l’emergenza del periodo pandemico. Si è comunque mosso in una logica di sistema.
Tant’è vero ciò che proprio sulla base di questa considerazione la Corte costituzionale, con la sentenza n. 8 del 18 1 2022, respinge i motivi d’incostituzionalità sollevati per il fatto che la riforma fosse stata introdotta con decreto legge. Vale la pena ricordarne il passo saliente della motivazione sul punto: “Il riconoscimento dell’esistenza dei presupposti fattuali, di cui all’art. 77, secondo comma, Cost., resta, dunque, collegato ad una intrinseca coerenza delle norme contenute nel decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico. L’urgente necessità del provvedere può riguardare, cioè, una pluralità di norme accomunate o dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero dall’intento di fronteggiare una situazione straordinaria complessa e variegata, che richiede interventi oggettivamente eterogenei, in quanto afferenti a materie diverse, ma indirizzati tutti all’unico scopo di approntare urgentemente rimedi a tale situazione (tra le altre, sentenza n. 149 del 2020, n. 137 del 2018, n. 170 del 2017, n. 244 del 2016 e n. 22 del 2012). Per i decreti-legge ab origine a contenuto plurimo, quel che rileva è dunque il profilo teleologico, ossia l’osservanza della ratio dominante l’intervento normativo d’urgenza (sentenze n. 213 del 2021, n. 170 e n. 16 del 2017, e n. 287 del 2016). Anche su tale fronte, il sindacato di questa Corte resta, peraltro, circoscritto ai casi in cui la rottura del nesso tra la situazione di necessità ed urgenza che il Governo mira a fronteggiare e la singola disposizione del decreto-legge risulti evidente, così da connotare quest’ultima come «totalmente “estranea”» o addirittura «intrusa», analogamente a quanto avviene con riguardo alle norme aggiunte dalla legge di conversione (sentenza n. 213 del 2021). Alla luce dei principi ora ricordati, le censure del giudice rimettente non possono essere condivise. Non si può ritenere, anzitutto, come egli opina, che la norma censurata sia «eccentrica ed assolutamente avulsa», per materia e finalità, rispetto al decreto-legge in cui è inserita. Come emerge dal preambolo, dai lavori preparatori e dalle dichiarazioni ufficiali che ne hanno accompagnato l’approvazione, il d.l. n. 76 del 2020 reca un complesso di norme eterogenee accomunate dall’obiettivo di promuovere la ripresa economica del Paese dopo il blocco delle attività produttive che ha caratterizzato la prima fase dell’emergenza pandemica. In quest’ottica, il provvedimento interviene in molteplici ambiti: semplificazioni di vario ordine per le imprese e per la pubblica amministrazione, diffusione dell’amministrazione digitale, ma anche responsabilità degli amministratori pubblici”.
Insomma, la riforma del 2020 ha avuto il suo fondamento giustificativo proprio nell’urgenza di provvedere per privilegiare la valutazione dell’azione amministrativa, a tutto tondo (in tutte le materie), secondo una logica di risultato anzichè di pura legalità. Si è mosso in una logica di sistema.
6. È davvero necessaria una nuova riforma dell’abuso d’ufficio?
Si torna oggi nuovamente a parlare della necessità di riformare l’istituto. Perché?
Siamo fuori dalla logica di sistema che si è sopra ricordata.
Come fondamento giuridico si evoca il dato statistico (ma, a fronte della considerevole mole dei procedimenti aperti, ben pochi si concludono con una condanna) o il puro e semplice fatto che il funzionario ha paura d’incorrere in responsabilità penale (ma le figure di reato esistono apposta per fare paura).
Le ragioni addotte non paiono dunque convincenti, ma rimane il fatto che il tema riemerge comunque periodicamente in maniera carsica. E ciò si verifica perché, come ben sintetizzato dalla citata Corte cost. 8/22, “la figura criminosa dell’abuso d’ufficio, assolve(ndo) una funzione “di chiusura” del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (e) rappresenta il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa: tematica percorsa da una perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un controllo a tutto tondo, atto a fungere da freno alla mala gestio della cosa pubblica, e l’esigenza di evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante”.
La vera questione quindi è e rimane se debba esserci o meno un presidio anche penale per lo sviamento (radicale) dalla funzione amministrativa.
Credo sia difficile modificare ancora il punto di equilibrio raggiunto con la riforma del 2020, tra le valutazioni discrezionali dell’amministratore pubblico e quelle del giudice penale sul se e come sia stato effettivamente curato un dato interesse pubblico; credo sia cioè difficile spostare ulteriormente il confine senza rinunciare completamente alla figura dell’abuso d’ufficio.
Sul fronte della discrezionalità si è già agito e non si vede come si possa andare oltre.
Si può andare oltre solo escludendo la possibilità di ravvisare l’abuso anche in caso di vera e propria mancanza di potere, di comportamenti cioè puramente arbitrari. La figura classica dello sviamento. Ma questo significherebbe praticamente escludere in radice la possibilità di punire il funzionario che abbia agito senza che nessuna norma di legge gli abbia attribuito il potere. Meglio dire chiaramente che il reato viene abrogato.
Oppure si può escludere una (buona) parte dell’azione amministrativa dall’ambito di applicazione. Il che avverrebbe escludendo l’abuso di vantaggio. Ma ciò significa rinunciare a presidiare penalmente violazioni del principio d’imparzialità per la metà forse più significativa dell’azione amministrativa distributiva di vantaggi e ricchezza.
Non credo vi siano ragioni di sistema che impongano di tornare sul tema per migliorarlo.
Credo più semplicemente che, nel suo carsico fluire, la classica tensione tra sindacabilità e insindacabilità delle scelte amministrative da parte del giudice penale stia riemergendo in un momento storico che vede la magistratura in posizione di particolare debolezza, e la politica particolarmente forte grazie a una maggioranza solida e stabile. E la classe politica stia cercando di cogliere l’occasione non già per riposizionare un confine, ma per eliminare la possibilità di sindacato del giudice penale sul perseguimento di fini illeciti da parte della pubblica amministrazione. E’ una questione di rapporti di forza tra poteri, non di sistema.
[1] L’articolo riproduce il testo dell’intervento al convegno del 31 gennaio 2023 su “Abuso d’ufficio e diritto alla buona amministrazione”organizzato dal Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Bari Aldo Moro.
Giustizia Insieme è felice di ospitare oggi un articolo di Alice Giannini, dottoranda di ricerca in diritto penale presso l’Università di Firenze e presso l’Università di Maastricht, vincitrice della prima edizione del Premio Giulia Cavallone istituito presso la Fondazione Calamandrei.
Giulia Cavallone era un giovane magistrato che, fino alla sua morte a soli 36 anni, ha prestato servizio presso il Tribunale di Roma, dove ha trattato tra l’altro il processo relativo ai depistaggi nel caso Cucchi, e che prima di entrare in magistratura aveva dedicato ampia parte delle sue energie intellettuali alla ricerca accademica in materia penalistica, con un percorso di ampio respiro internazionale. Aveva infatti effettuato periodi di tirocinio presso Istituzioni europee, vinto borse di studio e svolto periodi di ricerca presso importanti istituti stranieri, fino al dottorato di ricerca in cotutela internazionale tra l’Università La Sapienza di Roma e l’Università Paris II Patnhéon Assas di Parigi. La comparazione, lo sguardo rivolto a sé e all’altro con identico rispetto ed attenzione, è lo strumento che Giulia ha scelto, convinta che fosse l’unico utile, nel diritto come nella vita.
Il Premio voluto dalla famiglia Cavallone in memoria di Giulia è un ideale passaggio di testimone ad altre generazioni di giovani ricercatori che, con quello stesso spirito di apertura, intendano inserire nel proprio percorso accademico un periodo presso università o istituti di ricerca esteri. E il testimone è stato raccolto da Alice Giannini, la cui vocazione internazionale è testimoniata dagli studi già compiuti presso la University of California Hastings College of the Law, San Francisco, e coronata con la cotutela internazionale attivata tra l’Università di Firenze e quella di Utrecht per il suo progetto di ricerca intitolato “Criminal behaviour and accountability of Artificial Intelligence Systems”, nell’ambito del Curriculum internazionale European and Transnational Legal Studies.
Accogliendo Alice tra i nostri autori accogliamo idealmente quel respiro, che sopravvive a Giulia grazie al filo invisibile che il Premio contribuisce a tessere, legando il suo percorso interrotto a quello di Alice, di tutte le altre e gli altri giovani ricercatori che costruiscono la propria cultura nell’apertura e nel confronto.
Per chi non abbia conosciuto Giulia, Giustizia Insieme l’ha ricordata qui: https://www.giustiziainsieme.it/it/gli-attori-della-giustizia/1350-giulia-cavallone-un-ricordo
Ancora di Giulia e del Premio Giulia Cavallone avevamo già parlato qui: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/2541-premio-giulia-cavallone-anno-2022
Navigating the Grey Area: brevissime riflessioni su IA, “nuovi” dilemmi morali e responsabilità penale
Alice Giannini*
Sommario: 1. Introduzione – 2. Un problema di “allineamento”? La formalizzazione di scelte morali – 3. Una vita vale più di mille? L’esempio di bilanciamento tedesco
1. Introduzione
I dilemmi morali costituiscono scenari ipotetici allettanti: sono in grado di suscitare una discussione accesa in qualsiasi tipo di uditorio. La loro attrattiva risiede anche nel fatto che contribuiscono a illustrare i valori fondamentali di una cultura giuridica in un modo accessibile a un pubblico più ampio.[1] Spesso, le soluzioni proposte per risolvere tali dilemmi sono connesse alla discussione dell’attribuzione di responsabilità per le conseguenze dannose derivanti dall’una o dall’altra scelta. Il tema non è nuovo al diritto penale, ma ha riacquistato notorietà con il diffondersi di sistemi di intelligenza artificiale (IA) sempre più avanzati.
Probabilmente il dilemma morale più “famoso” è il c.d. “trolley problem” (problema del carrello ferroviario). Immaginate di essere il conducente di un carrello che si dirige verso cinque operai che stanno riparando i binari. Per evitare di investire i cinque operai, dovete fermare il carrello, ma vi rendete conto che i freni non funzionano. Vedete un binario laterale sulla destra, sul quale c’è un solo operaio. A questo punto vi si presentano due scelte: far virare il carrello a destra e uccidere un uomo, oppure continuare ad andare dritto e uccidere cinque operai.[2] Con lo sviluppo delle tecnologie di IA, in particolare nel settore dei veicoli a guida (semi) autonoma, e la conseguente attenzione dedicata ad una loro possibile regolamentazione, è nato anche un dibattito su come si dovrebbe comportare il sistema di guida in caso di un incidente stradale ricostruito in termini di dilemma morale, nonché su chi dovrebbe essere destinatario di responsabilità a causa dei danni causati in seguito alla scelta posta in essere da tale sistema.[3]
In via generale, vi è uno sbilanciamento tra l’emergere di nuove tecnologie e la loro regolamentazione. Non sorprende la lentezza nella regolamentazione dell’IA tramite hard-law, soprattutto in un campo delicato come quello del diritto penale. Come è stato osservato, “il ramo legislativo sembra muoversi a una velocità trascurabile rispetto ai progressi tecnologici, rafforzando la percezione che la normazione tradizionale non sia adatta a questa sfida”.[4] Tra le possibili cause, gli autori citano “la mancanza di una definizione esauriente e precisa di IA... aggravata dal fatto che la definizione cambia con l’evolversi della tecnologia”.[5] Rileva notare come il dibattito in materia sia polarizzato. Da un lato, vi è chi sostiene che la regolamentazione “soffochi” l’innovazione, dall’altro, vi è chi crede in una “politica anticipatrice” del diritto.[6] Senz’altro, nel campo dell’IA è possibile rilevare un divario enorme fra lo sviluppo di varie forme di linee guida/principi etici e quello di leggi (o altre disposizioni vincolanti ad esse assimilabili). Ciò è dimostrato dall’impennata nell’elaborazione di principi relativi all’ “IA etica” negli ultimi 5 anni.[7]
Il settore della guida (semi)automatizzata è stato di recente teatro di numerosi incidenti che hanno chiamato in causa l'applicazione del diritto penale. Si pensi ad esempio al sinistro avvenuto nel 2018 a Tempe, Arizona, che ha portato all’uccisione di una donna in seguito all’impatto con un veicolo di prova di Uber (classificato come livello 3 di automazione)[8] a bordo del quale si trovava un agente umano, oggi accusato di omicidio stradale colposo.[9] Ciò ha portato all’avanzare di primigenie forme di regolamentazione dell’IA specificamente attinenti ai profili di responsabilità penale.[10] Si pensi ad esempio alla recente riforma francese del Code de la Route che ha regolamentato i profili di responsabilità penale connessi all’uso di auto a guida autonoma,[11] prevedendo l’esclusione di responsabilità nel caso in cui il sistema di guida sia attivo, sia utilizzato in conformità alle istruzioni per l’utilizzo e venga commessa un’infrazione delle norme del codice della strada o i reati di omicidio e lesioni stradali.[12]
2. Un problema di “allineamento”? La formalizzazione di scelte morali.
Se si presuppone che i sistemi di IA dovranno affrontare in un futuro prossimo situazioni paradossali, quali i dilemmi morali, è necessario porsi la seguente domanda: possiamo insegnare norme morali ad un sistema artificiale?[13] In particolare, “[l]a definizione dell’algoritmo ‘morale’ delle auto senza conducente ripropone il dilemma del carrello e le sue varianti”.[14]
Gli studi su come programmare sistemi di IA “etici” sono già iniziati.[15] Nello specifico si è assistito ad un’impennata di ricerche sulla creazione di agenti morali artificiali (c.d. “AMA”), ossia su come implementare principi etici e facoltà decisionali morali nelle macchine affinché il loro comportamento possa essere ritenuto “eticamente accettabile”, sia nei confronti degli utenti umani, che di altre macchine. Gli AMA dovrebbero affrontare, o addirittura sostituire, il giudizio umano in situazioni moralmente difficili o ambigue. [16]
Uno degli esempi più noti è l'esperimento Moral Machine del MIT, realizzato come un gioco online in cui gli utenti si trovano di fronte a uno scenario che prevede un dilemma morale.[17] Nello specifico, gli utenti si devono confrontare con un incidente inevitabile e con due possibili scelte (mantenere la rotta o sterzare), che portano alla morte di un determinato numero di esseri umani o di animali (o di entrambi). Analizzando le scelte tra i “due mali” espresse dagli utenti, cioè il risultato da questi ritenuto preferibile, in combinazione con i dati demografici e il loro luogo di residenza, i creatori dell'esperimento sono stati in grado di identificare tre tendenze principali che, a loro avviso, rappresentano scorci di un’ “etica universale delle macchine”: la preferenza a risparmiare vite umane, la preferenza a risparmiare il maggior numero di vite possibili e la preferenza a risparmiare vite di persone giovani.[18]
Ricerche come quella della Moral Machine (e altre ancora) incorrono in diverse difficoltà. In primo luogo, per insegnare una regola morale a una macchina (seguendo un approccio top-down), la regola deve essere formalizzata in un linguaggio che possa essere compreso dal sistema (cioè un codice). Formalizzare le decisioni etiche è un’operazione estremamente impegnativa. Si tratta, difatti, di “delineare una moralità di tipo operazionale, che dovrebbe definire algoritmicamente le condotte morali da assumere, specie in scenari di danno inevitabile”.[19] Le regole morali sono per loro natura ambigue, quindi difficili da tradurre e da scomporre secondo una precisa struttura riproducibile tramite un algoritmo.[20] Inoltre, vi è la difficoltà nel ricostruire la flessibilità della “mente morale umana”, capace non solo di fare scelte morali in situazioni mai affrontate prima (a differenza dei sistemi di IA attuali, che si basano sull’esperienza passata) , ma anche di decidere di infrangere regole prestabilite.[21] Ciò può portare al c.d. “alignment problem”, termine utilizzato per descrivere situazioni in cui vi è un disallineamento tra valori comuni agli esseri umani e quelli espressi da un sistema di IA.[22] Esempio eclatante di tale problema è stato Tay, chatbot rilasciato da Microsoft nel 2016. Una volta permessogli di interagire liberamente online con gli utenti Twitter, Tay ha diffuso contenuti razzisti e antisemiti, dopo sole 24 ore dalla sua “nascita”.[23] Da ultimo, è importante sottolineare come non vi sia un metodo per misurare l’ “eticità” di un sistema di IA. In altri termini, al momento non esiste un “sistema etico ottimale”.[24] Ciò si riflette anche sul fatto che “dietro” la formalizzazione della regola etica vi sia sempre un essere umano, che ha i propri principi, stereotipi e convinzioni. Da un punto di vista normativo, alcuni abbandonano del tutto la questione, posto che “non si può seriamente pensare che la progettazione di regole che governano un’area così critica del progresso tecnologico debba essere messa in attesa finché i filosofi non ‘risolvono’ il trolley problem o l’infinità di esperimenti mentali ad esso assimilabili”.[25]
3. Una vita vale più di mille? L'esempio di bilanciamento tedesco
Nel maggio 2021, il Bundesrat ha approvato una legge che modifica il Codice della Strada (Straßenverkehrsgesetz - StVG).[26] Anche se non disciplina direttamente aspetti legati alla responsabilità penale, è di estremo interesse per questa riflessione, in quanto tenta di fornire una soluzione giuridica a dilemmi morali simili a quelli esaminati nel Moral machine Experiment del MIT. Così facendo, la Germania parrebbe aver aperto la strada alla regolamentazione dei livelli più alti di guida autonoma.[27]
Tra le disposizioni più interessanti di questo provvedimento vi è quella contenuta nell'articolo 1 § 1e (2)2, che elenca i requisiti tecnici che devono essere soddisfatti da un veicolo con funzioni di guida autonoma (livello 4 di automazione):
(2) I veicoli con funzione di guida autonoma devono essere dotati di un sistema tecnico in grado di,
[...]
2. rispettare autonomamente le norme del codice della strada rivolte al conducente del veicolo ed essere dotati di un sistema di prevenzione degli incidenti che
(a) sia progettato per prevenire e ridurre i danni,
(b) in caso di danni alternativi inevitabili a diversi beni giuridici, tenga conto dell'importanza dei beni giuridici, a condizione che la protezione della vita umana abbia la massima priorità, e
(c) in caso di danno alternativo inevitabile alla vita umana, non tenga conto di caratteristiche personali.[28]
La legge non chiarisce quali siano tali caratteristiche personali, né afferma se i veicoli autonomi possano decidere di scontrarsi con individui che violino le regole del traffico nel caso di un incidente inevitabile. Un elenco delle suddette caratteristiche si trova nei principi elaborati nel 2017 dalla Ethics Commission on Automated and Connected Driving nominata dal Bundesministerium für Digitales und Verkehr ai quali si ispira la legge: si tratta di età, sesso, condizioni fisiche o psichiche.
La Commissione ha pubblicato un Report nel 2017, nel quale ha elaborato venti linee guide etiche dedicate al settore della guida automatizzata.[29] Non è possibile analizzare l’intero contenuto del Report della Commissione Etica in questa breve riflessione. Ci si limiterà dunque a portare all’attenzione brevemente ad alcuni dei principi ivi contenuti. Innanzitutto, preme soffermarsi sulle regole 7 ed 8, che affrontano i casi di “situazioni pericolose inevitabili”, ossia i dilemmi morali. La regola 7 stabilisce che, in tali scenari, la protezione della vita umana deve avere la massima priorità, se bilanciata con altri interessi giuridicamente protetti. Di conseguenza, entro i limiti di ciò che è tecnologicamente fattibile, i sistemi di IA preposti alla guida del veicolo devono essere programmati per accettare danni agli animali o alle proprietà in un conflitto di interessi, se ciò significa che così facendo di possono evitare danni alle persone.
La soluzione sembra semplice, a prima vista. Eppure, si pensi al caso in cui il danno alla proprietà - che, in astratto, non dovrebbe essere preferito alla protezione della vita - equivalga a causare la fuoriuscita di petrolio da un’autocisterna o, peggio ancora, il collasso della rete elettrica di un’intera area metropolitana.[30]
In effetti, la prima parte della regola 8 riconosce che la “normalizzazione” dei dilemmi morali, cioè l'invenzione di soluzioni generalizzate basate sul “male minore” non sia sempre fattibile, in quanto “i veri dilemmi etici, come quelli relativi alla scelta tra più vite umane, dipendono dalla situazione concreta, che comprende un comportamento ‘imprevedibile’ delle parti coinvolte. Non possono quindi essere chiaramente standardizzati, né possono essere programmati in modo da essere eticamente incontestabili”.[31] L’approccio proposto dalla Commissione Etica sarebbe simile a quello adottato con le vaccinazioni, dove “l’obbligo di vaccinazione imposto per legge si traduce in una generale minimizzazione del rischio senza che sia possibile sapere in anticipo se la persona vaccinata apparterrà al gruppo dei (pochi) danneggiati (sacrificati)” e, nonostante ciò, “è nell'interesse di tutti essere vaccinati e ridurre il rischio complessivo di infezione”.[32]
In conclusione, è possibile traslare tali riflessioni al campo di applicazione del diritto penale. Ci si potrebbe domandare, in ultima battuta, se così facendo la Germania abbia posto le basi per l’esclusione di una responsabilità penale nel caso di una situazione assimilabile ad un dilemma morale “stradale”. Ad esempio, ci si potrebbe chiedere se sia possibile determinare l’applicazione di una scriminante (applicabile al sistema stesso – qualora si apra alla responsabilità diretta del sistema di IA – e/o al soggetto umano destinatario della norma penale, sia questo il proprietario del veicolo o il produttore) nel caso in cui l’auto effettui il bilanciamento, secondo le regole prestabilite, e ciò causi un danno penalmente rilevante. A contrario, chi dovrebbe essere responsabile qualora tale bilanciamento sia svolto erroneamente? Tali quesiti verranno lasciati di proposito aperti. È importante ridimensionare, tuttavia, il valore dei dilemmi morali quali “guide normative”,[33] soprattutto nell’ambito della diritto penale, basato su una responsabilità di natura personale, di conseguenza intrinsecamente collegata alla valutazione della singola situazione in concreto realizzatasi.
* Alice Giannini è dottoranda di ricerca in diritto penale presso l’Università di Firenze e la Maastricht University. Le riflessioni proposte in questo articolo fanno parte della sua tesi di ricerca, che si concentra sulla responsabilità penale dei sistemi di intelligenza artificiale. È stata la vincitrice della prima edizione del premio Giulia Cavallone, istituito dalla Fondazione Calamandrei e dalla famiglia Cavallone per onorare la memoria della dott.ssa Cavallone, giudice del Tribunale di Roma e dottoressa di ricerca in diritto e procedura penale.
[1] H. Hilgendorf, The dilemma of autonomous driving: Reflections on the moral and legal treatment of automatic collision avoidance systems”, in E. Hilgendorf & J. Feldle (Eds), Digitization and the Law, Robotik und Recht, vol. 15, Nomos, 2018, p. 60.
[2] L’invenzione di questo tipo di dilemma è attribuita a Philippa Foot. Il termine “Trolley Problem” è stato coniato più tardi da Judith Jarvis Thomson. Cfr. P. Foot, The Problem of Abortion and the Doctrine of the Double Effect, in Oxford Review, Vol. 51978; J. J. Thomson, The Trolley Problem, in The Yale Law Journal, n. 66, 1985, pp. 1395-1415. Si veda inoltre E. Hilgendorf, The dilemma of autonomous driving: Reflections on the moral and legal treatment of automatic collision avoidance systems, cit., p. 60.
[3] Sul rapporto fra dilemmi morali e diritto penale, si veda O. Di Giovine, Dilemmi morali e diritto penale. Istruzioni per un uso giuridico delle emozioni, il Mulino, 2022.
[4] P. Gomes Rêgo de Almeida, C. Denner dos Santos & J. Silva Farias, Artificial Intelligence Regulation: a framework for governance, in Ethics and Information Technology, vol. 23, 2021, p. 507.
[5] Ivi, p. 508.
[6] N. Boucher, European Parliamentary Research Service - Scientific Foresight Unit, What if AI regulation promoted innovation?, PE 729.515, 2022, p. 2.
[7] Si pensi ad esempio a; AI-HILEG, Ethics Guidelines for Trustworthy Artificial Intelligence (AI), 2019; OECD, Recommendation of the Council on Artificial Intelligence, OECD/LEGAL/0449; UNESCO, Recommendation on the Ethics of Artificial Intelligence, SHS/BIO/REC-AIETHICS/2021; Council of Europe - CEPEJ, European Ethical Charter on the Use of AI in Judicial Systems Council of Europe, 2018.
[8] Ai sensi degli standard sviluppati dalla Society for Automotive Engineers International (SAE), “J3016 Taxonomy and Definitions for Terms Related to Driving Automation Systems for On-Road Motor Vehicles”, Aprile 2021.
[9] National Transportation Safety Board (NTSB), Collision Between Vehicle Controlled by Developmental Automated Driving System and Pedestrian, Tempe, Arizona, March 18, 2018, Highway Accident Report NTSB/HAR-19/03. Si veda anche: A. DeArman, “The Wild, Wild West: A Case Study of Self Driving Vehicle Testing in Arizona”, Arizona Law Review, Vol. 61, 2019.
[10] Si veda, su questa Rivista sul medesimo tema, C. Corridori, Machina delinquere non potest, 19 maggio 2022. Si veda ex multis: E. Hilgendorf, The dilemma of autonomous driving: Reflections on the moral and legal treatment of automatic collision avoidance systems, in E. Hilgendorf & J. Feldle (Eds), Digitization and the Law, in Robotik und Recht, vol. 15, Nomos, 2018; A. Cappellini, Machina delinquere potest? Brevi appunti su intelligenza artificiale e responsabilità penale, in Criminalia, 2018; L. D’Amico, Intelligenza artificiale e auto a guida autonoma. Tra prevenzione primaria, colpa penale e rischio consentito, in Riv. It. Med. Leg., vol. 3, 2022.
[11] Ordonnance n° 2021-443 du 14 avril 2021 relative au régime de responsabilité pénale applicable en cas de circulation d'un véhicule à délégation de conduite et à ses conditions d'utilisation (TRAT2034523R, JORF n°0089 du 15 avril 2021, Texte n° 36), 2021.
[12] M. Giuca, Disciplinare l’intelligenza artificiale. La riforma francese sulla responsabilità penale da uso di auto a guida autonoma, in Archivio Penale, vol. 2, 2022
[13] Ezra Klein Interviews Alison Gopnik, The New York Times, 16 April 2021.
[14] M. B. Saponaro, L’insostenibile leggerezza del tragico, in Scelte tragiche - Atti del III convegno “Medicina e diritto penale”, Taranto, 11 dicembre 2020 a cura di Giuseppe Losappio, p. 89.
[15] Si veda ex multis: E. Awad et al., Computational ethics, in Trends in Cognitive Sciences, vol. 26, Issue 5, 2022; D. Leslie, The Alan Turing Institue, Understanding artificial intelligence ethics and safety. A guide for the responsible design and implementation of AI systems in the public sector, 2019; J. Ganascia, Ethical System Formalization using Non-Monotonic Logics, in Proceedings of the Annual Meeting of the Cognitive Science Society, vol. 29, 2007; S. Serafimova, Whose morality? Which rationality? Challenging artificial intelligence as a remedy for the lack of moral enhancement, in Humanities and Social Sciences Communication, 2020; P. Schramowski et al., The Moral Choice Machine, in Frontiers in Artificial Intelligence, vol. 3, 2020; V. Charisi, Towards Moral Autonomous Systems, in arXiv:1703.04741v3, 2017.
[16] A. Martinho, Perspectives about artificial moral agents, in AI and Ethics, vol. 1, 2021, p. 481.
[17] L’esperimento è accessibile presso il sito https://www.moralmachine.net/. I risultati dell’esperimento sono discussi in: E. Awad et al., The Moral Machine experiment, in Nature, Vol. 563, 2018; E. Awad et al., Crowdsourcing Moral Machines, in Communications of the ACM, vol. 63, n. 3, 2020, pp. 48-55; E. Awad et al., Universals and variations in moral decisions made in 42 countries by 70,000 participants, in PNAS, vol. 117, n. 5, 2020, pp. 2332-2337.
[18] Awad et al., The Moral Machine experiment, cit., p. 63.
[19] M. B. Saponaro, cit., p. 89.
[20] E. Mokhtarian, The Bot Legal Code: Developing a Legally Compliant Artificial Intelligence, in Vanderbilt Journal of Entertainment and Technology Law, vol. 21, 2020, p. 173.
[21] Awad et. al, When Is It Acceptable to Break the Rules? Knowledge Representation of Moral Judgement Based on Empirical Data, in arXiv:2201.07763, 2022.
[22] I. Gabriel, Artificial Intelligence, Values, and Alignment, in Minds and Machines, vol. 30, 2020, pp. 411-437
[23] E. Hunt, Tay, Microsoft's AI chatbot, gets a crash course in racism from Twitter, The Guardian, 24 March 2016. t
[24] Mokhtarian, cit., p. 173.
[25] A. Guerra, F. Parisi & D. Pi, Liability for robots I: legal challenges, in Journal of Institutional Economics, vol. 18, n. 3, 2021, p.10.
[26] Bundestag, Gesetz zur Änderung des Straßenverkehrsgesetzes, 2021.
[27] A. Kriebitz, R. Max & C. Lütge, The German Act on Autonomous Driving: Why Ethics Still Matter, in Philosophy & Technology, vol. 35, 2022, p. 11.
[28] “(2) Kraftfahrzeuge mit autonomer Fahrfunktion müssen über eine technische Ausrüstung verfügen, die in der Lage ist,
[…] 2. selbstständig den an die Fahrzeugführung gerichteten Verkehrsvorschriften zu entsprechen und die über ein System der Unfallvermeidung verfügt, das
a) auf Schadensvermeidung und Schadensreduzierung ausgelegt ist,
b) bei einer unvermeidbaren alternativen Schädigung unterschiedlicher Rechtsgüter die Bedeutung der Rechtsgüter berücksichtigt, wobei der Schutz menschlichen Lebens die höchste Priorität besitzt, und
c) für den Fall einer unvermeidbaren alternativen Gefährdung von Menschenleben keine weitere Gewichtung anhand persönlicher Merkmale vorsieht”.
[29] Il report è disponibile presso: https://bmdv.bund.de/SharedDocs/EN/publications/report-ethics-commission.pdf?__blob=publicationFile. Gli stessi ideatori della Moral Machine fanno riferimento al lavoro della Commissione etica tedesca e affermano che il loro esperimento rappresenta il primo e unico tentativo di fornire linee guida ufficiali per le scelte etiche dei veicoli autonomi.
[30] L’esempio è fatto dalla Commissione Etica a p. 17 del Report.
[31] Report, cit., p.11.
[32] Ibid.
[33] M. B. Saponaro, cit., p. 90.
* Alice Giannini è dottoranda di ricerca in diritto penale presso l’Università di Firenze e la Maastricht University. Le riflessioni proposte in questo articolo fanno parte della sua tesi di ricerca, che si concentra sulla responsabilità penale dei sistemi di intelligenza artificiale. È stata la vincitrice della prima edizione del premio Giulia Cavallone, istituito dalla Fondazione Calamandrei e dalla famiglia Cavallone per onorare la memoria della dott.ssa Cavallone, giudice del Tribunale di Roma e dottoressa di ricerca in diritto e procedura penale.
[1] H. Hilgendorf, The dilemma of autonomous driving: Reflections on the moral and legal treatment of automatic collision avoidance systems”, in E. Hilgendorf & J. Feldle (Eds), Digitization and the Law, Robotik und Recht, vol. 15, Nomos, 2018, p. 60.
[1] L’invenzione di questo tipo di dilemma è attribuita a Philippa Foot. Il termine “Trolley Problem” è stato coniato più tardi da Judith Jarvis Thomson. Cfr. P. Foot, The Problem of Abortion and the Doctrine of the Double Effect, in Oxford Review, Vol. 51978; J. J. Thomson, The Trolley Problem, in The Yale Law Journal, n. 66, 1985, pp. 1395-1415. Si veda inoltre E. Hilgendorf, The dilemma of autonomous driving: Reflections on the moral and legal treatment of automatic collision avoidance systems, cit., p. 60.
[1] Sul rapporto fra dilemmi morali e diritto penale, si veda O. Di Giovine, Dilemmi morali e diritto penale. Istruzioni per un uso giuridico delle emozioni, il Mulino, 2022.
[1] P. Gomes Rêgo de Almeida, C. Denner dos Santos & J. Silva Farias, Artificial Intelligence Regulation: a framework for governance, in Ethics and Information Technology, vol. 23, 2021, p. 507.
[1] Ivi, p. 508.
[1] N. Boucher, European Parliamentary Research Service - Scientific Foresight Unit, What if AI regulation promoted innovation?, PE 729.515, 2022, p. 2.
[1] Si pensi ad esempio a; AI-HILEG, Ethics Guidelines for Trustworthy Artificial Intelligence (AI), 2019; OECD, Recommendation of the Council on Artificial Intelligence, OECD/LEGAL/0449; UNESCO, Recommendation on the Ethics of Artificial Intelligence, SHS/BIO/REC-AIETHICS/2021; Council of Europe - CEPEJ, European Ethical Charter on the Use of AI in Judicial Systems Council of Europe, 2018.
[1] Ai sensi degli standard sviluppati dalla Society for Automotive Engineers International (SAE), “J3016 Taxonomy and Definitions for Terms Related to Driving Automation Systems for On-Road Motor Vehicles”, Aprile 2021.
[1] National Transportation Safety Board (NTSB), Collision Between Vehicle Controlled by Developmental Automated Driving System and Pedestrian, Tempe, Arizona, March 18, 2018, Highway Accident Report NTSB/HAR-19/03. Si veda anche: A. DeArman, “The Wild, Wild West: A Case Study of Self Driving Vehicle Testing in Arizona”, Arizona Law Review, Vol. 61, 2019.
[1] Si veda, su questa Rivista sul medesimo tema, C. Corridori, Machina delinquere non potest, 19 maggio 2022. Si veda ex multis: E. Hilgendorf, The dilemma of autonomous driving: Reflections on the moral and legal treatment of automatic collision avoidance systems, in E. Hilgendorf & J. Feldle (Eds), Digitization and the Law, in Robotik und Recht, vol. 15, Nomos, 2018; A. Cappellini, Machina delinquere potest? Brevi appunti su intelligenza artificiale e responsabilità penale, in Criminalia, 2018; L. D’Amico, Intelligenza artificiale e auto a guida autonoma. Tra prevenzione primaria, colpa penale e rischio consentito, in Riv. It. Med. Leg., vol. 3, 2022.
[1] Ordonnance n° 2021-443 du 14 avril 2021 relative au régime de responsabilité pénale applicable en cas de circulation d'un véhicule à délégation de conduite et à ses conditions d'utilisation (TRAT2034523R, JORF n°0089 du 15 avril 2021, Texte n° 36), 2021.
[1] M. Giuca, Disciplinare l’intelligenza artificiale. La riforma francese sulla responsabilità penale da uso di auto a guida autonoma, in Archivio Penale, vol. 2, 2022
[1] Ezra Klein Interviews Alison Gopnik, The New York Times, 16 April 2021.
[1] M. B. Saponaro, L’insostenibile leggerezza del tragico, in Scelte tragiche - Atti del III convegno “Medicina e diritto penale”, Taranto, 11 dicembre 2020 a cura di Giuseppe Losappio, p. 89.
[1] Si veda ex multis: E. Awad et al., Computational ethics, in Trends in Cognitive Sciences, vol. 26, Issue 5, 2022; D. Leslie, The Alan Turing Institue, Understanding artificial intelligence ethics and safety. A guide for the responsible design and implementation of AI systems in the public sector, 2019; J. Ganascia, Ethical System Formalization using Non-Monotonic Logics, in Proceedings of the Annual Meeting of the Cognitive Science Society, vol. 29, 2007; S. Serafimova, Whose morality? Which rationality? Challenging artificial intelligence as a remedy for the lack of moral enhancement, in Humanities and Social Sciences Communication, 2020; P. Schramowski et al., The Moral Choice Machine, in Frontiers in Artificial Intelligence, vol. 3, 2020; V. Charisi, Towards Moral Autonomous Systems, in arXiv:1703.04741v3, 2017.
[1] A. Martinho, Perspectives about artificial moral agents, in AI and Ethics, vol. 1, 2021, p. 481.
[1] L’esperimento è accessibile presso il sito https://www.moralmachine.net/. I risultati dell’esperimento sono discussi in: E. Awad et al., The Moral Machine experiment, in Nature, Vol. 563, 2018; E. Awad et al., Crowdsourcing Moral Machines, in Communications of the ACM, vol. 63, n. 3, 2020, pp. 48-55; E. Awad et al., Universals and variations in moral decisions made in 42 countries by 70,000 participants, in PNAS, vol. 117, n. 5, 2020, pp. 2332-2337.
[1] Awad et al., The Moral Machine experiment, cit., p. 63.
[1] M. B. Saponaro, cit., p. 89.
[1] E. Mokhtarian, The Bot Legal Code: Developing a Legally Compliant Artificial Intelligence, in Vanderbilt Journal of Entertainment and Technology Law, vol. 21, 2020, p. 173.
[1] Awad et. al, When Is It Acceptable to Break the Rules? Knowledge Representation of Moral Judgement Based on Empirical Data, in arXiv:2201.07763, 2022.
[1] I. Gabriel, Artificial Intelligence, Values, and Alignment, in Minds and Machines, vol. 30, 2020, pp. 411-437
[1] E. Hunt, Tay, Microsoft's AI chatbot, gets a crash course in racism from Twitter, The Guardian, 24 March 2016. t
[1] Mokhtarian, cit., p. 173.
[1] A. Guerra, F. Parisi & D. Pi, Liability for robots I: legal challenges, in Journal of Institutional Economics, vol. 18, n. 3, 2021, p.10.
[1] Bundestag, Gesetz zur Änderung des Straßenverkehrsgesetzes, 2021.
[1] A. Kriebitz, R. Max & C. Lütge, The German Act on Autonomous Driving: Why Ethics Still Matter, in Philosophy & Technology, vol. 35, 2022, p. 11.
[1] “(2) Kraftfahrzeuge mit autonomer Fahrfunktion müssen über eine technische Ausrüstung verfügen, die in der Lage ist,
[…] 2. selbstständig den an die Fahrzeugführung gerichteten Verkehrsvorschriften zu entsprechen und die über ein System der Unfallvermeidung verfügt, das
a) auf Schadensvermeidung und Schadensreduzierung ausgelegt ist,
b) bei einer unvermeidbaren alternativen Schädigung unterschiedlicher Rechtsgüter die Bedeutung der Rechtsgüter berücksichtigt, wobei der Schutz menschlichen Lebens die höchste Priorität besitzt, und
c) für den Fall einer unvermeidbaren alternativen Gefährdung von Menschenleben keine weitere Gewichtung anhand persönlicher Merkmale vorsieht”.
[1] Il report è disponibile presso: https://bmdv.bund.de/SharedDocs/EN/publications/report-ethics-commission.pdf?__blob=publicationFile. Gli stessi ideatori della Moral Machine fanno riferimento al lavoro della Commissione etica tedesca e affermano che il loro esperimento rappresenta il primo e unico tentativo di fornire linee guida ufficiali per le scelte etiche dei veicoli autonomi.
[1] L’esempio è fatto dalla Commissione Etica a p. 17 del Report.
[1] Report, cit., p.11.
[1] Ibid. [1] M. B. Saponaro, cit., p. 90.
1) La detenzione, oggi, consente una prospettiva di risocializzazione e di reinserimento nel mondo del lavoro? Cosa ha visto funzionare e cosa manca?
La detenzione dovrebbe consentire una prospettiva di socializzazione e di inserimento nel mondo del lavoro, così come previsto dall’art 27 della nostra costituzione. Non utilizzo il suffisso -ri- in quanto molte delle persone che finiscono in carcere provengono da quello che io definisco una condizione sociale deprivata: di opportunità, di cultura, di lavoro. I dati dello scorso anno ci dicono che solo il 10% delle persone che entra in carcere ha un diploma di scuola superiore e questo ci deve interrogare maggiormente per capire i contesti di provenienza di queste persone. Cosa è mancato? Quali opportunità non sono state offerte a partire dalla scuola? Ed allora il carcere da solo non può farcela, non è attrezzato per costruire e ri-costruire queste opportunità. Lo può fare solo se si apre al mondo esterno, alle associazioni, al volontariato, alle comunità e se gli enti locali intervengo con politiche attive. Fra le politiche attive e quindi servizi ed opportunità annovero in primo luogo l’alloggio: molti senza fissa dimora arrivano in carcere perché non hanno un domicilio da indicare per scontare misure alternative alla detenzione; formazione professionale e lavoro sono altro elemento indispensabile da acquisire durante il periodo detentivo; la scuola, i momenti culturali (teatro e scrittura). Nella mia esperienza di questi anni ho potuto constatare che lì dove queste opportunità sono state costruite è stato possibile costruire il cambiamento ed abbattere la recidiva. C’è bisogno di un maggior lavoro di coordinamento dei vari ambiti di interventi e forse la nascita dei consigli di aiuto sociale (pure previsti nell’ordinamento penitenziario e mai attuati) potrebbero favorire questo lavoro di squadra.
2) La detenzione femminile, come vivono le detenute la loro condizione, soprattutto negli istituti di detenzione non dedicati ove sono presenti solo sezioni separate?
Le donne in carcere rappresentano (fortunatamente) solo il 4,2 % della popolazione detenuta (la media dei Paesi del Consiglio di Europa è del 4,7%). In Italia abbiamo 4 istituti femminili (Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) che accolgono di media ¼ del numero complessivo di donne detenute (circa 610 donne su 2314). Le altre (circa 1700) sono distribuite nelle 45 sezioni femminili ricavate all’interno degli istituti maschili: da 117 a Torino fino ad arrivare 4 a Paliano e 3 a Mantova. Le donne straniere (dati al 30 giugno 2022) erano 710 (30,7% delle donne detenute).
Conosco bene il carcere femminile di Rebibbia (il più grande di Europa con una media di 350 donne presenti). Si tratta sempre di un carcere, ma si avverte che è pensato al “femminile” con spazi, attività e servizi maggiormente pensati per donne. A partire dalle scuole (sia di alfabetizzazione che superiori), formazione professionale, attività culturali e sportive. Maggiore attenzione alla sanità (anche se su questo versante i servizi stanno complessivamente peggiorando in tutti gli istituti penitenziari). La fortuna di Rebibbia femminile è la presenza di un ottimo Magistrato di Sorveglianza (il dott. Marco Patarnello) che è molto presente in istituto, incontra le detenute, le ascolta, e lì dove è possibile con gli strumenti legislativi attuali, costruisce misure alternative alla detenzione. E questo è stato fondamentale soprattutto per quello che riguarda l’annosa vicenda delle mamme detenute con i bimbi in carcere.
Situazione diversa si verifica nelle sezioni femminili ricavate all’interno degli istituti penitenziari maschili. L’ordinamento penitenziario in vigore dal 2018 prevede esplicitamente che le donne ospitate in istituti maschili debbano essere un numero tale da non compromettere l’attività trattamentale. Ma questo è difficile da applicare quando, per assurdo, i piccoli numeri di donne presente non favoriscono l’organizzazione di attività dedicata. Per non parlare dei limiti delle strutture: il 30%delle celle ospitanti donne non ha il bidet (nonostante sia previsto dal regolamento penitenziario del 2000) e nel 17,4% non vi è servizio di ginecologia.
3) Essere madri in carcere. Quale idea si è fatta, nel corso della sua esperienza, sul rapporto tra genitorialità e detenzione? Le condizioni detentive, dalla legge 354/75 in avanti riescono a tutelare il “superiore interesse del minore” anche nella prospettiva dell’attuazione della legge 62 del 2011?
Quando per la prima volta ho varcato la soglia del nido del carcere di Rebibbia, a luglio del 2017, vi erano 16 donne e 18 bambini. Quando ho finito il mio mandato, marzo 2022, nello stesso nido vi erano due mamme e due bambini. Un risultato quindi molto importante che è stato possibile per due condizioni fondamentali: la prima è quella di aver aperto a Roma la prima struttura protetta per detenute mamme con bambini e gestita dal terzo settore e la seconda di aver avuto la fortuna di poter contare sulla sensibilità e presenza del Magistrato di Sorveglianza con il quale si sono affrontate in tempi celeri tutte le questioni legate all’individuazione di misure alternative per queste mamme. Facile quando si è trattato di donne che avevano domicilio all’esterno, più complicato quando ci siamo trovate davanti a ragazze, principalmente rom, che vivevano nei campi. Ma alla fine fra casa protetta e comunità il posto si è sempre trovato. Il Nido di Rebibbia è comunque una struttura di avanguardia, con puericultrici, nido all’esterno dove i bambini vengono accompagnati con un servizio garantito dal Municipio, la presenza costante di associazioni che si occupano di organizzare attività ricreative per i bambini comprese le gite all’esterno il sabato mattina. In questi anni sono stati pensati e costruiti gli ICAM (Istituti a custodia attenuata per detenute madri ). Anche a Roma ne è stato allestito uno che non è però funzionante, proprio perché la strada fino ad oggi intrapresa è stata quella dei domiciliari in casa protetta. Vi è stata molta attesa in questo periodo per l’approvazione della legge presentata dall’on. le Paolo Siani nella scorsa legislatura che prevedeva il divieto per legge del carcere per le mamme con bambini piccoli. La legge passata al Senato nella scorsa legislatura, non ha visto la luce alla Camera ed è stata ripresentata in questa nuova legislatura. È notizia di questi giorni che tale proposta è stata ritirata in quanto non si è trovato accordo fra i gruppi parlamentari. Rimangono quindi 24 bambini in carcere (in tutta Italia) ed anche se si tratta di un numero esiguo, rappresentano un vulnus per la nostra democrazia.
4) La gestione del disagio psichico nell’universo penitenziario. Come l’amministrazione penitenziaria si confronta con le peculiarità del percorso di un detenuto affetto e che incidenza ha avuto la soppressione degli O.P.G.?
La presenza in carcere di persone con problemi di salute mentale è in aumento continuo e questo crea problemi all’interno degli istituti penitenziari, sia per la gestione del quotidiano e sia per la carenza di cure che vengono offerte a queste persone. La gestione del servizio sanitario all’interno degli istituti penitenziari è da tempo di competenza delle Asl. Ma come sempre accade in questi casi, i servizi non sono uniformi in tutta Italia e si assiste spesso a carenza di personale specializzato ed a mancanza strutture di accoglienza specifiche sul territorio. Ritroviamo quindi nelle celle persone con forte disagio psichico (che in regime di detenzione è destinato ad aumentare) e molto spesso sono solo gli agenti della penitenziaria a dover gestire queste situazioni difficili durante tutta la giornata (e la notte). Sono in aumento gli atti di autolesionismo per non parlare del numero dei suicidi (lo scorso anno 84). Diminuisce il numero degli operatori presenti e molto spesso i bandi per il reclutamento di personale specializzato vanno deserti (soprattutto dopo la pandemia Covid). Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari sono stati chiusi (e questo è stato un bene). Al loro posto hanno visto la luce le Rems (Residenze per le Misure di Sicurezza) i cui posti sono stati ipotizzati tenendo conto dei pazienti di ogni regione presenti negli Opg al momento della loro chiusura. Il più delle volte i posti non risultano attualmente sufficienti per le persone che debbono scontare la misura di sicurezza e si crea quindi una lunga lista di attesa. La cosa ancor più grave è che alcune persone rimangono in carcere in attesa di trovare posto e sono “sine titulo”: la permanenza in carcere diventa illegale. Personalmente ho attivato, seguito e vinto due ricorsi alla Cedu (Corte Europea dei diritti dell’Uomo) per due ragazzi che erano in carcere in quanto il posto in Rems non si era trovato. L’Italia è stata già richiamata per queste inadempienze ed è necessario realizzare una maggiore sinergia fra Ministero della Giustizia e quello della Salute per cercare di affrontare questa questione così delicata
5) Nell’organizzazione degli istituti penitenziari da Lei seguiti ha avuto modo di verificare l’adozione di percorsi trattamentali che tutelino le individualità dei detenuti transessuali? Quali sono le criticità che ha incontrato e se e come l’ordinamento penitenziario ha apprestato garanzie di tutela?
La condizione delle persone transessuali e transgender in carcere necessita, a mio avviso, di una maggiore attenzione da parte delle autorità competenti. L’ordinamento penitenziario non ha mai considerato la peculiarità di queste persone e non a caso ci troviamo oggi ad avere sezioni transessuali all’interno degli istituti penitenziari maschili. Con tutto ciò che questa convivenza provoca all’interno del reparto. Ho faticato molto all’inizio del mio mandato per far garantire i diritti necessari per la loro condizione, a partire dalle cure ormonali che molti avevano già intrapreso all’esterno e che debbono continuare anche in regime detentivo; stessa difficoltà anche per favorire la sorveglianza dinamica che permette una maggiore mobilità all’interno della sezione ed il diritto allo studio ed al lavoro (anche quello interno). Fortunatamente a Rebibbia Nuovo Complesso, dove è situato il reparto per le persone transessuali, si è creta una condizione favorevole sia con la direzione (Dott.ssa Rosella Santoro) che con una ispettrice (Dott.ssa Cinzia Silvano) che hanno favorito tutte queste innovazioni e che hanno reso questo reparto più vivibile. E’ necessario però prevedere una formazione specifica per gli operatori (sia educatori che polizia penitenziaria) affinché ci sia maggiore conoscenza delle esigenze delle persone transessuali. Da quello che mi risulta dovrebbero essere istituite a breve dei padiglioni in alcune territori italiani per superare le attuali anomalie.
6) Il rispetto dei valori di libertà e di dignità nella “detenzione amministrativa dei migranti” e l’affidamento della gestione dei servizi a figure private. Qual è la sua esperienza?
I CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) sono un obbrobrio che deve essere “superato”. Nati con l’obiettivo di trattenere per poco tempo persone straniere sprovviste di documenti ed in attesa dell’iter di identificazione, sono diventati molto spesso luoghi di sofferenza e di violazione di diritti fondamentali. Oltre che per la precarietà delle strutture, luoghi fatiscenti e privi delle più elementari basi di accoglienza, sono diventati facili strumenti di arricchimenti per società private. Sono tantissimi gli scandali e le inchieste giudiziarie che hanno accompagnato il loro proliferare. Tante le denunce da parte di associazioni che si occupano di diritti umani. Nella mia funzione di Garante ho visitato più volte il CPR di Ponte Galeria ed ho sempre registrato criticità. Dai bagni senza porte per gli alloggi delle donne, alle zanzare che in estate invadono la zona, al cibo scadente, alla mancanza di qualsiasi attività di socializzazione. Gli ingressi dei volontari sono vietati, cosi come quelle della stampa. Solo nell’ultimo anno, e grazie all’impegno del Garante Nazionale Mauro Palma, è stato reso possibile l’accesso del Garante territoriale senza previa autorizzazione della Prefettura. E questi Centri costano molto allo Stato. Gli appalti sono gestiti dalle Prefetture e dai bilanci dell’ultima società che gestisce il cpr di Ponte Galeria si evince che sono diventati un ottimo business.
L’attuale gestore del cpr di Ponte Galeria è il gruppo ORS, società con sede a Zurigo e che gestisce strutture di accoglienza e trattenimento dei migranti in 4 paesi europei: Svizzera, Germania, Austria, Italia. Nel 2015 0RS è stato oggetto di un rapporto di Amnesty International che ha denunciato le condizioni inumane di accoglienza nei migranti nel centro austriaco di Traiiskirchen. Anche per la gestione del centro di Macomer e Monastir (Sardegna) sono state registrate molte criticità. L’appalto è stato affidato nel giugno del 2021 per un biennio alla somma di 7.201.998,38.[1]
Il gruppo ORS internazionale - che solo nel 2021 ha generato un fatturato di 97 milioni di euro - è stato acquistato il primo settembre 2022 da gruppo SERCO per 39 milioni. Il gruppo SERCO è una azienda britannica fondata nel 1929 nel regno unito. È specializzata nei trasporti privati, nel controllo del traffico, nell’aviazione, nei contratti delle armi militari e nucleari. [2]
Ecco perché mi sono chiesta e continuerò a farlo cosa c’entra tutto questo con l’accoglienza e l’accompagnamento dei migranti?
7) Un bilancio di questi 6 anni di esperienza quale Garante dei detenuti di Roma. Quale è stato il suo rapporto con la popolazione carceraria e cosa le rimane?
Una precisazione: la definizione esatta del mio ruolo è Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e ciò significa che oltre al carcere il Garante deve occuparsi di tutti i luoghi dove sono trattenute le persone e quindi anche le caserme dei carabinieri e polizia, istituti minorili di pena, detenzioni domiciliari, le Rsa (residenze sanitarie per anziani), gli Hotspot e simili. E’ evidente che il carcere rimane il luogo per eccellenza della limitazione della libertà personale ed infatti la maggior parte del mio impegno in questi anni è stato all’interno dei 5 istituti penitenziari romani. Rebibbia comprende infatti 4 istituti: femminile, reclusione, circondariale e terza casa (cioè a custodia attenuata). Vi è poi Regina Coeli che dovrebbe essere un circondariale. Dico dovrebbe perché invece attualmente il 50% circa della popolazione detenuta ha condanne definitive e non dovrebbe essere lì. A Roma vi è anche l’istituto minorile di Casal del Marmo ed il Cpr di Ponte Galeria. Ogni giorno quindi a Roma abbiamo circa 3500 persone ristrette negli istituti di pena ed altrettante che scontano la pena ai domiciliari e/o nelle misure alternative. Sono entrata ogni giorno negli istituti di pena, anche durante il difficile lungo periodo del Covid. Ho ricevuto tantissime richieste: per cure sanitarie non effettuate, per richiesta di documenti, liberazioni anticipate da parte della magistratura di sorveglianza, ricerca di alloggio per poter ottenere i domiciliari, ricerca di un lavoro per prepararsi al dopo carcere. Ho toccato di persona le difficoltà che vivono le persone detenute che non hanno contesti famigliari esterni di supporto e di quanto sia vitale la possibilità di un colloquio o di una telefonata. Ho incontrato tante persone povere, senza fissa dimora, stranieri arrivati in Italia sperando di migliorare la propria condizione di vita e finiti in giri di spaccio, tossicodipendenti che dovrebbero essere curati nelle comunità. Ho parlato con persone da tanti anni detenute (soprattutto nel reparto di Alta Sicurezza) entrati giovani e con la licenza elementare. Molti di loro si sono addirittura laureati in carcere – un detenuto ha conseguito 4 lauree- fanno teatro, dipingono. Sono uomini profondamente cambiati. Non sono più “il reato “per il quale hanno ricevuto lunghe e dure condanne. Ma sono lì e ci rimarranno ancora perché il legislatore non è ancora riuscito ad affrontare i limiti previsti dal regime ostativo. Ho conosciuto Magistrati di Sorveglianza attenti e scrupolosi, disponibili al confronto e che hanno sempre risposte alle istanze inviate. Ho conosciuto anche Magistrati distratti ed assenti. Ho parlato e mi sono confrontata con tanti agenti della polizia penitenziaria: il loro lavoro è difficile e la lunga permanenza in una istituzione totale incide anche per loro. Molto spesso si trovano ad affrontare situazioni complicate e pericolose ed avrebbero bisogno di maggiori supporti ed attenzione per svolgere un ruolo così delicato. Ho incontrato tanta umanità dolente e capito che il carcere così come è ora non funziona e che rischia di essere il tappeto sotto il quale nascondere quello che la società all’esterno non riesce a prevenire ed intercettare. Alla fine di questi sei anni ho rafforzato la convinzione che la nostra società abbia bisogno di più sociale e meno penale.
[1] Fonte; Rapporto CILD (coalizione italiana libertà e diritti civili): "Buchi neri: la detenzione senza reato nei Cpr -ottobre 2021”;
[2] Fonte: Sharecast.com (sito di quotazioni azionarie).
Sommario: 1. Premessa: sulla progressiva implementazione di uno statuto garantistico per il c.d. diritto amministrativo ‘punitivo’. - 2. Sanzioni amministrative ‘punitive’ e standard probatorio: il caso concreto. - 3. (Segue): Il tradizionale orientamento giurisprudenziale: il canone della ‘ragionevole probabilità’ o della c.d. ‘preponderanza delle evidenze’. - 4. (Segue): Presunzione d’innocenza e ‘dubbio ragionevole’: lo standard probatorio enunciato dal Consiglio di Stato. - 5. Brevi conclusioni: per un allineamento della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) al canone dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ nel sindacato sulle sanzioni amministrative ‘punitive’.
1. Premessa: sulla progressiva implementazione di uno statuto garantistico per il c.d. diritto amministrativo ‘punitivo’.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 3570 del 9 maggio 2022 – qui brevemente annotata – interviene su una questione di fondamentale importanza per lo statuto giuridico del c.d. diritto amministrativo ‘punitivo’[i], ossia lo standard probatorio richiesto per il sindacato giudiziale sulle sanzioni amministrative sostanzialmente penali ai sensi CEDU.
È noto il progressivo percorso di trasposizione dei principî e delle regole garantistiche propri della materia penale agli illeciti amministrativi qualificabili come ‘criminal offences’[ii] secondo i c.d. criteri ‘Engel’[iii]. A tale riguardo, sia sufficiente richiamare[iv] l’acquisita applicazione dei canoni di irretroattività[v] e di sufficiente precisione[vi] delle norme incriminatrici, di retroattività delle disposizioni sopravvenute più favorevoli al trasgressore (c.d. retroattività ‘in mitius’)[vii], di proporzionalità dei regimi sanzionatori[viii], di ‘ne bis in idem’[ix] e di protezione contro l’auto-incriminazione[x].
Nondimeno, in disparte all’invocazione e al rispetto delle suddette garanzie di civiltà giuridica, autorevole dottrina[xi] ha segnalato le gravi difficoltà che i soggetti destinatari di sanzioni amministrative punitive incontrano, sul versante dell’effettività della tutela, nel contestare giudizialmente detta tipologia di provvedimenti per vedere accolte le proprie ragioni (il pensiero corre, in particolar modo, alle sanzioni irrogate dalle autorità amministrative indipendenti nelle materie finanziaria o antitrust). L’argomento, di tutta evidenza, involge i profili dello standard probatorio utilizzabile, in prima battuta, dall’autorità amministrativa sanzionante, ma soprattutto dall’organo giurisdizionale nel successivo riesame (in conformità ai canoni della c.d. ‘full jurisdiction’[xii]) della fattispecie, onde verificare la sussistenza dei fatti costitutivi dell’illecito contestato e, di riflesso, la sussistenza della responsabilità.
La questione, sebbene di rilevanza centrale, non è stata sinora posta ampiamente al centro del dibattito dottrinale e giurisprudenziale[xiii]; ragione per cui, la sentenza in commento risulta significativa e meritevole della massima attenzione.
2. Sanzioni amministrative ‘punitive’ e standard probatorio: il caso concreto.
Al fine di meglio delineare la portata (innovativa) del principio espresso dal Consiglio di Stato è opportuno rassegnare, di seguito, alcuni limitati profili di fatto relativi al contenzioso trattato dal giudice amministrativo.
Segnatamente, la sentenza in commento interviene su una fattispecie di intesa segreta restrittiva (per oggetto) della concorrenza, in violazione dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), contestata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) nei confronti di una pluralità di operatori economici, i quali – asseritamente legati da dinamiche concertative – hanno partecipato a diversi lotti di una procedura di gara aperta per la stipula di una convenzione quadro finalizzata all’erogazione di servizi di c.d. ‘facility management’ presso uffici pubblici e immobili in uso a enti universitari e di ricerca.
Il procedimento, avviato su impulso dell’AGCM, si è concluso con l’accertamento dell’illecito antitrust sulla scorta di un quadro probatorio di matrice prevalentemente indiziaria, con conseguente irrogazione di severe (ai sensi CEDU) sanzioni amministrative pecuniarie.
Il provvedimento disposto dall’AGCM è stato, dunque, impugnato – avanti al competente giudice amministrativo – da tutte le parti interessate che hanno sollevato plurime censure di ordine sostanziale e procedurale. Alcuni ricorsi sono stati accolti dal T.a.r per il Lazio, sede di Roma, limitatamente al c.d. ‘quantum’[xiv]; altri, invece, [xv] con riguardo a vizi relativi al c.d. ‘an’, con conseguente annullamento in parte qua del provvedimento sanzionatorio.
Avverso le sentenze di prime cure, le parti soccombenti hanno proposto impugnazione (in via principale o incidentale) avanti al Consiglio di Stato, la cui Sesta Sezione – disposta la riunione degli appelli per ragioni di connessione oggettiva e parzialmente soggettiva – ha infine definito la controversia con la pronuncia in esame n. 3570 del 9 maggio 2022.
La complessità del caso di specie discende dall’esigenza di sindacare l’articolato compendio probatorio indiziario, su cui si fonda il provvedimento sanzionatorio contestato, al fine di verificare la fondatezza della pretesa punitiva, e dunque la sussistenza dell’illecito nei suoi profili fattuali e nella relativa configurabilità in senso giuridico. Del resto, la necessità di impostare il c.d. ‘enforcement’ degli illeciti anticoncorrenziali e di abuso di mercato su ragionamenti presuntivi trova giustificazione nel principio dell’effetto utile del diritto europeo, atteso che si tratta di fattispecie rispetto alle quali è estremamente difficoltoso rinvenire prove dirette o rappresentative[xvi].
Ragion per cui, il Consiglio di Stato ha giustamente rimarcato che «[…] la prova delle intese restrittive della concorrenza può essere sostenuta da un compendio probatorio di natura indiziaria, ovvero un complesso di prove esclusivamente indirette, purché queste possano essere significative al pari della prova rappresentativa (anche il processo penale consente il ricorso alla prova indiziaria ed ai principi fondati sull’esperienza)» (§ 8.2).
Sennonché, al di là dell’astratta ammissibilità di presunzioni e prove di matrice inferenziale, ciò che risulta invero di fondamentale importanza per l’asserito trasgressore è l’intensità dello standard probatorio richiesto all’autorità per giustificare la concreta irrogazione della sanzione amministrativa punitiva. Questa è, per l’appunto, la questione sulla quale si incentra il nucleo essenziale del ragionamento garantistico svolto dal Consiglio di Stato con la sentenza in commento, per la cui miglior comprensione occorre dare conto – in estrema sintesi – del consolidato indirizzo che emerge dall’analisi del formante giurisprudenziale.
3. (Segue): Il tradizionale orientamento giurisprudenziale: il canone della ‘ragionevole probabilità’ o della c.d. ‘preponderanza delle evidenze’.
In particolare, nella prassi giudiziaria (pressoché unanime) non si afferma espressamente, pur al cospetto di fattispecie sanzionatorie punitive ai sensi CEDU, che il sindacato delle corti amministrative od ordinarie debba svolgersi in conformità all’elevato standard penalistico del c.d. ‘oltre ogni ragionevole dubbio’[xvii].
Pur in difetto di enunciazioni esplicite, salvo talune limitate eccezioni[xviii], la dinamica giudiziale risulta fattualmente assestata sul (meno intenso) paradigma probatorio della ‘ragionevole probabilità’ ovvero della c.d. preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che non’ (sebbene in un senso a-tecnico, poiché l’anzidetta formula si riferisce propriamente al nesso di causalità in materia risarcitoria)[xix]. In altri termini, i provvedimenti sanzionatori vengono giudicati legittimi laddove il corredo probatorio portato dall’amministrazione, cui compete il relativo onere sostanziale[xx], sia connotato da un grado di probabilità prevalente o, comunque, superiore rispetto alle ricostruzioni alternative addotte dall’asserito trasgressore.
Si è consapevoli che quanto sommariamente evidenziato palesi la difficoltà di sintetizzare, entro schemi concettuali ‘rigidi’, modelli di ragionamento che – per loro natura – sono destinati a essere applicati, caso per caso, a fattispecie assai diversificate sul piano empirico-fattuale. Nondimeno, è possibile ritenere che il segnalato coefficiente probabilistico esprima comunque uno standard inferiore[xxi] al livello di certezza richiesto per le sanzioni ‘formalmente’ penali, ove – com’è noto – la sussistenza di un ‘ragionevole dubbio’ è di per sé idonea a incrinare la coerenza dell’impianto accusatorio.
Con larga frequenza, infatti, si rinviene la massima[xxii] secondo cui l’esistenza del fatto ‘ignoto’, ricavabile per effetto del processo logico sotteso alla prova presuntiva, debba risultare quale conseguenza naturalisticamente accettabile del fatto ‘noto’ secondo canoni di ‘ragionevole probabilità’: il che non significa pretendere un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva tra i due termini del ragionamento inferenziale, bensì una conclusione di prevalente attendibilità rispetto alle ipotesi ricostruttive alternative.
Ne discende, pertanto, una significativa difficoltà probatoria per il soggetto sanzionato, il quale potrà confutare il compendio probatorio fornito dall’autorità amministrativa soltanto convincendo il giudicante che l’allegata (e corroborata) spiegazione alternativa dei fatti superi – in termini di coefficiente probabilistico e logico – la tesi sulla quale si fonda la pretesa punitiva.
In via di estrema sintesi, si potrebbe definire il suddetto schema nei termini di un processo di falsificazione (richiamando, in un’accezione forse impropria, il lessico ‘popperiano’[xxiii]) che finisce per tradursi, nella concreta dinamica processuale, in un’inversione ‘mascherata’ dell’onere della prova sostanziale (anche se nella forma della prova contraria[xxiv]).
Ed è proprio su questi aspetti che interviene la pronuncia in commento.
4. (Segue): Presunzione d’innocenza e ‘dubbio ragionevole’: lo standard probatorio enunciato dal Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato, prima di svolgere lo scrutinio sugli indici fattuali del caso concreto, ha cura di illustrare le coordinate teorico-giuridiche relative allo standard probatorio da osservare nel sindacato giudiziale sulle sanzioni amministrative ‘punitive’.
Il ragionamento muove, anzitutto, dalla pacifica constatazione della natura ‘penale’ (ai sensi CEDU) delle sanzioni amministrative comminate dall’Autorità antitrust[xxv]: il che è indubbio in ragione delle «[…] finalità repressive e preventive perseguite e del fatto che l’accertamento di antitrust infringement determina, oltre all’irrogazione di pesanti sanzioni amministrative pecuniarie e alla condanna al risarcimento del danno eventualmente cagionato, anche un significativo danno reputazionale» (§ 8.1.).
Trattandosi di sanzioni sostanzialmente penali, si impone – in via generale – l’applicazione del fondamentale principio garantistico di presunzione d’innocenza (rectius: di non colpevolezza), come peraltro sancito dalla giurisprudenza europea[xxvi] sulla scorta dell’art. 48, § 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata») nonché dell’art. 6, § 2, della CEDU («Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata»)[xxvii].
Ai nostri fini, il passaggio logico successivo è di fondamentale importanza.
Se si ammette che le procedure (amministrative o giurisdizionali) aventi a oggetto fattispecie sanzionatorie ‘punitive’ debbano rispettare il principio di presunzione di innocenza[xxviii], è altrettanto necessario – quale corollario applicativo – che esse siano assoggettate al rigoroso standard probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio: di talché, «[…] qualora sussista un dubbio nella mente del giudice, esso deve andare a beneficio dell’impresa destinataria della decisione che constata un’infrazione»[xxix] (§ 8.1.).
Per l’effetto, l’organo giudiziale è tenuto a caducare il provvedimento sanzionatorio qualora l’‘accusato’ sia in grado di fornire in giudizio una ‘plausibile’ spiegazione alternativa dei fatti accertati dall’autorità amministrativa[xxx], essendo allo scopo sufficiente che il dubbio trasferito al giudicante sia ‘ragionevole’[xxxi], ossia correlato a dati empirici riscontrabili e di rilievo non meramente ipotetico o congetturale.
Con riferimento agli illeciti anticoncorrenziali, la suddetta conclusione si correla alla specifica disciplina sull’onere della prova posta dall’art. 2 del Regolamento (CE) n. 1/2003[xxxii], ove si dispone che «[i]n tutti i procedimenti nazionali o comunitari relativi all’applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato, l’onere della prova di un’infrazione dell’articolo 81, paragrafo 1, o dell’articolo 82 del trattato incombe alla parte o all’autorità che asserisce tale infrazione» (oggi artt. 101 e 102 TFUE).
Sennonché, fermo restando lo standard probatorio sopra richiamato, il Consiglio di Stato rileva che il medesimo regolamento – in altra sua parte[xxxiii] – sembra invece rimettere ai giudici domestici l’individuazione del ‘grado di intensità della prova’ richiesto per i procedimenti nazionali, beninteso in compatibilità con i principî generali del diritto euro-unitario.
Dal momento che il principio di presunzione di innocenza non osta – di per sé – all’utilizzo di prove presuntive, ai fini del giudizio di responsabilità in materia sostanzialmente penale è importante precisare il rilievo assunto dal canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio rispetto al procedimento logico-giuridico di matrice inferenziale.
Il Consiglio di Stato, allo scopo, analizza la struttura del ragionamento indiziario ricorrendo a uno schema concettuale ‘bifasico’. Segnatamente, si afferma che il giudicante deve, innanzitutto, apprezzare la ‘valenza qualitativa’ del singolo indizio, vale a dire «[…] la forza di necessità logica con la quale esso è in grado di dimostrare il fatto rilevante, al fine di eliminare gli elementi che appaiono semplici illazioni o supposizioni arbitrarie» (§ 8.5.); per poi, in secondo luogo, svolgere un esame globale degli indizi risultanti dal segnalato ‘filtro’ logico-giuridico onde accertare, valendosi dei canoni di gravità, precisione e concordanza ex art. 2729 c.c., se «[…] gli stessi, una volta integrati gli uni con gli altri, siano in grado di dissolvere la loro intrinseca ambiguità» (§ 8.5.).
All’esito della suddetta attività conoscitiva, da implementare nel rispetto del contraddittorio processuale, il giudice dovrà applicare al caso concreto il richiamato canone probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio: l’ipotesi ‘accusatoria’ potrà ritenersi conforme allo standard della ‘certezza processuale’ solo se «[…] essa risulti l’unica in grado di giustificare i vari elementi probatori raccolti, ovvero la più attendibile rispetto alle altre ipotesi alternative, pure astrattamente prospettabili, ma la cui realizzazione storica, in quanto priva di riscontri significativi nelle emergenze istruttorie, appaia soltanto una eventualità remota» (§ 8.5.).
Ciò premesso, si ha cura di rimarcare che l’intensità del sindacato giudiziale in materia di sanzioni amministrative punitive non tollera limitazioni (nemmeno) al cospetto dei concetti giuridici indeterminati eventualmente presenti nella fattispecie incriminatrice di fonte legale. In questi casi, infatti, non è conferente il tradizionale modello di controllo giudiziale sull’esercizio della c.d. discrezionalità tecnica, nell’impostazione tipica dei processi di natura meramente impugnatoria aventi a oggetto provvedimenti amministrativi non sanzionatori[xxxiv], stante la rilevanza interpretativa dell’attività di accertamento dell’illecito soggetta a un sindacato giurisdizionale ‘parametrico’ e non ‘funzionale’[xxxv].
In altri termini, nella materia in esame, il giudicante – in coerenza con i connotati strutturali del giudizio sul c.d. ‘rapporto’[xxxvi] – non può confinare il proprio scrutinio a una (invero più deferente) verifica di mera ‘ragionevolezza tecnica’ della soluzione adottata dal provvedimento impugnato[xxxvii], nell’ambito della più ampia gamma di plausibili opzioni decisorie per lo specifico ‘problema amministrativo’. Invero, «[…] la sussunzione delle circostanze di fatto nel perimetro di estensione logica e semantica dei concetti giuridici indeterminati (ad esempio, quella del “mercato rilevante”) è una attività intellettiva ricompresa nell’interpretazione dei presupposti della fattispecie normativa» (§ 8.5.).
Ragione per cui, il sindacato sulle fattispecie sanzionatorie sostanzialmente penali deve necessariamente procedere attraverso una piena e diretta verifica, in conformità ai canoni della c.d. ‘full jurisdiction’, «[…] della quaestio facti sotto il profilo della sua intrinseca verità, per quanto, in senso epistemologico, controvertibile» (§ 8.5.)[xxxviii].
5. Brevi conclusioni: per un allineamento della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) al canone dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ nel sindacato sulle sanzioni amministrative ‘punitive’.
Sulla scorta di quanto premesso, la sentenza annotata è di indubbia importanza.
Il Consiglio di Stato, infatti, riconoscendo l’applicabilità dello standard probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio nel sindacato giudiziale sulle sanzioni amministrative punitive, aggiunge un ulteriore e rilevante ‘tassello garantistico’ allo statuto giuridico dei provvedimenti sostanzialmente penali ai sensi CEDU.
Si auspica, pertanto, che tale precedente assurga a ‘leading case’ non restando isolato nella futura prassi giurisprudenziale del giudice amministrativo, ma soprattutto di quello ordinario quando è chiamato a pronunciarsi sulle opposizioni a sanzione amministrativa (si pensi, a titolo di esempio, alle importanti potestà ‘punitive’ di competenza della Banca d’Italia e della Consob).
Invero, non sarebbe accettabile una marcata disarmonia tra le due giurisdizioni rispetto a garanzie che attengono al ‘core’ dell’effettività della tutela giurisdizionale. Sicché, fondamentali esigenze di eguaglianza e di unità della giurisdizione (nell’accezione ‘funzionale’ del termine[xxxix]) imporranno un allineamento al canone probatorio del c.d. ‘in dubio pro reo’[xl], evitando così che l’asserito trasgressore (beneficiario, sino a prova contraria, della presunzione di non colpevolezza) non subisca un’inaccettabile contrazione della tutela a seconda del plesso giurisdizionale ove, secondo criteri di riparto sovente espressione di contingenti esigenze di politica del diritto, sia radicata la singola controversia.
[i] Sulla definizione di sanzione amministrativa ‘punitiva’ cfr., per tutti, D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, in Riv. reg. merc., 2022, I, p. 47, ove si ricorre a tale espressione per identificare «[…] le misure afflittive che, per quanto applicate da organi di natura amministrativa e non giurisdizionale, sono attratte, per impulso degli impegni assunti a livello internazionale, nell’alveo protettivo delle principali garanzie riconosciute in ‘materia penale’, al di là della loro formale qualificazione giuridica».
[ii] Sull’autonomia della nozione di ‘materia penale’ nella CEDU cfr. G. Ubertis, L’autonomia linguistica della Corte di Strasburgo, in Arch. Pen., 2012, I, p. 21 e ss.
[iii] Cfr. Corte Edu, 8 giugno 1976 (‘Engel e altri c. Paesi Bassi’), § 82, ove si rinviene la formulazione dei tre criteri alternativi per la qualificazione di una sanzione amministrativa o disciplinare in senso ‘penale’ ai fini CEDU: la classificazione giuridica effettuata dall’ordinamento nazionale, la natura dell’infrazione e il grado di severità della sanzione («[…] it is first necessary to know whether the provision(s) defining the offence charged belong, according to the legal system of the respondent State, to criminal law, disciplinary law or both concurrently. This however provides no more than a starting point. The indications so afforded have only a formal and relative value and must be examined in the light of the common denominator of the respective legislation of the various Contracting States. The very nature of the offence is a factor of greater import. […] However, supervision by the Court does not stop there. Such supervision would generally prove to be illusory if it did not also take into consideration the degree of severity of the penalty that the person concerned risks incurring. In a society subscribing to the rule of law, there belong to the ‘criminal’ sphere deprivations of liberty liable to be imposed as a punishment, except those which by their nature, duration or manner of execution cannot be appreciably detrimental»). Si v., anche, quanto affermato dalla successiva (e fondamentale) decisione della Corte Edu, 21 febbraio 1984 (‘Öztürk c. Germania’), in Riv. it. dir. proc. pen., 1985, III, p. 894 e ss. (con nota di C. Paliero), § 49, ove si chiarisce che «[…] se gli Stati contraenti potessero, a loro piacimento, qualificare ‘amministrativo’ piuttosto che penale un illecito, l’effetto delle norme fondamentali degli artt. 6 e 7 sarebbe subordinato alla loro volontà sovrana. Una così ampia libertà rischierebbe di condurre a risultati incompatibili con l’oggetto e lo scopo della Convenzione».
[iv] Per ogni approfondimento si rinvia, per tutti, a D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, cit., p. 47 e ss.; F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, IV, p. 1775 e ss.; e F. GOISIS, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2018.
[v] Cfr., per tutte, Corte cost. 4 giugno 2010, n. 196, in Cass. pen., 2011, II, p. 528 e ss., ove si afferma che «[d]alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Principio questo, del resto, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale - data l’ampiezza della sua formulazione (‘Nessuno può essere punito...’) - può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile - in senso stretto - a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato»; Id., 18 aprile 2014, n. 104, in Cass. pen., 2015, V, p. 1825 e ss.; Id., 7 aprile 2017, n. 68, in Giur. Cost., 2017, II, p. 681 e ss.; e Id., 5 dicembre 2018, n. 223, in Giur. Cost., 2018, VI, p. 2575 e ss.
[vi] Cfr., per tutte, Corte cost. 13 giugno 2018, n. 121, in Giur. Cost., 2018, III, p. 1359 e ss., ove si afferma che «[…] il principio di legalità, prevedibilità e accessibilità della condotta sanzionabile e della sanzione aventi carattere punitivo-afflittivo, qualunque sia il nomen ad essa attribuito dall’ordinamento, del resto, non può, ormai, non considerarsi patrimonio derivato non soltanto dai principi costituzionali, ma anche da quelli del diritto convenzionale e sovranazionale europeo, in base ai quali è illegittimo sanzionare comportamenti posti in essere da soggetti che non siano stati messi in condizione di ‘conoscere’, in tutte le sue dimensioni tipizzate, la illiceità della condotta omissiva o commissiva concretamente realizzata»; e Id., 29 maggio 2019, n. 134, in Foro it., 2019, VII-VIII, p. 2217 e ss., ove si rimarca che le leggi «[…] che stabiliscono sanzioni amministrative debbono garantire ai propri destinatari […] la conoscibilità del precetto e la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie: requisiti questi ultimi che condizionano la legittimità costituzionale di tali leggi regionali, al cospetto del diverso principio di determinatezza delle norme sanzionatorie aventi carattere punitivo-afflittivo, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost.».
[vii] Cfr., ex multis, Corte cost. 21 marzo 2019, n. 63, in Giur. Cost., 2019, II, p. 819 e ss., ove si afferma che rispetto «[…] a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità ‘punitiva’, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della ‘materia penale’ - ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior […] - non potrà che estendersi anche a tali sanzioni. […] L’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione ‘punitiva’ è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura ‘punitiva’, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento». A siffatte conclusioni è possibile derogare unicamente nei casi in cui «[…] sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo ‘vaglio positivo di ragionevolezza’, al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale».
[viii] Cfr., per tutte, Corte cost. 10 maggio 2019, n. 112, in Giur. Cost., 2019, III, p. 1364 e ss., ove si rimarca che «[…] non può dubitarsi che il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito sia applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative».
[ix] Cfr., nella giurisprudenza convenzionale, Corte Edu, 4 marzo 2014 (‘Grande Stevens e a. c. Italia’), in Giur. Cost., 2014, III, p. 2919 e ss.; e, con un parziale revirement, Id., Grande Chambre, 15 novembre 2016 (‘A e B c. Norvegia’), in Cass. Pen., 2017, III, p. 1227 e ss., ove – com’è noto – si rimette al giudicante la valutazione in ordine al ‘coordinamento’ (temporale e nell’oggetto) tra i due procedimenti nonché la proporzionalità della complessiva risposta sanzionatoria nei casi in cui operi il ‘cumulo’.
[x] Il riferimento è al diritto al silenzio dell’incolpato (‘nemo tenetur se detegere’), riconosciuto – con riguardo alle sanzioni amministrative punitive – da Corte cost. 30 aprile 2021, n. 84, in Giur. Cost., 2021, II, p. 1028 e ss. Sia consentito rinviare, per un commento alla pronuncia cit., a M. Allena - S. Vaccari, Diritto al silenzio e autorità di vigilanza dei mercati finanziari, in Riv. Dir. Banc., 2022, III, p. 689 e ss.
[xi] Cfr. M. Clarich, Quando i poteri delle autorità di Vigilanza possono anche sconfinare nell’arbitrio, in Milano-Finanza, 16 febbraio 2022, ove si rileva che «[…] al di là delle garanzie di difesa nei procedimenti sanzionatori, un altro versante critico è quello della tutela giurisdizionale a valle della sanzione o di altri provvedimenti repressivi». Invero, «[l]e statistiche, in particolare nei procedimenti della Consob e della Banca d’Italia, dimostrano che quasi mai le parti private riescono a far annullare nel merito i provvedimenti sanzionatori. I giudici tendono infatti a confermare le valutazioni delle autorità e le conclusioni raggiunte specie là dove si tratta di casi ad alta complessità tecnica».
[xii] Cfr., per la chiarezza, Cons. Stato, sez. VI, 26 marzo 2015, n. 1595, in Foro amm., 2015, III, p. 763 e ss.: «[i]l sindacato di full jurisdiction implica, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, il potere del giudice di sindacare la fondatezza, l’esattezza e la correttezza delle scelte amministrative così realizzando, di fatto, un continuum tra procedimento amministrativo e procedimento giurisdizionale. La piena giurisdizione implica il potere del giudice di condurre un’analisi “point by point” su tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti ai fini dell’applicazione della sanzione, senza ritenersi vincolato all’accertamento compiuto dagli organi amministrativi e anzi dovendo sostituire la sua valutazione a quella, contestata, dell’amministrazione. In altre parole, quando le garanzie del giusto processo non siano assicurate in sede procedimentale, esse devono essere necessariamente soddisfatte in sede processuale ove il giudice, per supplire alla carenza di garanzie del contraddittorio, di indipendenza del decisore, di parità delle parti, deve agire come se riesercitasse il potere, senza alcun limite alla piena cognizione dei fatti e degli interessi in gioco». Sul tema cfr., in dottrina, M. Allena, La full jurisdiction tra sindacato di “maggiore attendibilità” del giudice amministrativo e mito della separazione dei poteri, in A. Carbone (a cura di), L’applicazione dell’art. 6 CEDU nel processo amministrativo dei paesi europei, Napoli, 2020, p. 23 e ss.
[xiii] Si v., per tutti, S.L. Vitale, Le sanzioni amministrative tra diritto nazionale e diritto europeo, Torino, 2018, p. 27, ove si è, innanzitutto, evidenziato che «[…] una rilevante differenza tra processo volto alla irrogazione della sanzione penale e procedimento volto alla irrogazione della sanzione amministrativa risiede nello standard probatorio applicabile». Com’è noto, infatti, mentre «[…] nel processo penale, in considerazione della rilevanza degli interessi in gioco, può giungersi ad una sentenza di condanna solo ove la colpevolezza per il reato sia accertata ‘oltre il ragionevole dubbio’, per il processo civile e amministrativo, così come a fortiori per il procedimento amministrativo, è richiesto un minore standard probatorio, compendiato nella formula del ‘più probabile che non’. Di conseguenza, deve ritenersi che anche nei procedimenti di irrogazione delle sanzioni amministrative dovrà applicarsi tale ultimo standard probatorio». Preso atto di ciò, l’A. ha dovuto constatare che «[l]a questione non è stata messa pienamente in luce dalla dottrina che ha studiato la sanzione amministrativa, ma a nostro avviso assume oggi rilevanza nell’analisi degli aspetti differenziali che intercorrono tra questa e la sanzione penale».
[xiv] Il riferimento è alle sentenze T.a.r Lazio, Roma, sez. I, Id., 27 luglio 2020, n. 8769; Id. 27 luglio 2020, n. 8774; Id., 27 luglio 2020, n. 8775; Id., 27 luglio 2020, n. 8776; Id., 27 luglio 2020, n. 8777; Id., 27 luglio 2020, n. 8778; Id., 27 luglio 2020, n. 8779.
[xv] Cfr. T.a.r Lazio, Roma, sez. I, 27 luglio 2020, n. 8765; Id., 27 luglio 2020, n. 8767; Id., 27 luglio 2020, n. 8768.
[xvi] Cfr., nella giurisprudenza europea in materia di illeciti anticoncorrenziali, CGUE 7 gennaio 2004, in C-204/00 P, C-205/00 P, C-211/00 P, C-213/00 P, C-217/00 P e C-219/00 P (‘Aalborg Portland A/S e a. c. Commissione delle Comunità europee’), § 55 e ss., ove si chiarisce che «[p]oiché sono noti tanto il divieto di partecipare a pratiche e accordi anticoncorrenziali quanto le sanzioni che possono essere irrogate ai contravventori, di norma le attività derivanti da tali pratiche ed accordi si svolgono in modo clandestino, le riunioni sono segrete, spesso in un paese terzo, e la documentazione ad esse relativa è ridotta al minimo. Anche se la Commissione scoprisse documenti attestanti in modo esplicito un contatto illegittimo tra operatori, come i resoconti di una riunione, questi ultimi sarebbero di regola solo frammentari e sporadici, di modo che si rivela spesso necessario ricostituire taluni dettagli per via di deduzioni. Nella maggior parte dei casi, l’esistenza di una pratica o di un accordo anticoncorrenziale dev’essere dedotta da un certo numero di coincidenze e di indizi i quali, considerati nel loro insieme, possono rappresentare, in mancanza di un’altra spiegazione coerente, la prova di una violazione delle regole sulla concorrenza». Analogamente, cfr. CGUE 1° luglio 2010, in C-407/08 P (‘Knauf Gips KG c. Commissione europea’), § 49. In materia di sanzioni per violazione delle disposizioni sull’intermediazione finanziaria si v. Cass. civ., Sez. Un., 30 settembre 2009, n. 20930, in Foro it., 2010, XI, p. 3129 e ss., ove la Corte «[s]ulla generale premessa per cui la responsabilità va provata dall’amministrazione» e «[…] dopo avere ribadito il pieno rispetto del principio dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in capo all’ente sanzionante» ritiene ammissibile la possibilità di «[…] ricorrere con ampiezza a presunzioni idonee in ordine alla prova, da parte dell’amministrazione, dell’elemento oggettivo della condotta».
[xvii] Cfr. l’art. 533, co. 1, c.p.p. ove, nella versione vigente (che segue alle modifiche apportate dall’art. 5, co. 1, della l. 20 febbraio 2006, n. 46), si dispone che «[i]l giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». Sullo standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio restano fondamentali, in giurisprudenza, i precedenti Cass. pen., Sez. Un., 30 ottobre 2003, n. 45276 (‘Andreotti’), in Cass. pen., 2004, III, p. 811 e ss.; Id., 10 luglio 2002, n. 30328 (‘Franzese’), in Foro it. 2002, II, p. 601 e ss.; Id., 21 aprile 1995, n. 11 (‘Costantino’), in Giust. pen., 1996, III, p. 321 e ss. Sul piano comparato, anche in chiave storica, cfr. il § 1096 del ‘Penal Code of California’, ove si rinviene la seguente (chiara) definizione di ‘ragionevole dubbio’ (rispetto al quale si v. l’altrettanto noto precedente ‘People of the State of California v. Orenthal James Simpson’, richiamato da Corte d’Assise di Milano 18 aprile 2005): «[a] defendant in a criminal action is presumed to be innocent until the contrary is proved, and in case of a reasonable doubt whether his or her guilt is satisfactorily shown, he or she is entitled to an acquittal, but the effect of this presumption is only to place upon the state the burden of proving him or her guilty beyond a reasonable doubt. Reasonable doubt is defined as follows: ‘It is not a mere possible doubt; because everything relating to human affairs is open to some possible or imaginary doubt. It is that state of the case, which, after the entire comparison and consideration of all the evidence, leaves the minds of jurors in that condition that they cannot say they feel an abiding conviction of the truth of the charge’». Per ogni approfondimento sullo standard in esame, cfr. in dottrina, oltre all’importante ricostruzione (anche sul piano culturale) offerta da F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2003, p. 116 e ss., quantomeno G. Canzio - M. Taruffo - G. Ubertis, Fatto, prova e verità (alla luce del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio), in Criminalia, 2009, p. 305 e ss.; F. Caprioli, L’accertamento della responsabilità penale ‘oltre ogni ragionevole dubbio’, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, I, p. 51 e ss.; M. Pisani, Riflessioni sul tema del ‘ragionevole dubbio’, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, IV, p. 1243 e ss.; F. D’Alessandro, L’oltre ogni ragionevole dubbio sulla valutazione della prova indiziaria, in Cass. pen., 2005, III, p. 764 e ss.; M.C. Galavotti - F. Stella, ‘Oltre il ragionevole dubbio’ come standard probatorio. Le infondate divagazioni dell’epistemologo Laudan, in Riv. it. dir proc. pen., 2005, III, p. 883 e ss.; G. Canzio, L’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ come regola probatoria e di giudizio del processo penale, in Riv. it. dir proc. pen., 2004, I, p. 303 e ss.; C. Piemontese, Il principio dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ tra accertamento processuale e ricostruzione dei presupposti della responsabilità penale, in Dir. pen. proc., 2004, VI, p. 757 e ss.
[xviii] Si v., per tutte, T.a.r. Lazio, Roma, sez. I, 8 marzo 2019, n. 3099, in Giustizia-amministrativa.it, ove – con riferimento alle sanzioni irrogate dall’AGCM in materia di tutela del consumatore (rilevanti, secondo un significativo orientamento, in senso penale ai sensi CEDU - cfr., in particolare, Cons. Stato, sez. VI, 11 novembre 2019, n. 7699, in Giustizia-amministrativa.it) – si afferma che «[…] l’adozione di un provvedimento sanzionatorio per pratica commerciale scorretta nei confronti di un professionista deve comunque basarsi su un sostrato probatorio sufficiente a far ritenere, secondo il criterio del più probabile che non, che effettivamente il comportamento abbia avuto una, quantomeno apprezzabile, potenzialità lesiva».
[xix] Cfr., per l’impostazione generale, Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 582, in Foro amm. CdS, 2008, I, p. 93 e ss., ove si afferma che «[…] ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova ‘oltre il ragionevole dubbio’ (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o ‘del più probabile che non’, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standards delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale […]. Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se “appaia sufficientemente probabile” che l’intesa tra compagnie assicurative possa avere un’influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che “occorre postulare le varie concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili”)». La Corte di Cassazione ha cura di precisare che «[d]etto standard di ‘certezza probabilistica’ in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni)».
[xx] Si pensi, con riguardo alle sanzioni amministrative ‘depenalizzate’, all’art. 6, co. 11, del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, ove si dispone che «[i]l giudice accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente».
[xxi] In termini generali, sebbene con riferimento allo standard probatorio in materia di interdittive antimafia, cfr. Cons. Stato, sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483, in Giustizia-amministrativa.it, ove – dopo lo svolgimento di talune premesse in ordine alla natura ‘abduttiva’ del ragionamento giudiziario – si afferma che «[è] nell’area del ragionevole dubbio che si colloca il criterio del ‘più probabile che non’: ciò che lo connota non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’evidence and inference».
[xxii] Cfr. Cass. civ., sez. III, 13 marzo 2014, n. 5787, in Foro it., 2014, XII, p. 3568 e ss., ove – riflettendo in termini generali sulle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. – si sostiene che «[l]a prova logica, qual è appunto quella presuntiva, presuppone invece non la certezza, ma la mera probabilità d’un legame logico-causale tra fatto noto e fatto ignorato». Secondo la Corte di Cassazione, infatti, esiste «[…] una inferenza presuntiva tra fatto noto e fatto ignorato quando il secondo sia probabilmente la conseguenza più attendibile del primo». In questo senso cfr. Cass. civ., sez. III, 13 ottobre 1962, n. 2971, ove già si precisava che una prova presuntiva deve ritenersi convincente quando da più indizi possa trarsi una ‘armonica spiegazione’, anche se alcuni di essi siano passibili di diversa interpretazione. Si v., anche, Cass. civ., sez. II, 10 agosto 2007, n. 17615, ove l’affermazione per cui «[i]n tema di sanzione amministrativa […] l’onere di provare tutti gli elementi oggettivi e soggettivi dell’illecito amministrativo sanzionato con l’ordinanza ingiunzione opposta, grava sull’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato, escluso il ricorso a presunzioni legali che non possono ritenersi stabilite a favore della stessa autorità se non quando i fatti sui quali esse si fondano siano tali far apparire l’esistenza del fatto ignoto come la conseguenza del fatto noto, alla stregua di canoni di ragionevole probabilità sempreché il giudizio su tale connessione sia motivato adeguatamente in relazione ai suddetti canoni». In materia di illeciti anticoncorrenziali, cfr. T.a.r. Lazio, Roma, sez. I, 14 novembre 2018, n. 10997, in Foro amm., 2018, XI, p. 2004 e ss., ove si afferma che «[…] il giudice amministrativo, nella materia in esame, è chiamato comunque ad operare un sindacato estrinseco sulla correttezza logica dell’operato dell’Autorità, al fine di verificare l’‘iter’ ricostruttivo da questa seguito nell’analisi della norma e della sua applicabilità ai fatti concreti […], accertando, in sostanza, se la ‘possibilità’ di pregiudizio alla concorrenza su un dato mercato, a scongiurare la quale la legislazione in materia è volta, si sia tradotta o meno, nell’attuazione pratica posta in essere dagli operatori economici, in una situazione di apprezzabile ‘probabilità’ di lesione, valutando il potenziale impatto negativo delle relative condotte sulla concorrenza, con riguardo al contesto giuridico ed economico»; nonché Id., 2 dicembre 2014, n. 12168, in Foro it. 2015, I, p. 29 e ss., ove si conclude nel senso che l’autorità amministrativa «[…] ha dunque svolto una adeguata istruttoria, e ciò ha condotto al rinvenimento di numerosi ed univoci elementi indiziari circa la ragionevole sussistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza, […], è ciò rende non irragionevole, e quindi non sindacabile, la valutazione di rilevante gravità della condotta che l’Autorità ha adottato nella decisione impugnata».
[xxiii] Cfr. K. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica. I. Il realismo e lo scopo della scienza, I, Milano, 1984, p. 35: «[u]n’asserzione o teoria […] è falsificabile se e solo se esiste almeno un falsificatore potenziale, almeno un possibile asserto di base che entri logicamente in conflitto con essa».
[xxiv] Cfr., per tutte, Cass. civ., sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2363, nella parte in cui si rileva che «[s]e è vero […] che l’opposizione all’ordinanza irrogativa di una sanzione amministrativa introduce un ordinario giudizio di cognizione sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, cui spetta l’onere di dimostrarne gli elementi costitutivi, è altrettanto vero che detta autorità può avvalersi di presunzioni che trasferiscono a carico dell’intimato l’onere della prova contraria, purché i fatti sui quali essa si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza del fatto noto, alla stregua di canoni di ragionevole probabilità e secondo regole di esperienza». In senso analogo cfr. Cass. civ., sez. I, 16 marzo 2001, n. 3837, in Foro it. 2002, I, p. 1502 e ss.
[xxv] La suddetta affermazione è assolutamente consolidata nella giurisprudenza convenzionale. Cfr., per tutte, Corte Edu, 27 settembre 2011 (‘Menarini Diagnostics S.r.l. c. Italia’).
[xxvi] Cfr., in particolare, Trib. UE, sez. II amp., 10 novembre 2017, in T-180/15 (‘Icap plc c. Commissione europea’), § 256 s., ove si osserva che il principio di presunzione di innocenza «[…] costituisce un principio generale del diritto dell’Unione attualmente sancito dall’articolo 48, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali, il quale si applica alle procedure relative a violazioni delle norme sulla concorrenza applicabili alle imprese, che possono sfociare nella pronuncia di multe o ammende». Il principio richiamato, inoltre, «[…] implica che ogni persona accusata è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. Essa osta, quindi, a qualsiasi constatazione formale ed anche a qualsiasi allusione alla responsabilità della persona cui sia imputata una data infrazione in una decisione che pone fine all’azione, senza che la persona abbia potuto beneficiare di tutte le garanzie inerenti all’esercizio dei diritti della difesa nell’ambito di un procedimento che segua il suo corso normale e si concluda con una decisione sulla fondatezza dell’addebito». Cfr., anche, Corte Edu, 1° aprile 2007 (‘Geerings c. Paesi Bassi’), § 41 e ss.
[xxvii] Sul piano domestico è possibile riferirsi al principio di non colpevolezza di cui all’art. 27, co. II, Cost. («[l]’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»). Il principio in discorso è sancito anche dall’art. 11, § 1, della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, ove si afferma che «[o]gni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa».
[xxviii] Con riferimento agli illeciti in materia antitrust, è stata avanzata in dottrina (cfr. M. Cappai, Il delicato equilibrio tra full jurisdiction ed effettività del diritto antitrust nel sindacato dei provvedimenti dell’Agcm, in Dir. soc., 2018, IV, p. 746), la proposta ricostruttiva secondo cui l’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata dell’art. 15, co. 1, della l. 10 ottobre 1990, n. 287, impedirebbe «[…] all’Autorità di accertare e sanzionare l’illecito in presenza di valide ragioni addotte dall’accusato a difesa dei propri comportamenti». Secondo questa tesi, infatti, il principio di presunzione di innocenza, di cui all’art. 6, § 2, CEDU, dovrebbe valere quale parametro interposto idoneo a conformare la disposizione cit. della l. n. 287/1990, abilitando per l’effetto il giudice amministrativo a censurare – nella forma della violazione di legge – le decisioni dell’Autorità che non abbiano adeguatamente esaminato le difese ‘attendibili’ o ‘maggiormente attendibili’ addotte dall’asserito trasgressore in sede procedimentale. In altri termini, laddove «[…] simili prospettazioni difensive siano state tempestivamente e ritualmente dedotte in sede procedimentale e l’Autorità nel provvedimento finale abbia omesso di prendervi specificamente posizione oppure vi abbia semplicemente preferito, a parità di pregio, la propria (diversa) ricostruzione, tale carenza potrebbe ridondare anzitutto in una semplice violazione di legge ex art. 21-octies legge n. 241/1990 (se, appunto, l’art. 15, comma 1 legge n. 287/1990 fosse letto in combinato disposto con l’art. 6, § 2 CEDU)».
[xxix] La sentenza, a sua volta, riprende una massima espressa dal giudice europeo. Cfr. CGUE 22 novembre 2012, in C-89/11 P (‘E.ON Energie AG c. Commissione europea’), § 72, nella parte in cui si afferma che «[…] qualora sussista un dubbio nella mente del giudice, esso deve andare a beneficio dell’impresa destinataria della decisione che constata un’infrazione […]. Infatti, la presunzione di innocenza costituisce un principio generale del diritto dell’Unione, oggi sancito dall’articolo 48, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».
[xxx] Cfr., ancora, CGUE 22 novembre 2012 cit., § 74, ove si sostiene che «[…] il giudice dell’Unione sarà indotto ad annullare la decisione di cui trattasi qualora le imprese interessate adducano un’argomentazione che ponga in una luce diversa i fatti accertati dalla Commissione e che consenta quindi di sostituire una diversa spiegazione plausibile dei fatti a quella indicata dalla Commissione per concludere per la sussistenza di un’infrazione. Infatti, in un’ipotesi del genere, non si può considerare che la Commissione abbia fornito la prova della sussistenza di un’infrazione al diritto della concorrenza»; nonché, già in precedenza, CGUE 31 marzo 1993, in C-89/85, C-104/85, C-114/85, C-116/85, C-117/85 e da C-125/85 a C-129/85 (‘Ahlström Osakeyhtiö e a. c. Commissione delle Comunità europee’), § 126, ove si è annullata la decisione impugnata sulla base della constatazione per cui «[…] nella fattispecie, la spiegazione del parallelismo di comportamenti basata sulla concertazione non è l’unica plausibile»; e CGUE 28 marzo 1984, in C 29/83 e 30/83 (‘Compagnie royale asturienne des mines SA e Rheinzink Gmbh c. Commissione delle Comunità europee’), § 16, nella parte in cui si rileva che «[i]l ragionamento della Commissione è basato sull’ipotesi che i fatti accertati non possano essere spiegati se non con un’intesa fra le due imprese. Di fronte ad un assunto del genere, basta alle ricorrenti provare delle circostanze che pongano in una luce diversa i fatti accertati dalla Commissione e che consentano quindi di sostituire una diversa spiegazione dei fatti a quella indicata nel provvedimento impugnato».
[xxxi] Cfr. G. Canzio, Il dubbio e la legge, in Dir. pen. cont., 20 luglio 2018, p. 2, ove si rinviene la seguente definizione di ‘dubbio ragionevole’: «[…] non qualsiasi, possibile dubbio, astrattamente sempre configurabile, né il dubbio marginale, ma solo quello che, sorretto da oggettive evidenze probatorie, sia in grado di destrutturare l’apparente solidità dell’enunciato di accusa e, grazie all’opera maieutica del contraddittorio, immettere nel ragionamento giudiziale una plausibile spiegazione alternativa del fatto». Sui riflessi che lo standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio dispiega (in senso limitativo) sul principio del libero convincimento del giudice cfr. F. Stella, Giustizia e modernità, cit., p. 207, ove si chiarisce che «[l]a libertà del giudice è talmente vincolata che egli non può valutare le prove, la loro sufficienza o insufficienza, secondo un parametro purchessia, o, di nuovo, secondo il suo imperscrutabile giudizio; in particolare, non è libero di valutare le prove secondo il criterio della preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che no’: se le prove presentate dall’accusa sono ‘preponderanti’ ma lasciano aperti dei dubbi, egli dovrà prosciogliere. E dovrà farlo perché glielo impone la legge: nel processo penale non basta che l’accusa presenti evidences ‘preponderanti’, giacché il suo onere probatorio si modella sullo standard molto più stringente dell’‘oltre il ragionevole dubbio’».
[xxxii] Sull’applicazione di tale previsione si v., in particolare, CGUE 8 luglio 1999, in C49/92 P (‘Commissione delle comunità europee c. Anic Partecipazioni SpA’), § 86, ove si rimarca che «[i]n caso di controversia sulla sussistenza di un’infrazione alle regole di concorrenza, spetta alla Commissione fornire la prova delle infrazioni che essa constata e produrre gli elementi di prova idonei a dimostrare l’esistenza dei fatti che integrano l’infrazione […]. In quest’ambito spetta in particolare alla Commissione produrre tutti gli elementi che portino a concludere nel senso della partecipazione di un’impresa a una simile infrazione e della sua responsabilità per i diversi elementi che comporta».
[xxxiii] Cfr. il 5° considerando del Regolamento n. 1/2003 cit.: «[i]l presente regolamento non incide né sulle norme nazionali in materia di grado di intensità della prova né sugli obblighi delle autorità garanti della concorrenza e delle giurisdizioni nazionali degli Stati membri inerenti all’accertamento dei fatti pertinenti di un caso, purché dette norme e detti obblighi siano compatibili con i principi generali del diritto comunitario».
[xxxiv] Sullo sfondo vi è l’idea della differente declinazione della legalità ‘penalistica’ (nel senso CEDU) rispetto a quella amministrativa. Si v., a riguardo, D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, cit., p. 76, ove si rileva che «[…] le norme penali “definiscono” da sé i termini del conflitto tra le sfere giuridiche coinvolte; le norme amministrative “indirizzano” l’azione regolatrice degli apparati amministrativi, per fare in modo che gli stessi ‒ in quanto delegati dall’ordinamento a “comporre” la gerarchia degli interessi coinvolti ‒ operino in modo imparziale e coerente con l’indirizzo politico-amministrativo». Per queste ragioni, «[…] l’atto di accertamento dell’illecito amministrativo si configura, sul piano strutturale e funzionale, in termini diversi dalla nozione di “provvedimento”». Per la differente tesi, volta a sostenere la compatibilità tra la discrezionalità e la potestà sanzionatoria dell’amministrazione, con conseguente titolarità della posizione giuridica di interesse legittimo in capo al privato, cfr. S. Cimini, Il potere sanzionatorio delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 2017, p. 383 e ss., ma anche passim.
[xxxv] Cfr. D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, cit., p. 77.
[xxxvi] La formula ‘giudizio sul rapporto’ è qui utilizzata in funzione meramente descrittiva e non in chiave dogmatica. Cfr., in proposito, D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, cit., p. 80, ove giustamente si osserva che «[n]ei giudizi sulle sanzioni amministrative punitive, oggetto del processo è, dunque, sia l’atto, sia il fatto illecito»: di talché, il controllo giudiziale è incentrato (p. 81) «[…] sul fondamento della pretesa punitiva dell’autorità amministrativa, potendo l’incolpato contestare, non solo il modo con cui gli è stata applicata la sanzione, ma anche la stessa esistenza del “fatto”, nonché la concreta configurabilità giuridica della violazione».
[xxxvii] Cfr., in particolate, quanto affermato da Cass. civ., Sez. Un., 20 gennaio 2014, n. 1013, ove si afferma che – al cospetto di provvedimenti amministrativi – il giudice «[…] non può esercitare un controllo c.d. di tipo forte sulle valutazioni tecniche opinabili, che si tradurrebbe nell’esercizio da parte del suddetto giudice di un potere sostitutivo spinto a sovrapporre la propria valutazione a quella dell’amministrazione, fermo però restando che anche sulle valutazioni tecniche è esercitabile un controllo di ragionevolezza, logicità, coerenza». Cfr., tuttavia, quanto rilevato da G. Greco, L’illecito anticoncorrenziale, il sindacato del giudice amministrativo e i profili tecnici opinabili, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2021, III-IV, p. 487, ove si osserva che la prospettiva volta a limitare il sindacato del giudice amministrativo sui profili tecnici che caratterizzano – con larga frequenza – le fattispecie sanzionatorie si muove «[…] secondo la linea interpretativa che tende a stabilire il carattere illecito o lecito della condotta attraverso la legittimità o meno della decisione dell’Autorità (trasformando così un presupposto sostanziale in limite della discrezionalità)». Ad avviso dell’A. (p. 489), la condotta basata su una valutazione ‘possibile’, sebbene opinabile, deve essere considerata ‘lecita’ (o, quantomeno, non illecita). In termini generali, cfr. anche quanto autorevolmente osservato da F.G. Scoca, Giudice amministrativo ed esigenze del mercato, in Dir. amm., 2008, II, p. 257 e ss., ove – con riferimento ai provvedimenti delle autorità neutrali (e, in specie, dell’AGCM) – si è affermato che, trattandosi di atti che incidono su diritti soggettivi, si «[…] può pensare che il provvedimento amministrativo sia tale soltanto nella forma, ma non nella sostanza, e che, nel giudizio, venga ad emergenza non tanto l’atto (la legittimità dell’atto) quanto direttamente la situazione soggettiva, che ha natura, come si è detto, di diritto soggettivo» (p. 261). Di conseguenza, siccome «[…] non possono esservi scelte tecniche (tecnico-discrezionali) riservate all’Autorità, dato il carattere neutrale del suo potere, la natura decisoria dei suoi provvedimenti, e la loro incidenza su diritti soggettivi», sul piano processuale «[…] quello che viene qualificato come un giudizio di legittimità, si rivela in realtà essere un giudizio di verità e di fondatezza» (p. 265).
[xxxviii] Il ragionamento ripreso in corpo trova una più compiuta articolazione argomentativa nella precedente decisione, a firma del medesimo estensore, Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990, in Dir. proc. amm., 2020, III, p. 740 e ss. (con importanti argomentazioni – in chiave critica – di M. Del Signore), ove si riflette sull’intensità del sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’AGCM nel quadro dei (più generali) rapporti tra diritto e tecnica. Ivi, infatti, si osserva che «[m]entre gli studiosi del diritto civile e penale non hanno mai dubitato del fatto che la “decodificazione” dei concetti giuridici indeterminati spetti al giudice, cui è deputata la responsabilità istituzionale di estrapolare la norma dalla disposizione, nel diritto amministrativo si è per lungo tempo pensato ad essi come ad un ambito di valutazioni riservate alla pubblica amministrazione, non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale, se non attraverso i dettami della c.d. “discrezionalità tecnica”. Nella sua primigenia formulazione, il principale corollario di tale concetto ‒ che, peraltro, non ha mai raggiunto una definizione ed uno statuto univoco ed, anzi, ha dato luogo in passato a sofisticate categorizzazioni ‒ era quello di delimitare il controllo giudiziale sulle valutazioni complesse all’interno di una prospettiva critica del tutto estrinseca ed esterna rispetto alla fattispecie concreta». In materia sanzionatoria, invece, «[…] non pare corretto impostare il discorso sul grado di intensità del controllo giurisdizionale sugli atti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in termini di possibilità o meno di sindacato sostitutivo del giudice. Non operano infatti i limiti cognitivi insiti nella tecnica del sindacato sull’esercizio del potere, quando il giudice è pienamente abilitato a pervenire all’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale invocata (nella specie, l’accertamento della realizzazione o meno dell’intesa illecita punita con una pesante sanzione pecuniaria)». Per una diversa impostazione, fondata sul presupposto teorico della presenza di discrezionalità (pura e tecnica) nell’attività sanzionatoria dell’AGCM, cfr. M. Cappai, Il problema del sindacato giurisdizionale sui provvedimenti dell’AGCM in materia antitrust: un passo in avanti, due indietro ... e uno in avanti. Una proposta per superare l’impasse, in Federalismi.it, n. 21/2019, p. 40, ove si perviene alla formulazione della proposta ricostruttiva – pur sempre incentrata sulla valorizzazione del principio di presunzione di innocenza – per cui «[r]imanendo all’interno di una giurisdizione di legittimità e senza andare dunque a snaturare la natura demolitoria del giudizio amministrativo di annullamento, si titolerebbe in questo modo il G.a. ad accogliere la censura di violazione o falsa applicazione di legge in tutti quei i casi in cui, specie con riferimento all’attività di contestualizzazione dei concetti generali al caso concreto e di applicazione della norma contestualizzata al fatto concreto, la parte sia riuscita a fornire una spiegazione “attendibile” dei propri comportamenti incorrendo nondimeno in una sanzione». Il suddetto precedente è stato, tuttavia, ‘ridimensionato’ dalla medesima Sezione con la sentenza – di pochi mesi successiva – Cons. Stato, sez. VI, 2 settembre 2019, n. 6022, in Foro amm., 2019, IX, p. 1471 e ss., ove si è affermato che «[i]l sindacato giurisdizionale volto ad accertare le intese anticoncorrenziali è finalizzato a verificare se l’Autorità ha violato il principio di ragionevolezza tecnica, senza che sia consentito, in coerenza con il principio costituzionale di separazione, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali».
[xxxix] Cfr. Corte cost. 12 marzo 2007, n. 77, in Giur. cost., 2007, II, p. 726 e ss. (con nota di A. Mangia), ove si rimarca che «[s]e è vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità dei giudici, la situazione all’epoca esistente, è anche vero che la medesima Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111) all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi». Di talché, «[q]uesta essendo la essenziale ragion d’essere dei giudici, ordinari e speciali, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale».
[xl] Si badi, nell’accezione di standard effettivamente ‘applicato’ dal giudicante e non quale mera formula verbale richiamata dalle sentenze di merito.
Abstract L’istituto giuridico delineato dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario ha assunto, nel nostro Paese, un’indiscutibile valenza simbolica. Per tale ragione, il discorso pubblico che lo riguarda risente di inopportune semplificazioni, quando non di vere e proprie distorsioni, generate da un approccio troppo spesso unidirezionale e che appare significativamente condizionato dalla sua genesi storica. Il 41-bis, infatti, rimanda, nella nostra coscienza collettiva, a una stagione sanguinosa di attacco alle istituzioni dello Stato; sicché ogni critica dell’esistente viene a volte interpretata, non sempre in buona fede, come un inaccettabile cedimento alle forme più pericolose di criminalità, sino ad essere addirittura bollata come una sorta di tradimento di chi ha sacrificato la propria vita per lo Stato. In molte analisi, poi, si avverte il riflesso di giudizi preconcetti, a partire da posizioni opposte sulle questioni del carcere. Su un versante vi sono coloro che, partendo dalla esclusiva considerazione, certamente unilaterale, della persona detenuta e dei suoi diritti, qualificano il 41-bis come una sorta di tortura di Stato, una forma legalizzata di violazione dei diritti fondamentali, tale da incidere sulla dignità di chi vi è sottoposto. Sull’altro versante, si collocano quanti ritengono tali limitazioni del tutto giustificate, non già in ragione degli scopi attribuiti all’istituto, consistenti nell’impedire che i capi di pericolose aggregazioni criminali possano continuare a dirigerle dal carcere, ma unicamente per la gravità dei reati che costoro hanno commesso e per la pericolosità che essi, pur detenuti, ancora esprimono, ritenute tali da giustificare, con una evidente torsione dei principi generali dell’ordinamento, una maggiore durezza della pena loro inflitta.
Compito del ceto dei giuristi, studiosi e operatori pratici, è quello di compiere analisi razionali che diano conto dei problemi, che indubbiamente esistono, e che siano in grado di suggerire possibili soluzioni, con l’obiettivo - sempre affermato, ma spesso non realizzato - di trovare un equilibrio accettabile tra un istituto di cui non possiamo ancora fare a meno e i diritti fondamentali delle persone che vi sono sottoposti. Diritti che la matrice personalistica del nostro sistema costituzionale impone di riconoscere a qualunque cittadino, fosse anche l’autore del crimine più efferato. Quello qui proposto vuole essere un tentativo in tale direzione.
Sommario (prima parte): 1. All’origine dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. 1.1. L’art. 90 Ord. pen. - 1.2. Il decreto legge 8 giugno 1992, n. 306. - 1.3. La prima fase di applicazione dell’art. 41-bis Ord. pen. - 1.4. Le sentenze della Corte costituzionale degli anni ’90. - 1.5. Le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo tra gli anni ‘90 e i primi anni 2000. - 1.6. Le novità normative sul finire degli anni ‘90. - 2. Le modifiche dell’articolo 41-bis introdotte dalla legge n. 279 del 2002. - 3. Le modifiche del 2009 - 3.1. I destinatari del provvedimento. - 3.2. I contenuti del regime differenziato. - 4.1. Le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. - 5. La disciplina delle proroghe del regime differenziato. - 6. La tutela giurisdizionale.
1. All’origine dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario.
1.1. L’art. 90 Ord. pen.
Con l’approvazione della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà (di seguito Ord. pen.), il nostro Paese salutò la conclusione del grande processo politico-culturale ispirato dal movimento per la riforma penitenziaria, che aveva finalmente messo al centro del sistema normativo la persona detenuta e i suoi bisogni, quali punti di partenza per una serie articolata di interventi istituzionali (il cd. welfare penale) volti a realizzare l’obiettivo costituzionale del reinserimento sociale degli autori di reati. Nondimeno, lo stesso legislatore della riforma, prendendo atto del clima estremamente difficile all’epoca esistente all’interno degli istituti penitenziari, aveva previsto, all’art. 90, che, in presenza di gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza all’interno delle strutture penitenziarie, le regole ordinarie del trattamento potessero essere temporaneamente sospese con provvedimento motivato del Ministro per la grazia e giustizia. Di tale facoltà fu ben presto fatta applicazione, motivata sia con il clima generale nelle carceri, contrassegnato da frequenti evasioni[1] e rivolte, tanto da spingere il Governo a valutare la mobilitazione dell’esercito con compiti di vigilanza esterna degli istituti, sia con il deciso palesarsi dell’emergenza terroristica, all’esterno e all’interno delle strutture penitenziarie. Dopo che, nel maggio 1977, il Governo aveva individuato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa quale «incaricato del coordinamento dei servizi di sicurezza esterna degli istituti penitenziari», con il decreto interministeriale del 21 luglio 1977 furono istituite, su proposta dello stesso Dalla Chiesa e proprio in applicazione dell’art. 90 Ord. pen., i primi cinque carceri di “massima sicurezza” (Favignana, Asinara, Cuneo, Fossombrone e Trani) nei quali si intendeva esercitare un più efficace controllo sulla popolazione detentiva al fine di contrastare il formarsi di alleanze tra le associazioni terroristiche e la criminalità comune e/o organizzata e di interrompere i flussi comunicativi tra l’interno e l’esterno del carcere. In queste strutture penitenziarie (alle quali, dal dicembre del 1977, si aggiunsero quelle di Novara, Termini Imerese, Nuoro e Pianosa), le assegnazioni venivano compiute, senza alcuna forma di controllo giurisdizionale, nei confronti dei soggetti che si erano resi responsabili di gravi condotte all’interno degli istituti o che, all’esterno di essi, avevano commesso reati violenti o terroristici; e il relativo regime penitenziario si caratterizzava per un particolare rigore, in quanto le persone che vi erano ristrette pativano limitazioni nella partecipazione alle attività comuni (quali lo svolgimento di attività lavorative diverse da quelle «domestiche», la frequentazione della scuola o di biblioteche, la partecipazione alle attività di culto ecc., con l’unica eccezione costituita dalle «ore di passeggio»), nonché nei colloqui con i familiari, che venivano svolti attraverso un pannello divisorio per impedire il contatto fisico, sotto la sorveglianza da parte del personale del Corpo degli Agenti di custodia, peraltro in genere estesa alle 24 ore.
Benché l’istituzione dei primi istituti di massima sicurezza fosse stata giustificata, sul piano formale, attraverso il riferimento all’art. 90 Ord. pen. e, dunque, a una norma primaria, il concreto atteggiarsi del regime penitenziario attuato all’interno di tali strutture veniva definito dai singoli regolamenti di istituto, sia pure con modalità rese tendenzialmente uniformi da indicazioni offerte a livello centrale; con il risultato, quindi, che la disciplina dettata dalla legge penitenziaria veniva di fatto derogata con provvedimenti amministrativi assunti dal Responsabile del coordinamento dei servizi di sicurezza, sostanzialmente senza alcuna forma di controllo. Per tale ragione, dopo che, con la strage di via Fani, il fenomeno terroristico aveva fatto registrare il momento più drammatico dell’attacco al cuore dello Stato, con due decreti ministeriali del 22 dicembre 1982 l’art. 90 Ord. pen. divenne il perno su cui costruire, con una precisa indicazione della loro durata temporale, le limitazioni da applicare, negli istituti specificamente individuati, al regime detentivo dei soggetti che vi venivano assegnati; limitazioni che riguardavano la costante applicazione del visto di censura della corrispondenza, la sospensione delle comunicazioni telefoniche con i familiari e i terzi soggetti e della possibilità di ricevere pacchi dall’esterno del carcere, il divieto di partecipare all’organizzazione di attività culturali, ricreative e sportive, le particolari modalità di fruizione dell’aria aperta, non più consentita in gruppo, il divieto per il detenuto di acquistare genere alimentari a proprie spese. Pur avendo avuto, dunque, l’applicazione dell’art. 90 Ord. pen. il pregio di stabilire limiti e durata delle restrizioni, essa aveva finito per stabilizzare, anche per effetto di una serie di proroghe e dell’estensione dello statuto di specialità ad altri istituti (quali Torino, Ariano Irpino, Foggia, Voghera), una modalità non ordinaria di organizzazione degli istituti, in maniera non coerente con il carattere eccezionale che, in origine, ne connotava la ratio[2]. Inoltre, da più parti era stato rilevato il possibile contrasto con i principi costituzionali di alcune sue misure, in specie per quanto riguarda la disciplina della censura della corrispondenza (sottratta all’autorità giudiziaria) e la vera e propria sostituzione con disposizioni amministrative di alcune norme previste dalla legge penitenziaria, come quelle relative alla disciplina della fruizione dell’aria aperta[3].
Anche per tale ragione, dopo che, nel corso del 1984, alcuni decreti avevano ridotto il numero dei carceri speciali a soli 3 istituti (Spoleto, Foggia e Carinola) e avevano eliminato alcune restrizioni (in relazione alle attività scolastiche, culturali e ricreative, alle modalità dei colloqui con i familiari, ora consentiti senza i pannelli divisori e alla censura della corrispondenza epistolare, finalmente rimessa alla competenza dell’autorità giudiziaria), con l’art. 10 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (cd. legge Gozzini), l’art. 90 Ord. pen. fu abrogato; e al suo posto fu introdotto l’art. 41-bis Ord. pen., rubricato «situazioni di emergenza». Con tale nuova disposizione si stabiliva, al comma 1, che «in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza» il Ministro di grazia e giustizia potesse disporre, nell’intero istituto penitenziario o in una parte di esso, la sospensione delle regole di trattamento dei detenuti e degli internati.
Contemporaneamente, al fine di rafforzare gli strumenti di gestione della cd. pericolosità penitenziaria, riconducibile a gravi forme di aggressione del personale o di altri detenuti, il legislatore introdusse l’art. 14-bis Ord. pen., che consegnava all’Amministrazione penitenziaria, con la possibilità un controllo giurisdizionale successivo, il potere di sottoporre a una modalità individualizzata di trattamento, per un periodo non superiore a sei mesi (ma prorogabile, anche più volte, per non più di tre mesi), i condannati, gli internati e gli imputati che, con le loro condotte, compromettessero la sicurezza o turbassero l’ordine negli istituti; che con la violenza o minaccia impedissero le attività degli altri detenuti o internati; che nella vita penitenziaria si avvalessero dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti; o che avessero tenuto comportamenti particolari in occasione di precedenti carcerazioni o anche in libertà, indipendentemente dall’imputazione. In questo modo, la legge Gozzini differenziò la questione della gestione di fenomeni collettivi di turbamento dell’ordine e della sicurezza, da quella della pericolosità penitenziaria del singolo detenuto, correlata a una situazione di rischio per l’ordine e la sicurezza interne all’istituto e non rispetto alla situazione esterna ad esso.
1.2. Il decreto legge 8 giugno 1992, n. 306.
In questo scenario irruppe la drammatica stagione delle stragi di mafia, che diede origine al decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 (convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356). Accanto alla ulteriore stretta rispetto all’accesso ai benefici penitenziari per gli autori di reati di criminalità organizzata, in specie mafiosa, già avviata dal decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 (convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203), fu prevista, con l’introduzione del comma 2 dell’41-bis Ord. pen., la facoltà per il Ministro di grazia e giustizia, anche a richiesta del Ministro dell’interno, di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge penitenziaria che potessero porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti previsti dal comma 1 dell’art. 4-bis Ord. pen, sempre che ricorressero gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica.
Tale modifica segnò una indiscutibile evoluzione delle misure limitative delle regole ordinarie del trattamento, da una dimensione strettamente penitenziaria, propria dell’art. 14-bis e del comma 1 dell’art. 41-bis Ord. pen, a quella extramuraria[4]. Infatti, il riferimento, contenuto nel comma 2 dell’art. 41-bis Ord. pen., ai «gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica» certificava come la ratio dell’istituto andasse ora rinvenuta nella necessità di garantire la tutela della collettività esterna, quale tassello di una più ampia strategia di contrasto della criminalità organizzata, sganciando le limitazioni al trattamento penitenziario da una dimensione attinente alla sola sicurezza interna al carcere[5]. In altri termini, con l’introduzione del comma 2, la ratio della sospensione delle ordinarie regole del trattamento penitenziario era diventata quella di impedire ai soggetti che vi venivano sottoposti di mantenere un legame e, soprattutto, un canale comunicativo con i gruppi criminali sul territorio. Ciò sul presupposto, confermato dalla prassi giudiziaria, per cui la detenzione ordinaria non si era dimostrata in grado di rompere il vincolo associativo, né di impedire che i vertici delle organizzazioni mafiose continuassero a esercitare, durante la carcerazione, un’attività di direzione del sodalizio di appartenenza[6].
1.3. La prima fase di applicazione dell’art. 41-bis Ord. pen.
In questa prima fase, l’art. 41-bis Ord. pen. non definiva in alcun modo i contenuti del provvedimento ministeriale, lasciato sostanzialmente alle scarne indicazioni che l’Amministrazione penitenziaria forniva con le sue circolari, a partire da quella n. 3359/5809 del 21 aprile 1993. Essa, nel disciplinare l’organizzazione dei diversi circuiti penitenziari, stabiliva, con riferimento ai detenuti sottoposti al regime dell’art. 41-bis Ord. pen, che le restrizioni già previste per il circuito della cd. «alta sicurezza» dovessero essere ad essi applicate «con maggiore rigore» e che, nei loro confronti, dovesse essere espresso un giudizio negativo per quanto riguarda la liberazione anticipata, i colloqui e le telefonate premiali, e non potessero ammettersi i colloqui con assistenti sociali, educatori e psicologi, né, tantomeno, con volontari o altri attori della società esterna. Inoltre, tali soggetti dovevano essere obbligatoriamente assegnati «alle apposite sezioni degli istituti di Asinara, Pianosa, Cuneo, Ascoli Piceno e Spoleto», non potendo essere ristretti insieme agli altri detenuti.
1.4. Le sentenze della Corte costituzionale degli anni ‘90[7].
Dunque, in origine nemmeno le circolari dell’Amministrazione penitenziaria contenevano una disciplina di dettaglio dei contenuti del provvedimento ministeriale, che pertanto poteva disporre qualunque restrizione che potesse ritenersi motivata dalle esigenze di ordine e di sicurezza pubblica.
Anche per questa ragione la Corte costituzionale, in questi anni ripetutamente sollecitata, intervenne per definire le coordinate fondamentali dell’istituto, al fine di ricondurlo in un alveo di compatibilità costituzionale rispetto alle previsioni che, in maniera più accentuata, si ponevano in tensione con i principi generali dell’ordinamento.
In particolare, con la sentenza n. 349 del 1993, la Consulta affermò che l’adozione di eventuali provvedimenti che introducessero ulteriori restrizioni rispetto a quelle ordinarie o che, comunque, modificassero il grado di privazione alla libertà personale, dovesse rispettare le garanzie della riserva di legge e di giurisdizione espresse dall’art. 13 Cost., non potesse consistere in misure contrarie al senso di umanità e al diritto di difesa e dovesse uniformarsi ai principi di proporzionalità e individualizzazione della pena sanciti dall’art. 27, primo e terzo comma e dall’art. 3 Cost. Pertanto, il provvedimento ministeriale di sospensione doveva riguardare solo gli istituti dell’ordinamento penitenziario di competenza dell’Amministrazione penitenziaria e relativi al regime di detenzione in senso stretto. Inoltre, il regime differenziato doveva giustificarsi sia per le necessità di rieducazione del detenuto, sia per quelle di tutela della sicurezza e dell’ordine, dovendo essere motivato per ciascuno dei detenuti cui era rivolto, in modo da consentire all’interessato un’effettiva tutela giurisdizionale attraverso il reclamo al giudice ordinario[8] sotto il profilo della proporzionalità delle misure adottate e del rispetto di situazioni soggettive non comprimibili[9].
A quest’ultimo proposito, con la sentenza n. 410 del 1993, la Corte costituzionale individuò nella procedura di reclamo prevista dall’art. 14-ter Ord. pen. quella applicabile anche ai provvedimenti che disponevano il regime dell’art. 41-bis.
Successivamente, con la sentenza 18 ottobre 1996, n. 351 la Consulta, andando di diverso avviso rispetto all’interpretazione accolta dalla Corte di cassazione (secondo cui i provvedimenti di applicazione del regime differenziato erano reclamabili davanti al tribunale di sorveglianza soltanto per valutare l’esistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 41-bis Ord. pen.), affermò che il tribunale doveva ritenersi investito anche del controllo sul contenuto del provvedimento di sospensione, onde verificare la congruità delle misure adottate rispetto all’esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza, dovendo riconoscersi, in caso di riscontro negativo, che la deroga all’ordinario regime carcerario era ingiustificata e che, pertanto, essa assumeva una portata puramente afflittiva. Pertanto, lo stesso tribunale poteva disapplicare, in tutto o in parte, il provvedimento ministeriale, in quanto investito di una giurisdizione di natura non impugnatoria, avente ad oggetto i diritti e il trattamento del detenuto. Con la stessa sentenza, inoltre, la Consulta affermò un principio fondamentale di questa materia, sempre ribadito nei successivi pronunciamenti, ovvero che con il regime differenziato «non possono disporsi misure che per il loro contenuto non siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza, o siano palesemente inidonee o incongrue rispetto alle esigenze di ordine e di sicurezza che motivano il provvedimento». Tali misure infatti «non risponderebbero più al fine per il quale la legge consente che esse siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale».
Infine, con la sentenza n. 376 del 1997, la Corte costituzionale evidenziò che l’applicazione del regime differenziato non poteva comportare la sospensione delle attività di osservazione e trattamento previste dall’art. 13 Ord. pen., né la preclusione alle altre attività volte alla rieducazione del detenuto, che avrebbero dovuto essere comunque organizzate con modalità idonee a impedire contatti con altri detenuti e da non favorire i collegamenti con l’organizzazione criminale[10]. Nel frangente, la Consulta, oltre a ribadire che i decreti applicativi del regime differenziato dovevano essere «concretamente giustificati in relazione alle predette esigenze di ordine e sicurezza», affermò che «da un lato, il regime differenziato si fonda non già astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o dell’imputazione, ma sull’effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa»; e che «dall’altro lato, le restrizioni apportate rispetto all’ordinario regime carcerario non possono essere liberamente determinate, ma possono essere – sempre nel limite del divieto di incidenza sulla qualità e quantità della pena e di trattamenti contrari al senso di umanità – solo quelle congrue rispetto alle predette specifiche finalità di ordine e di sicurezza»[11].
1.5. Le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo tra gli anni ‘90[12] e i primi anni 2000.
Nei primi anni di vigenza dell’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen., la Corte europea dei diritti dell’uomo fu investita, ripetutamente, della questione della compatibilità dell’istituto o di sue singole disposizioni con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.
In tale periodo, la Corte di Strasburgo, pur individuando talune linee di faglia nella disciplina dell’art. 41-bis, si assestò sulla posizione secondo cui il regime differenziato non era contrario, in linea di principio, alle statuizioni della Convenzione e in particolare all’art. 3 C.E.D.U., pur richiamando sempre, sin dai suoi primi pronunciamenti, la necessità di verificare, in concreto e caso per caso, se le varie statuizioni avessero una base legale[13], nonché se esse fossero congrue con la finalità dell’istituto di recidere i legami con la criminalità organizzata e proporzionate alla gravità del reato commesso dal soggetto sottoposto a tale regime[14].
Inoltre, in particolare con la sentenza Labita, la Corte EDU pose in luce, con affermazione di principio sempre ribadita nei successivi pronunciamenti, che il regime differenziato poteva concretizzarsi in trattamenti «inumani» e «degradanti» quando le limitazioni applicate raggiungessero una soglia consistente di gravità, che andasse al di là dell’afflizione derivante dalla semplice detenzione in carcere, dovendo all’uopo valutarsi «la durata del trattamento e dei suoi effetti fisici o psicologici nonché, talvolta, il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima»[15].
Infine, con la sentenza Messina/Italia[16], la Corte di Strasburgo evidenziò i punti di frizione tra il regime delle tutele giudiziali previsto dal nostro ordinamento e le garanzie contemplate dall’art. 13 della Convenzione E.D.U. in punto di effettività della tutela, atteso che i ritardi nelle decisioni sui reclami erano tali da privare di efficacia lo strumento del reclamo, avendo la giurisprudenza interna qualificato come non perentorio il termine di 10 giorni entro cui esse dovevano essere assunte e intervenendo, in genere, le decisioni della Corte di cassazione dopo che l’originario provvedimento ministeriale aveva perso la sua efficacia. Tanto più che il Ministro di grazia e giustizia non era vincolato dalla decisione con cui il tribunale di sorveglianza aveva revocato le disposizioni del provvedimento, potendo ripristinare, alla scadenza di esso, le precedenti limitazioni con un nuovo provvedimento di sospensione.
1.6. Le novità normative sul finire degli anni ‘90.
Facendosi carico dei rilievi espressi dalla giurisprudenza costituzionale, l’art. 4 della legge 7 gennaio 1998, n. 11 introdusse, all’art. 41-bis Ord. pen., un comma 2-bis con il quale si prevedeva espressamente che avverso i provvedimenti del Ministro di grazia e giustizia emessi a norma del comma 2 potesse essere proposto reclamo al tribunale di sorveglianza avente giurisdizione sull’istituto al quale il condannato, l’internato o l’imputato era stato assegnato.
Nella stessa prospettiva, con decreto in data 4 febbraio 1997 del Ministro di grazia e giustizia e con le circolari n. 5931938 del 7 febbraio 1997 e n. 538429-1-1 del 30 aprile 1997 venne compiuta una riorganizzazione delle Sezioni relative al regime differenziato proprio alla luce delle sentenze della Corte costituzionale, statuendosi: la possibilità che i detenuti sottoposti al regime differenziato effettuassero una conversazione telefonica mensile, sottoposta a registrazione, con i familiari e i conviventi, presenti nel luogo designato dall’Amministrazione, sempre che nel mese non avessero svolto i colloqui visivi, considerati alternativi al colloquio telefonico; la facoltà di ricevere un ulteriore pacco mensile e due pacchi annuali straordinari; la possibilità di utilizzare fornelli personali per la preparazione di bevande e per riscaldare cibi già cotti, somministrati dall’Amministrazione penitenziaria. Inoltre, la stessa Amministrazione riconobbe il potere dei tribunale di sorveglianza di sindacare le singole disposizioni dal provvedimento amministrativo e di modificarle quando queste ledessero i diritti dei detenuti.
Con la successiva circolare D.A.P. n. 543884/1/1 del 6 febbraio 1998, furono disciplinati alcuni aspetti specifici relativi al trattamento differenziato, venendo, in particolare, prevista la possibilità per i detenuti di permanere fuori dalla cella, in piccoli gruppi, per quattro ore giornaliere, di cui due da trascorrere negli spazi adibiti alla socialità, rinviando ad appositi ordini di servizio la definizione delle modalità del movimento all’interno degli istituti, onde evitare contatti con i detenuti comuni. Inoltre, la circolare ribadì la necessità di limitare i colloqui visivi, che dovevano essere effettuati in apposite sale munite di vetro divisorio, in modo da non consentire il passaggio di oggetti. Per le stesse ragioni, fu vietato ai detenuti sottoposti a tale regime di acquistare generi alimentari al sopravvitto e di ricevere generi alimentari dall’esterno, nonché il possesso e l’uso di apparecchi radio, potenzialmente utilizzabili per comunicare con l’esterno. Con questo intervento, l’Amministrazione realizzò, per la prima volta in maniera organica, una disciplina dei contenuti del regime differenziato, inaugurando una modalità operativa sempre seguita anche negli anni successivi, la quale ha suscitato critiche per il ricorso, in una materia che riguarda diritti fondamentali della persona detenuta, a uno strumento di auto-organizzazione come quello della circolare.
2. Le modifiche dell’articolo 41-bis introdotte dalla legge n. 279 del 2002.
Anche le nuove disposizioni posero in luce forti criticità, connesse, da un lato, alla eccessiva genericità sia dei presupposti di applicazione del regime differenziato, sia delle regole di trattamento suscettibili di sospensione, sostanzialmente rimesse alle determinazioni dell’Amministrazione; e, dall’altro lato, alla necessità di una disciplina più puntuale delle proroghe di un regime che, originariamente “pensato” come temporaneo, si avviava a diventare, per molti, definitivo.
Con la legge 23 dicembre 2002, n. 279, vennero, quindi, sostituiti i commi 2 e 2-bis con gli attuali commi da 2 a 2-sexies. In questo modo venne stabilito: quanto alla platea dei soggetti sottoponibili al regime differenziato, che essi andassero identificati non più nei soli imputati o condannati per il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, ma negli imputati, condannati o internati per i delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen. e sempre che ricorressero «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva»; l’obbligo di motivazione della decisione da parte del Ministro della giustizia, in modo da consentire di verificare la rispondenza delle limitazioni alle finalità dell’istituto; la necessità di una complessa attività istruttoria, consistente nell’acquisizione di un parere, non vincolante, da parte dell’ufficio del pubblico ministero procedente o di quello presso il giudice procedente, nonché l’acquisizione di ogni altra necessaria informazione presso la Direzione nazionale antimafia e presso gli organi di polizia centrali e specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva; la durata minima e massima del provvedimento ministeriale, non inferiore a un anno e non superiore a due anni, salva la possibilità di proroga per periodi non superiori a un anno; la possibilità di una revoca, sempre con decreto motivato e anche di ufficio, quando venissero meno le condizioni di adozione del provvedimento. Inoltre, con l’abrogazione, ad opera dell’art. 3, dell’art. 29 del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, l’istituto, la cui originaria vigenza, limitata a tre anni da quel decreto, era stata nel frattempo ripetutamente prorogata[17], fu stabilizzato, cessando di essere una misura temporanea.
Ma soprattutto, l’intervento normativo del 2002 codificò, al comma 2-quater dell’art. 41-bis, i contenuti del regime differenziato, definiti quantomeno nelle coordinate essenziali, poi specificate dalle previsioni minute contenute nelle circolari del Dipartimento.
Nel dettaglio, con la lett. a) del comma 2-quater si stabilì che nei confronti dei detenuti sottoposti al regime differenziato venissero adottate misure di elevata sicurezza interna ed esterna, allo scopo, «principalmente», di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di riferimento, i contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, l’interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione criminale ovvero ad altre ad essa alleate. In particolare, l’uso dell’avverbio «principalmente» suscitò non poche perplessità, atteso che, sul piano testuale, avrebbe potuto autorizzare l’adozione di misure restrittive non soltanto allo scopo di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza ma anche per altre ragioni, in chiaro contrasto con le indicazioni della Corte costituzionale, secondo cui la finalità dell’istituto consiste nel recidere i legami del detenuto con la criminalità organizzata. Tuttavia, come si vedrà, tale avverbio ha resistito anche ai successivi interventi di modifica che hanno interessato l’art. 41-bis Ord. pen.; ed è su tale tema, mai risolto, che si appuntano molti dei rilievi da parte dei critici dell’attuale assetto normativo.
Inoltre, il comma 2-quater previde espressamente: la possibilità di effettuare colloqui, con i soli familiari e conviventi, in un numero non inferiore a uno e non superiore a due al mese, da svolgersi a intervalli determinati e in luoghi attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti (e, dunque, con la presenza del vetro divisorio), con la possibilità di incontrare terze persone soltanto in casi eccezionali determinati di volta in volta dal direttore dell’istituto (o dal giudice della cautela per gli imputati prima della sentenza di primo grado) e salva la possibilità di autorizzare, con provvedimento motivato del direttore o dall’autorità giudiziaria procedente, dopo i primi sei mesi di applicazione del regime differenziato, un colloquio telefonico mensile, sottoposto a registrazione, con i familiari e i conviventi della durata massima di dieci minuti (lett. b); la limitazione della disponibilità di beni, oggetti e somme di denaro ricevuti dall’esterno (lett. c); la esclusione dalla partecipazione alle rappresentanze dei detenuti e degli internati previste all’art. 9 Ord. pen. (lett. d); la possibilità di fruire di non più di 4 ore d’aria al giorno e in gruppi di persone non superiori a cinque (lett. f). La limitazione della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia (lett. e), poteva, invece, essere disposta solo dall’autorità giudiziaria competente ai sensi dell’art. 18 Ord. pen., non potendo il Ministro disporre autonomamente, in tale materia, in forza della duplice riserva di legge e di giurisdizione posta dall’art. 15, secondo comma, Cost. Inoltre, riprendendo le indicazioni della Corte costituzionale, fu stabilito che l’applicazione del regime differenziato non potesse mai comportare la sospensione dell’attività di osservazione e trattamento individualizzato prevista dall’art. 13 Ord. pen., né precludere al detenuto la partecipazione ad attività rieducative culturali, ricreative, sportive e di altro genere, ferma la necessità di organizzare tali attività «con modalità idonee ad escludere o a ridurre al minimo i rischi dei contatti o dei collegamenti che il provvedimento ministeriale tende a prevenire. Tutto questo per valutare la partecipazione del detenuto all’opera di rieducazione ai fini della liberazione anticipata»[18].
La riforma del 2002, infine, disciplinò il regime d’impugnabilità del provvedimento ministeriale, conferendo la legittimazione attiva alla proposizione del reclamo, entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento, al detenuto o internato e al suo difensore; e individuando come tribunale di sorveglianza competente a decidere, nelle forme del procedimento di sorveglianza previste dagli artt. 666 e 678 cod. proc. pen., quello avente giurisdizione sull’istituto di pena in cui l’interessato risultava assegnato al momento del provvedimento. La decisione del tribunale, inoltre, risultava ricorribile per cassazione, fermo restando che il ricorso non sospendeva l’esecuzione del provvedimento impugnato. Rispetto a tale regime, peraltro, rimanevano intatte le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale sotto la vigenza della precedente disciplina, ovvero che il sindacato esercitato dal tribunale di sorveglianza aveva natura di legittimità e non di merito e doveva estendersi alla verifica sia della congruità tra il provvedimento nel suo complesso o in sue singole statuizioni e la finalità di salvaguardia delle esigenze di ordine e sicurezza, consistenti nell’impedire i collegamenti con l’associazione criminale, sia della compatibilità tra le limitazioni e i diritti fondamentali della persona; con la possibilità di una disapplicazione delle limitazioni che non presentassero tale carattere, pur senza poterne, tuttavia, modificare il contenuto[19].
3. Le modifiche del 2009[20].
Nel 2009, nel contesto una stagione di produzione normativa segnata dai cd. pacchetti sicurezza, fu approvata la legge n. 94 del 15 luglio 2009 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), con la quale il Parlamento, con il dichiarato intento di «ripristina[re] l’originario rigore del regime di detenzione» al fine di «rendere ancor più difficile ai detenuti – in particolare ai condannati per il reato di associazione mafiosa – la possibilità di mantenere collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza»[21], dispose l’ampliamento della platea dei destinatari, l’inasprimento dei contenuti del regime differenziato, una compressione dell’intervento giurisdizionale[22].
Quello del 2009 è stato l’ultimo “grande” intervento di riforma dell’art. 41-bis Ord. pen., che, nella sostanza, ne ha codificato struttura tuttora esistente, così come interpolata, ovviamente, dai ripetuti interventi della Corte costituzionale avvenuti tra il 2013 e il 2022, su cui ci si soffermerà più avanti, che hanno riconosciuto l’irragionevolezza di talune limitazioni prevista dalla legge in relazione, ancora una volta, agli scopi per cui l’istituto è stato previsto[23].
In particolare, il testo stabilisce che i detenuti sottoposti al regime differenziato siano ristretti all’interno di istituti ad essi esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, o comunque all’interno di sezioni speciali, logisticamente separate dal resto dell’istituto, e che essi siano custoditi da reparti specializzati della Polizia penitenziaria, ovvero dal Gruppo operativo mobile di tale corpo di polizia[24].
3.1. I destinatari del provvedimento.
Secondo l’attuale formulazione del comma 2 dell’art. 41-bis Ord. pen., il regime differenziato può essere disposto, con provvedimento del Ministro della giustizia, nei confronti di singoli detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis ord. pen. o, comunque, «per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso», in relazione ai quali vi siano «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva»[25]. Dopo la modifica del 2009, ponendo fine a una dibattuta questione giurisprudenziale[26], è stata affermata la regola secondo cui «[i]n caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, il regime carcerario speciale può essere disposto anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nel suddetto art. 4-bis».
3.2. I contenuti del regime differenziato.
Si è detto che con il provvedimento ministeriale che dispone l’applicazione del regime differenziato possono essere sospese, in tutto o in parte, le sole regole del trattamento e gli istituti previsti dalla legge penitenziaria che, in concreto, si pongano effettivamente in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, o, più correttamente, con la necessità di impedire i collegamenti con l’associazione criminale di riferimento. Ciò in quanto, secondo le già richiamate pronunce della Corte costituzionale, deve esservi un rapporto di perfetta congruità tra le limitazioni adottate e le necessità che conducono all’adozione del provvedimento, posto che, diversamente, esse assumerebbero un carattere meramente afflittivo e non sarebbero giustificate[27].
Quanto al concreto contenuto delle limitazioni e al fine di circoscrivere la discrezionalità amministrativa (e, prospetticamente, l’intervento giurisdizionale in sede di reclamo), l’art. 41-bis, comma 2-quater, Ord. pen., dopo la modifica del 2009, fa ricorso all’indicativo presente («prevede») in luogo della forma servile («può comportare») in precedenza prevista, definendo, dunque, il contenuto in termini obbligatori. Tuttavia, proprio perché il giudizio di congruità non riguarda la sola sottoposizione al regime differenziato, ma anche le varie limitazioni adottate, le quali devono essere calibrate sugli scopi della misura in rapporto alla specifica situazione del singolo soggetto, deve ritenersi che anche le varie prescrizioni possano essere formulate in maniera tale da corrispondere alle specifiche connotazione del singolo detenuto[28]. Nella pratica, nondimeno, questa articolazione individualizzata delle prescrizioni nel provvedimento applicativo non avviene, sostanzialmente, mai.
Per ovvie ragioni legate alla ratio dell’istituto, le specifiche limitazioni contemplate dal comma 2-quater concernono, in primo luogo, la disciplina dei colloqui, quanto ai destinatari, alla frequenza, alle modalità di esecuzione.
Il regime ordinario prevede che i detenuti/internati abbiano diritto a sei colloqui mensili con i familiari e conviventi (numero nel quale sono conteggiati anche quelli con terze persone eventualmente autorizzati dalla direzione o, se imputati, dall’autorità giudiziaria, quando ricorrano «ragionevoli motivi»: v. art. 37, comma 1, d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230). Un numero che scende a soli 4 colloqui mensili nel caso in cui il soggetto sia stato condannato o sia imputato per taluno dei delitti previsti dal primo comma dell’art. 4-bis Ord. pen. (v. art. 37, comma 8, d.P.R. n. 230 del 2000).
Per i soggetti sottoposti al regime differenziato, invece, il numero di colloqui si riduce drasticamente. Mentre la disciplina del 2002 prevedeva la possibilità di due colloqui mensili, dopo la riforma del 2009 il numero è stato ridotto a uno. Inoltre, la previsione, risalente al 2002, secondo cui i colloqui devono svolgersi a intervalli regolari, ha indotto l’Amministrazione penitenziaria a non autorizzare che gli stessi si svolgano, consecutivamente, alla fine del mese e all’inizio di quello successivo, secondo le richieste frequentemente avanzate dai detenuti al fine dichiarato di ridurre, per i familiari, l’incomodo di trasferte che possono essere, soprattutto in presenza di bambini e di anziani, tutt’altro che agevoli. E la giurisprudenza della Corte di cassazione ha ritenuto che la scelta dell’Amministrazione non fosse irragionevole, sul presupposto che l’accorpamento dei colloqui avrebbe reso, comunque, più facile realizzare forme di comunicazione non consentite tra il detenuto e il contesto criminale di provenienza, veicolabili proprio in occasione dei colloqui[29].
Ma, soprattutto, dopo la riforma del 2009 il colloquio deve essere sempre oggetto di videoregistrazione e di ascolto, anche in questo caso in deroga rispetto al regime ordinario, che vieta il controllo auditivo (mentre ammette la registrazione, senza ascolto, nei confronti dei detenuti o imputati per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis). L’ascolto, pur previsto obbligatoriamente dalla legge, deve essere comunque disposto dall’autorità giudiziaria, in virtù della doppia riserva, di legge e di giurisdizione, stabilita dall’art. 15, secondo comma, Cost.
Dopo i primi sei mesi di sottoposizione al regime differenziato, il colloquio visivo può essere da eventualmente sostituito da una telefonata della durata di soli dieci minuti.
Durante l’emergenza pandemica, la giurisprudenza di merito e di legittimità, andando di contrario avviso rispetto alle indicazioni dell’Amministrazione penitenziaria, ha consentito anche al detenuto in regime differenziato di effettuare colloqui visivi con i familiari mediante forme di comunicazione a distanza, ma soltanto in situazioni di impossibilità o, comunque, di gravissima difficoltà alla realizzazione dei colloqui in presenza (in argomento v. infra § 9.4).
In origine, il legislatore aveva, inoltre, previsto che con i difensori potesse effettuarsi, fino a un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari. Una disciplina che, come si dirà (v. infra § 7.2), è stata successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima.
Altra limitazione importante su cui è intervenuta la legge n. 94 riguarda la permanenza all’aria aperta. Mentre la legge del 2002 aveva stabilito che essa non potesse durare per più di quattro ore al giorno, fermo restando il limite minimo di 2 ore giornaliere previsto dall’art. 10 Ord. pen. (e salva la possibilità di ridurre tale periodo a non meno di 1 ora «soltanto per ragioni eccezionali»), la modifica del 2009 ha statuito, alla lett. f) del comma 2-quater, che la permanenza all’aperto debba avere una durata non superiore a due ore al giorno, fermo restando il limite minimo di cui al primo comma del citato art. 10; e che essa dovesse svolgersi in gruppi non superiori a quattro persone (cinque nel 2002). Come si vedrà, su questa materia, assai delicata per le sue connessioni con il diritto alla salute, fisica e psichica, della persona detenuta, sono intervenute varie pronunce della Corte di cassazione, che hanno accolto una interpretazione più ambia della durata minima della permanenza all’aperto, sino a un massimo di due ore (contro l’unica ora che era stata stabilita dall’Amministrazione penitenziaria); e, tuttavia, la scelta, maturata nel tempo dall’Amministrazione, di garantire tale possibilità soltanto a coloro i quali avevano fruttuosamente esperito i relativi strumenti di tutela ha finito per determinare, accanto al mancato riconoscimento dei diritti individuali, una situazione di totale confusione sul piano organizzativo, cui pare necessario porre, senz’altro, rimedio (v. infra § 9.2).
Inoltre, il legislatore del 2009 ha previsto l’adozione, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, delle misure necessarie a garantire la assoluta impossibilità di comunicare e di scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, nonché di cuocere cibi. Una disposizione sulla quale, come si dirà, si sono, ancora una volta, appuntate le ripetute censure della giurisprudenza, ordinaria e costituzionale.
Le limitazioni cui si è ora fatto cenno non possono incidere, per espressa indicazione normativa, sugli istituti trattamentali, non potendo le attività di osservazione e di trattamento individualizzato contemplate dall’art. 13 Ord. pen. essere sospese o soppresse, così come le attività rieducative di natura culturale, ricreativa o sportiva. Tuttavia, e questo è un elemento estremamente critico nell’attuale situazione penitenziaria che concerne le sezioni adibite al regime differenziato, non è infrequente che le attività trattamentali, se si eccettua la fruizione della socialità, siano pressoché inesistenti, finendo per prevalere, nella quotidiana gestione dei reparti, le esigenze di controllo proprie dell’istituto.
4.1. Le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria[30].
Si è detto che, nel tempo, il legislatore è intervenuto a indicare gli ambiti su cui, in rapporto agli scopi propri del regime differenziato, si avvertiva la necessità di stabilire delle limitazioni alle regole ordinarie del trattamento. Una scelta, questa, certamente doverosa, tenuto conto del fatto che talune di tali limitazioni afferiscono a diritti di rango costituzionale, sicché la decisione di non rimettere la relativa selezione all’Autorità amministrativa ha rappresentato una necessità assoluta, al fine di garantire, in termini generali, la compatibilità dell’istituto con i principi fondamentali dell’ordinamento. Tuttavia, al di là delle scelte specifiche del legislatore, alcune delle quali fin dall’origine fortemente discutibili e puntualmente censurate in sede di giudizio di legittimità costituzionale, un profilo problematico attiene, senza dubbio, alla forte incidenza che sui diritti delle persone sottoposte al regime differenziato producono le disposizioni di circolare attraverso cui l’Amministrazione penitenziaria ha definito le sue scelte organizzative. E’, questo, un aspetto caratteristico e forsanche inevitabile di ogni modello detentivo, atteso che le forme dell’organizzazione penitenziaria, necessariamente rimesse alla potestà dell’Amministrazione, hanno evidenti riflessi sulla dimensione individuale dei diritti delle persone detenute non agevolmente declinabili da una normazione legislativa generale e astratta. Ma questo dato non può che trovare un adeguato contrappeso nel controllo giurisdizionale, che, rifuggendo da una pretesa, che talvolta affiora in alcune decisioni, di sostituirsi alle legittime soluzioni attraverso cui l’Amministrazione esercita i suoi poteri di auto-organizzazione, possa verificare la ragionevolezza delle relative scelte (ovvero la congruità rispetto agli scopi dell’istituto). Un controllo che non può essere formale e che deve accompagnarsi a un atteggiamento collaborativo dell’Amministrazione, che deve conformarsi alle statuizioni giurisdizionali e non esercitarsi in comportamenti dilatori o, peggio, elusivi[31].
Venendo alle disposizioni con cui l’Amministrazione penitenziaria ha concretamente declinato le limitazioni stabilite, in via di principio, dalla norma primaria, giova soffermarsi sulla circolare n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017[32], che ha fissato la disciplina di dettaglio oggi ancora in vigore; e che insieme ai decreti ministeriali concernenti organizzazione e compiti del Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria[33], ovvero del personale che in concreto si occupa, specificamente, della gestione delle «Sezioni 41-bis», rappresenta l’ossatura della attuale disciplina amministrativa nella materia in esame.
La circolare, con i suoi 37 articoli, disciplina, in sostanza, ogni aspetto di dettaglio nella concreta organizzazione della vita delle sezioni e definisce gli spazi effettivi di libertà residua che le persone sottoposte al regime differenziato possono esercitare. Essa nasce dalla ritenuta necessità di uniformare il più possibile detta regolamentazione mediante disposizioni di carattere generale riguardanti «le modalità di contatto dei detenuti e degli internati sottoposti al regime tra loro e con la comunità esterna, con particolare riferimento ai colloqui con i minori; al dovere in capo al direttore dell’istituto di rispondere entro termini ragionevoli alle istanze dei detenuti; alla limitazione delle forme invasive di controllo dei detenuti ai soli casi in cui ciò sia necessario ai fini della sicurezza; alla possibilità di tenere, all’interno della camera detentiva, libri e altri oggetti utili all’attività di studio e formazione; alla possibilità di custodire effetti personali di vario genere, anche allo scopo di favorire l’affettività dei detenuti e il loro contatto con i familiari[34]». E ciò sia per favorire l’attività istituzionale del personale di Polizia penitenziaria dedicato, che secondo la previsione del decreto del Ministro della giustizia del 30 luglio 2020, ruota con cadenza periodica (da cui la denominazione di Gruppo operativo mobile) e che, dunque, deve avere dei riferimenti operativi sufficientemente stabili; sia per evitare forme di disparità di trattamento che, oltre a essere vietate dall’ordinamento penitenziario, possono innescare dinamiche gravemente disfunzionali all’interno della struttura detentiva.
Tuttavia, come meglio si dirà (v. infra § 8.4), l’intervento della magistratura di sorveglianza e, in generale, l’amplissimo contenzioso che ha interessato numerose disposizioni delle circolari, spesso oggetto di differenti interpretazioni sul territorio nazionale, ha di fatto determinato una notevole frammentazione nell’assetto regolativo in essere nelle varie realtà penitenziarie, alimentando un contenzioso infinito sul piano giurisdizionale, cui ha corrisposto, da parte della Corte di cassazione, una sostanziale riscrittura della disciplina relativa ad alcuni istituti giuridici. E ciò ha in gran parte pregiudicato sia l’obiettivo di garantire l’uniformità di applicazione del trattamento differenziato presso le varie sezioni detentive, sia la sua stessa idoneità ad assicurare funzionalità al regime detentivo in questione.
5. La disciplina delle proroghe del regime differenziato.
La legge del 2002 prevedeva, al comma 2-bis, che il provvedimento applicativo avesse una durata non inferiore a un anno e non superiore a due e che esso potesse essere prorogato per periodi successivi, ciascuno pari a un anno, salvo che non risultasse che la capacità del detenuto o dell’internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive fosse venuta meno.
La riforma del 2009 ha, invece, stabilito che la prima applicazione del decreto duri quattro anni, dopo i quali la sottoposizione al regime differenziato può essere seguita da successive proroghe, ciascuna delle quali avente la durata di due anni.
Il decreto ministeriale di proroga deve essere motivato sulla base dell’accertata capacità della persona detenuta di mantenere contatti con l’organizzazione di appartenenza, da valutare in base a una serie di indici normativamente prestabiliti, quali: il suo profilo criminale, la posizione rivestita in seno all’associazione, la eventuale sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, la perdurante operatività del sodalizio criminale, il tenore di vita dei familiari, da valutare anche in rapporto all’esistenza di fonti di reddito lecite; gli esiti del trattamento penitenziario. Il legislatore ha peraltro precisato che, in ogni caso, il mero decorso del tempo è elemento da considerarsi di per sé neutro rispetto alla capacità del detenuto di mantenere contatti con l’associazione di riferimento o per dimostrare che la stessa non è più operativa.
Quello delle proroghe rappresenta, come si dirà, uno dei profili più critici dell’attuale assetto, considerato il rischio che, dopo la prima applicazione, le proroghe successive avvengano in maniera pressoché automatica[35]. Benché, come detto, la norma primaria preveda formalmente dei meccanismi di tutela giurisdizionale, gli elevati standard probatori richiesti dalla giurisprudenza e la deducibilità, in sede di ricorso per cassazione, della sola violazione di legge, rischiano di far sì il soggetto che vi è sottoposto possa uscire dal regime differenziato con estrema difficoltà. Nell’attuale panorama applicativo, infatti, sono assai frequenti i casi di sottoposizione all’art. 41-bis Ord. pen. da oltre vent’anni; e questo dato, al di là delle singole vicende, non può non suscitare, nell’osservatore attento e non prevenuto, giustificati interrogativi sull’attuale sistema.
6. La tutela giurisdizionale.
Si è detto che con la novella del 2009 è stata espressamente prevista la possibilità di proporre reclamo avverso il provvedimento applicativo e gli eventuali provvedimenti successivi di proroga al Tribunale di sorveglianza di Roma, il cui sindacato, secondo la lettera della norma, non sembrerebbe estensibile al giudizio di congruità delle limitazioni delle regole ordinarie di trattamento rispetto alle finalità dell’istituto. Tale valutazione, come ricordato, è stata però ammessa dalla Corte costituzionale, la quale ha ritenuto che rientrasse nell’ambito dei principi generali in materia di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti il controllo sulla legittimità delle singole limitazioni alle regole di trattamento, in particolare con riferimento alla loro congruità rispetto alle finalità perseguite dal regime differenziato, oggi definitivamente rimesso alla “giurisdizione diffusa” dei magistrati di sorveglianza del luogo di detenzione[36]. Scelta ineccepibile sul piano sistematico, anche se foriera, come detto, di notevoli disomogeneità interpretative, che allo stato costituiscono, come si vedrà, un problema di notevole complessità.
[1] Nel solo mese di gennaio 1977 si registrarono ben 15 evasioni.
[2] Per un giudizio problematico sul sistema delle carceri speciali, v. G. La Greca, Documenti per una riflessione sugli istituti di “massima sicurezza”, in Foro it., 1983, II, pag. 473; T. Padovani, Ordine pubblico e Ordine penitenziario: un’evasione dalla legalità, in Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, a cura di V. Grevi, Bologna, 1981, pag. 285; Genghini, Sicurezza negli istituti penitenziari. Diritti soggettivi ed interessi legittimi del detenuto e loro tutela, in Diritto penitenziario e misure alternative, supplemento n. 1 e 2 della rassegna il Consiglio superiore della Magistratura, Roma, 1979.
[3] In argomento v. A. Gerini, S. Merlo, Profili di costituzionalità dell’articolo 90, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, 1985.
[4] Sulla compatibilità tra i due istituti, v. recentemente Sez. 1, n. 2555 del 27/09/2022, Attanasio, Rv. 283866 - 01.
[5] L. Cesaris, art. 41 bis o.p., in Ordinamento penitenziario, a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Padova, 2019, pagg. 536 ss. In argomento v. anche S. F. Vitello, Brevi riflessioni sull’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario nel più vasto contesto del sistema penitenziario, in Cass. Pen., 1994, pag. 2861; A. Morosini, L’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario: genesi e sviluppo di un regime detentivo differenziato, in Esecuzione penale e ordinamento penitenziario, a cura di P. Balducci - A. Marcillò, Milano, 2020.
[6] Sull’istituto nel primo periodo della sua applicazione v. L. Comucci, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie dall’ordinamento del 1975 ai provvedimenti per la lotta alla criminalità organizzata, in Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, a cura di A. Presutti, 1994; V. GREVI, Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa sociale e incentivi alla collaborazione con la giustizia, in AA.VV., L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, 1994, pag. 3.
[7] Per l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sull’art. 41-bis, v. A. Della Bella, Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali. Presente e futuro del regime detentivo speciale ex art. 41-bis o.p., Milano, 2016, pagg. 139-158; L. Pace, Libertà personale e pericolosità sociale: il regime degli articoli 4-bis e 41-bis dell’ordinamento penitenziario, in I diritti dei detenuti nel sistema costituzionale, a cura di M. Ruotolo e S. Talini, Napoli, 2017, pagg. 408 ss.
[8] Va evidenziato che con riferimento alla possibilità di una tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti di applicazione del regime differenziato, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, con nota n. 9725/477765 in data 1/03/1993, precisò che l’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen. non prevedeva, per scelta del legislatore, la possibilità di esperire mezzi di impugnazione presso il magistrato o il tribunale di sorveglianza, ferma restando la facoltà del detenuto di adire il tribunale amministrativo regionale, secondo i principi generali della giustizia amministrativa.
[9] Sull’argomento, più di recente, V. Manca, Il principio di proporzionalità “cartina tornasole” per il regime del 41-bis O.P.: soluzioni operative e suggestioni de iure condendo, in Giurisprudenza penale (Rivista web), 2020.
[10] Su tale sentenza v. L. Cesaris, In margine alla sent. Corte cost. n. 367/1997 comma 2 ord. penit. Norma effettiva o norma virtuale?, in Cass. pen., 1998, pag. 3179.
[11] In argomento v. S. Ardita, Sub 41 bis, in L’esecuzione penale – Ordinamento penitenziario e leggi complementari, a cura di F. Fiorentin – F. Siracusano, Milano, 2019, pagg. 535-537.
[12] In argomento v. C. Minnella, La giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo sul regime carcerario ex art. 41 bis ord. penit. e la sua applicazione nell’ordinamento italiano, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2004, n. 3, pagg. 197 ss.
[13] Con la sentenza 6 aprile 2000, Labita/Italia, la Corte europea sottolineò come il detenuto sottoposto al regime differenziato non potesse essere assoggettato al visto di controllo sulla corrispondenza, incidente su un diritto contemplato dall’art. 8 C.E.D.U. non avendo detta misura alcun fondamento legale nell’art. 41-bis Ord. pen.
[14] V. Corte europea dei diritti dell’Uomo, 18 maggio 1998, Natoli/Italia, in Foro it., IV, 1998, pag. 321, con nota di G. La Greca, Diritti dell’uomo e regime dell’art. 41 bis ord. penit.; Corte europea 6 aprile 2000, Labita/Italia; Corte europea, 28 settembre 2000, Messina/Italia. Analoga posizione verrà poi ribadita da Corte europea, 27 marzo 2008, Guidi/Italia, proc. n. 28320/02 e, ancor prima, da Corte EDU, 30 ottobre 2003, Ganci/Italia, proc. n. 41576/98.
[15] Corte EDU, Grande Camera, Labita/Italia, 6 aprile 2000, proc. n. 26772/95. Su tale pronuncia v. G. La Greca, La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso Labita, in Rass. penit. crimin., 2000, I-III, pagg. 199 ss.
[16] Corte EDU, Sez. II, 28 settembre 2000, Messina/Italia, proc. n. 25498/94.
[17] L’art. 1, legge 16 febbraio 1995, n. 36, aveva prorogato il termine di applicazione dell’art. 41-bis Ord. pen. al 31 dicembre 1999. In seguito, la legge 26 novembre 1999, n. 446, aveva prorogato il termine al 31 dicembre 2000; e il decreto legge n. 341 del 2000, convertito nella legge 19 gennaio 2001, n. 4, aveva esteso la proroga al 31 dicembre 2002.
[18] Sulla disciplina dettata dalla legge del 2002, v. S. Ardita, Il nuovo regime dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, in Cass. pen., 2003, pagg. 4 e ss.; S. Ardita, La riforma dell’art. 41-bis o.p. alla prova dei fatti, in Cass. pen., 2004.
[19] Si vedano, su tali punti, le già citate sentenze della Corte costituzionale n. 351 del 1996, n. 376 del 1997.
[20] In argomento A. Della Bella, Il regime detentivo speciale del 41 bis: quale prevenzione speciale nei confronti della criminalità organizzata?, Milano, 2012; F. Corleone, A. Pugiotto, Volti e maschere della pena. Opg e carcere duro, muri della pena e giustizia riparativa, Roma, 2013, pagg. 161-221; P. Corvi, Trattamento penitenziario della criminalità organizzata, Padova, 2010.
[21] Così atti del Senato della Repubblica, n. 733-A, Relazione delle Commissioni permanenti 1ª e 2ª Riunite, pag. 7.
[22] C. Fiorio, Il trattamento penitenziario nei confronti degli appartenenti alla criminalità organizzata: artt. 4-bis e 41-bis ord. penit., in A. Bargi (a cura di), Il «doppio binario» nell’accertamento dei fatti di mafia, Torino, 2013, pag. 1161; F. Fiorentin, Regime penitenziario speciale del “41-bis” e tutela dei diritti fondamentali, in Rass. penit. crim., 2, 2013, pagg. 188-201.
[23] Sulle modifiche del 2009 vi era stato un “avvertimento” in occasione del Report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura sulla visita dal 14 al 26 settembre 2008.
[24] Secondo quanto stabilito dall’art. 3 (Struttura del G.O.M.) del d.m. 30 luglio 2020, il G.O.M. è un ufficio di livello dirigenziale non generale costituito nell’ambito dell’Ufficio del Capo del Dipartimento e che opera alle sue dirette dipendenze; si articola in un Ufficio centrale e in Reparti operativi mobili istituiti presso istituti penitenziari e servizi territoriali dell’Amministrazione penitenziaria per il tempo necessario all’espletamento del servizio in tali sedi. Secondo l’art. 2 del citato decreto, il G.O.M. provvede, tra l’altro, alla vigilanza e all’osservazione dei detenuti sottoposti al regime previsto dall’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen.; allo svolgimento di attività di controllo della corrispondenza, dei colloqui visivi e telefonici, del sopravvitto, della ricezione dei pacchi, nonché di ogni altro servizio riguardante i suddetti detenuti; alla vigilanza e osservazione dei detenuti che collaborano con la giustizia in quanto maggiormente esposti a rischio; alle traduzioni e ai piantonamenti di detenuti e internati ritenuti dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento ad elevato indice di pericolosità; tali servizi possono essere espletati, per motivi di sicurezza e riservatezza, con modalità operative anche in deroga alle vigenti disposizioni amministrative in materia; alla vigilanza e osservazione di detenuti per reati di terrorismo, anche internazionale, specificamente individuati dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento, anche se ristretti in regimi diversi da quello previsto dall’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen. Su disposizione del Capo del Dipartimento, il G.O.M. può essere impiegato: nei casi previsti dall’art. 41-bis, comma 1, Ord. pen.; in ogni altro caso di emergenza del sistema penitenziario.
[25] Oltre che nei confronti di soggetti o in espiazione di pena o in esecuzione di misura di sicurezza, il provvedimento applicativo può essere emesso anche nei confronti degli imputati in misura cautelare, posto che, in tal caso, le limitazioni imposte hanno natura di prevenzione e non sono in contrasto con la presunzione di non colpevolezza (v. Corte costituzionale, sentenze n. 376 del 1997 e n. 197 del 2021).
[26] In base alle statuizioni di Sez. U, n. 14 del 30/06/1999, Ronga, un primo indirizzo riteneva che il regime differenziato potesse permanere fintanto che il detenuto non avesse scontato la porzione di pena relativa alla condanna per uno dei reati per i quali è previsto l’art. 41-bis Ord. pen.; mentre secondo altro indirizzo della giurisprudenza di legittimità, si riteneva «irrilevante la circostanza che il condannato, detenuto in virtù di un cumulo comprensivo di pene per reati legittimanti l’applicazione del predetto regime e per altri reati, abbia già espiato la parte di pena relativa ai primi reati, tenuto conto non solo del principio di unicità della pena di cui all’art. 76, comma 1, c.p., ma anche delle specifiche finalità di ordine e sicurezza del regime differenziato» (così Sez. 1, 11/07/2008, Della Ventura, Rv. 240938).
[27] Sul tema delle applicazioni del principio di ragionevolezza sotto il profilo della idoneità della norma a raggiungere l’obiettivo ad essa conferito si veda A. Cerri, Spunti e riflessioni sulla ragionevolezza nel diritto, in Diritto pubblico, 2/2016, pagg. 625 ss.
[28] Una chiara indicazione in questo senso è stata recentemente fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 197 del 2021, ove è stato affermato, con specifico riferimento alla situazione degli internati, ma con affermazione di principio chiaramente generalizzabile, che i decreti applicativi debbano essere modulati in maniera diversa a seconda delle esigenze trattamentali dei singoli destinatari.
[29] Sez. 1, n. 5446 del 15/11/2019, dep. 2020, Amato, Rv. 278180 – 01; Sez. 1, n. 23945 del 26/06/2020, Rv. 279526 – 01.
[30] C. Fiorio, Le prescrizioni trattamentali e le fonti normative, dalla legge alla circolare amministrativa 2 ottobre 2017, in Giurisprudenza penale (Rivista web), 2020.
[31] L’obbligo dell’Amministrazione penitenziaria di dare esecuzione ai provvedimenti assunti dalla magistratura di sorveglianza a tutela dei diritti dei detenuti è stato affermato, come noto, da Corte cost. 7 giugno 2013, n. 135, in Dir. pen. cont., 2013, con nota di A. Della Bella, La Corte costituzionale stabilisce che l’Amministrazione penitenziaria è obbligata ad eseguire i provvedimenti assunti dal magistrato di sorveglianza a tutela dei diritti dei detenuti.
[32] In argomento si veda V. Manca, il Dap riorganizza il 41-bis o.p.: un difficile bilanciamento tra prevenzione sociale, omogeneità di trattamento e umanità della pena. Brevi note a margine della circolare Dap n. 3676/616 del 2 ottobre 2017, in Dir. pen. cont., 6 novembre 2017.
[33] Ci si riferisce ai decreti ministeriali del 19 febbraio 1999, del 4 giugno 2007 e del 30 luglio 2020.
[34] Quanto alla nozione di “familiari”, va ricordato che l’art. 16 della circolare DAP del 2 ottobre 2017 la circoscrive ai parenti entro il terzo grado. Per tale ragione la giurisprudenza ha escluso il colloquio con il figlio del nipote ex fratre, in quanto parente di quarto grado: Sez. 1, n. 9169 del 14/12/2022, dep. 2023, Mineo, Rv. 284066 - 01.
[35] Tale rischio era già stato evidenziato nel Report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura sulla visita dal 14 al 26 settembre 2008.
[36] V. Corte cost. n. 190 del 2010. In argomento F. Della Casa, Interpretabile secundum Costitutionem la normativa che ha dimezzato il controllo giurisdizionale sulla detenzione speciale?, in Giur. it., 2010, pagg. 2511 ss.; M. Ruotolo, Tra integrazione e maieutica: Corte costituzionale e diritti dei detenuti, in Rivista AIC, 3, 2016, pagg. 21-22.
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