ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I dati ministeriali di attuazione del PNRR relativi alle performance nazionali e dei diversi uffici giudiziari sono un formidabile giacimento di informazioni e potrebbero rappresentare una base preziosissima per impostare una linea di azione per raggiungere con successo gli obiettivi delineati dal PNRR sulla giustizia.
I dati nazionali sono apparentemente incoraggianti
Dati che non analizzano se la riduzione di tempi e pendenze in atto in particolare nel settore civile sia frutto degli interventi messi in campo con il PNRR o semplicemente una tendenza consolidata e forte in corso da anni, agevolata da una costante riduzione delle sopravvenienze, che ha portato, ben prima del PNRR, in dieci anni, a ridurre le pendenze della metà e ad avere un trend estremamente positivo anche negli ultimi anni.
Come si vede non si avverte un salto di qualità nel settore civile, mentre una notevole differenza si riscontra nel settore penale, anche se in questo ambito sarebbe opportuno scindere il dato del dibattimento da quello del Gip, ove vi è il maggiore flusso di affari anche di semplice definizione (la grande mole di archiviazioni e decreti penali). Probabilmente comunque questo forte passo in avanti deriva anche dal fatto che il settore penale é stato per anni ai margini dei processi di innovazione, anche tecnologici, e l’introduzione dell’ufficio per il processo ha rappresentato uno stimolo del tutto nuovo. Facendo semplici calcoli matematici, come tali inevitabilmente traditori, continuando di questo passo l’obiettivo del 40 % nella riduzione dei tempi nel settore civile potrebbe essere raggiunto nel 2028, mentre per il penale la riduzione dei tempi del 25 % potrebbe essere raggiunta nel 2027. Questo ovviamente a sopravvenienze e tassi di definizione invariati.
Da un’analisi dei dati ministeriali non risulta ci sia stato quel forte aumento di produttività nel settore civile che in particolare la concretizzazione dell’ufficio per il processo auspicava, mentre occorrerà verificare se i positivi dati del settore penale continueranno o rallenteranno, a causa dell’esaurimento dei procedimenti arretrati di più semplice definizione.
Una comparazione tra il 2021, anno di ripresa dopo il COVID, precedente al PNRR e ai suoi interventi, ed il 2022, primo periodo in cui sono stati messi in atto una parte di questi interventi, é di grande interesse e fornisce elementi estremamente rivelatori.
Il tasso di aumento dei processi definiti, la riduzione dell’arretrato e la diminuzione dei tempi processuali sono i dati che possono farci capire se hanno avuto effetto e rilievo i primi interventi posti in essere, ovvero l’assunzione della prima e più ampia tranche di funzionari UPP avvenuta nel febbraio 2022, e l’inizio nel marzo 2022 del Progetto Pon Governance di collaborazione con le Università e di sostegno all’Ufficio per il processo.
Questo ci consente di verificare, sia pure con le necessarie cautele, se sia aumentata la produttività degli uffici e se questo abbia cominciato a ripercuotersi positivamente sui tempi processuali.
Necessarie cautele perché il percorso è cominciato nel febbraio 2022 e, per le Università, nel marzo, e non si possono pretendere risultati subito, scontando inevitabilmente un periodo di formazione, di preparazione e un abbrivio iniziale. Non solo, ma occorre tener conto che il raffronto viene effettuato con il 2021, anno post COVID, in cui era stato effettuato un forte recupero rispetto all’anno precedente. Pure una tendenza, anche limitata, si comincia ad avvertire.
I risultati sono chiari.
Non si è avuto un aumento delle definizioni nel settore civile, dove sono addirittura diminuite, mentre sono aumentate nel settore penale in particolare nelle Corti di appello.
Quanto all’arretrato risulta penalizzante e altera il quadro l’impatto dei procedimenti ultratriennali di protezione internazionale che, maturando nel 2022, forniscono dati di aumenti indiscriminati per i Tribunali distrettuali maggiormente impegnati nel settore e che condizionano pesantemente il dato generale (si arriva al + 155,08 %).
La riduzione dei tempi, calcolati con la formula del disposition time, è altrettanto significativa e segna un primo chiaro positivo impatto.
Questi dati fanno pensare come in molti uffici l’attività, anche dell’ufficio per il processo, sia stata concentrata sull’eliminazione dell’arretrato e di procedimenti datati piuttosto che su di un aumento quantitativo della produttività.
I dati locali sono poi di grande interesse, con alcuni picchi difficilmente comprensibili e che probabilmente scontano errori di registrazione o di rilevazione come l’aumento dei tempi del 61,51% nel settore penale di una Corte e l’aumento dell’arretrato civile del 77,17 % in un Tribunale). Si denota una realtà a macchia di leopardo, senza costanti né a livello geografico, né a livello dimensionale. Anzi è positivo che spesso gli uffici con migliori performance sono uffici del Sud che partivano da una situazione più sfavorita, mentre gli uffici più virtuosi che partivano da situazioni più favorevoli inevitabilmente registrano performance nella media.
Ma, va detto, in questa analisi mancano dati fondamentali per capire performance e difficoltà: il numero di funzionari UPP assegnati e quelli realmente arrivati e rimasti, la scopertura di organico effettiva sia a livello di personale amministrativo che di magistrati ed infine, elemento cruciale, i modelli organizzativi adottati. Solo unendo le performance realizzate con il dato relativo alle risorse umane disponibili e a come sono state organizzate si potrebbe capire la realtà dei diversi uffici, la bontà delle scelte organizzative adottate e i rimedi da mettere in campo.
Dal monitoraggio occorrerebbe quindi partire per costruire un modello di analisi che metta in relazione risultati, risorse e modello organizzativo. Focus che si potrebbe realizzare, anche con l’aiuto delle Università che sono state coinvolte in un progetto di sostegno, per capire le scelte organizzative più proficue e aiutare gli uffici che si sono scontrati con ostacoli.
Perché il quadro che emerge conferma utilità e potenzialità dell’ufficio per il processo, che sconta un difetto di origine e che dimostra enormi possibilità di crescita.
Difetto di origine in quanto realizzato in modo parziale con personale a tempo determinato a cui non sono state date chiare prospettive professionali, che in una rilevante quota se ne è già andato (ben 2286, ovvero oltre un quarto degli assunti), giustamente attratto da altri concorsi per posti a tempo indeterminato, e che in una percentuale significativa è stato utilizzato per coprire i sempre più ampi buchi degli organici del personale amministrativo.
Enormi possibilità per il futuro perché, finita la fase iniziale e di assestamento, potrà esplicare fino in fondo le sue capacità, contribuendo tra l’altro alla formazione di una nuova generazione di giuristi.
Ma l’ufficio per il processo necessita anche di essere seguito con continuità con focus sulle situazioni di difficoltà ed esportazione di modelli virtuosi, senza lasciare gli uffici a loro stessi come in sostanza è avvenuto.
C’è difatti assolutamente bisogno di una governance del complessivo progetto se vogliamo raggiungere gli obiettivi. Governance oggi del tutto insoddisfacente. Ministero, Scuola Superiore della Magistratura e Consiglio Superiore della Magistratura hanno realizzato iniziative apprezzabili, inevitabilmente estemporanee, che però non solo mancano di coordinamento, ma non hanno quella indispensabile caratteristica di costante monitoraggio, verifica, sostegno agli uffici, soluzione dei problemi. Questo perché dirigere non vuol dire in primo luogo comandare, ma aiutare e risolvere.
Il problema oggi non è polemizzare, ma operare le necessarie correzioni in corsa, dato che abbiamo ancora tre anni alla fine del PNRR e abbiamo tutti gli spazi per farlo.
Un’ultima osservazione che é comunque determinante.
Ci siamo presi con il PNRR un impegno ambiziosissimo di riduzione di tempi e pendenze da far tremare i polsi e i riscontri come vediamo richiedono ancora più impegno, oltre che un salto di qualità. É possibile raggiungere gli obiettivi, ma solo con determinazione e impegno e mantenendo per un congruo lasso di tempo una stabilità normativa e organizzativa. Pensare di lanciare continue riforme senza mai aspettare ed analizzare gli esiti e i risultati di quella appena realizzata in una continua rincorsa, spendibile forse per la propaganda, ma non per un effettivo cambiamento della giustizia, è segno di una bulimia falsamente riformatrice che è caratteristica del nostro sistema politico. Proseguire nella pretesa di rivoluzionare l’organizzazione degli uffici giudiziari, creando il nuovo Tribunale delle persone e dei minori o introducendo il Gip collegiale cautelare, vuol dire semplicemente abbandonare gli obiettivi del PNRR. Ce ne sia consapevolezza e lo si dica chiaramente.
Sommario: 1. La vicenda - 2. Il “cumulo alla rinfusa” alla luce delle modifiche legislative e degli orientamenti giurisprudenziali. - 2.1. La natura giuridica dei consorzi stabili. - 2.2 L’evoluzione della disciplina del cumulo alla rinfusa. - 3. La decisione del Consiglio di Stato. - 4. Conclusioni: uno sguardo al nuovo Codice appalti.
1. La vicenda
La sentenza del Consiglio di Stato costituisce l’occasione per affrontare una tematica molto dibattuta in giurisprudenza che attiene, in generale, ai requisiti di partecipazione alle procedure di gara dei consorzi stabili e, in particolare, alla sopravvivenza o meno del requisito del “cumulo alla rinfusa” a seguito delle molteplici novelle legislative intervenute, fino al nuovo Codice appalti, d. lgs. 36/2023.
La vicenda oggetto del contenzioso originava dall’impugnazione da parte di un consorzio stabile, risultato aggiudicatario di un appalto di servizi[1], dell’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione disposto dalla stazione appaltante sul rilievo del difetto, in capo all’impresa appartenente al consorzio designata come esecutrice, delle certificazioni[2] richieste dal bando di gara tra i requisiti di capacità tecnico – professionale per le attività oggetto dell’appalto.
In particolare, il bando di gara richiedeva il possesso dei requisiti di capacità tecnico - professionale, in capo sia al consorzio che a ciascuno dei consorziati per conto dei quali il consorzio partecipava alla gara. Il consorzio stabile ricorrente, pur possedendo in proprio tutti i requisiti richiesti dal disciplinare (eccezion fatta per il requisito tecnico del fatturato specifico medio per il quale si avvaleva del fatturato specifico dell’impresa consorziata) indicava, in fase di presentazione della domanda, un’impresa consorziata quale esecutrice dell’appalto.
A seguito dell’aggiudicazione a favore del medesimo consorzio, la stazione appaltante, in sede di verifica dei requisiti del concorrente, rilevava l’inidoneità delle certificazioni possedute dalla consorziata esecutrice designata a coprire le attività oggetto dell’appalto; conseguentemente, disponeva l’annullamento dell’aggiudicazione, ritenendo le giustificazioni rese dalla esecutrice designata non idonee (in quanto “le certificazioni di qualità dovevano essere possedute alla data di scadenza della presentazione delle offerte, a nulla rilevando che l’iter di estensione del perimetro [delle stesse] fosse stato avviato entro il predetto termine”)[3] e sostenendo di non poter accogliere la richiesta avanzata dal consorzio stabile di sostituire l’esecutrice con altra consorziata, al fine di non eludere il principio di immodificabilità soggettiva ex art. 48 co. 19-ter in caso di mancanza di requisiti di partecipazione alla gara. La Stazione appaltante non si pronunciava, invece, sull’altra possibilità, pure prospettata, di assunzione in proprio dell’esecuzione, essendo il consorzio in possesso di tutti i requisiti di partecipazione alla gara e le certificazioni di qualità richieste.
Avverso le determinazioni della Stazione Appaltante, il consorzio proponeva ricorso dinanzi al T.A.R. del Lazio, sede di Roma, chiedendo l’annullamento del provvedimento di annullamento dell’aggiudicazione e il risarcimento del danno in forma specifica mediante l’aggiudicazione del contratto o, in subordine, il risarcimento del danno per equivalente. Successivamente, il consorzio ricorrente chiedeva, con motivi aggiunti, l’annullamento dell’aggiudicazione disposta a favore del secondo classificato, per illegittimità derivata.
Il TAR Lazio, Sez. III, con sentenza n. 2751/2022, respingeva il ricorso ritenendo, in primis, che, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, talune delle certificazioni oggetto dell’appalto, lungi dall’essere mere certificazioni di qualità a corredo dell’offerta tecnica, rientravano tra i livelli minimi di capacità richiesti nel Bando di gara per la partecipazione alla gara, ovverosia tra i requisiti di partecipazione; inoltre, i Giudici di prime cure statuivano che il Consorzio non potesse sostituire i propri requisiti a quelli della consorziata indicata come esecutrice, “stante l’avvenuta abolizione del cumulo alla rinfusa ad opere del Decreto Sblocca cantieri, ostando a tale argomento l’art. 47, co. 2, del D. Lgs. n. 50/2016 come modificato dal D.L. 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 giugno 2019, n. 55 (c.d. Decreto Sblocca cantieri), il quale dispone che i consorzi stabili di cui agli articoli 45, comma 2, lettera c), e 46, comma 1, lettera f), eseguono le prestazioni o con la propria struttura o tramite i consorziati indicati in sede di gara senza che ciò costituisca subappalto, stabilendo altresì che “la sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l’affidamento di servizi e forniture è valutata, a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati (47, co. 2 –bis, D. Lgs. n. 50/2016)”.
La sentenza veniva impugnata dinanzi al Consiglio di Stato, in quanto ritenuta viziata per error in iudicando ed error in procedendo.
Sotto il primo profilo (error in iudicando), il Consorzio eccepiva una errata interpretazione dei fatti, nonché della lex specialis di gara e del D. Lgs. 50/2016 da parte del giudice di prime cure. In primo luogo, la mancanza della certificazione di qualità non era prevista a pena di esclusione dalla lex specialis, né la sua carenza in capo alla impresa consorziata avrebbe potuto precludere la partecipazione alla gara al Consorzio stabile, il quale possedeva in proprio anche le certificazioni di qualità richieste. Inoltre, proprio perché direttamente in possesso anche di tutti i requisiti di capacità tecnico professionale, oltre che delle richiamate certificazioni di qualità, il consorzio rilevava che la stazione appaltante era incorsa nel vizio di eccesso di potere laddove aveva negato la possibilità di eseguire in proprio l’appalto sulla base della ritenuta abolizione del “cumulo alla rinfusa” ad opera del decreto “Sblocca cantieri”; peraltro, il consorzio sottolineava la non necessità di avvalersi del c.d. principio del “cumulo alla rinfusa” per poter eseguire in proprio i servizi oggetto dell’appalto, possedendo in proprio i requisiti per la partecipazione alla gara.
Sotto il secondo profilo (error in procedendo), il consorzio lamentava la omessa pronuncia da parte del giudice di prime cure sulla motivazione non fornita dalla Stazione appaltante circa la mancata concessione al consorzio della possibilità di sostituirsi all’impresa consorziata, laddove il giudice aveva rigettato il ricorso sulla base del semplice rilievo dell’inapplicabilità del principio del cumulo alla rinfusa.
2. Il “cumulo alla rinfusa” alla luce delle modifiche legislative e degli orientamenti giurisprudenziali.
Al fine di comprendere la vexata quaestio in relazione ai requisiti di partecipazione dei consorzi stabili alle gare di appalto, giova ripercorre l’evoluzione normativa che ha interessato l’istituto[4], principiando dalla ratio ad esso sottesa.
2.1. La natura giuridica e la ratio dei consorzi stabili
L’istituto dei consorzi stabili costituisce attuazione dei principi euro-unitari di concorrenza e favor partecipationis, in quanto espressione del più ampio fenomeno della partecipazione aggregata alle gare ad evidenza pubblica e del principio di neutralità delle forme[5].
L’art. 45, co. 2, lett. c), del d. lgs. n. 50/2016 definisce i consorzi stabili come quegli operatori economici “costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile, tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro”; inoltre, prevede che “i consorzi stabili sono formati da non meno di tre consorziati che, con decisione assunta dai rispettivi organi deliberativi, abbiano stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, istituendo a tal fine una comune struttura di impresa”[6].
In linea con la ratio pro-concorrenziale dell’istituto, l’art. 83, co. 2, d. lgs. n. 50/2016, nel trattare dei requisiti speciali, esplicita l'interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione, anche al fine di favorire l'accesso da parte delle microimprese e delle piccole e medie imprese[7].
Secondo la dottrina, il consorzio stabile costituisce una evoluzione della figura tradizionale disciplinata dagli artt. 2602 ss. c.c. e si colloca in una posizione intermedia fra le associazioni temporanee e gli organismi societari risultanti dalla fusione di imprese, soggetti sia alla disciplina civilistica che pubblicistica[8].
Alla luce di tale connotazione, la giurisprudenza unanime ha chiarito che “Il consorzio stabile è un soggetto giuridico autonomo, costituito in forma collettiva e con causa mutualistica, che opera in base a uno stabile rapporto organico con le imprese associate, il quale si può giovare, senza necessità di ricorrere all'avvalimento, dei requisiti di idoneità tecnica e finanziaria delle consorziate stesse, secondo il criterio del cumulo alla rinfusa”. Ne consegue che il consorzio stabile “è il solo soggetto che domanda di essere ammesso alla procedura e va a stipulare il contratto con l'amministrazione in nome proprio, anche se per conto delle consorziate cui affida i lavori; è il consorzio ad essere responsabile dell'esecuzione delle prestazioni anche quando per la loro esecuzione si avvale delle imprese consorziate, le quali comunque rispondono solidalmente al consorzio per l'esecuzione ai sensi dell'art. 94, comma 1, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 e art. 48, comma 2, d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50”[9].
Pertanto, al fine di attribuire al consorzio la qualifica di “stabile” risulta essenziale la sussistenza del c.d. elemento teleologico, ossia l'astratta idoneità del consorzio, prevista nel relativo statuto, di operare con un'autonoma struttura di impresa, capace di eseguire le prestazioni previste nel contratto anche in proprio[10].
Proprio per la struttura giuridica del consorzio stabile, la Corte di Giustizia UE è giunta ad ammettere la contemporanea partecipazione alla medesima gara del consorzio stabile e della consorziata, ove quest’ultima non sia stata designata per l’esecuzione del contratto e non abbia quindi concordato la presentazione dell’offerta[11]
Ciò consente di differenziare il consorzio stabile innanzitutto dal consorzio ordinario[12], laddove “il consorzio ordinario, pur essendo un autonomo centro di rapporti giuridici, non comporta l'assorbimento delle aziende consorziate in un organismo unitario costituente un'impresa collettiva, né esercita autonomamente e direttamente attività imprenditoriale, limitandosi a disciplinare e coordinare le azioni degli imprenditori riuniti”[13]. Il consorzio stabile, poi, configura una modalità organizzativa che si differenzia anche dal raggruppamento temporaneo di imprese, laddove le singole imprese componenti il raggruppamento non perdono la propria autonomia e il raggruppamento non viene a costituire un ente giuridico autonomo[14].
Nonostante la diversa struttura, il legislatore ha ritenuto di estendere anche ai consorzi stabili la disciplina dettata per i raggruppamenti in punto di modifiche soggettive ed in particolare i commi 7-bis e 19-bis dell’art. 48, del d. lgs. n. 50/2016, volti ad ammettere una modifica della compagine sociale solo per fatti o atti sopravvenuti e in riduzione per motivi organizzativi, a condizione che la modifica soggettiva non sia finalizzata ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione in capo all'impresa consorziata, come recentemente ribadito dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2022[15].
2.2. L’evoluzione della disciplina del cumulo alla rinfusa
Volendo segnare le tappe evolutive che hanno interessato l’istituto del cd. “cumulo alla rinfusa”, occorre principiare dal d.lgs. n. 163/2006, il quale all’art. 35 prevedeva che: “i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento dei soggetti di cui all’articolo 34, comma 1, lettere b) e c)[16], devono essere posseduti e comprovati dagli stessi, secondo quanto previsto dal regolamento, salvo che per quelli relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo, che sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”.
Il successivo art. 36, comma 7, d.lgs. n. 163/2006 affermava che “il consorzio stabile si qualifica sulla base delle qualificazioni possedute dalle singole imprese consorziate”, e dettava criteri puntuali per l’acquisizione delle qualifiche con specifico riferimento agli appalti di lavori[17], delineando, in altri termini, il criterio del c.d. cumulo alla rinfusa, per descrivere la possibilità per il consorzio stabile di fruire, alternativamente o in aggiunta ai requisiti propri, dei requisiti delle consorziate, nell’ottica della ratio pro-concorrenziale dell’istituto.
Dal canto suo, la giurisprudenza, sotto la vigenza del d.lgs. 163/2006 ammetteva pacificamente la possibilità di applicare il cumulo alla rinfusa ai Consorzi stabili, anche per i requisiti tecnico-finanziari non posseduti in proprio dalla consorziata esecutrice individuata dal Consorzio in sede di gara, come si evince dalla sentenza della Adunanza Plenaria n. 8 del 2012, secondo la quale: “il possesso dei requisiti generali e morali ex art. 38 codice appalti deve essere verificato non solo in capo al consorzio ma anche alle consorziate, dovendosi ritenere cumulabili in capo al consorzio i soli requisiti di idoneità tecnica e finanziaria ai sensi dell’art. 35 codice appalti”.
Le certezze cristallizzate sotto la vigenza del d. lgs. 163/2006 iniziano a venire meno con l’avvento del d. lgs. 50/2016, soprattutto in occasione delle modifiche legislative introdotte, dapprima, con il d. lgs. 56/2017 e, poi, con il d. l. n. 32/2019, cd. “Sblocca cantieri”, a seguito delle quali ci si è interrogati sulla permanenza e sui limiti di applicazione dell’istituto del “cumulo alla rinfusa”.
In particolare, ferma restando la necessità che i requisiti di ordine morale di cui all’art. 80 siano posseduti sia dal consorzio che dalle singole consorziate, per i requisiti di ordine speciale, l’art. 47, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016, conformemente al precedente art. 35 del d. lgs. 163/2006, prevede che “i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento dei soggetti di cui all’articolo 45, comma 2, lettere b) e c), devono essere posseduti e comprovati dagli stessi con le modalità previste dal presente codice, salvo che per quelli relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo, che sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”.
L’art. 47, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, nella sua originaria formulazione, prevedeva che “per i primi cinque anni dalla costituzione, ai fini della partecipazione dei consorzi di cui all’art. 45, comma 2, lettera c), alle gare, i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi previsti dalla normativa vigente posseduti dalle singole imprese consorziate esecutrici, vengono sommati in capo al consorzio”.
L’art. 31 del d.lgs. n. 56/2017 (correttivo del codice) ha introdotto una prima modifica al comma 2 dell’art. 47, stabilendo che “i consorzi di cui agli articoli 45, comma 2, lettera c), e 46, comma 1, lettera f), al fine della qualificazione, possono utilizzare sia i requisiti di qualificazione maturati in proprio, sia quelli posseduti dalle singole imprese consorziate designate per l'esecuzione delle prestazioni, sia, mediante avvalimento, quelli delle singole imprese consorziate non designate per l'esecuzione del contratto. Con le linee guida dell'ANAC di cui all'articolo 84, comma 2, sono stabiliti, ai fini della qualificazione, i criteri per l'imputazione delle prestazioni eseguite al consorzio o ai singoli consorziati che eseguono le prestazioni".
Con il primo correttivo, quindi, per poter spendere i requisiti dei consorziati indicati per l’esecuzione era sufficiente la semplice designazione in fase di gara; per poter usufruire di quelli dei consorziati non designati occorreva, invece, ricorrere all’istituto dell’avvalimento[18].
In questo quadro normativo, interviene il decreto “Sblocca cantieri” che modifica, ancora una volta, il comma 2 dell’art. 47 e introduce il comma 2-bis.
Il comma 2 dell’art. 47 modificato prevede che: “I consorzi stabili di cui agli articoli 45, comma 2 e 46, comma 1, lettera f), eseguono le prestazioni o con la propria struttura o tramite i consorziati indicati in sede di gara senza che ciò costituisca subappalto, ferma la responsabilità solidale degli stessi nei confronti della stazione appaltante. Per i lavori, ai fini della qualificazione di cui all'articolo 84, con il regolamento di cui all'articolo 216, comma 27-octies, sono stabiliti i criteri per l'imputazione delle prestazioni eseguite dal consorzio o dai singoli consorziati che eseguono le prestazioni. L'affidamento delle prestazioni da parte dei soggetti di cui all'articolo 45, comma 2, lettera b), ai propri consorziati non costituisce subappalto”.
Il successivo comma 2-bis introdotto all’art. 47 stabilisce che: “La sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l'affidamento di servizi e forniture è valutata, a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati. In caso di scioglimento del consorzio stabile per servizi e forniture, ai consorziati sono attribuiti pro quota i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi maturati a favore del consorzio e non assegnati in esecuzione ai consorziati. Le quote di assegnazione sono proporzionali all'apporto reso dai singoli consorziati nell'esecuzione delle prestazioni nel quinquennio antecedente”.
Pertanto, la novella, oltre a distinguere tra appalti di lavori (comma 2) e appalti di forniture e servizi (comma 2-bis), non richiama più la possibilità di sommare in capo al consorzio i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi posseduti dalle singole imprese consorziate esecutrici e tale dato ha dato luogo ad un contrasto giurisprudenziale in ordine ai limiti entro i quali poter affermare ancora legittimo il cumulo alla rinfusa.
Secondo un primo restrittivo orientamento, il requisito del cumulo alla rinfusa sarebbe stato abolito con la conseguente necessaria qualificazione sia del consorzio che delle consorziate designate per l’esecuzione.
In particolare, qualora il consorzio individui una consorziata come esecutrice, quest'ultima dovrà essere autonomamente in possesso del requisito di qualificazione, così come, in caso di esecuzione in proprio ad opera del consorzio, quest'ultimo dovrà possedere autonomamente il requisito. Ciò al fine di evitare che possa essere legittimata l'esecuzione di prestazioni da parte di piccole e medie imprese del tutto prive della qualificazione[19], a nulla rilevando la elisione della finalità pro-concorrenziale dell’istituto dato che quest’ultima risiederebbe nella stessa possibilità di utilizzare la forma del consorzio stabile, a prescindere dall’operatività o meno del cumulo alla rinfusa.
Le argomentazioni che vengono richiamate a sostegno di tale tesi sono di tipo sistematico e letterale. Sotto un primo profilo, si ritiene che la soppressione della disposizione di cui all’art. 36, co. 7, del d. lgs. 136/2006, da un lato, e il tenore dell’art. 47, co. 1, d.lgs. n. 50/2016, dall’altro, consentirebbero di ritenere abrogato il cumulo alla rinfusa, ad eccezione delle ipotesi espressamente previste con riferimento a determinati requisiti, ossia attrezzature, mezzi e organico medio anno[20]. Sotto altro profilo, viene richiamato il comma 2 dell’art. 47 d.lgs. n. 50/2016, come riformulato dal d.l. n. 32/2019 che, non menzionando più la facoltà del consorzio di ricorrere all'avvalimento, ai fini della utilizzazione dei requisiti di qualificazione delle consorziate non designate come esecutrici si limita a prevedere l'alternativa facoltà di eseguire il contratto "con la propria struttura" ovvero "tramite i consorziati" indicati in sede di gara[21].
Secondo l’opposto orientamento, invero maggioritario, le richiamate modifiche normative avvicendatesi non hanno affatto inciso sulla ammissibilità del cumulo alla rinfusa[22].
In primo luogo, tale tesi ritiene che dall’art. 47 d.lgs. n. 50/2016 non possa desumersi che il singolo consorziato, indicato in gara come esecutore dell’appalto, debba essere a sua volta in possesso dei requisiti di partecipazione: l’art. 47, comma 2, infatti, non chiarisce espressamente le modalità di qualificazione dei consorziati designati per l’esecuzione e l’art. 47, co. 1, sul quale unicamente si fonda l’interpretazione restrittiva, “suona, nella sua formulazione letterale, identica a quella già trasfusa nel previgente art. 35 d.lgs. n. 163/2006”, all’epoca del quale del quale era pacificamente ammesso il cumulo alla rinfusa[23].
In secondo luogo, l’orientamento ampliativo evidenzia come l’intentio legis (art. 12 delle preleggi), nel corso del tempo, sia sempre stata quella di valorizzare l’istituto in questione, quale importante strumento pro-concorrenziale.Nella relazione di accompagnamento al d.l. n. 32 del 2019 (c.d. Sblocca Cantieri) si legge, infatti, che la modifica del comma 2 dell’art. 47 d.lgs. n. 50/2016 “è tesa a chiarire la disciplina dei consorzi stabili onde consentire l’operatività e sopravvivenza di tale strumento pro-concorrenziale, mentre l’introduzione del comma 2-bis detta disposizioni concernenti i consorzi stabili di servizi e forniture, in continuità con il passato, di fatto colmando, a regime, un vuoto normativo per tali settori”.
Pertanto, tale interpretazione ampliativa “appare conforme alla ratio pro-concorrenziale sottesa alla disciplina dei consorzi stabili, che consente la partecipazione alle gare pubbliche ad imprese singolarmente prive dei requisiti di qualificazione richiesti dal bando, le quali possono cumulare i requisiti di cui dispongono con quelli di altre imprese fino a soddisfare il livello di qualificazione richiesto”[24].
Del resto, sarebbe contrastante con la stessa esigenza sottesa alla formazione del Consorzio stabile la previsione di un obbligo di qualificazione per l'intero per ogni consorziata designata, perché in tal caso il Consorzio e le imprese avrebbero gli stessi requisiti e verrebbe meno la ragione stessa della partecipazione alla gara del Consorzio che, istituendo una comune struttura di impresa, può modulare la propria organizzazione imprenditoriale e l'offerta in modo tale da prefigurare l'apporto di ciascuna consorziata nei limiti della singola qualificazione posseduta, per categoria e classifica[25].
Inoltre, l’art. 216, comma 14, D.lgs. 50/2016, nel disciplinare il regime transitorio e comunque fino all’adozione del regolamento di cui al comma 27-octies (mai adottato), disponeva il perdurare della vigenza di una serie di norme[26], tra le quali proprio l’art. 36, comma 7, del D.lgs. 163/2006, in forza del richiamo recettizio a tale norma operato dall’art. 81 del regolamento (D.P.R. n. 207/2010).
Infine, un ulteriore elemento consente di avallare l’orientamento estensivo. La disciplina dettata dal d. lgs. n. 50/2016 in materia di appalti nel settore dei beni culturali, ed in particolare l’art. 146, esclude espressamente la possibilità di ricorrere ad una serie di istituti operanti nei settori ordinari, tra i quali l’avvalimento, e richiedendo il possesso delle specifiche qualificazioni tecniche anche in capo agli esecutori, esclude l’operabilità del cumulo alla rinfusa. Pertanto, “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, con la conseguenza che, ragionando a contrario, seguendo l’orientamento restrittivo non si apprezzerebbe alcuna differenza tra il regime dettato per i settori ordinari e quello previsto per i settori speciali, come quello dei beni culturali, e non si comprenderebbe la ragione del diverso tenore della disciplina.
3. La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, con la decisione in commento, ha accolto il ricorso proposto dal consorzio stabile escluso dalla gara, ritenendo la sentenza del Tar Lazio viziata per entrambe le censure avanzate dall’appellante.
Sotto un primo profilo, la sentenza è da considerarsi viziata nella parte in cui, sul presupposto dell’avvenuta abolizione del cumulo alla rinfusa, aveva impedito al consorzio di eseguire l’appalto in proprio, per avere questo indicato in sede di gara una singola impresa consorziata come esecutrice priva dei prescritti requisiti di partecipazione.
In particolare, i Giudici, superando alcune eccezioni preliminari[27] ed entrando nel merito della questione, hanno analizzato l’istituto dei consorzi stabili incentrando l’attenzione sull’elemento della “comune struttura di impresa”[28]. Tale caratteristica, infatti, è idonea a configurare il consorzio stabile come unico interlocutore dell’amministrazione appaltante, a differenza di quanto accade per i RTI e per i consorzi ordinari. “I partecipanti in questo caso danno infatti vita ad una stabile struttura di impresa collettiva, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio (ossia senza l’ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate), le prestazioni affidate a mezzo del contratto”.
Né, secondo i Giudici, può addivenirsi a conclusioni diverse sulla base di quanto incidenter tantum affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, del 18/03/2021, n. 5, in virtù della quale “Solo le consorziate designate per l’esecuzione dei lavori partecipano alla gara e concordano l’offerta, assumendo una responsabilità in solido con il consorzio stabile nei confronti della stazione appaltante”[29], in quanto proprio il vincolo di solidarietà consentirebbe di far ricadere in toto la prestazione sul consorzio stabile, ove l’impresa esecutrice sia priva dei requisiti, senza che detta esecuzione in proprio possa considerarsi elusiva del disposto dell’art. 48 comma 19-bis del Codice. In altri termini, secondo il Consiglio di Stato, i limiti alla modifica soggettiva in corso di gara di cui al comma 19-bis dell’art. 48 (che richiama i precedenti commi 17, 18 e 19) devono intendersi riferiti all’ipotesi di sostituzione della consorziata esecutrice con altra consorziata, quand’anche già indicata come esecutrice (con modifica in riduzione), e non anche ai rapporti fra impresa consorziata indicata come esecutrice e consorzio che abbia in proprio i requisiti, poiché in quest’ultimo caso “il Consorzio è ab initio parte sostanziale del contratto con la stazione appaltante, chiamato a rispondere in solido della totalità dell’esecuzione della commessa”.
Tale approccio, per il Consiglio di Stato, risulta più rispondente alla ratio stessa dei consorzio stabili, “volta a dare maggiori possibilità di sviluppo alle imprese sprovviste di sufficienti requisiti per accedere a determinate gare (…) attraverso l’accrescimento delle facoltà operative, ottenibile non imponendo al consorzio di avere i requisiti in proprio (…) né prescrivendo quote minime in capo alle consorziate (…) anche perché, altrimenti, si riprodurrebbe inutilmente il modulo organizzativo delle a.t.i., già, peraltro, replicato con l’aggregazione cui dà luogo il consorzio ordinario”[30]; nonché conforme ai principi di massima partecipazione alle gare e di tassatività delle clausole di esclusione.
Il primo impone che venga privilegiata l’interpretazione che soddisfi l’esigenza della massima partecipazione alla procedura di gara, qualora questa sia compatibile con quella di selezionare un imprenditore qualificato[31].
Il secondo impone di non escludere il concorrente in base a una disposizione di non univoca interpretazione. Nelle gare pubbliche, a fronte di più possibili interpretazioni di una clausola della lex specialis (una avente quale effetto l’esclusione dalla gara e una tale da consentire la permanenza del concorrente), non può legittimamente aderirsi all’opzione che comporti l’esclusione dalla gara in contrasto con le dinamiche competitive e pro-concorrenziali stante il disposto dell’art. 83 comma 8 d.lgs. 50/2016[32].
Sotto altro profilo, il Consiglio di Stato ha ritenuto la sentenza di primo grado viziata anche per l’omessa pronuncia ad opera del giudice di prime cure della doglianza del difetto di motivazione del provvedimento di “ritiro” dell’aggiudicazione; ciò in considerazione del rilievo che il Tar nulla motivava in ordine alla richiesta del consorzio di esecuzione in proprio, disattendendo espressamente solo quella di sostituzione dell’impresa indicata come esecutrice con altra impresa consorziata. Secondo i Giudici la doglianza non poteva ritenersi assorbita dalle motivazioni di rigetto del ricorso, fondate sul mero richiamo alla previsione della lex specialis di gara e “sulla impossibilità di esecuzione in proprio, stante l’abolizione del cumulo alla rinfusa”, soprattutto alla luce del fatto la stazione appaltante aveva agito in autotutela.
Sulla base di tali considerazioni, il Consiglio di Stato accede all’orientamento maggioritario ritenendo non solo ancora vigente il criterio del cd. “cumulo alla rinfusa”, ma anche legittimo il ricorso allo stesso per la partecipazione dei consorzi stabili alle commesse pubbliche.
4. Conclusioni: uno sguardo al nuovo Codice appalti.
La sentenza del Consiglio di Stato in commento è stata pubblicata pochi giorni prima dell’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, d. lgs. 36/2023, ed è interessante osservare che le conclusioni cui giungono i Giudici sono perfettamente in linea con la “nuova” disciplina.
Il d. lgs. n. 36/2023, infatti, all’art. 67, co. 4, ha il medesimo contenuto dell’art. 47 comma 2 d.lgs. n. 50/2016 e il successivo comma 8 sostanzialmente riproduce quanto già previsto dall’art. 36, co. 7 d.lgs. n. 163/2006[33], sciogliendo ogni dubbio sull’ammissibilità del cumulo alla rinfusa e mettendo in difficoltà quelle procedure di gara sorte in conformità a quello che sembrava un revirement dell’orientamento del Consiglio di Stato con la sentenza n. 7360 del 22/08/2022, alla quale anche l’ANAC aveva deciso di aderire.
Il legislatore, in questo caso, ha sentito la necessità di chiarire l’interpretazione degli artt. 47, 83, 216, del D.lgs. 50/2016, applicabili in via transitoria, disponendo all’art. 225, comma 13, che: “Gli articoli 47, comma 1, 83, comma 2, e 216, comma 14, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016, si interpretano nel senso che, in via transitoria, relativamente ai consorzi di cui all'articolo 45, comma 2, lettera c), del medesimo codice, ai fini della partecipazione alle gare e dell'esecuzione si applica il regime di qualificazione previsto dall'articolo 36, comma 7, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006 e dagli articoli 81 e 94 del regolamento di esecuzione ed attuazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207. L'articolo 47, comma 2-bis, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016, si interpreta nel senso che, negli appalti di servizi e forniture, la sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l'affidamento di servizi e forniture è valutata a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati, anche se diversi da quelli designati in gara”.
Al fine di dirimere ogni dubbio, quindi, il nuovo codice dei contratti pubblici introduce una norma di interpretazione autentica (in quanti tale retroattiva)[34] che disciplina, in via transitoria, l’istituto del ‘cumulo alla rinfusa’ negli appalti di lavori, prevedendo che i consorzi, ai fini della qualificazione necessaria a partecipare alle procedure di gara, possono utilizzare tanto i requisiti maturati in proprio, tanto quelli delle imprese consorziate[35].
Peraltro, il Consiglio di Stato nella relazione di accompagnamento al nuovo Codice dei Contratti del 7 dicembre 2022, ha confermato che nell’attuale regime del D.lgs. 50/2016 non esiste alcuna norma che escluda il “cumulo alla rinfusa”.
In particolare, in quella sede è stato ricordato che, per quanto concerne gli appalti di servizi, “i requisiti di capacità tecnica e finanziaria sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”, mentre, per quanto concerne gli appalti di lavori, la disposizione ha dato “continuità con il sistema vigente riguardante l’attestazione SOA del consorzio, che consente la sommatoria dei requisiti posseduti dalle singole consorziate”.
Sicché è la stessa Relazione al nuovo Codice ad avere fornito l’esegesi delle disposizioni del D.lgs. n. 50/2016 in tema di qualificazione dei consorzi stabili, confermando la perdurante operatività del cumulo alla rinfusa, giusta il rinvio espresso che gli artt. 83 e 47 del D.lgs. n. 50/016 operano alla disciplina previgente di cui al d. lgs. 163/2006, in linea con la giurisprudenza maggioritaria.
[1] Appalto inerente “Servizio di supporto agli impianti industriali: attività di supporto alla produzione per l’IMC Roma Smistamento della Direzione Regionale Lazio di Trenitalia”.
[2] Certificazione del proprio Sistema Qualità alle norme UNI EN ISO 9001 e certificazione di sistemi di gestione per la salute e la sicurezza sul lavoro rilasciata da organismi accreditati secondo la normativa internazionale OHSAS 18001, nella versione vigente o, in alternativa, UNI EN ISO 45001:2018,
[3] Accadeva infatti che l’impresa esecutrice, in possesso della certificazione di qualità per l’attività di “erogazione servizi di pulizia”, dichiarava di aver chiesto, prima della scadenza del termine di presentazione delle offerte, l’estensione di copertura delle certificazioni di qualità al fine di coprire anche il perimetro delle attività oggetto di appalto, ma di non esserne riuscita ad ottenere l’aggiornamento al momento della scadenza del bando.
[4] Sul punto, cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. I, 19 aprile 2023, n. 2390.
[5] Il principio di neutralità delle forme giuridiche di cui agli artt. 19, par. 2, della direttiva 2014/24/UE per i settori ordinari, 37, par. 2, della direttiva 2014/25/UE per i settori speciali e 26, par. 2, della direttiva 2014/23/UE per le concessioni, afferma che i raggruppamenti di operatori economici non possono essere obbligati dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli enti aggiudicatori ad avere una forma giuridica specifica ai fini della presentazione di un’offerta o di una domanda di partecipazione.
[6] Il Codice ricalca la formulazione dettata dalla legge 10 febbraio 1994, n. 109 (“Nuova legge quadro in materia di lavori pubblici”), che, all’art.10, comma 1, lett. c), ha introdotto tra i “soggetti ammessi alle gare”, i consorzi stabili, accanto ad altre forme di cooperazione tra imprese quali le associazioni temporanee di imprese, i consorzi di cooperative di produzione e lavoro regolati dalla l. 25 giugno 1909, n. 422, riconosciuti ad opera dell’art. 20, l. 8 agosto 1977, n. 584, e i consorzi ordinari di cui alla l. 17 febbraio1987, n. 80.
[7] In particolare, il comma 2 dell’art. 83 espressamente afferma che: “I requisiti e le capacità di cui al comma 1 sono attinenti e proporzionati all'oggetto dell'appalto, tenendo presente l'interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione. Per i lavori, con il regolamento di cui all’articolo 216, comma 27-octies, sono disciplinati, nel rispetto dei principi di cui al presente articolo e anche al fine di favorire l'accesso da parte delle microimprese e delle piccole e medie imprese, il sistema di qualificazione, i casi e le modalità di avvalimento, i requisiti e le capacità che devono essere posseduti dal concorrente, anche in riferimento ai consorzi di cui all'articolo 45, lettere b) e c) e la documentazione richiesta ai fini della dimostrazione del loro possesso di cui all'allegato XVII. Fino all'adozione di detto regolamento, si applica l'articolo 216, comma 14”.
[8] F. LATTANZI, Consorzi stabili, in M.A. SANDULLI -R. DE NICTOLIS (diretto da), Trattato sui contratti pubblici, II, Milano, 2019, p. 595; ABRATE, Consorzio stabile, in L’amministrativista, 2017, secondo il quale i consorzi stabili sono stati introdotti all’esito di un «percorso di tipizzazione normativa del fenomeno della cooperazione tra imprese»; F. SCALIA, Considerazioni sul criterio di qualificazione dei consorzi stabili negli appalti pubblici c.d. del 'cumulo alla rinfusa, in Federalismi, n. 5/2022.
[9] Consiglio di Stato, Sez. V, 07/11/2022, n. 9752; Consiglio di Stato, Sez. V, 14/12/2021, n. 8331, T.A.R. Lazio, Sez. II, 06/06/2022, n. 7273; cfr. anche Cons. Stato, Sez. V, 3/9/2021 n. 6212; T.A.R. Lazio, Sez. II, 1/7/2021 n. 7807, T.A.R. Campania, Sez. I, 7/6/2021 n. 3780; T.A.R. Emilia-Romagna, Sez. I, 21/11/2017 n. 767, secondo i quali “il consorzio stabile è un operatore economico costituente un’impresa collettiva operante mediante un patto consortile con le imprese consorziate avente finalità mutualistica, con conseguente possibilità per il Consorzio di utilizzare tanto le risorse proprie, quanto quelle delle imprese ad esso consorziate”.
[10] Consiglio di Stato, Sez. V, 18/10/2022, n. 8866.
[11] Corte Giustizia, Sez. IV, 23 dicembre 2009, Serrantoni Srl e Consorzio stabile edili Scrl c. Comune di Milano, in causa C-376/08.
[12] Definito dall’art. 45, co. 2, lett. e) come consorzio “di concorrenti di cui all'articolo 2602 del codice civile, costituiti tra i soggetti di cui alle lettere a), b) e c) del presente comma, anche in forma di società ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile”.
[13] Consiglio di Stato, Sez. V, 18/10/2022, n. 8866; Consiglio di Stato, Sez. III, 07/01/2022, n. 46, secondo il quale: “il consorzio ordinario con attività esterna è un soggetto con identità plurisoggettiva, a differenza del consorzio stabile ex art. 45, comma 2, lett c), d. lgs. n. 50 del 2016, in cui i singoli imprenditori istituiscono una comune struttura di impresa collettiva stabile, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio (ossia senza l'ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate), le prestazioni affidate a mezzo del contratto; da tali premesse discende che il divieto assoluto di duplicazione dei benefici in favore di uno stesso soggetto imprenditoriale è applicabile sia alle imprese che partecipano ad un raggruppamento temporaneo, quanto a quelle che fanno parte di un consorzio ordinario, stante l'impossibilità, nell'ambito di tali forme aggregative, di distinguere il modulo plurisoggettivo dai suoi componenti, con conseguente sovrapposizione dei contributi in capo a questi ultimi”.
[14] L’ Adunanza Plenaria n. 6 del 2019 ha affermato che il sistema dei requisiti di qualificazione non può che riferirsi ad ogni singola impresa, ancorché associata in un raggruppamento, altrimenti si finirebbe con il conferire una sorta di “soggettività” al raggruppamento, al di là di quella delle singole imprese partecipanti; “una sorta di interscambiabilità dei requisiti, quale quella ipotizzata, di partecipazione risulta più agevolmente ipotizzabile laddove si riconoscesse (ma così non è) una personalità giuridica propria al r.t.i.”; cfr. F. CARDARELLI, Raggruppamenti temporanei e consorzi ordinari di operatori economici, in M.A. SANDULLI -R. DE NICTOLIS (diretto da), Trattato sui contratti pubblici, op. cit., spec. pp. 630-631.
[15]Cfr. Ad. Plen. n. 2 del 2022, che si è occupata dalla modificabilità in corso di gara di un r.t.i. nel caso di perdita dei requisiti di cui all’art. 80, d. lgs. 50/2016 da parti di uno dei suoi componenti.
[16] Articolo 34, comma 1, lettere b) i consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro costituiti a norma della legge 25 giugno 1909, n. 422 e del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, e successive modificazioni, e i consorzi tra imprese artigiane di cui alla legge 8 agosto 1985, n. 443; c) consorzi stabili, costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile, tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro, secondo le disposizioni di cui all'articolo 36.
[17] L’art. 36, co. 7 prevedeva che “Per i lavori la qualificazione è acquisita con riferimento ad una determinata categoria di opere generali o specialistiche per la classifica corrispondente alla somma di quelle possedute dalle imprese consorziate. Per la qualificazione della classifica di importo illimitato, è in ogni caso necessario che almeno una tra le imprese consorziate già possieda tale qualificazione ovvero che tra le imprese consorziate ve ne siano almeno una con qualificazione per la classifica VII e almeno due con classifica V o superiore, ovvero che tra le imprese consorziate ve ne siano almeno tre con qualificazione per classifica VI. Per la qualificazione per prestazioni di progettazione e costruzione, nonché per la fruizione dei meccanismi premiali di cui all’articolo 40, comma 7, è in ogni caso sufficiente che i corrispondenti requisiti siano posseduti da almeno una delle imprese consorziate. Qualora la somma delle classifiche delle imprese consorziate non coincida con una delle classifiche di cui al regolamento, la qualificazione è acquisita nella classifica immediatamente inferiore o in quella immediatamente superiore alla somma delle classifiche possedute dalle imprese consorziate, a seconda che tale somma si collochi rispettivamente al di sotto, ovvero al di sopra o alla pari della metà dell’intervallo tra le due classifiche”.
[18] Cfr. P. CARBONE, La disciplina dei consorzi stabili nel codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, dopo il primo decreto correttivo(d.lgs. n. 56 del 2017), in Rivista trimestrale degli appalti, n. 1/2018, pp. 7 ss., pp. 19-20.
[19] Tar Lazio, Sez. III, 3 marzo 2022, n. 2571; Cons. Stato, Sez. V, 22/08/2022, n. 7360, le cui argomentazioni sono state riprese dalla recente giurisprudenza, tra cui: Tar Ancona, Sez. I, 25 febbraio 2023, n. 119; Tar Lombardia, Milano, Sez. I, nn. 397, 597 e 744 del 2023; Tar Campania, Sez. III, 22 febbraio 2023, n. 1152.
[20] Cfr. Adunanza Plenaria n. 5/2021 (spesso richiamata a sostegno della tesi restrittiva), pur pronunciando su una vicenda relativa alla perdita dei requisiti di una impresa consorziata non designata ai fini della esecuzione dei lavori, ha incidentalmente affermato che “il d.l. n. 32 del 2019 ha ripristinato l’originaria e limitata perimetrazione del cumulo alla rinfusa ai soli aspetti relativi disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo”.
[21] cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 22 febbraio 2023, n. 1152 e parere precontenzioso ANAC n. 76 del 22/02/2023 che, nel richiamare Cons. Stato n. 7360/2022, fanno salva la possibilità per l’impresa consorziata non qualificata di valorizzare i requisiti posseduti, in proprio, dal consorzio stabile ovvero dalle consorziate non esecutrici ricorrendo all’ordinario strumento dell’avvalimento ex art. 89 d.lgs. n. 50/2016.
[22] Da ultimo, Tar Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 16 marzo 2023, n.140; Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 2 marzo 2023, n. 657; Tar Campania, Napoli, sez. I, 25 febbraio 2022, n. 1320, Cons. Stato, Sez. V, 2 febbraio 2021, n. 964; Cons. Stato, Sez. V., 29 marzo 2021, n. 2588.
[23] Tar Campania, Napoli, Sez. I, 19/04/2023, n. 2390, precisa che: “L’art. 47 co. 1 d.lgs. n. 50/2016 prescrive che i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento dei soggetti di cui all’art. 45, co. 2, lett. b) e c), devono essere posseduti e comprovati dagli stessi con le modalità previste dal presente codice, sostanzialmente rinviando all’art. 83 del medesimo codice dei contratti pubblici, che per l’appunto concerne i requisiti di idoneità professionale, economica e finanziaria. L’art. 83, comma 2, a sua volta rinvia al regolamento di cui all’art. 216, comma 27-octies la disciplina dei requisiti e delle capacità che devono essere posseduti dal concorrente, anche in riferimento ai consorzi di cui all’articolo 45, lettere b) e c). Ai sensi dell’art. 216, comma 27-octies, nelle more dell’adozione del regolamento (al momento inesistente) rimangono in vigore o restano efficaci le linee guida e i decreti adottati in attuazione della previgente disposizione di cui all’art. 36, comma 7, d.lgs. n. 163/2006. Tra l’altro, l’art. 216, comma 14, prevede che “fino all'adozione del regolamento di cui all'articolo 216, comma 27-octies, continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla Parte II, Titolo III (articoli da 60 a 96: sistema di qualificazione delle imprese), nonché gli allegati e le parti di allegati ivi richiamate, del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207. In attuazione del citato art. 36 comma 7, l’art. 81 del d.P.R. n. 207/2010 stabilisce che i requisiti per la qualificazione dei consorzi stabili sono quelli previsti dall’articolo 36, comma 7, del codice. Ne consegue, come sostenuto dal ricorrente, una reviviscenza di quest’ultima disposizione, che non può dirsi espunta dall’ordinamento. Allo stato attuale, non essendo stato adottato il Regolamento di cui all’art. 216, comma 27-octies, il sistema di qualificazione e la dimostrazione dei requisiti di capacità che devono essere posseduti dai consorzi stabili per concorrere alle gare pubbliche sono regolati dall’art. 36 del d.lgs. n. 163/2006 e dagli artt. 81 e 94 del d.P.R. n. 207/2010 (cfr. Tar Palermo, sez. I., 2 marzo 2023, n. 657). L’insieme di queste disposizioni delinea il regime di qualificazione dei consorzi stabili secondo il criterio del pieno cumulo alla rinfusa, salvo eccezioni. […] In definitiva, non è condivisibile l’affermazione per cui l’art. 47, comma 1, d.lgs. n. 50/2016 – la cui formulazione letterale è sostanzialmente identica a quella già trasfusa nel previgente art. 35 d.lgs. n. 163/2006 – avrebbe ridotto l’ambito di operatività del cumulo alla rinfusa, circoscrivendolo ai soli mezzi ed all’organico medio annuo”.
[24] Cfr. Tar Sicilia, Palermo, Sez. I, 02/03/2023, n. 657.
[25] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 13/07/2022, n. 4731.
[26] In particolare, “le disposizioni di cui alla Parte II, Titolo III, nonché gli allegati e le parti di allegati ivi richiamate, del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207”.
[27] In particolare, quelle relative: 1) alla mancata proposizione in appello di domande ed eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che devono intendersi rinunciate ex art. 101, comma 2 del D.lgs. n. 104/2010 (ex multis Cons. Stato Sez. III, 23/05/2019, n. 3360; Cons. Stato Sez. IV, 02/09/2019, n. 6056, Cons. Stato Sez. VI Sent., 02/01/2020, n. 23); 2) al perimetro del divieto dei “nova” di cui all’art. 104 comma 2 c.p.a., che ammette la possibilità di produzione di nuovi documenti allorquando gli stessi siano indispensabili ai fini della decisione ovvero la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile, sicché ratio del divieto di cui all’art. 104 comma 2 c.p.a. è da rinvenire rinvenirsi nel divieto di documentazione probatoria già rilevante nel ricorso di primo grado e che la parte non abbia prodotto per propria negligenza (ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 30/05/2022, n. 4323; Cons. Stato Sez. VI, 26/04/2022, n. 3152); 3) ai profili di ammissibilità del ricorso di appello che non deve limitarsi alla mera riproposizione delle censure formulate in prime cure, ma deve estendersi alla puntuale impugnazione dei capi della sentenza che le avevano rigettate (Cons. Stato, sez. V, 26 agosto 2020, n. 5208; sez. V, 26
marzo 2020, n. 2126; sez. IV, 24 febbraio 2020, n. 1355).
[28]Sul punto, P. AVALLONE -S. TARULLO, I consorzi stabili di cui all’art. 12, l. n. 109 del 1994 come modificato dall’art. 9, comma 22, l. n. 415 del 1998 «Merloni ter», in Rivista amministrativa degli appalti, 1999, p. 146, già individuavano nell’istituzione di una comune struttura di impresa «il dato essenziale caratterizzante questo nuovo istituto».
[29] La vicenda esaminata in quella sede era del tutto differente, inerendo la perdita dei requisiti di una impresa consorziata non designata ai fini della esecuzione dei lavori.
[30] Cons. Stato, VI, n. 2563/2013; Consiglio di Stato, Sez. III, n. 6433/2019.
[31] Cfr. anche Consiglio di Stato, Sez. V, 15/01/2018, n. 187. In generale, sul principio di massima partecipazione v. M. CALABRO’, A.G. PIETROSANTI, I principi di massima partecipazione e di tassatività delle cause di esclusione nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Ambientediritto, 2/2023, p. 1 ss.
[32] Nello specifico della vicenda, vi era stato un contrasto tra Bando di gara, che in caso di consorzio stabile, prevedeva che i requisiti di cui alle precedenti lettere di capacità tecnica e professionale avrebbero dovuto essere “posseduti dal consorzio e da ciascuno dei consorziati per conto dei quali il consorzio partecipava alla gara”; e Disciplinare che, nel regolamentare la fase di aggiudicazione, prevedeva al contrario che le 17 certificazioni di qualità da comprovarsi erano quelle dell’aggiudicatario (ovvero il Consorzio Stabile) e non anche quelle dell’impresa consorziata esecutrice.
[33] L’art. 67, comma 8, statuisce che “ai fini del rilascio o del rinnovo dell’attestazione di qualificazione SOA, i requisiti di capacità tecnica e finanziaria sono posseduti e comprovati dai consorzi sulla base delle qualificazioni possedute dalle singole imprese consorziate. La qualificazione è acquisita con riferimento a una determinata categoria di opere generali o specialistiche per la classifica corrispondente alla somma di quelle possedute dalle imprese consorziate. Per la qualificazione alla classifica di importo illimitato è in ogni caso necessario che almeno una tra le imprese consorziate già possieda tale qualificazione ovvero che tra le imprese consorziate ve ne siano almeno una con qualificazione per classifica VII e almeno due con classifica V o superiore, ovvero che tra le imprese consorziate ve ne siano almeno tre con
qualificazione per classifica VI. Per la qualificazione per prestazioni di progettazione e costruzione, nonché per la fruizione dei meccanismi premiali di cui all'articolo 106, comma 8, è in ogni caso sufficiente che i corrispondenti requisiti siano posseduti da almeno una delle imprese consorziate. Qualora la somma delle classifiche delle imprese consorziate non coincida con una delle classifiche di cui all’allegato II.12, la qualificazione è acquisita nella classifica immediatamente inferiore o in quella immediatamente superiore alla somma delle classifiche possedute dalle imprese consorziate, a seconda che tale somma si collochi rispettivamente al di sotto, ovvero al di sopra o alla pari della metà dell'intervallo tra le due classifiche. Gli atti adottati dall’ANAC restano efficaci fino alla data di entrata in vigore del regolamento di cui al comma 2” (cfr. art. 36, comma 7, d.lgs. n. 163/2006).
[34] Cfr. Corte Cost., nn. 3/2011, 74/2008, 162/2008, 236/2009.
[35] Ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. V, 14/04/2023 n. 1424 che ne ha chiarito l’efficacia retroattiva.
La fuorviante confezione del lavoro cinematografico – la fotografia e la grafica ostentatamente sensibili al ‘rosa’, le scelte estetiche dei diversi interpreti (tutti ‘bravi ragazzi’ e ‘adeguatamente’ belli), l’apparente leggerezza dello stile recitativo, il tono da teen-comedy di buona parte dei dialoghi, la stessa ambiguità delle ‘promesse’ allusive del titolo – ha verosimilmente dissimulato al grande pubblico lo spirito di uno dei film più lucidamente spietati degli ultimi anni.
Ne Una donna promettente (Promising Young Woman, di Emerald Fennell), la protagonista (Cassie, giovane, non giovanissima), dopo aver indirettamente vissuto, da universitaria, l’esperienza dello stupro di una compagna da parte di alcuni studenti rimasti poi impuniti (non avendo nessuno creduto alla versione della vittima, che da tale evento non riuscirà più a riemergere, suicidandosi), decide di consacrare la sua vita residua a un progetto vendicativo, presentandosi di sera, apparentemente ubriaca, nei più disparati locali notturni, adescando uomini che tenteranno di approfittare delle sue condizioni per possederla fisicamente, per poi sorprenderli e terrorizzarli.
È il racconto del gatto con il topo: la donna prima attira, poi sconcerta, ridicolizza e quindi costringe le sue vittime alla vergogna, in una sorta di seduta di edificazione morale da Alcibiade platonico.
Le vicende più crude del progetto (Cassie si ritira una mattina, con noncuranza, con le braccia che sembrano interamente sporche di sangue) non appaiono mai nel film: vi si allude, le si presuppone (in una meticolosa contabilità registrata in caratteri blu o, talora, rossi), in una cornice che, si ripete, rimane attenta a conservare una rassicurante e (apparentemente) spensierata e giocosa estetica adatta a un musical ambientato negli anni ‘50.
I passaggi più significativamente rivelativi del film emergono nelle ricorrenti scene familiari, in cui Cassie condivide, con rassegnata mestizia, i pasti quotidiani con gli anziani genitori, assorta in una perduta, inconsolabile, irredimibile sensazione di vuoto e di sconfitta, a cui presto cederà anche l’effimera speranza sentimentale in lei illusoriamente suscitata dal casuale incontro con uno dei suoi vecchi compagni.
Sono i momenti in cui lo sguardo meravigliosamente espressivo di Carey Mulligan (l’attrice protagonista) rivela, nella sua smarrita assenza, l’avvenuta (spaventosa) intuizione del fondo brutale che abita le radici dell’umano, della sua vocazione spietatamente aggressiva; la lucida e desolata percezione dell’elementarità del desiderio carnale che cela dentro di sé un’inestinguibile volontà di morte (ma con un volto da ‘bravo ragazzo’).
A questa morte la donna finirà col destinare consapevolmente la propria stessa sorte (al punto di pianificare una sorta di breve e operativa sopravvivenza ‘virtuale’), per aver in fondo compreso l’irrecuperabilità del mondo che si è così improvvisamente (e orribilmente) aperto ai suoi occhi.
La pellicola risale al 2020 e, ostacolata dal tempo della pandemia, sembra riconsegnata all’attualità dalla lettura dei resoconti della cronaca più recente.
Ma dall’intollerabile crudezza delle vicende narrate, il film sembra trarre lo spunto per una più profonda riflessione che, senza pretendere di fornire risposte, torna a interrogarsi sulle ragioni che hanno condotto la storia dell’essere umano a un drammatico crocevia, alla stazione di questa tragica contrapposizione tra un’estetica vistosamente zuccherosa e superficiale e un vertiginoso crollo della dimensione etica; a interrogarsi su ciò che può aver determinato questa desolante spoliazione della brutalità naturale da ogni costume (ethos) di riconoscibile umanità.
La prospettiva da cui muove il film è quella della relazione di genere e, più specificamente, della relazione sessuale e della sua dimensione propriamente desiderante; una dimensione mai sufficientemente esplorata o coltivata, né mai adeguatamente educata a quella cura di sé che prelude, à la Foucault, a ogni forma non rigidamente normativa (o repressiva) di etopoiesi.
È proprio in relazione al tema del desiderio non curato (nei termini dell’epimeleia, prima ancora della therapeia), del resto, che il discorso psicoanalitico prefigura l’inevitabile incontro tra godimento e morte (eros e thanatos), puntuale dietro ogni sistematica ricerca della cieca distruzione di qualsivoglia senso del limite.
E come in una cupa profezia schopenhaueriana, dietro l’insufficienza delle più fragili (o incontrollate) rappresentazioni del mondo, ecco che più chiaro s’intravede (per poi rivelarsi in tutta la sua insopportabilità) lo spettro terrificante dell’avida volontà di vita che ne corrode i contorni, e che all’uomo restituisce, non più (o non ancora) riscattata, l’eco dolente della sua antica miseria.
Sommario: 1. Il processo e la statuizione del Consiglio di Stato circa il servizio di noleggio di monopattini sul territorio comunale. – 2. Il noleggio dei monopattini in free-floating e la disciplina di riferimento sostanziale. – 3. Il servizio pubblico e quello erogato in regime di libero mercato: l’applicazione della Dir. 2006/123/CE. – 4. La procedura selettiva dell’operatore: l’esclusione dall’applicazione del Codice dei contratti pubblici. – 5. La pubblicizzazione del servizio a seguito dell’“assunzione” da parte della p.A.: un criterio da verificare caso per caso.
1. Il processo e la statuizione del Consiglio di Stato circa il servizio di noleggio di monopattini sul territorio comunale.
Nella sentenza in commento, il Consiglio di Stato statuisce un principio destinato a guidare le prossime procedure selettive comunali di operatori che offrono un servizio di micromobilità – hoverboard; segway; monopattini; monowheel, etc. – nei Comuni italiani: procedure in costante crescita, stante la spinta – complici la transizione ecologica ed energetica – alla ricerca di forme di mobilità sostenibile nei centri abitati.
Invero, l’utilizzo di monopattini – o mezzi leggeri a essi assimilabili – a propulsione elettrica ha subìto nell’ultimo lustro un significativo incremento d’incidenza sugli ambienti urbani: ciò è dovuto anzitutto a un branding costante della sostenibilità[1], mirato a diminuire le emissioni di CO2 nell’aria e a raggiungere obiettivi di neutralità climatica entro il 2050[2], nonché – di poi – a una spinta verso la sostituzione dei carburanti fossili con energia proveniente da fonti rinnovabili o comunque ecosostenibili[3]. Le città, così, si stima possano essere più vivibili, meno inquinate, maggiormente orientate alla c.d. mobilità dolce: la elevata qualità della vita che sul loro territorio si radica, diventa essa stessa un bene immateriale meritevole di tutela[4]. Nondimeno, perché questo valore possa diffondersi sul territorio, e dunque permeare la cultura, esso non può esser lasciato alla singola iniziativa del privato che acquisti un monopattino elettrico: sempre più enti territoriali comunali, dunque, scelgono di farsi essi stessi vettori di questo valore, mettendo a disposizione mezzi in sharingsul loro territorio tramite operatori economici a ciò deputati.
Il vantaggio, dal punto di vista dell’utente, è indubbio: lo spostamento da un punto all’altro della città può esser effettuato agevolmente, senza restar bloccato nel traffico e con una fatica tutto sommato limitata, con pagamento digitale tramite app – pagando solo “lo sblocco” del mezzo e la corsa – e percorrendo un tragitto a sua libera scelta, fuori da una rete predeterminata di tratti, in modalità c.d. free-floating.
La diffusione del mezzo genera, altrettanto indubbiamente, qualche effetto collaterale: primo fra tutti, la compromissione della sicurezza del traffico veicolare. Come si vedrà tra poco, infatti, non esiste ancora una disciplina legislativa organica sull’utilizzo e sulla circolazione dei mezzi di micromobilità a propulsione elettrica – né, per il vero, si attestano sul punto richieste unanimi, poiché la normativizzazione del fenomeno potrebbe tradursi in un appesantimento dello strumento e potrebbe indurre a non utilizzarlo con frequenza – né spesso le sedi viarie sono dotate di adeguate piste ciclabili destinate anche a questi mezzi, i quali circolano dunque liberamente in carreggiata e sui marciapiedi.
È anche questa la ragione per la quale sempre più spesso i Comuni scelgono di regolamentare tramite il rilascio di licenze il servizio di noleggio dei monopattini elettrici sui territori di loro competenza: se per un verso essi diffondono la cultura della mobilità dolce, per altro verso proteggono la pubblica incolumità, il decoro urbano e la fluidità del traffico viario.
La tendenza, tuttavia, si presta a un equivoco di fondo, che si ritrova spesso nei contenziosi tra i Comuni e le società produttrici di monopattini elettrici[5]: e cioè che gli enti territoriali, nel momento in cui selezionano gli operatori economici atti a erogare il servizio di micromobilità, lo devono fare applicando il Codice dei contratti pubblici[6], ricadendo la selezione – e il successivo contratto – nello schema della concessione di servizio pubblico.
È quanto accaduto anche nella sentenza in commento, nella quale la società Helbiz Italia S.r.l., pretermessa nella selezione pubblica per l’offerta di monopattini, ha contestato all’Amministrazione comunale di Verona di non aver applicato le disposizioni del Codice dei contratti, così agendo in violazione di legge ed eccesso di potere.
Il Giudice di primo grado[7] e quello d’appello sono stati, però, concordi nello statuire il contrario, così rigettando le doglianze della società ricorrente (e poi appellante): «Alla procedura per l’individuazione di operatori interessati a svolgere il servizio di noleggio di monopattini elettrici con sistema di free floating sul territorio comunale si applicano le sole disposizioni del codice dei contratti pubblici, espressive di principi generali e aventi portata applicativa generalizzata. Nel caso in cui – per il contingentamento del numero di titoli disponibili – il rilascio delle autorizzazioni avvenga all’esito di una procedura comparativa tra gli interessati, non oggetto di specifica disciplina normativa, le regole proprie di un ordinario procedimento di autorizzazione devono essere declinate in rigoroso rispetto dei criteri di imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità cui ogni procedura selettiva deve conformarsi».
Ciò in quanto il servizio di noleggio dei monopattini non è riconducibile allo schema né dell’appalto né della concessione di servizio pubblico e non rientra nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 50/2016, sicché l’Amministrazione non è tenuta all’ossequio a tutte le sue disposizioni, a meno di un suo volontario e dichiarato autovincolo. Né può ritenersi che il Codice abbia una vis expansiva in tutte le sue disposizioni: il legislatore, definendo puntualmente l’ambito di applicazione del Codice, ha inteso escludere che l’articolato complesso normativo di cui al d.lgs. n. 50 del 2016 si applichi alla generalità delle procedure a evidenza pubblica.
Solo le disposizioni del Codice espressive di principi generali hanno portata applicativa generalizzata, sicché, al di fuori dell’ambito di applicazione del Codice e delle Direttive appalti trovano applicazione, non le singole disposizioni del d.lgs. n. 50 del 2016, ma solo i principi generali – nazionali e unionali – di non discriminazione, parità di trattamento, trasparenza, mutuo riconoscimento e proporzionalità, principi tutti che richiedono la predeterminazione dei criteri e delle modalità di selezione dei candidati.
La sentenza in commento è ricca di statuizioni rilevanti anche sotto alcuni profili specifici delle procedure selettive[8]: ai nostri fini, tuttavia, richiede un esame puntuale la concezione del servizio di noleggio dei monopattini come attività economica privata e non come servizio pubblico.
2. Il noleggio dei monopattini in free-floating e la disciplina di riferimento sostanziale.
Anzitutto, il quadro normativo di riferimento. Come detto nel paragrafo precedente, non v’è ancora una disciplina organica che regoli la circolazione di questi mezzi[9], ma il legislatore ha di recente introdotto disposizioni che si riferiscono al procedimento per la loro diffusione sui territori comunali e alle loro dotazioni di sicurezza.
La disciplina primaria è contenuta in un atto ministeriale, il d.m. 4 giugno 2019 del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti[10], e nell’art. 1, commi 75 ss., l. 27 dicembre 2019, n. 160 (c.d. Finanziaria per il 2020), e si sviluppa in un’articolata e complessa interrelazione di disposizioni che hanno carattere procedimentale e sostanziale, in particolare per la convivenza tra l’utilizzo dei monopattini e la circolazione stradale del traffico veicolare.
Anzitutto, il d.m., rubricato «Sperimentazione della circolazione su strada di dispositivi per la micromobilità elettrica», il quale si propone l’obiettivo di «individuare specifici criteri per l’autorizzazione della sperimentazione della circolazione su strada, di dispositivi per la mobilità personale a propulsione prevalentemente elettrica»; obiettivo che interseca anche necessità ambientali di abbassamento delle soglie d’inquinamento atmosferico[11].
Il decreto definisce «le modalità di attuazione e gli strumenti operativi della sperimentazione della circolazione su strada di dispositivi per la mobilità personale a propulsione prevalentemente elettrica»[12], prevedendo che questi dispositivi debbano avere precise caratteristiche costruttive che ne garantiscano la sicurezza – anche in termini di velocità e potenza massima – e la visibilità anche su sedi viarie buie[13]. In secondo luogo, il d.m. attribuisce ai Comuni compiti di delicata vigilanza sui dispositivi dei quali autorizzano la circolazione: anzitutto essi sono gli unici enti che – con provvedimento adottato nelle forme di cui all’art. 7, Codice della strada, ovvero con ordinanza del sindaco o con delibera della giunta comunale – possono autorizzare la circolazione dei dispositivi «esclusivamente in ambito urbano» e limitatamente alle strade che hanno determinate caratteristiche costruttive e realizzative[14]. La medesima delibera della giunta comunale determina anche le modalità di sosta dei veicoli consentite e provvede a istituire forme di informazione della cittadinanza[15]. Il d.m. introduce anche norme di comportamento per gli utenti: solo maggiorenni, o almeno titolari di patente AM, da soli e senza passeggeri, a velocità moderata e ad andatura costante[16].
Il d.m. è stato poi integrato, e in parte superato, come detto, dalla Finanziaria per il 2020, il cui art. 1, commi 75 ss. regola ulteriormente l’utilizzo e la circolazione dei monopattini – anzi, è dedicato esclusivamente ai monopattini – tramite disposizioni che, equiparando espressamente questi mezzi ai velocipedi, ne disciplinano le caratteristiche costruttive[17], dettano prescrizioni di utilizzo e circolazione per gli utenti[18], per gli operatori di noleggio[19], e obblighi di vigilanza per i Comuni, specie in merito alla sosta dei dispositivi[20]. La Finanziaria rinvia anche a un adeguato apparato sanzionatorio nel caso di violazione delle disposizioni[21].
Quanto, invece, alla disciplina del servizio, e quindi alla relazione che s’instaura tra il Comune e l’operatore economico, vale solo l’art. 1, co. 75-ter, l. Finanziaria per il 2020, in base al quale «Fermo restando quanto previsto dai commi da 75 a 75-vicies bis, i servizi di noleggio dei monopattini elettrici a propulsione prevalentemente elettrica, anche in modalità free-floating, possono essere attivati esclusivamente con apposita deliberazione della Giunta comunale, nella quale devono essere previsti, oltre al numero delle licenze attivabili e al numero massimo dei dispositivi in circolazione: a) l’obbligo di copertura assicurativa per lo svolgimento del servizio stesso; b) le modalità di sosta consentite per i dispositivi interessati; c) le eventuali limitazioni alla circolazione in determinate aree della città».
Dalla disposizione, per il Giudice amministrativo, si ricavano due elementi, sui quali ruota la decisione in commento: a)per lo svolgimento del servizio di noleggio dei monopattini elettrici è necessario il rilascio di un titolo autorizzativo (indicato dal legislatore nella “licenza”) e b) il numero degli atti che possono essere rilasciati è contingentato.
3. Il servizio pubblico e quello erogato in regime di libero mercato: l’applicazione della Dir. 2006/123/CE.
Quindi, secondo la norma, la Giunta comunale è l’organo competente ad attivare il servizio di noleggio di monopattini elettrici; la sua deliberazione prevede per legge:
- il numero delle licenze attivabili;
- il numero massimo di dispositivi da far circolare;
- l’obbligo della copertura assicurativa;
- le modalità di sosta dei dispositivi consentite;
- le eventuali aree della città a percorrenza limitata.
Il servizio di noleggio dei monopattini è, in altre parole, un servizio soggetto ad autorizzazione: in altre parole, esso è offerto dal libero mercato, per il quale valgono le regole della concorrenza, non quelle della regolazione pubblica.
Questo è uno snodo delicato del ragionamento del Giudice, sviluppato anche in decisioni su controversie analoghe, cui pure in questa sede si farà riferimento: il percorso argomentativo merita attenzione perché funge da presupposto per l’esclusione dell’applicabilità del Codice dei contratti pubblici alle procedure selettive.
Ora, qui abbiamo un ente territoriale comunale che sceglie di selezionare operatori economici privati per l’offerta di un servizio sul proprio territorio: il servizio è remunerato all’operatore da parte dell’utenza, dunque l’operatore si assume un rischio tipicamente imprenditoriale. Le modalità di erogazione sono anche regolate nei loro elementi essenziali dalla normativa – il d.m. 4 giugno 2019 e soprattutto la l. n. 160/2019 – nonché dalla delibera della Giunta comunale. Sembrerebbero dunque esservi tutti i requisiti della concessione di pubblico servizio: la regolazione, l’ente pubblico, la gestione, l’operatore economico, l’utenza pagante, il rischio imprenditoriale[22]. È questo che, d’altra parte, spinge gli operatori che rispondono alle manifestazioni d’interesse emanate dalle Amministrazioni comunali a impugnare gli esiti selettivi, quando non satisfattivi della loro pretesa, per mancata applicazione del Codice dei contratti pubblici.
In realtà, la visione è piuttosto miope, poiché quello erogato dagli operatori economici non è, in effetti, un servizio pubblico: bensì, come detto, un servizio economico in libero mercato. Il quale, per ragioni di tutela della pubblica incolumità, necessita di una previa autorizzazione pubblica allo svolgimento (appunto, la “licenza”).
A ben vedere, come sottolineato dalla giurisprudenza, manca, nelle fattispecie di noleggio dei monopattini elettrici, un requisito fondamentale del servizio pubblico: ovvero la sua «assunzione» da parte dell’ente territoriale, il quale poi lo «affida» a un soggetto esterno per la sua gestione.
L’assunzione del servizio da parte dell’ente sancisce, in altre parole, il riconoscimento politico del bisogno della collettività che non può essere soddisfatto dal mercato – non solo i residenti, ma più in generale la platea di utenti[23] – e trasforma l’attività che ne costituisce oggetto in attività di interesse pubblico[24], che la stessa A.c. deve provvedere a regolare in modo da assicurare che essa sia effettivamente funzionale allo scopo cui è destinata. Entrano, dunque, in vigore in quel momento tutti i principi, di fonte costituzionale (artt. 2 e 97 Cost.), ma anche europea, che regolano i servizi pubblici: legalità; doverosità del servizio (i pubblici poteri devono garantire direttamente o indirettamente alla collettività l’erogazione del servizio secondo criteri quantitativi e qualitativi predeterminati); il principio della continuità della gestione ed erogazione dei servizi; il principio di imparzialità; il principio di universalità (le imprese che gestiscono servizi pubblici devono offrire prestazioni anche a fasce di clienti e in aree territoriali non convenienti); il principio dell’accessibilità dei prezzi per tutti; il principio dell’economicità (nel senso che il gestore del servizio deve poter conseguire un margine ragionevole di utile); il principio di trasparenza; il principio di proporzionalità[25].
Quando, poi, la gestione del servizio non è assunta dalla stessa Amministrazione, ma affidata a un operatore economico – laddove la gestione sia in grado di produrre un utile e sia, dunque, d’interesse economico – la scelta della p.A. può ricadere o su uno o più affidatari definiti “concessionari”, selezionati mediante procedure di evidenza pubblica, che opereranno in regime di monopolio o di oligopolio (c.d. concorrenza per il mercato), oppure su un numero indeterminato di soggetti autorizzati a erogare il servizio in concorrenza fra loro, nel rispetto però degli obblighi di servizio pubblico stabiliti dal regolatore (c.d. concorrenza nel mercato).
È così assicurata la gestione del servizio in modalità imprenditoriale, con degli aggiustamenti necessari derivanti dal fatto che il concessionario – dovendo assolvere a obblighi di servizio[26] che valgono in ogni condizione, proprio per garantirne la fruibilità all’utenza – potrebbe anche non produrre utili e dunque ricevere una compensazione economica dall’Amministrazione: è la tipica deroga al c.d. divieto di aiuti di Stato, sancito dalla giurisprudenza unionale[27].
Ma tutto questo, nella fattispecie del noleggio dei monopattini, è assente.
Manca, cioè, come detto, l’assunzione politica del bisogno della collettività, la cui soddisfazione è pienamente incontrata da un mercato florido e concorrenziale di produttori di monopattini elettrici. Si tratta, come già detto, di un’attività imprenditoriale di servizio al pubblico ma erogata da privati e regolata dal libero mercato: a essa, insomma, non si applicano le Direttive appalti né il Codice dei contratti pubblici, bensì la Direttiva 2006/123/CE, Bolkestein, sui servizi liberalizzati nel mercato europeo. Ovvero la Direttiva che sottrae le attività di servizio[28] a qualunque controllo amministrativo ex ante, dunque al potere amministrativo concessorio o autorizzatorio[29], attuando i principi unionali della libertà di stabilimento e della libera prestazione di servizi nell’Unione.
Poiché allora il servizio è liberalizzato[30], trova applicazione l’art. 9, Dir. 2006/123/CE, in base al quale queste attività – facendo parte del libero mercato – possono essere soggette alla previa autorizzazione soltanto qualora lo richiedano ragioni imperative d’interesse generale. L’autorizzazione è, dunque, una eccezione che va intesa in senso molto restrittivo, i cui presupposti vanno applicati e rinvenuti rigidamente.
La ragione imperativa d’interesse generale è, in questa fattispecie[31], la tutela della pubblica incolumità sulle strade: la necessità di regolazione dell’attività di noleggio dei dispositivi sorge cioè in ragione del proliferare dei soggetti che ha spontaneamente iniziato a erogare il servizio in modalità free-floating (che consente la restituzione dei beni in luoghi non determinati) e per evitare che questa attività sia svolta in maniera pericolosa e disordinata, in modo da scongiurare impatti negativi sul sistema di circolazione stradale, sull’ordine e la sicurezza urbana nonché sull’uso del suolo pubblico. È escluso che la regolazione abbia la specifica finalità di garantire a tutti gli amministrati la possibilità di usufruire del servizio secondo i principi di imparzialità, universalità, continuità, trasparenza, più sopra illustrati[32].
Le restrizioni sono dunque introdotte a esclusiva tutela dell’interesse pubblico volto a scongiurare la circolazione “selvaggia” dei dispositivi, e non anche (come avviene nell’ambito del servizio pubblico) al fine di assicurare un minimo di redditività per il privato[33]: il ricorso all’evidenza pubblica deriva, infatti, dal numero limitato di monopattini introducibili nel territorio comunale e, quindi, dalla natura ristretta del mercato di riferimento ai sensi dell’art. 1, comma 75-bis e ss., l. n. 160 del 2019[34].
La limitatezza del mercato di riferimento induce, allora, a una selezione degli operatori da ammettere all’erogazione del servizio, in attuazione dell’art. 12, Dir. 2006/123/CE – recepito in Italia dall’art. 16, d.lgs. n. 59/2010[35]. Una selezione che, a ben vedere, non è regolata interamente dal Codice dei contratti pubblici – trovandosi in diverso ambito disciplinare – bensì puramente i principi di non discriminazione, trasparenza, proporzionalità[36].
4. La procedura selettiva dell’operatore: l’esclusione dall’applicazione del Codice dei contratti pubblici.
Per il Giudice amministrativo, logica conseguenza della configurazione del servizio come liberalizzato e della mancata assunzione del medesimo da parte dell’Amministrazione comunale è che il provvedimento col quale il Comune ha avviato la procedura selettiva non poteva essere soggetto all’applicazione del Codice dei contratti pubblici, bensì solo ai suoi principi generali: quelli sì, gli unici dotati di vis expansiva e, d’altra parte, richiamati dalla stessa Direttiva 2006/123/CE.
Ciò, beninteso, non vietava all’Amministrazione di fare applicazione delle disposizioni del Codice: tanto che il Comune – nella fattispecie decisa dalla sentenza in commento – aveva richiamato l’art. 80 sui requisiti generali del prestatore. Ma, al contempo, in difetto di espressa previsione negli atti di procedura, deve escludersi che il Comune si fosse in generale autovincolato all’applicazione del Codice.
Né il Codice, di per sé, è estensibile in via analogica a tutte le procedure evidenziali: l’ambito oggettivo e soggettivo del testo normativo sui contratti pubblici è ben definito, trattandosi di norma speciale, sicché ne è esclusa l’analogia legis[37]. Solo le norme che costituiscano espressione di principi generali hanno, come detto, portata applicativa generalizzata.
5. La pubblicizzazione del servizio a seguito dell’“assunzione” da parte della p.A.: un criterio da verificare caso per caso.
Le ricostruzioni giurisprudenziali – da ultimo, quella in commento – profilano l’attività di noleggio e condivisione dei monopattini a propulsione elettrica come servizio offerto dal libero mercato: sicché il Comune, quando decide di rilasciare licenze agli operatori economici, lo fa solo per ragioni d’interesse pubblico, ovvero per disciplinare un’attività che, altrimenti, rischierebbe d’esser dannosa per l’incolumità e il decoro urbano.
Il costrutto normativo – risultante dal combinato disposto del d.m. 4 giugno 2019 e della l. n. 160/2019 – si presta a questa lettura: la quale, in effetti, dev’essere fatta con estrema attenzione. Invero, non è così facile distinguere tra la fattispecie del pubblico servizio – ricadente nella disciplina degli appalti pubblici – e quella del servizio liberalizzato su autorizzazione pubblica – ricadente nella Direttiva Bolkestein.
In entrambi i casi figura un ente territoriale che sceglie, in qualche misura, di rivolgersi a imprese – o comunque a soggetti a esso esterni – perché costoro eroghino il servizio all’utenza secondo un quadro regolamentare eterodeterminato.
Quel che fa la differenza tra l’uno e l’altro, però, è l’atto politico di “assunzione” del servizio da parte dell’ente territoriale: il riconoscimento, cioè, del rilievo pubblicistico dell’attività da prestare all’utenza, la quale – così – avrà un diritto soggettivo a usufruirne secondo i principi europei più sopra citati, l’universalità e l’accessibilità anzitutto.
Manca, invece, nel servizio privato liberalizzato, questa componente di doverosità dell’Amministrazione: sicché il rapporto tra utente e operatore economico resta sul piano della libera contrattazione, esulando dalla garanzia dell’erogazione secondo condizioni calmierate.
Nondimeno, c’è qualche nota stonata: la restrizione all’ingresso degli operatori, tramite il rilascio della licenza, è indubbiamente una limitazione della concorrenza. Concorrenza che, peraltro, in alcune città, spesso non esiste: in diversi Comuni la licenza è rilasciata a un solo operatore che offre i propri mezzi in numero bastevole per coprire il territorio in condizioni di sicurezza. Sicché, all’utente non è davvero offerta la scelta concorrenziale (gli operatori hanno anche tariffe diverse), ma semplicemente sta a lui scegliere se aderire o meno all’unica tipologia di erogazione presente sul territorio.
D’altra parte, se lo sharing non è servizio pubblico, allora l’utente non ha un diritto nei confronti dell’Amministrazione che lo regola: perché non è lei, ad esserselo “assunto” in riconoscimento di qualche interesse pubblico da tutelare.
Di fatto, il sistema oggi non è diverso da quello dei taxi, tale per cui spesso il rilascio di licenze è fortemente condizionato, con una sicura barriera all’ingresso di operatori sul mercato, non graditi a chi già vi opera: restano memorabili le sentenze della Corte di giustizia circa il servizio Uber Pop in Francia e Spagna[38].
La giurisprudenza – come anche la sentenza in commento – non pare escludere, tuttavia, che in astratto il noleggio possa qualificarsi come servizio pubblico: perché emerge dalle pronunce che v’è una verifica sulla concreta assunzione di quel servizio da parte dell’Amministrazione. Ove essa non vi sia, allora il servizio è offerto dal libero mercato e ricade nello schema della Direttiva 2006/123/CE.
Ma non pare vietato dal diritto UE che lo Stato possa riconoscere che un certo servizio sia escluso dall’applicazione di quella Direttiva: «possono essere considerati servizi d’interesse economico generale soltanto i servizi la cui fornitura costituisca adempimento di una specifica missione d’interesse pubblico affidata al prestatore dallo Stato membro interessato. Tale affidamento dovrebbe essere effettuato mediante uno o più atti, la cui forma è stabilita da ciascuno Stato membro, e precisare la natura di tale specifica missione» (considerando n. 70 della Direttiva 2006/123/CE).
Sicché, nelle città cambiano molto rapidamente, nelle quali la digitalizzazione diventa quotidianità e la cultura della mobilità sostenibile, rapida e dolce, fa parte della vita degli utenti, è probabile che sia opportuno iniziare a qualificare anche il noleggio dei monopattini come servizio pubblico: l’“assunzione” da parte dei Comuni si fa auspicabile, perché riuscirebbe a regolare meglio le condizioni di erogazione del servizio e controllerebbe meglio la circolazione dei mezzi, ma soprattutto ne garantirebbe l’omogenea e universale prestazione sul territorio.
Tornerebbe, in veste nuova, il tema dei servizi pubblici di trasporto locale, che ingloberebbe nella sua “missione” in senso unionale – oltre ai mezzi che già conosciamo ampiamente e che provengono dal secolo scorso, quali bus, tram, metropolitane, mezzi che siano su gomma o su rotaia – anche i nuovi mezzi, elettrici, sostenibili, ma garantiti dall’Amministrazione locale. Applicare lo schema della concessione di servizio pubblico potrebbe così garantire uno standard di mezzi numerico ma anche qualitativo, assicurarne l’universalità nell’accesso, consentire di sanzionare più prontamente le condotte scorrette di utenti e operatori, nonché – ovviamente – applicare procedure selettive che siano più puntualmente disciplinate.
Ma soprattutto, consentirebbe alle Amministrazioni locali di constatare che le proprie collettività di riferimento stanno cambiando: ne evolvono i valori, le esigenze, gli interessi. Ai quali bisogna far fronte. Una “buona Amministrazione” dovrebbe prenderne atto.
[1] L’operazione di branding attribuisce al valore metagiuridico della «sostenibilità» un rilievo patrimoniale sul mercato, modificando l’asset dei marchi: in altre parole, oggi, il segno celebre, il marchio, ha un valore evocativo e suggestivo, sì da orientare acquisti e comportamenti attratti maggiormente da quel determinato valore in un certo momento storico. Si assiste così al proliferare di società e imprese che si attribuiscono una produzione di beni e/o servizi “sostenibili” e al graduale mutamento del comportamento dei consumatori e utenti, i quali preferiscono acquistare un bene – o usufruire di un servizio – più in linea con quel valore. V. in proposito, sotto l’aspetto civilistico-commerciale, C. Mignone, I segni celebri. Proprietà, funzione, usi civili, Napoli, 2022, spec. p. 20 ss.
[2] Vedi il sito ufficiale del Parlamento europeo, recante la normativa finora adottata e gli obiettivi declinati della neutralità climatica: https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/20190926STO62270/neutralita-carbonica-cos-e-e-come-raggiungerla?&at_campaign=20234-Green&at_medium=Google_Ads&at_platform=Search&at_creation=RSA&at_goal=TR_G&at_audience=neutralità%20climatica&at_topic=Carbon_Neutral&at_location=IT&gclid=EAIaIQobChMInePsud_t_wIVmPuyCh0QtwfzEAAYASAAEgIhpfD_BwE.
[3] La ricerca di autonomia energetica rispetto all’acquisto di carburanti fossili ha in sé ragioni ecologiche e geopolitiche. Sia consentito il rinvio a C. Napolitano, A. Gorgoni, Energy As A Common: New Paths Of Production. The Key-Role Of Energy Communities In The Italian Context, in Ius Publicum, n. 1/2023, pp. 1-38.
[4] Si v. in proposito P.L. Portaluri, Spunti su diritto di ricorso e interessi superindividuali: “quid noctis, custos”?, in Riv. giur. ed., n. 5/2019, pp. 401 ss., il quale – nell’enfatizzare la perdita del paradigma bipolare tra bene e interesse, nell’ambito del processo amministrativo, ed esaminando la proliferazione di interessi diffusi che prescindono dalla materialità dei beni a essi sottesi, i quali sfuggono alla dominicalità tradizionale – così afferma: «La considerazione del territorio quale “punto di ricaduta” degli interessi espressi da una comunità a vario titolo insediata ne individua una peculiarità di sostrato materiale: quegli interessi non sono sempre sostanziati da singoli beni, individuati e determinati, ma non di rado da un bonum (comune) materiale tale perché riferibile a un novero più o meno indistinto di soggetti, i quali possono goderne con modalità assai diverse fra loro. […] È infatti necessario vedere anzitutto quel bene (comune) materiale nella sua accezione complessiva e organica, esito e risultante di una molteplicità complessa di fattori causali fra loro interagenti verso quell’assetto finale, meritevole di tutela […]. Questo bene – ripeto: indubbiamente materiale, eppure al contempo evanescente nella sua stessa pensabilità in termini di stringente ed esclusiva fisicità – può essere sottoposto (più facilmente nel primo dei tre esempi appena fatti) a una sorta di trasmutazione: indossando occhiali distorcenti, può essere confuso con altri beni, che invece ne ricevono beneficio. Il primo può essere costituito da uno o più beni (immobili, ma anche mobili o semi-mobili, come impianti di c.d. mobilità dolce, bike sharing, aree a verde pubblico, assetti viari con abbondanza di woonerf: il catalogo è vasto ed eterogeneo) che generano nel loro complesso gli effetti positivi meritevoli di tutela. I secondi sono beni – si pensi ad abitazioni, uffici, etc. – che quella sommatoria di qualità trasferiscono ai loro fruitori. Il bene materiale protetto è quello complessivo più sopra descritto per primo, o uno di quelli – specifici e puntuali – di cui alla seconda esemplificazione? Dalla risposta dipende – ovvio – l’ampiezza dell’accesso all’azione e dunque la possibilità che il bene (comune) materiale riesca a ricevere o meno tutela».
[5] Si v. per esempio, oltre alla sentenza in commento, anche Tar Lombardia, III, 03 luglio 2020, n. 1274; Id., 10 giugno 2021, n. 1416.
[6] Ancora il riferimento è al d.lgs. n. 50/2016. Il nuovo Codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 36/2023, non è ancora pienamente efficace, alcune sue disposizioni entrando in vigore il 1 luglio 2023, altre il 1 gennaio 2024. Su di esso, però, si è già espressa autorevole dottrina, per esempio circa gli aspetti della tutela giurisdizionale: cfr. M.A. Sandulli, Procedure di affidamento e tutele giurisdizionali: il contenzioso sui contratti pubblici nel nuovo Codice, in Federalismi.it, n. 8/2023. Tra le trattazioni organiche sul Codice già pubblicate, cfr. C. Contessa, P. Del Vecchio, Codice dei Contratti Pubblici. Annotato articolo per articolo. D.lgs. 31 marzo 2023 n. 36, vol. I, Napoli, 2023.
[7] Tar Veneto, I, 18 marzo 2022, n. 476.
[8] Si riportano qui di seguito gli altri principi enucleabili dalla pronuncia, pubblicati in www.giustizia-amministrativa.it:
«La valutazione delle offerte nonché l’attribuzione dei punteggi da parte della commissione rientrano nell’ampia discrezionalità di cui essa gode, con la conseguenza che, fatto salvo il limite della abnormità della scelta tecnica, sono inammissibili le censure che impingono nel merito di valutazioni per loro natura opinabili, e sollecitano il giudice amministrativo a esercitare un sindacato sostitutivo, al di fuori dei tassativi casi sanciti dall’art. 134 c.p.a.».
«Per ciò che concerne la competenza dei commissari, il requisito dell’esperienza nello specifico settore non riguarda indistintamente tutti i componenti della commissione. Lo stesso va, infatti, interpretato non secondo un approccio formale e atomistico, che tenga conto delle sole professionalità tecnico-settoriali implicate dagli specifici criteri di valutazione la cui applicazione sia prevista dalla lex specialis, ma secondo un approccio di natura sistematica e contestualizzata, che valorizzi le professionalità occorrenti a valutare sia le esigenze della pubblica amministrazione, alle quali quei criteri siano funzionalmente ordinati, sia i concreti aspetti gestionali ed organizzativi sui quali vanno ad incidere. Non è imposta, in sostanza, una rigida corrispondenza tra competenza dei membri della commissione e ambiti materiali che concorrono all’integrazione del complessivo oggetto del contratto. La presenza, pertanto, di componenti portatori di diverse esperienze professionali, sia di natura gestionale ed amministrativa, sia di natura tecnica, risponde, in un rapporto di complementarietà, alle esigenze valutative imposte dall’espletamento della procedura evidenziale (Nella fattispecie in esame, il comune aveva correttamente individuato professionalità adeguate per l’esame delle proposte rispetto all’oggetto della procedura ovvero il noleggio di monopattini elettrici in sharing nei dirigenti degli uffici che si occupano di viabilità, sicurezza, mobilità e traffico e di attività produttive, atteso che gli aspetti di maggior rilevanza pubblica del servizio riguardano l’impatto dei dispositivi di micro-mobilità sulla circolazione stradale, sul decoro cittadino e sull’ambiente)».
«Se è vietato per il seggio di gara enucleare criteri o sub criteri non previsti e avulsi da quelli stabiliti nella lex specialis o che comportino l’alterazione del peso di quelli ivi contemplati, è invece consentito alla commissione effettuare una declinazione ed una specificazione dei criteri e dei sub criteri. Tale modus operandi è legittimo in quanto la commissione non ha in alcun modo modificato i criteri di valutazione, cui aveva autovincolato la propria discrezionalità, ma, a ulteriore garanzia della trasparenza del percorso motivazionale che presiede all’attribuzione dei punteggi per le offerte, ha solo specificato le modalità applicative di tale operazione, senza apportare una modifica sostanziale ai criteri di valutazione e ai fattori di ponderazione fissati nell’avviso nonché senza alcuna modifica postuma».
«Nelle procedure di evidenza pubblica, l’incompatibilità del presidente non è automatica, ma va valutata sempre in concreto sulla base di comprovate ragioni di interferenza e condizionamento. Il ruolo di responsabile unico del procedimento può coincidere con le funzioni di commissario di gara o di presidente della commissione giudicatrice, a meno che non sussista la concreta dimostrazione dell’incompatibilità tra i due ruoli, desumibile da una qualche comprovata ragione di interferenza e di condizionamento tra gli stessi (Nella fattispecie in esame, la sezione concludeva che l’appellante non aveva allegato e provato alcun elemento oggettivo da cui potesse evincersi, anche solo a livello indiziario, una situazione di interferenza o condizionamento tale da alterare il confronto competitivo tra i partecipanti alla manifestazione di interesse, limitandosi invece ad insistere sull’applicazione incondizionata della causa di incompatibilità di cui all’art. 77, comma 4, del codice dei contratti pubblici)».
[9] È di questi giorni la notizia dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di un disegno di legge sulla sicurezza stradale che introduce novità circa i monopattini elettrici – per esempio obbligo di indossare il casco, obbligo di targa e assicurazione (art. 7, d.d.l. del 28 giugno 2023) – e delega il Governo alla riforma del Codice della Strada, la cui prima approvazione risale al 1992.
[10] In https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2019-07-12&atto.codiceRedazionale=19A04569&elenco30giorni=false.
[11] Si legge nell’epigrafe del d.m.: «Considerato che presso diverse zone ed agglomerati del territorio nazionale si registrano superamenti dei valori limite di qualità dell’aria per il materiale particolato PM10 ed il biossido di azoto;
Ritenuto che sussista pertanto la necessità di adottare interventi addizionali rispetto a quelli fino ad oggi previsti al fine di prevenire e fronteggiare i superamenti dei valori limite di concentrazione atmosferica del materiale particolato PM10 registrati a partire dal 2005 sul territorio nazionale;
Considerato che tale necessità è stata espressa anche nel protocollo d’intesa per l’adozione coordinata e congiunta di misure per il miglioramento della qualità dell’aria del 4 giugno 2019, che individua tra le attività da porre in essere, l’adozione del presente decreto;
Ritenuto quindi che le presenti disposizioni possano ritenersi utili ai fini del contrasto all’inquinamento atmosferico, in virtù dei benefici derivanti dalla variazione della quota modale degli spostamenti per la mobilità personale con dispositivi a propulsione prevalentemente elettrica».
[12] Art. 1, d.m. 4 giugno 2019.
[13] Per esempio, art. 2, d.m. cit.: «I dispositivi non auto-bilanciati sono dotati di motore elettrico avente potenza nominale massima non superiore a 500W e di segnalatore acustico. 4. Il dispositivo auto-bilanciato del tipo segway deve essere dotato di segnalatore acustico. 5. Da mezz’ora dopo il tramonto, durante tutto il periodo dell'oscurità e di giorno, qualora le condizioni atmosferiche richiedano l’illuminazione, tutti i dispositivi di cui al comma 1 sprovvisti o mancanti di luce anteriore bianca o gialla fissa e posteriormente di catadiottri rossi e di luce rossa fissa, utili alla segnalazione visiva, non possono essere utilizzati, ma solamente condotti o trasportati a mano. 6. I dispositivi non possono essere dotati di posto a sedere per l’utilizzatore e sono destinati ad essere utilizzati da quest’ultimo con postura in piedi. 7. I dispositivi in grado di sviluppare velocità superiori a 20 km/h, al fine di poter essere utilizzati nell’ambito della sperimentazione di cui all’art. 1, devono essere dotati di regolatore di velocità, configurabile in funzione di detto limite. In ogni caso, per poter essere utilizzati su aree pedonali, tutti i dispositivi devono essere dotati di regolatore di velocità, configurabile altresì in funzione di una velocità non superiore a 6 km/h».
[14] Art. 5, d.m. cit.: «i comuni valutano che le stesse [le infrastrutture stradali e/o parti di strada, n.d.r.] abbiano caratteristiche geometriche, funzionali e di circolazione adeguate in relazione alla tipologia dei dispositivi per la micromobilità elettrica ammessi a circolare sulle stesse ed agli altri utenti della strada».
[15] Artt. 3 e 4, d.m. cit.. In particolare, art. 4, co. 3: «I comuni provvedono nella delibera della giunta comunale relativa alla sperimentazione di cui all’art. 4 comma 1 e ai successivi atti applicativi, ad esplicitare che per la sosta i conduttori dei dispositivi si attengano a quanto previsto nella regolamentazione di cui al comma 1. Nella medesima delibera i comuni, qualora istituiscano o affidino servizi di noleggio dei dispositivi in condivisione, anche in modalità free-floating, prevedano di rendere obbligatoria l’attivazione di una adeguata azione di informazione nei confronti degli utilizzatori da parte delle società responsabili del servizio circa le regole di utilizzo, fra le quali quelle relative alla sicurezza stradale, alla velocità, alle modalità consentite di sosta. I comuni prevedono, nella istituzione o nell’affidamento del servizio di noleggio, l’obbligo di coperture assicurative per l’espletamento del servizio stesso».
[16] Art. 6, d.m. cit.
[17] Art. 1, co. 75 e 75-bis, l. n. 160/2019: «I monopattini a propulsione prevalentemente elettrica possiedono i seguenti requisiti:
a) le caratteristiche costruttive di cui all’allegato 1 annesso al decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti 4 giugno 2019, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 162 del 12 luglio 2019;
b) assenza di posti a sedere;
c) motore elettrico di potenza nominale continua non superiore a 0,50 kW;
d) segnalatore acustico;
e) regolatore di velocità configurabile in funzione dei limiti di cui al comma 75-quaterdecies;
f) la marcatura ‘CE’ prevista dalla direttiva 2006/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 maggio 2006.
75-bis. A decorrere dal 30 settembre 2022, i monopattini a propulsione prevalentemente elettrica commercializzati in Italia devono essere dotati di indicatori luminosi di svolta e di freno su entrambe le ruote. I monopattini a propulsione prevalentemente elettrica già in circolazione prima di tale data devono essere adeguati alle prescrizioni del primo periodo entro il 1° gennaio 2024».
[18] Cfr. per esempio art. 1, co. da 75-octies a 75-quinquiesdecies.
[19] Per esempio, art. 1, co. 75-sexiesdecies: «Gli operatori di noleggio di monopattini elettrici, al fine di prevenire la pratica diffusa del parcheggio irregolare dei loro mezzi, devono altresì prevedere l’obbligo di acquisizione della fotografia, al termine di ogni noleggio, dalla quale si desuma chiaramente la posizione dello stesso nella pubblica via».
Art. 1, co. 75-septiesdecies: «Gli operatori di noleggio di monopattini elettrici sono tenuti ad organizzare, in accordo con i comuni nei quali operano, adeguate campagne informative sull’uso corretto del monopattino elettrico e ad inserire nelle applicazioni digitali per il noleggio le regole fondamentali, impiegando tutti gli strumenti tecnologici utili a favorire il rispetto delle regole».
[20] Art. 1, co. 75-quinquiesdecies: i Comuni possono individuare le aree di sosta, garantendo adeguata capillarità, privilegiando la scelta di localizzazioni alternative ai marciapiedi. Tali aree possono essere prive di segnaletica orizzontale e verticale, purché le coordinate GPS della loro localizzazione siano consultabili pubblicamente nel sito internet istituzionale del comune. Ai monopattini a propulsione prevalentemente elettrica è comunque consentita la sosta negli stalli riservati a velocipedi, ciclomotori e motoveicoli.
[21] Art. 1, co. da 75-duodevicies a 75-vicies ter.
[22] Lo spiega Tar Lombardia, n. 1274/2020, cit.: «il “servizio pubblico” presuppone la decisione della pubblica amministrazione di farsi carico del soddisfacimento di un bisogno proprio della collettività da essa amministrata che il mercato non è in grado di soddisfare adeguatamente, e consiste nell’espletamento del servizio a tal fine necessario il quale può essere svolto secondo modalità differenti che si possono però raggruppare in due grossi insiemi: a) gestione diretta da parte della stessa amministrazione; b) gestione affidata a soggetti estranei all’amministrazione».
[23] È questo che contraddistingue d’altra parte il “servizio pubblico locale”: «la dinamicità delle città moderne (quantomeno di alcune di esse) ha chiaramente posto in crisi l'equivalenza collettività locale-utenza, avendo mostrato che gli utenti dei servizi sono in significativa proporzione diversi dai residenti ed anzi sono portatori di interessi in profondo conflitto con quelli di questi ultimi. […] Della qualità dei servizi, del modello di loro gestione, del loro costo si risponde al momento del voto, così che l’ente locale virtuosamente opera per l’efficienza perché è sul piano dell’efficienza che sarà giudicato. Il dato su cui si fonda il sistema è però ormai, se non falso, assai smorzato. Vi sono realtà urbane in cui i residenti (i votanti, dunque) non rappresentano che una piccola parte degli utenti, eppure restano gli unici a poter condizionare le scelte. È così, ad esempio, per i servizi di trasporto e di gestione dei rifiuti in città come Venezia, in cui i proprietari di seconde case sono forse più numerose dei residenti, o come Bologna, in cui l’utenza è rappresentata in parte assai rilevante da studenti fuori sede e da stabili pendolari. Si tratta di utenti che, pur assumendo su di sé buona parte dei costi dei servizi e pur beneficiando per primi di buone gestioni o risentendo di inefficienze, sono tenuti in secondaria considerazione dai decisori, immuni dal loro giudizio sul piano politico. Posizione, la loro, ovviamente resa delicata anche dal sistema sostanzialmente monopolistico che l’ordinamento legittima in alcuni settori nevralgici dei servizi»; e ancora «il concetto di servizio pubblico locale è ancora centrale se non ai fini dell’analisi sistematica dei principi e delle norme, almeno nella prospettiva dello studio di una relazione complessa e trilaterale, unica nel panorama giuridico, tra l’interesse di cui l’amministrazione è portatrice, l’interesse delle collettività di riferimento (quella dei residenti e quella, ben distinta dalla prima, degli utenti) e l’interesse individuale dell’esercente il servizio» (M. Dugato, La crisi del concetto di servizio pubblico locale tra apparenza e realtà, in Dir. amm., n. 3/2020, pp. 510 ss.)
[24] Sui servizi pubblici la dottrina è sterminata. Sia qui sufficiente il rimando a R. Cavallo Perin, La struttura della concessione di servizio pubblico locale, Torino, 1998; G. Napolitano, Servizi pubblici e rapporti di utenza, Padova, 2001; L. De Lucia, La regolazione amministrativa dei servizi di pubblica utilità, Padova, 2002; R. Villata, Pubblici servizi, Milano, 2003; L.R. Perfetti, Contributo ad una teoria dei servizi pubblici locali, Padova, 2005; G. Piperata, Tipicità e autonomia nei servizi pubblici locali, Milano 2005; M. Cammelli, Concorrenza per il mercato e regolazione dei servizi nei sistemi locali, in E. Bruti Liberati (a cura di), La regolazione dei servizi di interesse economico generale, Torino, 2010, pp. 127 ss.; D. Sorace, I servizi «pubblici» economici nell’ordinamento nazionale ed europeo, alla fine del primo decennio del XXI secolo, in Dir. amm., n. 1/2010, pp. 1 ss.; T. Bonetti, Servizi pubblici locali di rilevanza economica: dall’“instabilità” nazionale alla deriva europea, in Munus, 2012, pp. 417 ss.; A. Romano Tassone, I servizi pubblici locali: aspetti problematici, in Dir. proc. amm., 2013, pp. 855 ss.
[25] Ex multis, Cons. Stato, I, 7 maggio 2019, n. 1389.
[26] CGCE, 20 febbraio 2001, in C-205/99, Analir, spiega che l’obbligo di pubblico servizio s’impone al gestore laddove possa essere dimostrata un’effettiva esigenza di servizio pubblico e nella misura in cui tale imposizione sia effettuata in base a criteri non discriminatori e sia giustificata rispetto all’obiettivo di interesse pubblico perseguito.
[27] Hanno fatto ormai storia i cc.dd. criteri Altmark – da CGCE, 14 luglio 2003, in C-280/00, Altmark – per i quali eventuali sovvenzioni pubbliche vòlte a consentire l’esercizio di servizi pubblici sono escluse dal divieto di aiuti di Stato laddove possano esser considerate una compensazione che rappresenta la contropartita delle prestazioni fornite dalle imprese beneficiarie per adempiere obblighi di servizio pubblico. Ciò accade al verificarsi di quattro condizioni concomitanti: «in primo luogo, l’impresa beneficiaria sia stata effettivamente incaricata dell'adempimento di obblighi di servizio pubblico e detti obblighi siano stati definiti in modo chiaro; in secondo luogo, i parametri sulla base dei quali viene calcolata la compensazione siano stati previamente definiti in modo obiettivo e trasparente; in terzo luogo, la compensazione non ecceda quanto necessario per coprire interamente o in parte i costi originati dall’adempimento degli obblighi di servizio pubblico, tenendo conto dei relativi introiti nonché di un margine di utile ragionevole per il suddetto adempimento; in quarto luogo, quando la scelta dell’impresa da incaricare dell’adempimento di obblighi di servizio pubblico non venga effettuata nell’ambito di una procedura di appalto pubblico, il livello della necessaria compensazione sia stato determinato sulla base di un’analisi dei costi che un’impresa media, gestita in modo efficiente e adeguatamente dotata di mezzi di trasporto al fine di poter soddisfare le esigenze di servizio pubblico richieste, avrebbe dovuto sopportare per adempiere tali obblighi, tenendo conto degli introiti ad essi attinenti nonché di un margine di utile ragionevole per il suddetto adempimento».
[28] La nozione di «servizio» rilevante ai fini dell’applicazione della Direttiva Bolkestein è quella per cui si intende tale qualsiasi attività economica non salariata di cui all’articolo 57 TFUE fornita normalmente dietro retribuzione. Cfr. CGUE, Grande Sezione, 22 settembre 2020, n. 724.
[29] La distinzione non rileva ai fini del diritto europeo, intendendosi per «autorizzazione» qualsiasi procedura che obbliga un prestatore o un destinatario a rivolgersi ad un'autorità competente allo scopo di ottenere una decisione formale o una decisione implicita relativa all’accesso ad un’attività di servizio o al suo esercizio (art. 4, par. 6, Dir.).
[30] La liberalizzazione è cosa diversa dalla semplificazione e presuppone che non sia necessario neanche il formarsi di un titolo abilitativo (anche implicito) e che l’attività possa essere liberamente esercitata senza una previa autorizzazione o presa d’atto dell’amministrazione: R. Chieppa, Le nuove forme di esercizio del potere e l’ordinamento comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., n. 6/2009, pp. 1319 ss.
[31] In altra fattispecie, relativa alla locazione d’immobili a uso turistico per brevi periodi, la Corte di giustizia ha rilevato che la ragione d’imporre la previa autorizzazione risiedeva nella lotta contro la scarsità di alloggi cittadini (a Parigi) destinati alla locazione (CGUE, Grande Sezione, n. 724/2020, cit.).
[32] Tar Lombardia, n. 1274/2020, cit.
[33] Tar Lombardia, n. 1416/2021, cit.
[34] Cons. Stato, n. 4368/2023 in commento.
[35] In base al quale «Nelle ipotesi in cui il numero di titoli autorizzatori disponibili per una determinata attività di servizi sia limitato per ragioni correlate alla scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche disponibili, le autorità competenti applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali ed assicurano la predeterminazione e la pubblicazione, nelle forme previste dai propri ordinamenti, dei criteri e delle modalità atti ad assicurarne l’imparzialità, cui le stesse devono attenersi».
[36] Art. 10, parr. 1 e 2, Dir. 2006/123/CE, Condizioni di rilascio dell’autorizzazione: «1. I regimi di autorizzazione devono basarsi su criteri che inquadrino l’esercizio del potere di valutazione da parte delle autorità competenti affinché tale potere non sia utilizzato in modo arbitrario.
2. I criteri di cui al paragrafo 1 devono essere: a) non discriminatori; b) giustificati da un motivo imperativo di interesse generale; c) commisurati all’obiettivo di interesse generale; d) chiari e inequivocabili; e) oggettivi; f) resi pubblici preventivamente; g) trasparenti e accessibili».
[37] Tar Lazio, I, 14 luglio 2020, n. 8066: «Va esclusa l’applicabilità, in via analogica, ai contratti attivi della p.A. di norme o istituti del Codice degli appalti, atteso che la disciplina contenuta nel Codice non è una disciplina generale ma speciale e ha pertanto un ambito di applicazione particolare».
[38] CGUE, Grande Sezione, 20 dicembre 2017, in causa C-434/15, Uber Spain; e CGUE, 10 aprile 2018, in causa C-320/16, Uber France SAS.
Sommario: 1. La qualificazione penale delle sanzioni amministrative nella CEDU - 2. La Full jurisdiction nella CEDU e nel diritto dell’Unione Europea - 3. Nuovi contributi delle Corti europee sulla full jurisdiction - 4. Conclusioni.
1. La qualificazione penale delle sanzioni amministrative nella CEDU.
Secondo linee ormai ben note – su cui qui non mi soffermo rimandando ad altri miei precedenti scritti[1] - le sanzioni amministrative quali conosciute nell’ordinamento italiano sono sostanzialmente penali, ai sensi della autonoma definizione della materia penale elaborata dalla CEDU.
E, sia chiaro, ciò vale – nonostante alcuni sorprendenti dubbi ancora presenti nella giurisprudenza italiana di legittimità[2] – almeno per tutte le sanzioni amministrative pecuniarie. Da quelle, più rilevanti, delle Autorità amministrative indipendenti, a quelle minori, per illeciti stradali.
Per essere ancora più diretti, non si richiede una specifica gravità della sanzione. Coerentemente con il carattere alternativo (e non cumulativo) dei criteri Engel[3], è sufficiente la finalità afflittiva, indipendentemente dall’intensità, dal quantum, di tale afflittività.
Lo ha detto, fin dal 1984 (con insegnamento costantemente ripetuto), la Corte EDU nell’occuparsi di modeste sanzioni per violazione del Codice della strada: « Non vi è […] nulla che suggerisca che il concetto di illecito penale di cui parla la Convenzione implichi necessariamente un qualche livello di gravità […]. Per di più sarebbe contrario all’oggetto e allo scopo dell’art. 6, che protegge “chiunque sia soggetto ad un’accusa penale” il diritto a un tribunale e ad un equo processo, se allo Stato fosse consentito di sottrarre dal campo di applicazione dell’art. 6 un’intera categoria di illeciti solo per il fatto che siano qualificati come minori»[4].
Basti ancora notare che, nel 1999, la Corte di Strasburgo non ha mostrato alcuna incertezza nel definire di natura penale una comune sanzione amministrativa pecuniaria italiana per eccesso di velocità, dall’ammontare di (sole) 62.000 lire [5]; nel 2006 ha qualificato penalisticamente una sanzione pecuniaria nazionale per attività edilizie in violazione della disciplina posta a tutela del paesaggio [6]; con la sentenza Menarini del 2011 [7], poi, una sanzione amministrativa antitrust della nostra AGCM è stata ricondotta al penale e, nel 2014, è stata vista come penale una sanzione Consob per manipolazione del mercato[8]. Da ultimo, nel 2020, nel caso Edizioni Del Roma [9], è stata qualificata come penale una sanzione amministrativa pecuniaria di AGCOM, di 103.300 euro.
D’altra parte, come più volte chiarito a partire dal 1995[10], una finalità di cura in concreto dell’interesse pubblico non contrasta affatto con la natura penale del provvedimento di reazione alla commissione di un illecito. Insomma, la sanzione – per essere penale – non deve avere una finalità di mera giustizia. Non è nota, in Europa, la (peraltro fragilissima) tesi nazionale della c.d. discrezionalità giudiziale, che si sostituirebbe alla discrezionalità amministrativa in sede sanzionatoria[11].
2. La Full jurisdiction nella CEDU e nel diritto dell’Unione Europea.
Vengo ora ad interrogarmi, secondo l’importante spunto di Fabio Francario[12], sulle conseguenze di tutto ciò in punto di sindacato giurisdizionale.
Sono necessari alcuni passaggi, non sempre, credo, del tutto compresi nel dibattito italiano.
A svolgere con rigore concettuale il presupposto sopra ricordato (la sanzione amministrativa è una pena), tutte le garanzie dell’equo processo penale (art. 6 CEDU) dovrebbero essere fin da subito godute nel procedimento amministrativo: esso, infatti, si conclude direttamente con la condanna, i.e. la sanzione amministrativa, per di più immediatamente esecutiva, o la “assoluzione”, i.e. la archiviazione.
Il principio nulla poena sine aequo judicio (sintesi estrema dell’art. 6 CEDU come diritto al giudice in materia penale) suggerirebbe dunque, in un’attuazione ottimale, di far precedere le garanzie penalistiche alla sanzione.
Tuttavia, la giurisprudenza CEDU, nella consapevolezza dei limiti della disciplina del procedimento amministrativo riscontrabili nella gran parte dei paesi europei (in realtà ampiamente ispirata a schemi inquisitori, irrimediabilmente lesivi delle condizioni minime e strutturali della parità delle armi), ha mostrato fin da subito un approccio flessibile.
In particolare, la CEDU non si oppone in modo assoluto al fenomeno, non solo italiano, del crescente ricorso alla sanzione amministrativa, al posto di quella formalmente penale (depenalizzazione).
Fin dal già citato caso Otzurk del 1984, la Corte di Strasburgo ha però richiesto che alla fase amministrativa (se ed in quanto inadeguata ad assicurare un effettivo equo processo) sia effettivamente seguita una fase giudiziale di c.d. piena giurisdizione (full jurisdiction).
Il canone della full jurisdiction è estremamente esigente. E ciò vale specie in materia penale, come più volte dichiarato dalla Corte EDU[13].
Si pretende infatti un processo (ovviamente equo e paritario, ossia conforme all’art. 6 CEDU) investente, in fatto come in diritto, punto per punto, l’intero merito della pretesa punitiva, con potere (concretamente esercitato ove richiesto dal ricorrente) di piena sostituzione rispetto al contenuto della decisione amministrativa. In altri termini, come chiarito ad es. nella citata sentenza Edizioni del Roma resa proprio in relazione al contenzioso amministrativo italiano: «Il rispetto dell’articolo 6 della Convenzione non esclude dunque che, in un procedimento di natura amministrativa, una «pena» sia imposta in primo luogo da un’autorità amministrativa (G.I.E.M. S.R.L. e altri c. Italia [GC], nn. 1828/06 e altri 2, § 254 28 giugno 2018). Si presuppone però che la decisione di un’autorità amministrativa che non soddisfi essa stessa le condizioni di cui all’articolo 6 sia sottoposta a un controllo a posteriori da parte di un organo giudiziario con piena giurisdizione (Ramos Nunes de Carvalho e Sá c. Portogallo [GC], nn. 55391/13 e altri 2, § 132, 6 novembre 2018). Tra le caratteristiche di un organo giudiziario con piena giurisdizione vi è il potere di riformare interamente, in fatto e in diritto, la decisione emessa da un organo di grado inferiore. Il primo organo deve essere competente per esaminare tutte le questioni di fatto e di diritto rilevanti per la controversia ad esso sottoposta (Chevrol c. Francia, n. 49636/99, § 77, CEDU 2003-III, Silvester’s Horeca Service c. Belgio, n. 47650/99, § 27, 4 marzo 2004, e A. Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 59).» [14].
Che questo sindacato debba attenere all’an della responsabilità e quindi della fondatezza della pretesa sanzionatoria (fino a riguardare, sostitutivamente, la stessa opportunità di “condonare” la sanzione), è stato inequivocabilmente chiarito: ad es. nella pronuncia Silverster’s Horeca Service[15] (uno dei leading cases, come appena visto spesso richiamato dalla stessa Corte EDU), si è negata la full jurisdiction, perché, in specie, la Corte aveva ritenuto « […]di essere stata chiamata solo ad esaminare la realtà delle infrazioni ai sensi della disciplina IVA e di riesaminare la legittimità delle sanzioni fiscali imposte, senza essere competente a valutare l’opportunità se concedere una deroga totale o parziale dalle stesse».
Dunque un profilo di indubbia discrezionalità/opportunità (se condonare o meno) deve essere – anch’esso - in capo all’Autorità giurisdizionale.
A fronte delle incertezze e dei dubbi che la nozione di full jurisdiction ancora suscita, almeno un punto dovrebbe essere invero chiaro: è la stessa logica interna (e funzione) della full jurisdiction a suggerire un massimo grado di sindacato, di tipo sostitutorio. Difatti, senza sindacato sul merito della pretesa sanzionatoria, la fase giudiziale non potrebbe in alcun modo ambire a “compensare” i limiti della fase amministrativa. Le garanzie dell’equo processo penale devono essere godute in una fase di effettiva scelta sulla pena, non di riesame esterno di legittimità: quest’ultimo non entra (se non marginalmente) nel nucleo della questione (colpevolezza e quindi inflizione della sanzione, cioè an e quantum della sanzione); ma è proprio questo nucleo della questione che – come chiaro – l’art. 6 CEDU pretende sia inderogabilmente deciso nelle forme dell’equo processo (non solo e non certo i profili di mera legittimità)[16]. Un giudice vincolato ‒ anche se solo parzialmente ‒ dalle determinazioni amministrative vede invece la sua funzione di accertamento della colpevolezza e della giusta sanzione (più o meno gravemente) compromessa. Ma con ciò viene meno un fondamentale presupposto (lo si ripete, anzitutto) logico della compensabilità ex post, ossia il riesame ex integro della pretesa sanzionatoria.
In altri termini, se campo di applicazione elettivo dell'art. 6 CEDU è anzitutto il rapporto amministrativo, va da sé che il rapporto processuale, per poter compensare i limiti del rapporto amministrativo in punto di adeguamento all'art. 6 CEDU, debba avere lo stesso oggetto di quest'ultimo, ossia la complessiva questione amministrativa.
Insomma, l’equo processo ex art. 6 CEDU, pur regola formale-procedurale, mira però a incidere con pienezza sui rapporti sostanziali, non certo su fasi di mera revisione di legittimità.
A dimostrazione della necessità anzitutto logica della pienezza di sindacato quale presupposto per l’efficacia “terapeutica” della fase giurisdizionale, basti qui menzionare la analoga regola ideata dalla Corte Suprema USA per curare ex post determinazioni amministrative formate in violazione della due process clause: "the administrative law judge is required to conduct a de novo review of all factual and legal issues"[17]. Come, tra gli altri, osservato dalla Corte Federale del Distretto di New York Sud, ciò significa che allorquando un'azione di enforcement pubblicistico non rispetti di per sé il giusto processo e, allo stesso tempo, sia capace di "barring a final determination on the merits", la deprivazione dei diritti di difesa sia irrimediabile e quindi inaccettabile[18]. Si riapre la strada di un godimento effettivo dell’equo processo solo ove un’altra autorità superiore possa occuparsi del merito delle medesime questioni, nel rispetto della due process clause. Merito amministrativo come preteso spazio di affrancamento dal sindacato giurisdizionale e full jurisdiction sono concetti antitetici ed inconciliabili.
Ma del resto, come a suo tempo notato, anche l’idea (alla base del sindacato pieno garantito al giudice ordinario dalla l. 689 del 1981) rifletteva una simile logica, di poter, almeno ex post, ««usufruire» del principio garantistico «nulla poena sine iudicio» senza i limiti che generalmente ostano alla sua piena tutela nei confronti della p.A.»[19]
Ne deriva, tra l'altro, la necessità di un pieno riesame dei presupposti che, in Italia, definiremmo come tecnico-discrezionali o comunque qualificabili in termini di concetti giuridici indeterminati[20]. Si chiede cioè, in relazione a tali presupposti, la capacità del giudice di «sostituire la propria opinione» rispetto a quella della Autorità amministrativa, perché, altrimenti, «la questione centrale della controversia non è determinata da un tribunale indipendente ed imparziale»[21].
In materia di sanzioni amministrative il modello della full jurisdiction è allora espressamente quello di un sindacato giurisdizionale appellatorio (invece che cassatorio): il provvedimento sanzionatorio deve essere visto come una «decisione […] resa dall’organo inferiore» [22]. L'idea, cioè, è quella di due soggetti pubblici che, in continuità tra loro, esercitano un potere (di decisione su una controversia) qualitativamente identico, con conseguente piena sostituibilità della scelta dell'organo inferiore (l'Amministrazione) da parte dell'organo superiore (il giudice di full jurisdiction).
Non a caso, nella sentenza Grande Stevens del 2004, il sindacato in concreto esercitato dalla Cassazione italiana sulla decisione della Corte d’appello e così sulla sanzione è stato ritenuto inadeguato, in quanto i giudici di legittimità erano privi del potere di «esaminare il merito del caso, accertare i fatti e valutare gli elementi di prova »[23].
È fondamentale notare (anche per gli evidenti riflessi di diritto nazionale) come il particolare rigore con cui deve intendersi il canone della full jurisdictio in relazione alle sanzioni amministrative sia stato ben compreso in sede di Unione Europea.
In particolare, la Corte di giustizia, a seguito della inequivoca affermazione della natura penale delle sanzioni antitrust da parte della Corte di Strasburgo [24], ha ricercato (tramite la full jurisdiction), una conciliazione tra enforcement amministrativo del diritto antitrust e diritto all’equo processo ex artt. 6 CEDU e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione (Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, da interpretarsi, ai sensi del suo art. 52, co. 3, in conformità alla CEDU e alla giurisprudenza di Strasburgo [25]). In tale ottica, sembra aver ormai consolidato l'affermazione per cui in sede di contenzioso su tali sanzioni, la full jurisdiction implichi in capo al giudice «il potere di riformare in ogni modo, in fatto come in diritto, la decisione adottata, resa [si noti] da un organo di grado inferiore». Sicché, «L’organo giudiziario deve in particolare essere competente a giudicare tutte le questioni di fatto e di diritto rilevanti per la controversia per cui viene adito». La competenza estesa al merito ex art. 31 del Regolamento n. 1 del 2003 deve quindi interpretarsi nel senso dell’attribuzione al giudice del potere di «sostituire la sua valutazione a quella della Commissione», così da «sopprimere, ridurre o aumentare l’ammenda o la penalità inflitta» [26].
Già nel 2013, i giudici dell'Unione europea sono giunti a precisare – ed è questa l’affermazione più impegnativa e allo stesso tempo rilevante - che, nel controllo giurisdizionale sulle sanzioni antitrust, nessun ostacolo alla pienezza del sindacato può discendere dal «potere discrezionale di cui dispone la Commissione, in forza del ruolo assegnatole, in materia di politica della concorrenza, dai Trattati UE e FUE […]»[27]. La Corte mostra così di intendere recessiva ogni barriera al sindacato discendente dalla discrezionalità ove anche, quest'ultima, intesa come potere fondato sull'assegnazione legale di un ruolo istituzionale di cura (e persino di definizione) di un dato interesse pubblico (parlare di politica dela concorrenza significa evidentemente alludere ad una discrezionalità particolarmente ampia).
Concetti, questi ultimi, ribaditi nel 2017: «il giudice non può basarsi sul potere discrezionale di cui dispone la Commissione, né per quanto riguarda la scelta degli elementi presi in considerazione in sede di applicazione dei criteri indicati negli orientamenti né per quanto riguarda la valutazione di tali elementi, al fine di rinunciare a un controllo approfondito tanto in fatto quanto in diritto». In sostanza, la competenza di merito sulle sanzioni antitrust della Commissione «autorizza il giudice, al di là del mero controllo di legittimità della sanzione, a sostituire la sua valutazione a quella della Commissione e, di conseguenza, a eliminare, ridurre o aumentare l’ammenda o la penalità inflitta»[28]..
Sembrano in tal modo trovare accoglimento le lucide osservazioni dell’Avvocato generale Yves Bot secondo cui il sindacato sulle sanzioni amministrative della Commissione dovrebbe essere modellato su quello di «un giudice d’appello che esamina il fascicolo e se ne riappropria ex novo, come richiesto dall’art. 6 della CEDU»[29].
D'altra parte, il modello della full jurisdiction sta ormai acquisendo, nell'intero ambito del diritto dell'Unione, il ruolo di canone minimo necessario dell’effettività della tutela giurisdizionale in materia sanzionatoria amministrativa. Come tale vincolante anche rispetto alle sanzioni nazionali.
Così, nel 2013, la Grande Sezione della Corte di giustizia, nel pronunciarsi in tema di reciproco riconoscimento tra gli stati membri delle sanzioni amministrative pecuniarie (nella specie, per violazione del codice della strada), ha ritenuto che tale riconoscimento vada subordinato alla messa a disposizione di un ricorso giurisdizionale effettivo e che tale effettività, alla luce degli artt. 6 CEDU e 47 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, esiga che il giudice nazionale sia «pienamente competente ad esaminare la causa con riferimento tanto alla valutazione in diritto quanto alle circostanze di fatto», con, in particolare, «possibilità di esaminare le prove e di accertare su tale base la responsabilità dell’interessato nonché l’adeguatezza della pena» [30].
3. Nuovi contributi delle Corti europee sulla full jurisdiction.
Tali impostazioni a livello UE e CEDU trovano oggi importanti conferme e, si direbbe, sviluppi, in alcune recenti sentenze, di cui dirò brevemente.
Partiamo dalla Corte di giustizia.
In una pronuncia del 2023 sempre in punto di reciproco riconoscimento tra gli stati membri delle sanzioni pecuniarie[31], si legge di nuovo (come nel 2013), la netta affermazione per cui «perché sia possibile il riconoscimento di una sanzione amministrativa pecuniaria ai fini dell’esecuzione forzata in un altro ordinamento UE ai sensi della decisione quadro 2005/214, occorre che, quanto alla «portata e la natura del controllo esercitato dall’autorità giudiziaria che può essere adita, quest’ultima deve essere pienamente competente ad esaminare la causa con riferimento tanto alla valutazione in diritto quanto alle circostanze di fatto e deve avere in particolare la possibilità di esaminare le prove e di accertare su tale base la responsabilità dell’interessato nonché l’adeguatezza della pena».
È così confermato che l’art. 47 della Carta di Nizza (ispirato com’è dall’art. 6 CEDU) pretende la full jurisdiction come parametro sì esigente, ma anche minimo, dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Tuttavia, un’altra sentenza del 2023 dei giudici dell’Unione[32] appare ancor più importante e, si direbbe, dirimente.
Nell’occuparsi di una sanzione amministrativa di carattere reale inflitta dalla Romania in materia di depositi fiscali (ossia di una sospensione dell’autorizzazione necessaria per l’esercizio di un deposito fiscale, ai sensi della direttiva 2008/118, a causa di indizi della commissione di reati in violazione del regime dei prodotti soggetti ad accisa), la Corte non ha dubbi che condizione di legittimità della stessa sia e non possa che essere, ai sensi dei principi della Carta di Nizza che riflettono le garanzie CEDU, il diritto alla full jurisdiction, come inteso dalla Corte EDU e dalla coerente giurisprudenza UE in tema di sindacato sulle sanzioni antitrust. Tale sospensione, infatti, per quanto con finalità anche preventive, reagisce ad un preteso illecito ed è quindi pena ai sensi CEDU e della Carta di Nizza: «Per quanto concerne, poi, il criterio relativo alla natura stessa dell’infrazione, esso implica di verificare se la misura contemplata persegua, in particolare, una finalità repressiva, senza che la mera circostanza che essa persegua anche una finalità preventiva sia idonea a privarla della sua qualificazione di sanzione penale».
Si richiede dunque, ex art. 47 della Carta di Nizza, un sindacato esteso al merito. E ciò sull’an, come su ogni altro profilo, del preteso illecito e della sanzione: «Inoltre, l’articolo 47 della Carta richiede che ogni destinatario di una sanzione amministrativa di natura penale disponga di un mezzo di ricorso che gli consenta di far controllare tale sanzione da un organo giurisdizionale dotato di una competenza estesa al merito (sentenza del 18 luglio 2013, Schindler Holding e a./Commissione, C 501/11 P, EU:C:2013:522, punti da 32 a 35)».
Insomma, l’insegnamento per cui «Quanto al controllo di legittimità, …il giudice dell’Unione …non può far leva sul potere discrezionale di cui dispone la Commissione – né per quanto riguarda la scelta degli elementi presi in considerazione in sede di applicazione dei criteri indicati negli orientamenti del 1998 né per quanto riguarda la valutazione di tali elementi – al fine di rinunciare a un controllo approfondito tanto in fatto quanto in diritto…», vale (come è logico che sia, visto che discende dall’art. 47 della Carta di Nizza) anche per le sanzioni nazionali, in materie di interesse UE.
Peraltro, la necessità di un sindacato di merito su ogni profilo della pretesa sanzionatoria emerge anche di nuovo nella giurisprudenza CEDU. E ciò proprio con riguardo all’Italia e al contenzioso amministrativo. In particolare, l’inadeguatezza di visioni deferenti del sindacato giurisdizionale amministrativo trova importanti conferme.
Nella già citata pronuncia Edizioni Del Roma del 2020, si è negata una violazione dell’art. 6 CEDU rispetto ad una sanzione AGCOM in quanto, pur essendo il procedimento amministrativo non in linea con l’art. 6 CEDU tra l’altro perché carente sul piano dell’attuazione del diritto al contraddittorio, tuttavia, in concreto, «I giudici amministrativi hanno potuto verificare se, con riguardo alle circostanze particolari della causa, l’AGCOM avesse fatto un uso appropriato dei suoi poteri, e hanno potuto esaminare la fondatezza e la proporzionalità delle scelte dell’AGCOM». Quindi, quel che si richiede è un controllo pieno, si noti, sulla fondatezza nell’an (e non solo nel quantum) della sanzione.
Del resto, con una sentenza poco discussa in Italia ma ormai fondamentale per capire gli attuali orientamenti CEDU in punto di full jurisdiction, nel 2018 la Grand Chamber si è espressa con nettezza, nel caso Ramos Nunes[33]. Ivi, ha escluso (peraltro in materia civile, cioè con riguardo ad una sanzione disciplinare inflitta ad un magistrato da parte dell’organo di autogoverno portoghese e quindi con argomenti applicabili a fortiori alla materia penale ove, come si è detto, la full jurisdiction è intesa con più rigore) che una Corte capace di annullare la sanzione solo per errori procedurali e errori di valutazione manifesti senza capacità (o comunque volontà) di sostituire la propria valutazione a quella dell’organo di autogoverno eserciti una full jurisdiction e quindi possa rimediare ex post i limiti del procedimento sanzionatorio: «>span class="s68f5eaef">Nevertheless, it was empowered to set aside a decision wholly or in part in the event of a “gross, manifest error”, and in particular if it was established that the substantive law or procedural requirements of fairness had not been complied with in the proceedings leading to the adoption of the decision. Thus, it could refer the case back to the CSM for the latter to give a fresh ruling in conformity with any instructions issued by the Judicial Division regarding possible irregularities (see, conversely, Oleksandr Volkov, cited above, §§ 125-26, and Kingsley, cited above, § 32) ».
Non basta, insomma, un sindacato di legittimità, diremmo in Italia sull’eccesso di potere. Occorre un sindacato sostitutivo, in cui al giudice sia dato di (si noti la chiara scelta terminologica) «substituting its assessment for that of the disciplinary body».
Che il sindacato di full jurisdiction richiesto dalla Corte EDU al giudice amministrativo italiano sia (peraltro non solo in materia penale, ma anche di determinazione di diritti civili) quello forte e sostitutivo di cui agli ultimi due casi citati è stato, come anticipato, da ultimo certificato dagli stessi giudici di Strasburgo, nel caso Germano del giugno 2023[34]: ivi, in relazione al sindacato su un provvedimento amministrativo di polizia, l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo per aver violato il canone di full jurisdiction quale definito nel caso Ramos Nunes: «The Consiglio di Stato did not carry out an independent review of whether the measure had a reasonable basis in fact, as it did not examine any evidence to confirm or refute the applicant’s allegations. It failed, in particular, to examine the critical aspect of the case, namely whether the questore was able to demonstrate the existence of specific facts serving as a basis for the assessment that the applicant constituted a danger to his wife. These elements lead the Court to conclude that the Consiglio di Stato confined itself to a purely formal examination of the decision to impose the caution»[35].
Si noti che qui la Corte ha accertato una violazione non tanto dell’art. 6 CEDU (peraltro non contestata dal ricorrente), quanto, piuttosto, dell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita personale e familiare). In altri termini, la questione non era (o non era principalmente) quella di “curare” ex post i limiti del procedimento amministrativo (peraltro svoltosi senza alcun contraddittorio con il destinatario per pretese ragioni di urgenza e quindi palesemente in contrasto con i principi dell’equo processo civile), ma di realizzare una effettiva tutela giurisdizionale di un diritto umano garantito dalla CEDU. Dice infatti la Corte che «that measures affecting human rights must be subjected to some form of adversarial proceedings before an independent body competent to review the reasons for the decision and the relevant evidence. The individual must be able to challenge the executive’s assertions. Failing such safeguards, the police or other State authority would be able to encroach arbitrarily on rights protected by the Convention (see, mutatis mutandis, Liu v. Russia (no. 2), no. 29157/09, § 87, 26 July 2011). In the present case, a thorough judicial review was all the more necessary, given the failure on the part of the questore to provide relevant and sufficient reasons for the adopted measure (see paragraphs 135-36 above).»[36]
Insomma, ci dice la Corte, il sindacato sugli atti del potere amministrativo (ossia dell’Esecutivo) deve essere non solo esercitato nelle forme dell’equo processo in contraddittorio, ma altresì in modo necessariamente autonomo ed indipendente, non essendo ammesso che il Giudice del ricorso presti deferenza all’accertamento amministrativo, ove pure di carattere tecnico o comunque opinabile (nel caso di specie, il pericolo derivante da pretesi comportamenti persecutori, quale accertato dalla Questura sulla base di documenti forniti solo dalla pretesa vittima).
Presto assisteremo, poi, ad una pronuncia CEDU sul livello minimo di sindacato giurisdizionale amministrativo richiesto per le informative antimafia. E, si noti, come fin d’ora reso esplicito dalle domande poste alle parti[37], anche qui l’attenzione della Corte sembra concentrarsi sul rispetto del canone di full jurisdiction quale definito in Ramos Nunes e, sulla sua scia, in Edizioni del Roma.
Un motivo in più, mi pare, per non rifugiarsi in letture riduttive del canone della full jurisdiction: essa è funzionale, certo, a rendere effettivo il diritto al giudice in relazione ai poteri dell’Esecutivo (art. 6 CEDU; art. 47 Carta di Nizza), ma anche a garantire gli altri diritti fondamentali codificati dalla CEDU; si pensi solo, in relazione alla regolazione economica (ma anche alle stesse sanzioni amministrative pecuniarie), al diritto di proprietà ex art. 1, primo prot. add. CEDU, inteso latamente nella CEDU come diritto alla tutela del patrimonio (diremmo in Italia diritto all’integrità patrimoniale) a fronte del potere amministrativo.
4. Conclusioni.
Solo qualche breve nota conclusiva.
Come si è tentato di mostrare, il senso ultimo dell’insegnamento CEDU in punto di full jurisdiction sulle sanzioni amministrative quale affermato almeno a partire dal 1984 è semplice ma profondo: come dichiarato fin dalla sentenza Engel, la sanzione amministrativa deve cessare di essere una comoda etichetta che consente, ai sistemi giuridici nazionali, una facile elusione delle garanzie del diritto penale imposte dalla CEDU. Piuttosto, si deve trattare solo di un diverso modo di organizzare una funzione punitiva sostanzialmente immutata (sotto il profilo dei fini, o, in alternativa, della gravità) rispetto a quella esercitata dalla giurisdizione penale. Quindi deve essere assicurata, all’accusato, la stessa pienezza di tutele di cui godrebbe in sede (formalmente) penale.
Ed allora, se il procedimento amministrativo non è stato in linea con il giusto processo penale (ed è purtroppo la regola nella gran parte dei sistemi europei), almeno il giudice deve direttamente partecipare, seppur ex post e su impulso di parte, all’esercizio della funzione amministrativa, così da curare i deficit della originaria fase procedimentale.
Il rimedio giurisdizionale amministrativo deve quindi configurarsi come appellatorio. Non sono ammessi (o comunque non avrebbero portata curativa) rimedi giurisdizionali (più o meno accentuatamente) a critica vincolata.
La Corte europea di giustizia (ad interpretazione dell’art. 47 della Carta di Nizza) e la Corte EDU (ad interpretazione dell’art. 6 CEDU, ma anche del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva implicito in ogni diritto convenzionale) – come si è visto - specie negli ultimi anni ci hanno ribadito la necessità di un sindacato (espressamente definito come) di merito sulle sanzioni amministrative e ci hanno spiegato che il potere discrezionale non può essere visto come un limite al sindacato giurisdizionale.
Tali pronunce andrebbero, credo, prese sul serio.
Il rischio, altrimenti, è non solo che il sistema sanzionatorio amministrativo italiano sia considerato incompatibile con il diritto UE (fino alla non riconoscibilità, in altri ordinamenti europei, della sanzione italiana), ma altresì che (anche al di là della materia sanzionatoria) il sistema di sindacato giurisdizionale sugli atti dell’Esecutivo offerto dall’Italia sia considerato inadeguato ad adempiere gli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese con l’adesione alla CEDU, con violazione, quindi, dell’art. 117, co. 1, Cost.
Non mi sottraggo, infine, al giusto e argomentato invito di Fabio Francario ad interrogarsi sulla compatibilità della full jurisdiction con il principio della separazione dei poteri e con gli attuali limiti legislativi al sindacato di merito[38].
Anche a non voler considerare il rango della CEDU e del diritto dell’Unione Europea ex art. 117 , co. 1, Cost., qui, mi pare, si tratterebbe soprattutto di intendersi se il principio di separazione dei poteri abbia davvero copertura costituzionale, oppure, come sembrerebbe suggerire la pacifica esistenza ab origine nel nostro sistema di una giurisdizione di merito, sia piuttosto frutto di una saggia regola di economicità della funzione giurisdizionale (che certo non può sostituire in toto la funzione amministrativa; non ne avrebbe né le risorse organizzative, né le competenze specialistiche).
Tuttavia, osservo, la materia penale è tradizionalmente, in pressoché tutti gli ordinamenti europei, di normale spettanza del potere giudiziale. Una piena competenza sostitutoria - detto altrimenti, una continuità nella funzione sanzionatoria tra Amministrazione e Giudice - dovrebbe quindi apparire (quantomeno) più naturale ed accettabile proprio con riguardo alle sanzioni amministrative: come ipotizzare infatti un’invasione della sfera dell’Esecutivo da parte del potere giudiziario, quando in realtà la potestà penale è connaturata a quest’ultimo, e la depenalizzazione è stata una comprensibile scelta di deflazione degli uffici giudiziali, ma certo non un portato de (ma semmai una deroga a) principi tradizionali dell’ordinamento?
In questo senso, la scelta dell’art. 134, comma 1, lett. c), c.p.a., di devolvere in giurisdizione di merito il contenzioso sulle sanzioni amministrative pecuniarie (nonché la pienezza di tutela almeno sulla carta offerta dall’AGO in sede di sindacato sulle sanzioni amministrative pecuniarie) appare felice e da attuare compiutamente. Occorre cioè rinunciare alla tesi – peraltro priva di ogni supporto legislativo - per cui il sindacato di merito potrebbe riguardare solo il quantum, e non anche l’an, della sanzione.
Sentenze come quella notissima del luglio 2019 del Consiglio di Stato in tema di sanzioni per intese restrittive della concorrenza appaiono le uniche davvero in linea con il canone della full jurisdiction[39]. Una tale prospettiva di sindacato pervasivo andrebbe generalizzato, se non altro per un’esigenza di coerenza con l’approccio ormai evidente in sede di contenzioso dei giudici UE sulle sanzioni della Commissione.
Per gli altri ambiti del contenzioso amministrativo ad oggi soggetti a giurisdizione di legittimità, il problema, come ben chiarito da Fabio Francario, invece rimane: qui il limite del merito amministrativo è, sul piano legislativo e dei principi tradizionali (siano o meno essi costituzionalizzati), innegabile.
Occorrerebbe quindi ragionare de jure condendo.
Magari valorizzando, in tale ottica, il rango della CEDU (oltre che dell’art. 47 della Carta di Nizza, che l’art. 6 CEDU trasla nell’ordinamento UE). E, con ciò, la necessità, da ultimo manifestata nella sentenza sul caso Germano, di un sindacato pieno: quest’ultimo certamente da assicurare sulle sanzioni amministrative, ma anche, probabilmente, sugli altri provvedimenti amministrativi direttamente incidenti sui diritti civili, e, in particolare, su quelli limitativi dei diritti fondamentali convenzionalmente tutelati.
*Intervento presentato alle giornate di studio sulla giustizia amministrativa "Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione", Modanella 16 e 17 giugno 2023.
[1] Cfr. F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative, tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2018, cui rimando per ulteriori indicazioni bibliografiche.
Segnalo poi l’ampia e ragionata dimostrazione della necessità costituzionale di uno status peculiare della sanzione punitiva delineato da D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive´ tra diritto costituzionale ed europeo, in Riv. Reg. Mercati, 2022.
Sempre fondamentale, poi, M. Allena, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012.
L’idea della sanzione come pena è peraltro nota, prima ancora degli orientamenti CEDU, anche alla dottrina italiana. Cfr. in particolare, G. Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924, 38, ove si parla appunto di «pena in senso tecnico».
Successivamente, per una simile impostazione, M.A. Sandulli, Le sanzioni amministrative pecuniarie, Napoli, 1983 e C. Paliero, A. Travi, voce Sanzioni amministrative, in Enc. dir., vol. XLI, Milano, 1989, 345 ss.
Da ultimo, sul tema, contributi monografici sono offerti, tra gli altri, da S. Cimini, Il potere sanzionatorio delle amministrazioni pubbliche, Torino, 2017; G. Martini, Potere sanzionatorio della p.a. e diritti dell'uomo : i vincoli CEDU all'amministrazione repressiva, Napoli 2018, S. L. Vitale, Le sanzioni amministrative tra diritto nazionale e diritto europeo, Torino, 2018; S. Lucattini, Le sanzioni a tutela del territorio, Torino, 2022; S. Terracciano, Le sanzioni amministrative a tutela degli interessi pubblici procedimentali, Napoli, 2023.
[2] Cfr. ad es., con affermazioni nette quanto in chiaro contrasto con la giurisprudenza CEDU, Cass., sez. II, 18 ottobre 2022, , n. 30500 « Risulta, invero, incensurabile la conclusione del giudice di merito il quale ha ritenuto che (cfr. Cass. n. 20689 del 2018) le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB diverse da quelle di cui all'art. 187 ter TUF non sono equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle appunto irrogate dalla CONSOB per manipolazione del mercato, sicché esse non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime, né pongono, quindi, un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall'art. 6 CEDU, agli effetti, in particolare, della violazione del "ne bis in idem" tra sanzione penale ed amministrativa comminata sui medesimi fatti. Trattasi di principio già affermato in precedenza (cfr. Cass. n. 8855 del 2017; Cass. n. 1621 del 2018) e che risulta confermato anche dalla successiva giurisprudenza di legittimità, che ha ribadito che (cfr. Cass. n. 4 del 2019; Cass. n. 5 del 2019; Cass. n. 31632 del 2019) con riferimento alle stesse, non si pone un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo né di applicabilità del successivo art. 7 della medesima Convenzione.».
[3] Corte eur. dir. uomo, Plenaria, 8 giugno 1976, caso n. 5100/71, Engel and Others v. the Netherlands, §§ 81 e 82: «La Convenzione indubbiamente consente agli Stati, nell’esercizio della loro funzione di custodi del pubblico interesse, di mantenere o stabilire una distinzione tra di-ritto penale e diritto disciplinare, e di determinare il relativo confine, ma solo a certe condizioni. La Convenzione lascia gli Stati liberi di designare come un illecito penale un’azione o un’omissione che non costituisca normale esercizio di uno dei diritti da essa protetto. Ciò è reso particolarmente chiaro dall’art. 7. Tale scelta, che ha l’effetto di rendere applicabili gli artt. 6 e 7, non è, in linea di principio, soggetta a scrutinio da parte della Corte. L’opposta scelta è tuttavia soggetta a più stringenti li-miti. Se agli Stati contraenti fosse concesso di classificare a loro discrezione un illecito come disciplinare invece che penale, o di perseguire l’autore di un illecito di carattere misto sul piano disciplinare invece che penale, l’applicabilità di disposizioni fondamentali quali gli artt. 6 e 7 risulterebbe subordinata alla loro volontà sovrana. Una tale ampia possibilità di scelta risulterebbe incompatibile con gli obiettivi e il conte-nuto della Convenzione. La Corte dunque, ai sensi degli artt. 6 nonché 17 e 18, ha competenza a stabilire da sé se la materia disciplinare non invada in realtà la sfera del penale. In breve, l’autonomia del concetto di penale opera a senso unico [...] In tale prospettiva, occorre anzitutto sapere se le previsioni che definiscono l’illecito in questione appartengono, secondo il sistema legale dello Stato resistente, alla sfera del diritto penale, disciplinare o entrambi assieme. Ciò tuttavia non rappresenta che un punto di partenza. Le indicazioni così fornite hanno solo un valore formale e relativo e vanno esaminate alla luce di un comune denominatore ricavabile dalle legislazioni dei vari stati contraenti. La natura intrinseca dell’illecito è un fattore di maggior importanza. Quando un militare si ritrova accusato di un atto o di un’omissione che in tesi violano le regole che governano l’attività delle forze armate, lo Stato può in linea di principio impiegare contro di lui il diritto disciplinare invece che quello penale. Sotto questo profilo, la Corte concorda con il Governo. Tuttavia, il sindacato della Corte non si ferma qui. Tale sindacato risulterebbe in linea generale illusorio se non prendesse anche in considerazione il livello di severità della sanzione che l’accusato rischia di subire. In una società conformata al principio di legalità, appartengono alla sfera del diritto penale tutte le privazioni della libertà che siano applicate quali san-zioni, con l’eccezione di quelle che per natura, durata o modalità di esecuzione non siano significativamente afflittive […]».
[4] Corte eur. dir. uomo, Plenaria, 21 febbraio 1984, caso n. 8544/79, Öztürk v. Germany, § 53.
[5] Trattasi della pronuncia Corte eur. dir. uomo, sez. II, 9 novembre 1999, caso n. 35260/97, Varuzza v. Italy, in cui la Corte si limita a ricordare che «the offence at issue is a “criminal” one within the meaning of Article 6, § 1 of the Convention (see the Öztürk v. Germany judgment of 21 February 1984, Series A no. 73, p. 21, § 53). The applicant was thus in principle entitled to have a court determine the charge against him».
[6] Corte eur. dir. uomo, sez. IV, 21 marzo 2006, caso n. 70074/01, Valico v. Italia.
[7] Corte eur. dir. uomo, sez. II, 7 settembre 2011, caso n. 43509/08, Menarini c. Italia.
[8] Corte eur. dir. uomo, sez. II, 4 marzo 2014, casi nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, Grande Stevens and Othersv. Italy.
[9] Corte eur. dir. uomo, sez. I, 10 dicembre 2020, casi nn. 68954/13 e 70495/13, Edizioni Del Roma Società Cooperativa a R.L. e Edizioni Del Roma S.r.l. c. Italia.
[10] Corte eur. dir. uomo, Camera, 9 febbraio 1995, caso n. 17440/90, Welch v. The United Kingdom, § 30: «Invero, gli scopi di prevenzione e ripristino sono compatibili con uno scopo punitivo e possono essere visti come elementi costitutivi della nozione stessa di pena».
[11] Sul punto, se si vuole, F. Goisis, Discrezionalità e autoritatività nelle sanzioni amministrative pecuniarie, tra tradizionali preoccupazioni di sistema e nuove prospettive di diritto europeo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2013, 79 ss.
[12] F. Francario, L’incerto confine tra giurisdizione di legittimità e di merito, Relazione al convegno di Modanella 16-17 giugno 2023 “Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione”, in questa Rivista.
[13] Ad es., Corte eur. dir. uomo, sez. I, 17 aprile 2012, caso n. 21539/07, Steininger v. Austria, § 52, in cui espressamente si nota, in contrapposizione a vicende in cui erano in gioco poteri amministrativi incidenti su diritti civili, che «In the present case, however, the criminal head of Article 6, § 1 applies to the proceedings at issue and in its case-law the Court followed a different approach as regards the scope of review of criminal sanctions imposed by administrative authorities».
[14] Corte eur. dir. uomo, sez. I, 10 dicembre 2020, cit., § 67.
[15] Corte eur. dir. uomo, sez. I, 4 marzo 2004, caso 47650/99, Silverster’s Horeca Ser-vice c. Belgique, § 28:
[16] Sul tema più generale fino a che punto il difetto di giusto procedimento amministrativo possa essere "curato" in sede giurisdizionale, già condivisibili riflessioni, anche a commento degli orientamenti giurisprudenziali del Regno Unito, in D. Galligan, Due Process and Fair Procedures, A Study of Administrative Procedures, Oxford, 1997., ove si osserva che «If it is clear that the appeal goes to the merits, and if the procedures necessary to provide fair treatment are followed on appeal, then the original defect is cured».
[17] Corte suprema degli Stati Uniti, 28 aprile 1980, Marshall v. Jerrico, Inc., in 446 U.S. 238, 245: ivi la Corte suprema si è più direttamente occupata della violazione della due process clause di cui al V e XIV emendamenti nella determinazione iniziale dei diritti del cittadino da parte di un’autorità con funzioni prosecutorial (ossia, potremmo dire, di accusa, come contrapposte a quelle semigiudiziali), ritenendo che perché tale violazione possa essere “curata” successivamente, occorre che vi sia una ulteriore fase giudiziale (o semi-giudiziale) non solo rispettosa dei principi del giusto processo, ma anche, e soprattutto, di "sindacato ex novo su tutte le questioni fattuali e giuridiche" ("the administrative law judge is required to conduct a de novo review of all factual and legal issues")
Sul tema della ex novo review, fra i tanti, J.A. Shechter, De Novo Judicial Review of Administrative Agency Factual Determinations Implicating Constitutional Rights, in Colum. L. Rev. Vol. 88, No. 7 (Nov., 1988), 1483 ss., il quale dà altresì conto dell'ampia giurisprudenza della Corte Suprema in tema di necessità di una piena revisione giurisdizionale delle scelte amministrative incidenti su diritti fondamentali di rango costituzionale, proponendone una razionalizzazione.
In Italia, se si vuole, F. Goisis, 'A de novo review of all factual and legal issues' v. un esame 'point by point [...] without having to decline jurisdiction [...] in scrutinising findings of fact or law made by the administrative authorities'. La pienezza di giurisdizione come strumento di compensazione ex post nell'esperienza europea e statunitense, in Dir. proc. amm., 2021, 3 ss.
[18] United States District Court, S.D. New York, 2 marzo 2015, U.S. v. East River Housing Corp., 90 F.Supp.3d 11850.
[19] Così, M.A. Sandulli, Le sanzioni, cit., 247-248, commentando la tesi di V. Andrioli, Il contenzioso civile delle sanzioni amministrative, in Diritto e giurisprudenza, 1981, 778, secondo cui il contenzioso sulle sanzioni si articolerebbe in un doppio stadio, amministrativo e giurisdizionale.
Sulla necessità di una giurisdizione piena sulle sanzioni nel sistema della l. 689 del 1981, anche R. Villata, Problemi di tutela giurisdizionale nei confronti delle sanzioni amministrative pecuniarie, originariamente in Dir. proc. amm., 1986, 388 ss., ora in R. Villata, Scritti di giustizia amministrativa, Milano, 2015, 267 ss.
[20] Sul tema, esatte osservazioni in Allena, Art. 6, cit., 294 ss.
Sulla connessione tra full jurisdiction e principio di presunzione di innocenza (in dubio pro reo), la originale riflessione di G. Greco, L’illecito anticoncorrenziale, il sindacato del giudice amministrativo e i profili tecnici opinabili, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2021, 469 ss., secondo cui il dubbio sui profili tecnici deve giocare a favore dell’incolpato, non (come oggi tende ad avvenire) della PA.
[21] Corte eur. dir. uomo, sez. IV, 27 ottobre 2009, caso n. 42509/05, Crompton v. The United Kingdom, § 73, ove si legge che « the Court concluded that judicial review proceedings did not offer, in the circumstances raised in Tsfayo, “sufficiency of review” in light of the fact that the High Court had no jurisdiction to rehear the evidence or substitute its own views as to the applicant’s credibility. As a result, the central issue in the dispute was not determined by an independent and impartial tribunal».
[22] Corte eur. dir. uomo, 4 marzo 2014, cit., § 139.
[23] Corte eur. dir. uomo, 4 marzo 2014, cit., § 155.
[24] Corte eur. dir. uomo, sez. II, 7 settembre 2011, cit..
[25] Come noto, ai sensi dell’art. 52, § 3, della Carta di Nizza: «Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa». Secondo le Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali (2007/C 303/02), cit., sub art. 52: «Il riferimento alla CEDU riguarda sia la convenzione che i relativi protocolli. Il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non solo dal testo di questi strumenti, ma anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. L’ultima frase del paragrafo è intesa a consentire all’Unione di garantire una protezione più ampia. La protezione accordata dalla Carta non può comunque in nessun caso situarsi ad un livello inferiore a quello garantito dalla CEDU».
[26] Così, da ultimo, Corte eur. giust., sez. I, 30 aprile 2014, in causa C-238/12 P, FLSmidth & Co. A/S c. Commissione europea, punto 56.
[27] Corte eur. giust., sez. III, 11 settembre 2014, in causa C-382/12, MasterCard e altri c. Commissione, punto 156.
[28] Corte eur. giust., sez. I, 27 aprile 2017 in causa C-469/15 P, FSL Holdings e a. c. Commissione europea, punti 73-74.
[29] Conclusioni dell’Avvocato generale presentate il 21 giugno 2012, causa C-89/11 P, E.ON Energie AG c. Commissione europea, punto 118.
[30] Così, nell’interpretare la decisione quadro 2005/214/GAI, Corte eur. giust., Grande Sezione, 14 novembre 2013, causa C-60/12, Marián Baláž, punto 47.
[31] Corte eur. giust., sez. VIII, 7 aprile 2022, causa C‑150/21, D.B.
[32] Corte eur. giust., sez. IV, 23 marzo 2023, causa C‑412/21, Dual Prod SRL.
[33] Corte eur. dir. uomo, Grand Chamber, 6 novembre 2018, casi nn. 55391/13, 57728/13 and 74041/13, Ramos Nunes de Carvalho e Sá v. Portugal.
[34] Corte eur. dir. uomo, sez. I, 22 giugno 2023, caso n. 10794/12, Giuliano Germano v. Italy.
[35] § 141.
[36] § 138.
[37] Corte eur. dir. uomo, 20 giugno 2022, caso n. 31696/17, Geocostruzioni s.r.l., in cui si pone, tra l’altro, la seguente domanda: «Les contestations sur les droits et obligations de caractère civil des requérantes ont-t-elles été entendues équitablement, comme l’exige l’article 6 § 1 de la Convention ? En particulier, compte tenu des « droits et obligations de caractère civil » en jeu et des effets des mesures d’informazione antimafia interdittiva sur ceux-ci, des particularités de la procédure devant l’autorité préfectorale (voir, en particulier, les articles 92 et 93 du décret législatif no 159 de 2011) et de la jurisprudence interne sur l’étendue du contrôle juridictionnel administratif en la matière (voir, parmi beaucoup d’autres, les arrêts du Conseil d’État nos 3707/2015 et 7151/2018), les requérantes ont‑t‑elles eu la possibilité de soumettre leurs contestations à un « tribunal » disposant de la « plénitude de juridiction » au sens de la jurisprudence dégagée par la Cour sur le terrain de l’article 6 § 1 de la Convention (Ramos Nunes de Carvalho e Sá c. Portugal [GC], nos 55391/13 et 2 autres, §§ 176‑186, 6 novembre 2018, voir aussi, en ce qui concerne les sanctions infligées par les autorités administratives indépendantes, Edizioni Del Roma Societa Cooperativa A.R.L. et Edizioni del Roma S.R.L. c. Italie, §§ 92-94, nos 68954/13 et 70495/13, 10 décembre 2020) ?»
[38] Sul tema della separazione dei poteri e della sua tensione con il canone della full jurisdiction, rinvio, per più estese argomentazione anche di carattere sistematico, a M. Allena, F. Goisis, ‘Full Jurisdiction’ Under Article 6 ECHR: Hans Kelsen v. the Principle of Separation of Powers’, in Eur. Publ. Law, 2020, vol. 26, no. 2, 288 ss. e F. Goisis, La full jurisdiction sulle sanzioni amministrative: continuità della funzione sanzionatoria v. separazione dei poteri, in Dir. amm., 2018, 1 ss.
[39] Cons. Stato, sez. VI, 19 luglio 2019, n. 4990. Ivi si legge che "Secondo la giurisprudenza della Corte Europea, il «fair trial» non ha ad oggetto unicamente il processo, ma anche il procedimento, amministrativo, e segnatamente: per «tribunale» deve intendersi qualunque autorità che, pur attraverso un procedimento non formalmente qualificato processo nell’ordinamento interno, adotti atti modificativi della realtà giuridica, incidenti significativamente nella sfera soggettiva di un soggetto privato, anche se tale funzione viene esercitata al di fuori di una organizzazione giurisdizionale". Da qui la "rilevanza centrale, nelle controversie sull’esercizio del potere sanzionatorio, del concetto di «full jurisdiction». Secondo i giudici di Strasburgo la decisione amministrativa incidente su civil rights and obligations, per quanto adottata senza il rispetto di tutti i requisiti prescritti dal principio del «fail trail», può nondimeno essere considerata adottata conformemente alla Convenzione, laddove le garanzie procedurali ivi previste siano comunque riscontrabili nella sede di controllo della decisione stessa". Di conseguenza, quanto ai pretesi limiti di sindacato giurisdizionale, "nulla si oppone a che sia il giudice a “definire” la fattispecie sostanziale". Occorre insomma superare il tradizionale limite del divieto di sostituzione delle valutazioni tecniche rispetto alle sanzioni AGCM: il giudice amministrativo è "pienamente abilitato a pervenire all'accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale invocata (nella specie, l'accertamento della realizzazione o meno dell'intesa illecita punita con una pesante sanzione pecuniaria)".
Per un primo commento critico, M. Delsignore, I controversi limiti del sindacato sulle sanzioni AGCM: molto rumore per nulla?, in Dir. proc. amm., 2020, 740 ss.
A favore di un sindacato di mera attendibilità in tesi più rispettoso della particolare legittimazione tecnica delle Autorità amministrative e quindi critico anche S. Torricelli, Per un modello generale di sindacato sulle valutazioni tecniche: il curioso caso degli atti delle autorità indipendenti, in Dir. proc. amm., 2020, 97 ss.
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