ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Oggi 10 marzo è la giornata internazionale delle donne in magistratura.
Ripubblichiamo il contributo del 10 marzo 2023, Il 10 marzo: la ricorrenza al di là della retorica di Maria Teresa Covatta che racconta la genesi di questa giornata nell’ambito della comunità internazionale, nonché le interviste di magistrate che hanno segnato passaggi importanti. L'intervista a Gabriella Luccioli, Consigli alle giovani magistrate, e l'intervista a Margherita Cassano, La prima magistrata nominata Presidente aggiunto della Corte di Cassazione, quando è stata nominata Presidente Aggiunta.
Margherita Cassano è stata nominata Prima presidente della Suprema Corte di cassazione il 6 marzo 2023, ben 58 anni dopo l'entrata delle prime donne in magistratura.
Le magistrate italiane, nell'organo di governo autonomo, negli organi di formazione e nella dirigenza, sono presenti in percentuale ingiustificatamente bassa.
Il dato numerico offre la dimostrazione empirica che il percorso dal 1965 ad oggi è un percorso a ostacoli.
Riteniamo sia utile rileggere le Interviste in tema di lessico e la risposta dell'Accademia della Crusca al quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione.
Anche il lessico è importare ai fini del riconoscimento del valore di genere.
Manca però, in questo contesto, la voce degli uomini, che devono divenire protagonisti e non più meri spettatori di questo cammino.
La Redazione si propone di realizzare una serie di interviste a magistrati perché possano dare un contributo di opinioni, idee e valutazioni utili a capire dov'è l'errore.
L'Accademia risponde a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione 09 marzo 2023
È recentemente giunta all'Accademia una domanda da parte del Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione riguardante la parità di genere nella scrittura degli atti giudiziari. La questione, molto sentita e molto attuale, tocca la quotidianità di chi lavora nei settori del diritto, dell’amministrazione della giustizia, della burocrazia delle istituzioni pubbliche, e interessa tutti i parlanti attenti a un uso della lingua che sia rispettoso delle differenze di genere: per questo la pubblichiamo volentieri nella sua interezza.
Risposta al quesito sulla scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari posto all’Accademia della Crusca dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione
Premessa
A chi opera nel settore del diritto e dell’amministrazione della giustizia (cfr. in maniera specifica l’art. 121 del rinnovellato codice di procedura civile), così come a chi opera nella burocrazia delle istituzioni pubbliche, a tutti i livelli, è oggi richiesto di scrivere in modo chiaro e sintetico, secondo regole che da tempo sono state indicate, per le quali è necessario un addestramento attento e continuo che ne renda naturale e automatico il rispetto.
Un analogo addestramento costante serve per un uso della lingua attento alla prospettiva di genere. Nei molti manuali compilati da varie amministrazioni centrali e locali vengono di solito indicate e ripetute, in forma sostanzialmente identica, regole ispirate al modello proposto nel 1986-87 da Alma Sabatini, che ha introdotto queste tematiche nella nostra lingua, rifacendosi a sua volta al modello anglosassone. Alma Sabatini proveniva dalla cultura femminista del suo tempo e faceva riferimento in maniera esclusiva al rapporto tra donne e linguaggio, mentre oggi le rivendicazioni e le richieste di intervento si sono fatto più ampie, provenendo anche da parte di chi nega la tradizionale sistemazione binaria dei generi.
I principi tradizionalmente invocati per stabilire le regole o raccomandazioni per un uso della lingua rispettoso della parità di genere sono i seguenti:
1) evitare in maniera assoluta il maschile singolare perché a torto considerato non marcato (da alcuni definito inclusivo o, meno correttamente, neutro);
2) evitare l’articolo determinativo prima dei cognomi femminili, perché genera un’asimmetria con quelli maschili;
3) accordare il genere degli aggettivi con quello dei nomi che sono in maggioranza o più vicini all’aggettivo;
4) usare il genere femminile per i titoli professionali che sono riferiti a donne.
Alla base di questi assiomi sta il principio base, che consiste nella volontà di rompere qualunque eventuale asimmetria che distingua il riferimento ai due generi, maschile e femminile, intesa come discriminazione. Secondo chi sostiene questi principi, l’operazione non solo sana un’ingiustizia storica e ripulisce la lingua dai residui patriarcali di cui sarebbe ancora incrostata, ma ha anche una finalità educativa rispetto alla popolazione presente e futura, perché la lingua condizionerebbe la percezione della realtà, cioè il modo con cui le persone colgono e interpretano il mondo. Una simile concezione della lingua non è universalmente condivisa, e anzi c’è chi vede il pericolo di un eccesso di intervento. Le moderne neuroscienze (si considerino in Italia gli studi di Andrea Moro, ad es. La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo, La nave di Teseo, 2019) hanno messo in discussione il fatto che la lingua costituisca di per sé un condizionamento e un filtro rispetto alla percezione dei dati empirici reali. Inoltre illustri esponenti della cultura del secondo Novecento, come Lévi-Strauss e Dumézil, hanno insistito sul valore puramente formale del genere grammaticale, in quanto meccanismo strutturale della lingua ai fini del suo elementare funzionamento, molte volte totalmente estraneo alla componente del sesso. I principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale non vanno dunque sopravvalutati, perché sono in parte frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali. D’altra parte queste mode hanno un’innegabile valenza internazionale, legata a ciò che potremmo definire lo “spirito del nostro tempo”, e questa spinta europea e transoceanica non va sottovalutata: si veda a questo proposito il libro pubblicato dall’Accademia della Crusca «Quasi una rivoluzione». I femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero, con un saggio di Giuseppe Zarra e interventi di Claudio Marazzini, a cura di Yorick Gomez Gane, 2017. Da ultimo, si deve prendere atto della connessione tra il tentativo di definire le regole di un linguaggio che dovrebbe escludere ogni vera o presunta discriminazione di genere, e l’aspirazione più ampia a un linguaggio ‘politicamente corretto’, tale da restituirci una lingua edenica e immacolata. Anche questa aspirazione ha dato luogo a polemiche, specialmente quando ha imboccato la deriva che porta verso la cosiddetta “cultura della cancellazione”, la quale comincia a farsi sentire anche in Italia. Ovviamente va tenuta distinta la libertà della lingua comune nel suo impiego individuale, nella varietà degli stili e delle opinioni, dall’uso formalizzato da parte di organismi pubblici. Anche l’uso giuridico rientra in questa possibile regolamentazione che investe l’impiego della lingua da parte di istituzioni dello Stato, ben distinta da altre funzioni della comunicazione (familiare, scherzosa, artistica ecc.), alle quali occorre per contro garantire la massima libertà.
Alla luce di questa premessa, l’Accademia, sentito il parere del Servizio di consulenza linguistica e del suo coordinatore, e dopo approfondita discussione in seno al Consiglio direttivo, fornisce in forma sintetica le indicazioni che seguono.
Indicazioni pratiche
Evitare le reduplicazioni retoriche. In base al principio della concisione ai quali si ispira la revisione generale attualmente in corso del linguaggio giuridico, sono da limitare il più possibile interventi che implichino riferimento raddoppiato ai due generi, espediente pur largamente utilizzabile in contesti di pubblica oratoria e di valenza retorica. Intendiamo riferirci al tipo “lavoratori e lavoratrici, cittadini e cittadine, impiegati e impiegate” e simili. Per evitare questo allungamento della frase si possono scegliere altre forme neutre o generiche, per esempio sostituendo persona a uomo, il personale a i dipendenti ecc. Quando questo non sia possibile, il maschile plurale “inclusivo” (a differenza del singolare) risulta comunque accettabile.
Uso dell’articolo con i cognomi di donne. Nell’uso generale, non solo in quello giuridico, l’omissione dell’articolo determinativo di fronte al cognome si è negli ultimi anni particolarmente diffusa, non solo nel femminile, ma anche nel maschile, che lo ammetteva, nello standard, nel caso di personaggi celebri del passato (il Manzoni, il Leopardi ecc.). Oggi è considerato discriminatorio e offensivo non solo per il femminile, ma anche per il maschile. Non entriamo nelle ragioni di questa opinione, che riteniamo scarsamente fondata. Tuttavia, per quanto estemporanea e priva di motivazioni fondate, l’opinione si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto. Osserviamo ancora che, nel caso in cui si ometta l’articolo con preposto al cognome di persone celebri, non si verificano controindicazioni, ma in altri casi si manifesta un’evidente perdita di informazione (“La presenza di Rossi in aula” si riferisce a un uomo o una donna?); quando sia utile dare maggiore chiarezza al genere della persona, sarà sufficiente aggiungerne il nome al cognome, o eventualmente la qualifica (“La presenza di Maria Rossi” o “La presenza della testimone Rossi”).
Esclusione dei segni eterodossi e conservazione del maschile non marcato per indicare le cariche, quando non siano connesse al nome di chi le ricopre. La lingua è prima di tutto parlata, anzi il parlato gode di una priorità agli occhi di molti linguisti, e ad esso la scrittura deve corrispondere il più possibile. Inoltre il rapporto tra scrittura e parola è fissato da una tradizione consolidata nei secoli, che non può essere infranta a piacere. È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico («Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…»). Lo stesso vale per lo scevà o schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, non presente in italiano, ma utilizzata in alcuni dialetti della Penisola (nei quali peraltro non compromette sistematicamente la distinzione di genere tra maschile e femminile, così come quella di numero, tra singolare e plurale). La lingua giuridica non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie che porterebbero alla disomogeneità e all’idioletto. In una lingua come l’italiano, che ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti continua a essere il maschile plurale non marcato, purché si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare. Ugualmente si potrà usare il maschile non marcato quando ci si riferisca in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che in concreto lo ricopra o la rivesta: «Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei ministri» (art. 89, II c., Cost.).
Si tenga presente che il maschile non marcato è ben vivo nella lingua, nell’uso comune: “Tutti pronti?”, “Siete arrivati tutti?”, “Sono tutti sani e salvi!”, “Scendete tutti da quella barca: sta per affondare!”. In casi come questi, la reduplicazione, ammissibile nel discorso pubblico di un ministro o una ministra, di un rettore o una rettrice universitaria, di un sindaco o una sindaca, avrebbe effetti comici e inappropriati, specialmente in situazioni familiari o di urgenza. Inoltre, il maschile non marcato è in questi casi inevitabile: se lo si volesse annullare interpretando il maschile in maniera assurdamente rigida, occorrerebbe rivedere tutti i testi scritti italiani, compresi quelli giuridici, occorrerebbe insomma riscrivere milioni di pagine, a cominciare dalla Costituzione della Repubblica, che parla di “cittadini”, senza reduplicare “cittadini e cittadine”, ma intendendo che i diritti dei cittadini sono anche quelli delle cittadine.
Uso largo e senza esitazioni dei nomi di cariche e professioni volte al femminile. Si deve far ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile. Questi nomi possono essere ricavati con l’applicazione delle normali regole di grammatica (ingegnere > ingegnera, il presidente > la presidente...). Ecco alcune indicazioni in proposito.
In italiano esistono diverse classi di nomi:
1) i nomi terminanti al maschile in -o hanno il femminile in-a: magistrato/magistrata; prefetto/prefetta; avvocato/avvocata; segretario/segretaria, segretario generale / segretaria generale; delegato/delegata; perito/perita; architetto/architetta; medico/medica; chirurgo/chirurga; maresciallo/marescialla; capitano/capitana; colonnello/colonnella.
2) i nomi terminanti in -e non suffissati (quindi per i nomi terminanti in -tore e -sore si veda più avanti) sono ambigenere, cioè possono essere sia maschili che femminili e affidano l’indicazione del genere all’articolo (e stabiliscono l’accordo di altri elementi: aggettivi, participi…): il preside / la preside; il presidente / la presidente; il docente / la docente; il testimone / la testimone; il giudice / la giudice; il sottufficiale / la sottufficiale; il tenente / la tenente; il maggiore / la maggiore; ess. con aggettivo: il consulente tecnico / la consulente tecnica; il giudice istruttore / la giudice istruttrice, NON la giudice istruttore. Fanno eccezione forme ormai entrate nello standard come studente/studentessa (per professore/professoressa, vedi più avanti).
3) i nomi suffissati:
3.1) i nomi terminanti in -iere: il suffisso -iere (pl. -ieri) al maschile, è al femminile -iera, (pl. -iere); ess: cavaliere (cavalieri) / cavaliera (cavaliere); cancelliere (cancellieri) / cancelliera (cancelliere); usciere (uscieri) / usciera (usciere), brigadiere (brigadieri) / brigadiera (brigadiere); nel caso di titoli onorifici come cavaliere del lavoro e commendatore va considerato che finora sono rimasti al maschile anche quando assegnati a donne;
3.2) i nomi o aggettivi terminanti in -a e in -ista: al singolare sono ambigenere, mentre al plurale danno al maschile -i e -isti, al femminile -e e -iste; ess: il/la collega, ma i colleghi / le colleghe; il pilota / la pilota, ma i piloti / le pilote; l’avvocato penalista / l’avvocata penalista, ma gli avvocati penalisti / le avvocate penaliste; l’avvocato civilista / l’avvocata civilista ma gli avvocati civilisti / le avvocate civiliste; fa eccezione poeta/poetessa:
3.3) i nomi terminanti in -tore: il suffisso -tore (pl. -tori) al maschile, è normalmente al femminile -trice (pl. -trici); ess: tutore/tutrice; rettore/rettrice; direttore/direttrice; ambasciatore/ambasciatrice; procuratore/procuratrice; istruttore/istruttrice; uditore giudiziario / uditrice giudiziaria;
3.3.1) eccezioni: hanno il femminile in -tora (pl. -tore) pretore/pretora; questore/ questora; e il femminile in -essa (pl. -esse) dottore/dottoressa;
3.4) nomi e aggettivi terminanti in -sore: il suffisso -sore (pl. -sori) al maschile, è al femminile -sora (pl. -sore); ess: assessore/assessora; difensore/difensora; estensore/estensora; revisore/revisora; supervisore/supervisora; fanno eccezione femminili ormai acclimatati come professore/professoressa.
3.5) nomi e aggettivi terminanti in -one (pl. -oni): hanno normalmente i femminili in -ona (pl. -one): commilitone/commilitona; fa eccezione campione/campionessa.
4) nomi composti:
4.1) composti con vice-, pro-, sotto- e 4.2) sintagmi con vicario, sostituto, aiuto: conta il genere della persona che deve portare l’appellativo: se è donna andrà al femminile secondo le regole del sostantivo indicante il ruolo, se è uomo andrà al maschile, senza considerare il genere della persona di cui è vice, vicaria/vicario, sostituta/sostituto; ess. Prosindaco (anche se il sindaco è donna) / prosindaca (anche se il sindaco è un uomo); vicesindaco/vicesindaca; sottoprefetto/sottoprefetta; sostituto procuratore / sostituta procuratrice; prorettore vicario / prorettrice vicaria; aiuto cuoco / aiuto cuoca.
5) Pubblico Ministero: Pubblica Ministera.
Si manterranno senza problemi i nomi di professione grammaticalmente femminili, ma validi anche per il maschile, come la guardia giurata, la spia al servizio della potenza straniera, la sentinella, la guida turistica, nonché i nomi grammaticalmente maschili ma validi anche o solo per il femminile, come il membro e il soprano (ma è accettabile anche la soprano).
Sommario: 1. Riaprire Basaglia come strumento di conflitto – 2. Ciò che resta nascosto dalla monumentalizzazione – 3. Deistituzionalizzare la salute mentale – 4. Aspetti in un certo senso contrastanti – 5. Indicazioni conclusive.
1. Riaprire Basaglia come strumento di conflitto
«Ma, al momento attuale, siamo sicuri di poter incominciare a dedicarci alla «malattia»? Ciò che - nella nostra istituzione psichiatrica - è rimasto, dopo la serie di riduzioni successive che ha liberato il malato mentale dalle incrostazioni istituzionali e scientifiche di cui era coperto, è da ritenersi la «malattia»? O il peso dei ricoverati che - non avendo all’esterno una soluzione sociale - siamo costretti a continuare a gestire, ci impedisce ancora di essere ciò che vogliamo, obbligandoci a creare una nuova istituzione per poter sopravvivere? Questo è il segno della nostra impotenza, o dell’impossibilità di agire all’interno del sistema?»
Questa domanda proviene da “Il problema della gestione”, testo di Franco Basaglia che si trova tra le appendici del libro “L’Istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, uscito per la prima volta nel 1968[1]. Il brano testimonia delle riflessioni che si svolgono nel momento in cui l’equipe goriziana ha portato alle estreme conseguenze il lento processo di messa in questione delle rigide pratiche custodialistiche che vigevano nell’ospedale psichiatrico tradizionale[2] e si interroga su quello che avverte come un necessario passo avanti, costituito dall'apertura di traiettorie esistenziali fuori di esso, dalla possibilità, cioè, che il lavoro riabilitativo possa continuare a realizzarsi come vettore di modificazione della realtà esterna da cui la necessità del manicomio è prodotta, decostruendone praticamente le ingiunzioni e i mandati (“violentando” la società, dirà Franco Basaglia altrove[3]). All’interno dell’ospedale psichiatrico - che ormai è stato ampiamente “rimodernato” secondo i principi tolleranti della comunità terapeutica - si svolge una situazione in cui il paradigma dell’internamento non è stato ancora disinnescato ma all’interno dell’istituzione totale si sono messi a nudo i processi di spoliazione della soggettività e di copertura dell’esclusione sociale che la psichiatria del tempo pretendeva di coprire con l'artefatta neutralità della sua disciplina; in altri termini, «l'istituzione è contemporaneamente negata e gestita, la malattia è contemporaneamente messa tra parentesi e curata, l'atto terapeutico viene contemporaneamente rifiutato e agito». Ma, occupando tale posizione contraddittoria, si corre il rischio che le ideologie intervengano a coprire un vuoto caratterizzato da ansia e bisogno di elaborazione: «le contraddizioni rese esplicite da un’azione di rovesciamento istituzionale possono essere ricoperte sotto un’ideologia tecnico scientifica che le giustifichi (un’azalea che copra il puzzo di cadaveri)» scrivono infatti Franco Basaglia e Franca Ongaro nel testo che introduce “Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerato e Gianni Berengo Gardin",[4] citando un verso di Bertold Brecht.
Questa posizione di interstizialità nello spazio disagevole che si apre tra contraddizioni incomponibili, questa capacità di stare tra irriducibili polarità, viene individuata da Paolo Peloso in uno scritto di qualche anno fa come l’azione fondamentale di ogni «psichiatria che non voglia essere pietrificata e pietrificante»[5]. Estendendo i confini di questo posizionamento al di fuori del contesto specifico a cui si riferisce - l’ospedale psichiatrico di Gorizia nel 1968 - l’autore intende evidenziare un elemento qualificante della teoria e della prassi Basagliana, di cui è utile fare tesoro in ogni condizione storica. Tale caratteristica si potrebbe riassumere in questo modo: la capacità di cogliere in ogni situazione la parzialità di una soluzione organizzativa determinata, considerando l’aspetto relativo di ogni posizionamento tattico e strategico, l'attenzione a non essenzializzare le formulazioni momentaneamente utili in ogni passaggio storico e politico. Adottando tali precauzioni diventa possibile cogliere la dimensione processuale e conflittuale del reale, nella cognizione della impenetrabile opacità della dimensione soggettiva, mai totalmente oggettivabile in nessun sistema diagnostico o organizzativo, anche il più ammodernato e tollerante; questo contemporaneamente alla consapevolezza dell'irriducibilità delle questioni esistenziali, relazionali, sociali a qualsiasi modello di incontro clinico. Su un piano più generale la posizione Basagliana si potrebbe caratterizzare come consapevolezza dell'irriducibilità della dimensione politica ad alcuna posizione identitaria: in quanto sempre aperta alle smentite della prassi, a sua volta sempre caratterizzata dal confronto con l'imponderabile - se vuole essere liberatoria - e con la possibilità dell’incidente.
In occasione del centenario della nascita di Franco Basaglia è utile riaprire l’interrogazione sulla vicenda del movimento anti-istituzionale italiano, indagandone esiti, limiti ed eredità. Questo consente di esercitare un recupero della figura di Franco Basaglia che non sia una mera celebrazione ma che ne renda le pratiche e le riflessioni strumenti di azione nel presente. Si tratta quindi di capire quanti, dei sopra citati elementi qualificanti della prassi e della teoria Basagliana, sono vivi e operanti nella situazione attuale e quanti invece sono finiti inabissati man mano che il significante “Basaglia” diveniva un vuoto e formale riferimento utile alla legittimazione di strutture di potere, al nascondimento di lacune e carenze - strutturali e di pensiero - oppure funzionava come mero richiamo consolatorio, nell’assenza di possibilità di agire concretamente sulla storia presente.
Partiamo dal riprendere gli elementi potenzialmente conflittuali che in una gestione amministrativa della 180 non si sarebbero risolti. In primo luogo la consapevolezza che il modello di gestione dei sistemi assistenziali determina la condizione problematica a propria immagine: «in epoche successive la malattia e i suoi sintomi sono sempre stati influenzati e condizionati dai nuovi orientamenti terapeutici […], noi produciamo una sintomatologia - il modo di esprimersi della malattia - a seconda del modo col quale pensiamo di gestirla, perché la malattia si costruisce e si esprime sempre a immagine delle misure che si adottano per affrontarla»[6]. Tale consapevolezza, qui espressa in termini che non si riferiscono affatto allo specifico manicomiale ma pretendono di generalizzarsi ad ogni modello di gestione, dovrebbe - se vogliamo oggi Basagliare - divenire strumento di interrogazione sui sistemi attuali con cui, nei servizi e fuori di essi, affrontiamo l’incontro con l'alterità e la sofferenza, la questione della cura, le problematiche delle relazioni e le dinamiche gestionali ad esse connesse.
2. Ciò che resta nascosto dalla monumentalizzazione
Come ha spiegato Pierangelo Di Vittorio[7], la monumentalizzazione della figura di Basaglia ne rende unidimensionale la vicenda, risolve la sua prestazione dentro una concezione lineare della storia secondo cui, in un passato mitico, esprimendo una illuminata posizione unitaria - rappresentata da un eroe singolare (maschio, bianco, borghese, peraltro) - si é portata a compimento una domanda implicita nella sensibilità comune, dietro la spinta incoercibile del progresso[8]. Tale personalità eroica, necessariamente rappresentata senza limiti o contraddizioni, avrebbe in questa visione indicato precisi modelli di gestione e confitto nella struttura formale delle norme giuridiche gli insuperabili principi da cui essi discendono. Questa posizione produce inevitabilmente due insiemi di conseguenze, a loro volta polarizzati: da una parte la sua azione, di questo Basaglia monumentalizzato, non può che risultare incompiuta, dall’altra le sue proposte non possono che risultare superate. Guardiamo al primo punto, spesso criticamente citato da Angelo Fioritti[9]: se si prende il portato di Basaglia come una modellizzazione di come dovrebbero essere organizzati i servizi di salute mentale per erogare buone prestazioni di riabilitazione ma anche su come dovrebbe essere la società per permettere la cura delle malattie mentali, inevitabilmente il senso di incompiutezza non può che essere la posizione conseguente; tali letture, bloccando in una definizione reificata la descrizione di strutture e articolazioni, oscurano la questione centrale del metodo e dell’elaborazione basagliana: la continua ricerca scientifica, la verifica popolare e la capacità di azione soggettiva, legata ai processi conflittuali in atto. Riducendo specifiche articolazioni storiche a modelli se ne minimizza il peso. Il secondo punto, che potremmo definire dell'inattualità, permette di ricordare che la tensione tra utopia e realtà si nutre proprio attraverso questo movimento del pensiero. La capacità autocritica che ne consegue permette anche di notare come alcuni concetti qui centrali (“salute mentale” o “riforme”, per esempio) abbiano subito degli slittamenti semantici che proprio su questa tensione, necessariamente irrisolta, trovano il loro terreno di esistenza, non sempre in un verso compatibile con le pratiche anti-istituzionali.
Per quanto necessarie in certi momenti storicamente determinati, queste interpretazioni di Basaglia costituiscono una riduzione rispetto a una possibile lettura che, oltre a restituirne l’eponimo a una più ampia dimensione storica, collettiva, frammentaria, anche conflittuale tra diverse posizioni, elaborazioni e strategie (prima di tutto riconoscendo che Basaglia è anche Franca Ongaro Basaglia, sua moglie, fulcro teorico dell'elaborazione e protagonista attiva di questa storia fino al 2007) permetta di attualizzarne le riflessioni e le pratiche. Ciò che è in gioco è la possibilità di aprire un campo di contraddizioni attuali, situato nelle condizioni del presente e legato alla capacità di agire in esso. Per evidenziare due nodi particolarmente critici e attuali ci concentreremo qui su due possibili declinazioni della riflessione Basagliana che nella monumentalizzazione restano necessariamente oscurate: quello tra tecnica e politica e quello tra movimenti e istituzioni. Lungo la linea contorta di questi nodi - in una lettura monumentalizzata impossibili da dipanare - si sono giocate le polifonicità e i conflitti di un movimento immerso nei passaggi del proprio tempo: le lacerazioni della sinistra (nel 1978 il Partito Comunista Italiano appoggia sostanzialmente il teorema Calogero ai danni di un gruppo di intellettuali in vario modo legati alle organizzazioni extraparlamentari - si vedano su questo Xenia Chiaramonte e Dario Fiorentino[10] - difficile esagerare il significato di questo passaggio per le vicende del movimento basagliano negli anni ‘80) e le limitate elaborazioni sul rapporto tra le tecniche psicoterapeutiche e il servizio pubblico di salute mentale sono le questioni che maggiormente hanno inciso sulla storia di questo movimento.
La contraddizione, oggi ancora aperta, tra tecnica e politica è stata nuovamente illuminata dalle odierne riflessioni sul problema della trasmissibilità delle elaborazioni relative alla cura o sul rischio di una loro irrecuperabile assenza (si vedano a questo proposito Negrogno e Saraceno)[11]. Con Saraceno abbiamo provato a dare voce a questa crisi della psichiatria anti-istituzionale, che oggi prende forma attraverso due possibilità: la prima è che una clinica tradizionale (con contenuti di controllo, di oggettivazione, di neutralizzazione artefattamente oggettivistica di contraddizioni politiche e sociali) si eserciti in servizi che però nel frattempo si rappresentano come innovativi, avendo interiorizzato alcune linee guida dell’approccio Basagliano - per lo meno nella sua riduzione monumentalizzante a indicazione su come dovrebbero essere organizzati i servizi per erogare buone prestazioni riabilitative; oppure che la clinica anti-istituzionale esista, si svolga in un afflato difficilmente oggettivabile nei sistemi categoriali e nosografici che oggi egemonizzano la formazione di operatori e operatrici, la pratica e l’organizzazione dei servizi; che di conseguenza in qualche modo essa esista silenziosamente principalmente perché non sappia come definirsi. Questa seconda possibile interpretazione assume particolare forza quando vediamo i contenuti basagliani funzionare fuori dai contesti specifici della psichiatria o per esempio in Brasile come strumenti delle lotte e delle elaborazioni locali: lì risultano fungere da dispositivi in grado di autolimitare la loro invadenza coloniale e aprire a riflessioni impreviste che contribuiscono ad attivare il protagonismo di popolazioni razializzate, sex workers, psicanalistə lacanianə atipichə, variamente congiunte in peculiari fenomeni di lotta politica in cui è chiaro che riflettendo di riabilitazione ne va di diritti civili e, soprattutto, sociali (si veda Stella Goulart[12]).
Con Benedetto Saraceno abbiamo notato, in linea con il movimento delle persone che nel nord globale hanno avuto a che fare con la psichiatria e che variamente in ambito anglosassone si definiscono come users, survivors o refusers, l'aumento dei trattamenti sanitari obbligatori e della reclusione in strutture residenziali senza il consenso delle persone interessate, nonostante l'enfasi sui servizi territoriali/comunitari e sulle politiche di inclusione, anche quando queste contrapposte tendenze insistono nei medesimi territori. Tra gli altri aspetti critici - di cui ci sembra che la prassi che si richiama agli epigoni della lotta anti-istituzionale non abbia mantenuto sufficiente contezza - abbiamo notato la richiesta di risposte psicofarmacologiche poco messa in questione, la acritica accettazione di concetti come “recovery” e “partecipazione”, pur quando questi sono declinati come sinonimi della mera esortazione individualistica alla produttività, la natura ecumenica e superficiale della concezione "bio-psico-sociale", che non discute adeguatamente i propri limiti epistemici e le proprie articolazioni interne.
3. Deistituzionalizzare la salute mentale
Mario Colucci[13] ha provato a ricostruire una figura storica utile a questo recupero demonumentalizzante insistendo sul superamento del modello medico, ponendo cioè al centro della riflessione una questione che, ben lungi dall’esaurirsi nella critica al dispositivo manicomiale e alle sue successive articolazioni “diffuse”, incontra una critica epistemologica oggi espressa con forza dai movimenti delle persone disabili\disabilitate\con disabilità (a seconda di come preferiscano definirsi): «Basaglia, e successivamente Foucault, comprendono che bisogna provare a emancipare l’esperienza della follia dalla sola spiegazione di ordine medico che viene attribuita ai comportamenti, alle sofferenze, ma anche ai sentimenti e ai pensieri delle persone che la attraversano. In altri termini, bisogna affrancarsi dal sapere tradizionale della psichiatria, bisogna smontare i suoi metodi di produzione di una verità scientifica positiva.»
Riccardo Ierna, approfondendo la denuncia delle condizioni attuali, che nulla hanno a che vedere con il prendere sul serio l’eredità basagliana, getta luce sulla questione strutturale dei servizi. «Dai dati raccolti nell’annuario statistico del servizio sanitario nazionale relativo al 2020, emerge infatti che il 48,8% delle strutture ospedaliere del nostro paese sono gestite dalla sanità privata, così come il 60% dei servizi ambulatoriali, il 78% dei servizi riabilitativi e addirittura l’82% delle strutture residenziali, dando l’idea del peso che la sanità privata accreditata esercita oggi sul nostro sistema sanitario nazionale. Da questi numeri appare evidente che a farne le spese sono state soprattutto la qualità e l’efficacia del servizio pubblico, ulteriormente gravato dai tagli di spesa e dalla carenza di personale e in particolare quello della salute mentale territoriale[14].»
Difficile, nella situazione che Ierna tratteggia, pensare ad un sistema di salute mentale in cui le funzioni di prevenzione, cura e riabilitazione siano unitariamente trattate a livello territoriale attraverso pratiche di partecipazione - vale a dire di indirizzo, monitoraggio e riappropriazione popolare - e non invece compartimentate attraverso dinamiche che tornano ad annodare i vettori di tecnicismo, monetizzazione e prestazionismo sanitarizzante, in una dimensione di complessiva spoliticizzazione, anche della partecipazione (molto spesso evocata e rappresentata, piuttosto che agita). Effetto anch’esso nocivo della monumentalizzazione, si è venuto a creare un sentore diffuso secondo cui la salute mentale riguarda quelle articolazioni tendenzialmente residuali (integrazione sociosanitaria, partecipazione comunitaria, inclusione sociale) destinate a poco più che alla gestione povera della cronicità mentre il lemma “psichiatria” sta a sottolineare il core business della pratica tecnica che si occupa di gestione della pericolosità, controllo dei rischi sociali, amministrazione della devianza - sulla base di una stringente egemonia del sapere medico. Anche appoggiandoci a tali considerazioni, nel numero 398 della rivista Aut Aut dal titolo “La psichiatria e il futuro della salute mentale”[15] abbiamo provato a spiegare che
«al di là delle risorse, a mancare è anche la qualità del dibattito culturale pubblico. Psichiatria e salute mentale vengono fatte cozzare l’una contro l’altra come avversarie irriducibili. Viene descritto un contrasto artificioso tra le due, come se si trattasse di uno scontro tra modernità e arretratezza, quasi che la prima sia all’insegna dell’innovazione e dell’affidabilità perché centrata su un insegnamento universitario di impostazione biomedica e su un solido impianto scientifico basato sull’evidenza e sulla ricerca; e la seconda, invece, pur di gran lunga prevalente per numero di servizi e di utenti in trattamento, porti avanti soltanto un lavoro routinario di assistenza territoriale di scarsa qualità scientifica e disattento agli aspetti di rivoluzione tecnologica.
(...)
Si può onestamente dire che questo discorso imperante sia sulla stessa linea dell’originaria vocazione della salute mentale italiana immaginata da Basaglia? Nonostante la celebrazione dell’epopea trionfante della lotta al manicomio, ben poco è rimasto di quella tensione etico-politica. Siamo nell’epoca dei manager della salute mentale, che si qualificano come specialisti delle buone pratiche in funzione di un efficiente governo clinico della sofferenza, ma spesso nascondono le concessioni più inaccettabili accordate alle esigenze di controllo sociale e di sicurezza urbana. Il processo di deistituzionalizzazione era tutt’altra cosa.»
In altri termini, la riduzione del pensiero e della prassi basagliana ad una riflessione sulla struttura organizzativa dei servizi in vista dell'erogazione di prestazioni tecnico riabilitative rappresenta oggi una delle forme assunte dalla monumentalizzazione della figura di Basaglia; all’ombra di questo forzoso riduzionismo si è generata una polarità artefatta tra un cuore tecnico della disciplina psichiatrica e una serie di addentellati sociopolitici relativi alle formule organizzative del rapporto tra servizi e territorio, incapaci però di tematizzare la natura stessa di questo territorio al di fuori dalla sua dimensione amministrativa e oggettivistica (sul tema del territorio e delle sue diverse formulazioni si vedano i lavori di Massimiliano Minelli[16]). Se, in una prima fase immediatamente successiva alla promulgazione della legge 180, la presenza di una varietà di proposte alternative nel contesto nazionale aveva permesso un processo di embrionale produzione di nuovi saperi - il quale, seppur in misura limitata era riuscito a stimolare nuove articolazioni del rapporto tra tecnica e politica, anche inducendo i saperi psy a confrontarsi sul terreno di un’epistemologia pubblica di salute mentale - gli anni successivi hanno segnato il richiudersi di questo dibattito.
4. Aspetti in un certo senso contrastanti
All’interno della riflessione politica più generale, la vicenda di Franco Basaglia e delle vicissitudini dei suoi epigoni permette di mettere in evidenza in modo esemplare la parabola del riformismo in Italia. Avviatosi sulla spinta dei governi di centro sinistra degli anni '60, profondamente rinnovato dell’incontro con la contestazione antiautoritaria, con la crescita di coscienza della classe operaia, con le nuove istanze poste dal femminismo e dal proletariato giovanile, il percorso paradossale del riformismo italiano attraversa passaggi di importante formalizzazione mentre iniziano a farsi strada le tendenze reazionarie del neoliberismo e del restringimento della funzione redistributiva dello Stato[17]. Franco Basaglia ha subito viva consapevolezza della fragilità di tali conquiste giuridiche come anche della loro natura intimamente ambivalente.
«Man mano che i margini di lotta si chiudono ed il paese va strutturandosi con fatiche enormi, in una logica di paese industrializzato (...), si rende necessario programmare anche un nuovo tipo di assistenza. (...) È stato portato avanti un discorso di riforma sanitaria che colloca la psichiatria all'interno della sanità ed esce una legge, estrapolata dalle forze unitarie, che è indubbiamente molto interessante anche se presenta aspetti in un certo senso contrastanti. Da una parte, infatti, c'è il rischio che essa riproponga quella che è la mistificazione della psichiatria, dall'altra può essere considerata rilevante risultato delle lotte condotte in questi anni. (...) La nuova legge sull'assistenza psichiatrica e la nuova legge sulla regolamentazione dell'aborto (...) sono il risultato di un compromesso politico (...). Il cammino di queste leggi (...) sarà indicativo del destino stesso della riforma sanitaria nel nostro paese. Dal momento infatti che ambedue queste leggi inseriscono il sociale nell'ambito della medicina, che è quello di vecchio stampo (...), è sempre presente il pericolo che esse favoriscano ancora una volta una specie di mistificazione della realtà, medicalizzando i problemi ed ostacolando la presa di coscienza della dimensione sociale dei medesimi. Prevenzione è innanzitutto presa di coscienza. Il problema è che la gente capisca i propri bisogni e comprenda l'alienazione in cui vive[18].»
Se da una parte è stato possibile vedere nella l.180 la realizzazione delle proposte del movimento, con la sua promulgazione si è aperto un campo molto problematico di elaborazione le cui alterne vicende sono state pesantemente influenzate, a partire dagli anni ‘90, dai profondi slittamenti semantici che hanno attraversato lo stesso concetto di riformismo: la fase creativa apertasi tra gli anni ‘80 e ‘90 in modalità peculiari in ciascuno dei territori attivi nella sperimentazione e in assenza di un piano nazionale di governo dei servizi (si veda su questo l’impegno parlamentare di Franca Ongaro Basaglia negli anni ‘80, recentemente documentato da Anna Carla Valeriano[19]), attraverso grandi cesure legislative, politiche e istituzionali, ha visto progressivamente scollarsi l’elaborazione teorica dalla pratica dei servizi ed emergere in ruoli di sempre maggiore protagonismo il volontariato, l’associazionismo e il terzo settore. Nonostante i tentativi di elaborazione progressista delle possibili forme di riarticolazione istituzionale di questi concatenamenti[20], i modelli organizzativi che in essi hanno affondato le loro radici si sono affermati mentre si dispiegavano le forze dell’aziendalizzazione, le tendenze alla professionalizzazione del sociale e il richiudersi corporativo dei corpi professionali e disciplinari.
Mentre il concetto di riformismo veniva riarticolandosi come mera acquiescenza ai programmi di aggiustamento strutturale in senso neoliberale, la perdita di contatto con le elaborazioni dei saperi psi - nell’ambito della formazione universitaria e delle organizzazioni professionali - ha aperto all’invasione del campo della salute mentale da parte delle formulazioni tecniche più consone al progetto moderno di gestione medica delle popolazioni, riduzione della prevenzione a prestazionismo predittivo, rifunzionalizzazione in senso governamentale dei concetti potenzialmente emancipatori elaborati dai movimenti di utenti.
5. Indicazioni conclusive
Riccardo Ierna[21] ha descritto come praticamente questo processo si realizza nei servizi mettedone in luce la spoliticizzazione e il neutralismo. Per quanto astrattamente ricondotta a un quadro di diritti e libertà civili, la salute mentale che emerge dalle pratiche - più che apparire l’esito di un rivolgimento in termini anti-istituzionali della vecchia psichiatria - risulta essere una modalità del suo innervamento sociale che opacizza le questioni reali sovrapponendovi risposte artificiali, la cui declinazione pratica risulta però molto lontana dalle dichiarazioni cui allude. Si potrebbe parlare a tal proposito di una nuova “ideologia di ricambio” (concetto formulato da Franco Basaglia e Franca Ongaro Baasglia, per utilizzazioni recenti di questo concetto si veda Emma Catherine Ghainsfort[22]) con cui si è ripreso un secolare percorso di innovazione della disciplina psichiatrica oltre e contro il momento di sospensione basagliana. Simili constatazioni portano Pietro Barbetta a dire, commentando il concetto di salute mentale, che si tratta di «un sistema di significati controverso; contiene la buona intenzione di teorizzare il benessere, ma la smentisce. Subito arriva l’elenco dei disturbi: ansia, depressione, stress, insonnia, ecc. Per dare una definizione di “salute mentale” bisogna evocare i nomi del disagio. Questo il paradosso del campo semantico “salute mentale”[23].»
Agostino Pirella, di cui Marica Setaro ha messo in luce il costante impegno per l’elaborazione un paradigma complesso capace di fronteggiare le sfide della deistituzionalizzazione negli anni ‘80 e ‘90[24], descriveva l’andamento di un processo politico in cui il movimento, superata la sintesi manicomiale, doveva predisporsi a nuove alleanze e alla costruzione di nuovi strumenti concettuali. In un momento in cui l’egemonia culturale e politica reazionaria tende a ravvivare le tendenze di controllo sociale intrinsecamente legate alla psichiatria, Pirella raccoglie la sfida di elaborare strumenti concettuali compatibili con la “crisi della ragione”[25]. Similmente oggi riemerge la necessità di costruire un nuovo dialogo tra tecniche e politiche, rinnovando l’attenzione epistemologica, antropologica e sociologica a quello che succede dentro e fuori dai servizi, nelle pratiche dell'incontro con l’alterità e nelle forme della sua oggettivazione e negli spazi della sua soggettività. Allo stesso modo si fa urgente riaprire l’interrogazione sul rapporto tra movimenti e istituzioni, anche sulla base di una più profonda lettura dei nostri archivi.
[1] Franco Basaglia, “L’Istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, Einaudi, 1968, ora Baldini + Castoldi.
[2] La descrizione pratica di questo processo si snoda lungo i vari capitoli del libro “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”. Oltre a quelle di Franco Basaglia, nel libro sono raccolte le riflessioni di Lucio Schittar, Antonio Slavich, Agostino Pirella, Letizia Jervis Comba, Domenico Casagrande, Giovanni Jervis, Franca Basaglia Ongaro e Gian Antonio Gilli, più l’importante documento iniziale curato da Nino Vascon sulle riunioni di equipe, lo svolgimento delle assemblee interne, i racconti e i punti di vista dei/delle infermieri/e e dei/delle pazienti internati/e, le esperienze delle altre figure coinvolte nel processo di trasformazione (suore, volontari, assistenti sociali); sono inoltre raccolte le narrazioni e le riflessioni relative alla progressiva trasformazione dei singoli reparti e le elaborazioni derivanti dal confronto tra il processo in corso a Gorizia e ciò che accade nel modello inglese di Comunità Terapeutica.
[3] Franco Basaglia, “Conferenze Brasiliane”, Cortina, 2018.
[4] A cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro nel testo che introduce “Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerato e Gianni Berengo Gardin", Einaudi, 1969, ora Il Saggiatore.
[5] Paolo Peloso, “Ancora su L'Istituzione negata…perché 50 anni dopo è proprio da lì che dobbiamo ripartire” disponibile su http://www.psychiatryonline.it/node/7445.
[6] Basaglia, Franco; “Ideologia e pratica in tema di salute mentale”,(1975) in “Scritti”, 2, Einaudi, 1981, ora Il Saggiatore.
[7] “Costellazioni. Tra presente e passato: la salute mentale e le sfide della trasmissione” di Pierangelo Di Vittorio, in Di VIttorio, P. Cavagnero, B. (a cura di) Dopo la legge 180. Testimoni ed esperienze della salute mentale in Italia, Franco Angeli, 2019.
[8] “La “Repubblica dei matti” di John Foot ha avuto negli anni recenti il merito di problematizzare questa visione; “soltanto col senno di poi riusciamo a rimestare tra quelle braci accese, tentando di fare un po’ d’ordine» scrive l’autore nelle conclusioni, rispondendo al bisogno di ricostruire la visione complessa di una storia fatta di conflitti e sviluppi dialettici aperti. John Foot, “La «Repubblica dei matti». Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978”, Feltrinelli, 2017.
[9] Angelo Fioritti: “Chi non innova perde il proprio passato”, disponibile su Quotidiano Sanità, https://www.quotidianosanita.it/m/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=107853.
[10] Xenia Chiaramonte e Dario Fiorentino, “Il caso 7 aprile. Il processo politico dall'Autonomia Operaia ai No Tav”, Mimesis, 2019.
[11] Luca Negrogno e Benedetto Saraceno, “Ma come si curano le malattie mentali?”, disponibile su https://www.machina-deriveapprodi.com/blog/categories/freccia-tenda-cammello.
[12] Stella Goulart, “Reabilitar: uma perspectiva basagliana”. Porto Alegre: Rede Unida (in via di pubblicazione).
[13] Mario Colucci, “Effetto ‘61”, disponibile su https://www.news-forumsalutementale.it/conoscere-e-sperimentare-per-evolvere/.
[14] Riccardo Ierna, “Attualità e contraddizioni della via italiana al dopo riforma”, Aut Aut, Vol. 398: “La psichiatria e il futuro della salute mentale”, Il Saggiatore, 2023.
[15] A cura di Mauro Bertani, Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio, Aut Aut, Vol. 398: “La psichiatria e il futuro della salute mentale”, Il Saggiatore, 2023.
[16] Massimiliano Minelli, “Salute mentale e territorio”, Rivista della Società italiana di antropologia medica/49, giugno 2022.
[17] Scrive a proposito Vanessa Roghi: «In Italia, per un incredibile scherzo della storia, il nuovo paradigma neoliberale inizia a diffondersi proprio mentre stanno prendendo corpo alcune delle più avanzate leggi dello Stato democratico come, per esempio, quella sulla chiusura dei manicomi, sull’aborto e, last but not least, quella che istituisce, con cinquant’anni di ritardo rispetto all’Inghilterra, il sistema sanitario nazionale» in “Eroina. Dieci storie di ieri e di oggi”, Mondadori, 2022. Come scrive Maria Grazia Giannichedda nell’introduzione all’edizione italiana delle Conferenze Brasiliane, nel 1979 «Basaglia parla da un passato presente nel quale i segni del cambiamento oggi compiuto erano già visibili, da una fase già "post-manicomiale" potremo dire, di cui Basaglia rintraccia le radici nei riformismi del secondo dopoguerra, guardando all'Europa e all'Italia ma anche agli Stati Uniti. Questo gli consente, per esempio, di evidenziare le due opposte anime politiche che anche in Italia vedremo all'opera nella chiusura dei grandi istituti pubblici di internamento: l'anima "reaganiana" dei tagli alla spesa pubblica e dell'abbandono dei malati, e quella dei diritti di cittadinanza e dell'"offerta di un'alternativa di cura", che qualifica la nuova legge italiana e che per Basaglia è la sola che potrebbe portare davvero "al superamento dei manicomi come distruzione dei meccanismi dell'istituzione”»; Maria Grazia Giannichedda, “Introduzione” in “Conferenze Brasiliane”.
[18] Intervista a Franco Basaglia a cura di Luigi Onnis e Giuditta Lo Russo, in “Dove va la psichiatria?” Feltrinelli, 1980.
[19] Anna Carla Valeriano, “Contro tutti i muri. La vita e il pensiero di Franca Ongaro Basaglia”, Donzelli, 2022.
[20] Il più significativo è senza dubbio in Ota De Leonardis, Diana Mauri e Franco Rotelli, “L'impresa sociale”, Anabasi, 1994.
[21] Riccardo Ierna, “Attualità e contraddizioni della via italiana al dopo riforma”, in Aut Aut, Vol 398: “La psichiatria e il futuro della salute mentale”, Il Saggiatore, 2023.
[22] Si veda Emma Catherine Gainsforth, “La razza, la classe e l’inclusione neoliberale”, 2023. Disponibile su: https://www.dinamopress.it/news/la-razza-la-classe-e-linclusione-neoliberale/.
[23] Pietro Barbetta, “Che cos’è la Salute Mentale” disponibile suhttps://www.doppiozero.com/che-cosa-e-la-salute-mentale.
[24] Marica Setaro, “Diario teorico di uno psichiatra. Un profilo di Agostino Pirella”, in Aut Aut, Vol 385: “Agostino Pirella. Il sapere di uno psichiatra”, a cura di Massimo Bucciantini e Mario Colucci, Il Saggiatore, 2020.
[25] Il riferimento è agli studi di Agostino Pirella ricostruiti da Marica Setaro.
La foto in copertina è di Archivio Basaglia.
Entrata in Magistratura, tra le prime, “magnifiche otto”, e con lei anche Graziana Calcagno – che pure ho avuto la fortuna di conoscere, e che ci ha lasciato da qualche anno – Giulia De Marco è stata la presidente, la magistrata, l’amica, che tutti e tutte vorremmo avere.
Per me e per la nostra “generazione di mezzo”, dell’epoca in cui eravamo ancora un po' meno della metà, ma stavamo avviandoci ad essere sempre di più, sempre più numerose anche come capi degli uffici, quelle prime donne entrate in magistratura ci ricordavano come quel punto d’arrivo – che era, poi, una partenza - non fosse stato conquistato senza fatica; anche in occasione del cinquantenario celebrato con una bella festa in Cassazione, Giulia stessa citò il susseguirsi di confronti parlamentari, certe affermazioni che pare impossibile qualcuno possa avere condiviso, la necessità di una decisione della Consulta.
Ma non solo, anche l’accettazione non scontata da parte dei colleghi, il pregiudizio che la donna magistrato non potesse che occuparsi di certe materie e non di altre, ricoprire alcune funzioni, e non altre.
Accanto a questo, io penso che la grandezza di Giulia, e quello che più di altro ce l’ha fatta sentire “amica” sia stato l’unire alla professionalità e alla dedizione alla sua funzione, la capacità di intessere legami affettivi stabili, di dare ai figli affetto e regole – come amava dire – e il proprio esempio, lo stesso che dava ai suoi collaboratori e a noi tutti, colleghe e colleghi, i “suoi” giudici.
Nel salutarla per l’ultima volta, ho ricordato come, nell’approdare al Tribunale per i minorenni di Torino, personalmente provassi un certo timore.
Un timore quasi reverenziale, perché diventavo giudice, dopo anni di procura, e arrivavo ad un Tribunale per i minorenni che aveva fatto storia, era considerato tra i migliori d’Italia, anche perché alcune soluzioni giurisprudenziali erano poi state condivise e addirittura recepite in modifiche normative.
E Giulia era stata una dei protagonisti di quell’epoca, e di quel tribunale.
Se decidere è gravoso per tutti i giudicanti, diventa a volte un vero e proprio macigno per il Giudice Minorile, che decide delle “vite degli altri”, delle relazioni più intime e profonde, della “capacità” di fare i genitori, così come della maturità dei ragazzi che commettono reati.
E, in quello, Giulia è stata una guida, per me, come per tutti i colleghi; e non era solo per la sua capacità organizzativa, la sua presenza costante, l’avere continuato a fare il giudice, a scrivere provvedimenti, a presiedere collegi, fossero penali, civili o del tribunale di sorveglianza, anche da presidente, con tutti gli adempimenti amministrativi e le responsabilità che ciò comportava.
Era la consapevolezza, che ti infondeva, del peso, e insieme della rilevanza, del decidere; non solo la rilevanza sociale, ma proprio quella rispetto al caso concreto, a quel bambino, a quel ragazzo.
Decidere la vita dei bambini, dei ragazzi, delle loro famiglie; cambiare, se necessario, il loro contesto, le loro storie, il loro futuro… dare una possibilità a chi non è stato “visto” e per questo ritiene di non avere valore, e non sa dare valore all’altro. L’importanza di intervenire in via preventiva, per evitare, poi, di ritrovare gli stessi ragazzi in sede penale.
E decidere da “giudice”, ma confrontandosi con chi di bambini e ragazzi ne sa più di noi, in quella architettura della Giustizia Minorile che è stata l’esito di un percorso che va dalla Costituzione alle grandi riforme, dal ’67, agli anni settanta e ottanta dello scorso secolo.
Ma sempre decidere; sugli atti, che conosceva a fondo; con l’aiuto di saperi “altri”; con la premura di chi sa che la vita dei bambini non si misura con il metro degli adulti; senza alcun condizionamento esterno, pure essendo, lei, una “moglie della Repubblica” realtà, questa, che tutti conoscevamo, ma che in ufficio quasi non appariva.
Giulia, poi, era unica nel motivare i provvedimenti, di una sintesi che però abbracciava tutte le questioni; e capace, nella collegialità che allora riguardava tutte le decisioni del Tribunale minorile, di cambiare anche idea, dal progetto che tutti ci si fa, in base all’istruttoria, entrando in camera di consiglio, alla conclusione assunta grazie anche all’apporto di quelle scienze “altre” che partecipavano alla decisione.
Anche dopo la pensione, Giulia partecipava alla formazione di operatori sociali, di neuropsichiatri infantili, continuando quel dialogo, che era stato il fulcro, e la novità, dei Tribunali minorili, e di quello di Torino, in particolare, in quegli anni che appaiono ora lontani.
Ma era, soprattutto, un’amica; vicina nelle questioni che riguardavano il lavoro, ma anche nel privato, per un consiglio, un abbraccio consolatorio in momenti particolarmente dolorosi, che non era di forma, e la cui mancanza, oggi, fa soffrire ancora di più.
Doti “femminili”, queste? Forse, ma nel significato che più valorizza questo modo di essere, nella nostra specificità, e nel nostro impegno, come magistrate, e come donne.
Parlare di esempio è riduttivo, parlare del ruolo della donna in magistratura non esaurisce il punto; esiste donna e donna, e le generalizzazioni sono di troppo.
Esiste chi è attento a quelle “vite degli altri”, chi percepisce l’importanza della funzione, non della persona in sé, chi sa sorridere, degli altri ma anche di se stessa, chi è davvero amica delle altre donne senza dimenticare il proprio ruolo, chi lascia insegnamenti che non si dimenticano.
Giulia ha davvero fatto scuola, ma a volte mi domando se la mia generazione invece non ci sia riuscita; o forse è cambiata la sensibilità, non voglio dire la moda, ma il senso di un’istituzione davvero dalla parte dei bambini non è più così chiaro, neppure a chi fa il magistrato minorile.
E così è arduo, ora, raccoglierne il testimone; per l’inclemenza dei tempi, e certe scelte legislative che sembrano voler cancellare il passato, senza una piena cognizione della realtà sulla quale si va ad incidere.
La sua lezione di vita e di professione parlava un linguaggio diverso da quanto ora sembra contare.
Ma soprattutto resta il ricordo di quel suo sorriso, di quei suoi occhi così vivaci, di sollecitudine nel chiedere di noi, nell’esserci sempre, in una vicinanza speciale.
Profili applicativi della fiscalizzazione degli abusi edilizi. Nota a Consiglio di Stato, Sez. II, 25 ottobre 2023, n. 9243
di Rocco Parisi
Sommario: 1. Premessa; 2. La vicenda contenziosa; 3. La riedizione del potere amministrativo a seguito dell’annullamento del titolo edilizio; 4. L’interpretazione dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 nella sentenza n. 17/2020 della Plenaria; 5. I principi chiarificatori espressi dalla sentenza n. 9243/2023 del Consiglio di Stato; 6. Conclusioni.
1. Premessa.
Con la sentenza 25 ottobre 2023, n. 9243, la seconda Sezione del Consiglio di Stato torna ad occuparsi della c.d. fiscalizzazione dell’abuso di cui all’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 (c.d. «T.U.E.»), svolgendo alcune importanti riflessioni in merito ai presupposti applicativi ed alle modalità di riesercizio del potere a seguito dell’annullamento del titolo edilizio.
Com’è noto, la «fiscalizzazione dell’abuso» rappresenta un ampio genus di matrice interpretativa in cui confluiscono diverse ipotesi, tassativamente previste dalla legge, in cui l’ordinamento giuridico ammette una mitigazione del trattamento sanzionatorio per la repressione di alcune tipologie di abusi edilizi, consentendo l’irrogazione di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione delle opere abusive.
Invero, il T.U.E. prefigura diverse ipotesi di fiscalizzazione[1], inerenti ad abusi originati i) da interventi di ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza di permesso di costruire o in totale difformità (art. 33), ii) da interventi edilizi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire (art. 34) e iii) da interventi edilizi eseguiti in conformità ad un titolo illegittimo e successivamente annullato (art. 38). Peraltro, le varie fattispecie di fiscalizzazione, essendo ancorate a ratio e logiche del tutto distinte, sono subordinate dalla legge a presupposti applicativi (nell’an) e criteri di quantificazione (nel quantum) altrettanto diversificati.
Per quanto qui di interesse, l’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001[2] disciplina il regime sanzionatorio dei c.d. «abusi edilizi sopravvenuti», realizzati in conformità ad un titolo abilitativo originariamente rilasciato dall’amministrazione (o formatosi ai sensi di legge) ma successivamente annullato, prevedendo che qualora non sia possibile procedere alla «rimozione dei vizi delle procedure amministrative» o alla «restituzione in pristino», l’amministrazione, «in base a motivata valutazione», applica in luogo della demolizione «una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite»[3].
La ratio della disposizione in esame è di graduare la risposta sanzionatoria in relazione alla gravità dell’abuso realizzato[4], introducendo un regime sanzionatorio più mite, rispetto a quello demolitorio ordinariamente previsto per la repressione degli abusi edilizi realizzati sine titulo, per le ipotesi in cui il privato abbia edificato confidando incolpevolmente nella legittimità del titolo edilizio rilasciato dall’amministrazione (o formatosi ai sensi di legge)[5], successivamente rivelatosi illegittimo ed annullato.
La gradualità del trattamento sanzionatorio si giustifica proprio in virtù della differenza tra l’animus di colui che realizza (in buona fede) un’opera conforme ad un titolo edilizio successivamente annullato, confidando nella legittimità dello stesso e dunque nella conformità dell’opera alla normativa urbanistico-edilizia[6], e lo stato soggettivo di colui che vìola scientemente la disciplina vigente, realizzando un’opera edilizia già in origine abusiva[7].
L’obiettivo perseguito dal legislatore è di individuare un giusto punto di equilibrio tra interessi antagonisti, ovvero – da una parte – quello del costruttore, che abbia legittimamente confidato nella conformità dell’opera edilizia realizzata sulla base di un titolo rilasciato dall’amministrazione, e – d’altra parte – l’interesse pubblico al corretto sviluppo urbanistico e l’interesse dei terzi danneggiati dalla realizzazione dell’opera abusiva. Composizione che, nell’ottica del legislatore, si realizza «per il tramite di una “compensazione” monetaria di valore pari al «valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite»»[8].
Peraltro, l’integrale pagamento della sanzione pecuniaria irrogata dall’amministrazione realizza ex lege i medesimi effetti sananti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’art. 36 del T.U.E.[9]
Tuttavia, deve precisarsi che l’equiparazione della fiscalizzazione dell’abuso ex art. 38 al permesso in sanatoria di cui all’art. 36 opera solo sul piano degli effetti, fermo restando la distinzione ontologica, strutturale e finalistica tra i due istituti. Nel caso della fiscalizzazione dell’abuso, infatti, il temperamento dell’obbligo di demolizione della costruzione abusiva si giustifica «in ragione, non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della stessa (oggetto della diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha giustificato l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla luce della generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi»[10].
Invero, a differenza del permesso di costruire in sanatoria, la fiscalizzazione dell’abuso è una sanzione amministrativa, diversa da quella ordinaria della demolizione, costituente il prezzo che il privato è tenuto a pagare per accedere agli effetti sananti previsti dalla legge[11]. Proprio in ragione della diversa natura, l’importo viene determinato in base a criteri differenti, a seconda che si versi nell’ipotesi di sanatoria ex art. 36 o di fiscalizzazione dell’abuso di cui all’art. 38.
2. La vicenda contenziosa.
La sentenza in commento si pone all’esito di una vicenda sostanziale e processuale alquanto articolata, in cui, a seguito di diverse pronunce giudiziali ed altrettante riedizioni del potere amministrativo, gli appellanti contestavano la scelta dell’amministrazione di procedere, a fronte dell’annullamento dei titoli edilizi dei proprietari di unità immobiliari limitrofe, all’irrogazione nei confronti di questi ultimi della sanzione amministrativa pecuniaria in luogo della demolizione ex art. 38 del T.U.E.
La vicenda origina dal ricorso con cui la proprietaria di un fondo impugnava le concessioni edilizie rilasciate dal Comune di Parma per la realizzazione di due edifici sul terreno confinante, asserendone la contrarietà alle disposizioni urbanistico-edilizie sulla volumetria, le altezze e le distanze tra le costruzioni.
All’esito dei due gradi di giudizio, il Consiglio di Stato accertava la sussistenza dei profili di illegittimità contestati e, pertanto, annullava i titoli abilitativi impugnati[12].
In sede di riesercizio del potere, nel 2013 l’amministrazione adottava un provvedimento di rinnovazione dei titoli edilizi annullati, anch’esso impugnato in sede giurisdizionale e dichiarato nullo dal giudice dell’ottemperanza per violazione del giudicato[13].
A fronte della predetta declaratoria di nullità, l’amministrazione avviava un nuovo procedimento sanzionatorio degli abusi edilizi, all’esito del quale, accertata l’impossibilità di procedere alla demolizione delle parti abusive senza pregiudizio della stabilità e della sicurezza delle parti conformi, disponeva l’irrogazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, ai sensi dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001.
Anche quest’ultimo provvedimento veniva impugnato dinanzi al TAR Parma dai proprietari del terreno confinante (aventi causa della ricorrente del primo giudizio), i quali asserivano che, a fronte delle precedenti pronunce di annullamento e di nullità dei titoli edilizi, l’amministrazione avrebbe dovuto necessariamente disporre la demolizione degli edifici abusivi.
Nel corso del giudizio di primo grado veniva disposta apposita verificazione, volta ad accertare l’effettiva possibilità di procedere alle demolizioni delle parti abusive degli edifici senza pregiudizio per le parti conformi.
Acquisite le risultanze istruttorie, da cui emergeva che gli interventi di demolizione sarebbero risultati – in parte – non eseguibili senza pregiudizio delle parti conformi e – per la restante parte – inidonei a consentire la conformazione del fabbricato alla normativa urbanistica, con sentenza n. 308/2022 il TAR rigettava il ricorso, accertando la legittimità della sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dal Comune.
La predetta sentenza veniva impugnata dalla parte soccombente dinanzi al Consiglio di Stato.
Con la sentenza 25 ottobre 2023, n. 9243, qui in commento, la seconda Sezione del Consiglio di Stato ha rigettato integralmente l’appello, ponendo fine ad una vicenda contenziosa durata circa vent’anni.
3. La riedizione del potere amministrativo a seguito dell’annullamento del titolo edilizio.
L’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 disciplina una peculiare ipotesi di riedizione del potere successivo all’annullamento, demandando all’amministrazione la scelta tra tre diverse alternative: i) esercizio del potere di convalida di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 con rinnovazione del titolo edilizio annullato, qualora l’annullamento fosse stato disposto per vizi procedurali o formali emendabili; ii) applicazione della sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere abusive, qualora il titolo fosse stato annullato per vizi procedimentali non emendabili o (indipendentemente dalla natura del vizio) sia comunque impossibile procedere alla rimessione in pristino; iii) demolizione delle opere abusive, ove non sussistano le condizioni per procedere secondo alcuna delle alternative precedenti.
Sicché, la demolizione dell’opera abusiva non rappresenta una conseguenza fisiologica ed automatica della pronuncia di annullamento, ricompresa tra i suoi effetti conformativi, costituendo al contrario una delle possibili soluzioni alternative (recte: quella di extrema ratio) che l’amministrazione può adottare in base alle condizioni del caso concreto[14].
La vicenda amministrativa, dunque, si riapre per intero al riesercizio del potere, che non appare affatto incastonato tra gli effetti conformativi del sindacato giurisdizionale, circoscritto invece alla sola caducazione dei titoli illegittimi, riferendosi di converso a segmenti di attività nuovi ed ulteriori rispetto a quello che in precedenza aveva condotto all’adozione del titolo abilitativo annullato.
L’unica eccezione è costituita dall’ipotesi in cui l’amministrazione proceda alla rinnovazione dei titoli edilizi annullati, così ritornando sullo stesso segmento di potere già esercitato e sindacato dal giudice[15].
Sul punto, la sentenza in commento, muovendo dal presupposto per cui l’annullamento del titolo edilizio non è idoneo a conformare in senso vincolato la successiva attività amministrativa, ha condivisibilmente sostenuto che la sentenza di annullamento «ha per oggetto il mero annullamento dei titoli edilizi e non si estende all’obbligo di demolizione delle opere realizzate sulla base dei titoli annullati»[16]. Infatti, dal giudicato deriva per l’amministrazione «un mero obbligo di risultato, consistente nell’eliminazione dei riscontrati vizi di legittimità dei titoli edilizi», demandandosi «alla discrezionalità amministrativa il quomodo, ossia l’individuazione della modalità più opportuna, tra quelle consentite dall’ordinamento, per realizzarlo alla luce delle circostanze del caso concreto»[17].
Ne deriva che la scelta dell’amministrazione di disporre la fiscalizzazione dell’abuso edilizio in luogo della demolizione, afferendo ad un’attività amministrativa del tutto diversa ed ulteriore rispetto a quella che ha condotto all’annullamento del titolo, non può essere sindacata dal giudice dell’ottemperanza (per violazione o elusione del giudicato), né tantomeno può essere assoggettata ai limiti del c.d. «one shot temperato»[18].
Diversamente opinando, infatti, verrebbe a realizzarsi un indebito sconfinamento del sindacato giudiziale, da parte del giudice dell’ottemperanza[19], in ambiti riservati a poteri amministrativi non ancora esercitati, connotati da presupposti e valutazioni del tutto diverse da quelle già compiute dall’amministrazione nell’adozione dei titoli edilizi.
L’esame realizzato dall’amministrazione a seguito dell’annullamento del titolo edilizio, nell’alternativa tra fiscalizzazione o demolizione, semplicemente non è un “riesame” dell’attività svolta in precedenza, riferendosi a profili fattuali e giuridici del tutto diversi da quelli che avevano condotto all’adozione dei titoli annullati[20], di tal guisa che viene necessariamente a realizzarsi “un azzeramento” della vicenda amministrativa ai fini dell’applicazione del «one shottemperato».
4. L’interpretazione dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 nella sentenza n. 17/2020 della Plenaria.
L’art. 38 del T.U.E. subordina l’applicazione della fiscalizzazione dell’abuso a taluni presupposti, che l’amministrazione deve puntualmente accertare ed esplicitare sulla scorta di una «motivata valutazione».
In particolare, la norma riporta due condizioni distinte ed alternative, accomunate dal medesimo presupposto costituito dall’annullamento (giudiziale o amministrativo)[21] del titolo edilizio: i) l’impossibilità di procedere alla «rimozione dei vizi delle procedure amministrative»; ii) l’impossibilità di procedere alla «restituzione in pristino» dell’opera abusiva.
A fronte di una certa genericità del dettato normativo, è sorto un acceso dibattito in ordine all’esatta perimetrazione del significato e della portata applicativa dell’istituto de quo.
In rifermento al primo presupposto delineato dalla norma, si è dibattuto circa l’effettivo significato della nozione «vizi delle procedure», discutendosi in merito alla possibilità di farvi rientrare i vizi solo formali o procedurali, ovvero anche quelli di natura sostanziale.
L’orientamento più restrittivo ha ritenuto che la fiscalizzazione dell’abuso per impossibilità di rimozione dei vizi delle procedure possa essere disposta soltanto ove il titolo edilizio sia stato annullato per vizi formali o procedurali, in caso contrario dovendo l’amministrazione necessariamente ordinare la demolizione dell’opera abusiva[22]. Secondo tale indirizzo, la fiscalizzazione non sarebbe viceversa possibile nel caso in cui il titolo sia stato annullato per vizi sostanziali, non potendo operare con effetti di condono extra legem.
Secondo un diverso orientamento, la fiscalizzazione degli abusi sopravvenuti sarebbe applicabile anche in presenza di vizi sostanziali emendabili, ammettendosi che il privato, apportando al progetto iniziale le modifiche necessarie a consentirne la conformazione alla normativa urbanistica, possa ottenere dall’amministrazione un provvedimento sanzionatorio con effetti sananti, anche in assenza della condizione della “doppia conformità” imposta dall’art. 36 del T.U.E.[23].
In virtù di una tesi ancor più permissiva, volta a massimizzare la tutela dell’affidamento del privato, la fiscalizzazione dell’abuso non sarebbe ex se preclusa neppure in presenza di vizi sostanziali non emendabili, dovendosi considerare «vizi delle procedure» tutti quelli idonei a condurre all’invalidità del titolo edilizio, indipendentemente dalla loro natura formale o sostanziale[24]. Sicché, la scelta di disporre o meno la fiscalizzazione in luogo della demolizione sarebbe demandata ad una valutazione prettamente discrezionale dell’amministrazione, da esplicitarsi attraverso una motivazione particolarmente approfondita, sindacabile dal giudice amministrativo in sede di legittimità.
Anche il riferimento normativo alla impossibilità della «restituzione in pristino» è stato oggetto di differenti ricostruzioni interpretative in giurisprudenza.
Alcune pronunce minoritarie hanno declinato l’impossibilità di demolire in senso ampio, secondo un’accezione economico-giuridica, attribuendo all’amministrazione la possibilità di effettuare una valutazione discrezionale sull’equità e sull’opportunità di disporre la fiscalizzazione in luogo della demolizione, attraverso un bilanciamento in concreto degli interessi in gioco[25].
Secondo la tesi maggioritaria, invece, l’impossibilità di demolire deve essere intesa restrittivamente, in senso tecnico-materiale, dovendo l’amministrazione accertare, all’esito di una valutazione squisitamente tecnica, l’impraticabilità concreta della demolizione, in virtù dei gravi pregiudizi (statici, antisismici, ecc.) che potrebbero derivare per le parti legittimamente edificate[26]. In tal senso, peraltro, l’interpretazione della norma risulterebbe coerente con quanto disposto dall’art. 34, comma 2, del T.U.E. in relazione all’ipotesi di fiscalizzazione per interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire.
Orbene, a fronte dell’eterogeneità delle tesi emerse, la questione inerente la corretta interpretazione dell’art. 38 del T.U.E. è stata rimessa all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[27], sia pur con precipuo riferimento al primo dei presupposti applicativi previsti dalla norma, su cui il Supremo Consesso si è pronunciato con la sentenza n. 17/2020.
In particolare, dopo aver ricostruito puntualmente i diversi orientamenti giurisprudenziali emersi sulla nozione di «vizi delle procedure», la Plenaria ha ritenuto di aderire a quello più restrittivo, ritenendo che l’art. 38 si riferisca esclusivamente a vizi formali e procedurali che, pur astrattamente emendabili, risultino in concreto, all’esito di una valutazione operata dall’amministrazione, di impossibile rimozione.
Invero, nel ragionamento seguito dalla Plenaria, a seguito dell’annullamento del titolo edilizio, l’amministrazione è tenuta anzitutto ad accertare la natura del vizio causa dell’illegittimità e, solo nel caso in cui si tratti di illegittimità formali, verificata preliminarmente l’impossibilità della loro emendabilità attraverso il potere di convalida ex art. 21-nonies della l. n. 241/1990, può procedere alla fiscalizzazione di cui all’art. 38.
Viceversa, qualora il titolo sia stato annullato per violazioni (sostanziali) della disciplina urbanistica, la fiscalizzazione risulterebbe preclusa, non potendo in ogni caso operare come forma di condono amministrativo extra legem demandato alla discrezionalità dell’amministrazione.
Tale impostazione tende a preservare il giusto bilanciamento tra tutela dell’affidamento del costruttore, tutela dell’assetto urbanistico del territorio e tutela del terzo, atteso che, ove anche la fiscalizzazione non risulti possibile (per la sussistenza di vizi sostanziali), la tutela del legittimo affidamento del costruttore potrebbe essere garantita in sede risarcitoria, in ragione della possibilità di richiedere ed ottenere in sede giudiziale il ristoro dei danni derivanti dalla lesione dell’affidamento legittimamente riposto sulla legittimità del titolo e dell’opera realizzata[28].
La tesi della Plenaria risulta condivisibile[29], specie in virtù delle argomentazioni letterali e sistematiche[30] addotte dal Supremo Consesso.
Sennonché, la pronuncia della Plenaria ha destato qualche dubbio esegetico nella parte in cui è stato sostenuto che «il riferimento ad un vizio procedurale astrattamente convalidabile delimita operativamente il campo semantico della successiva e connessa proposizione normativa riferita all’impossibilità di rimozione, dovendo per questa intendersi una impossibilità che attiene pur sempre ad un vizio che, sul piano astratto sarebbe suscettibile di convalida, e che per le motivate valutazioni espressamente fatte dall’amministrazione, non risulta esserlo in concreto»[31].
È stato sostenuto, infatti, che sulla scorta di tale assunto il Supremo Consesso sia andato oltre il tenore letterale della norma e la ratio che la connota, individuando nei «vizi delle procedure» la condizione prioritaria d’accesso all’impianto normativo dell’art. 38, per nulla prevista dalla legge, rispetto alla quale l’impossibilità della riduzione in pristino resterebbe sullo sfondo. Ne deriverebbe una chiara alterazione in via interpretativa del rapporto di alternatività in cui i due presupposti sono collocati dalla norma, giungendo ad escludere a priori la fiscalizzazione dell’abuso ogniqualvolta vengano in rilievo vizi sostanziali, indipendentemente dalla possibilità o meno di procedere alla demolizione.
È di piana evidenza che tale lettura della sentenza della Plenaria[32] non potrebbe essere accolta con favore, in quanto foriera di una vera e propria interpretazione creativa e manipolativa del dato normativo[33], conducendo peraltro ad un effetto sostanzialmente abrogativo dell’art. 38 in ragione della crescente dequotazione dei vizi procedimentali o formali, ad oggi cristallizzata dall’art. 21-octies comma 2 della legge n. 241/1990, e della natura vincolata diffusamente attribuita al permesso di costruire[34].
Tuttavia, si ritiene che tali dubbi possano essere superati, oltre che per ragioni di coerenza giuridica-sistematica, soprattutto in virtù di un’accurata lettura della sentenza della Plenaria.
Anzitutto, è la stessa Plenaria a delimitare preliminarmente l’oggetto della propria pronuncia, rilevando che i quesiti posti dalla Sezione rimettente si riferivano unicamente alla proposizione normativa dei «vizi delle procedure», così riconducendo a tale proposizione i principi interpretativi enunciati[35].
In secondo luogo, nel ragionamento logico seguito dal Supremo Consesso, la natura procedimentale o formale del vizio assume una priorità logica nell’alternativa tra fiscalizzazione e rinnovazione del titolo nell’esercizio dei poteri di convalida di cui all’art. 21-nonies, precludendo la fiscalizzazione ove l’amministrazione possa emendare il vizio procedimentale, ristabilendo la conformità del caso di specie al paradigma normativo. Ove ciò non sia possibile, per la non emendabilità in concreto del vizio, la natura procedimentale o formale di quest’ultimo connota di significato la successiva proposizione normativa riferita all’impossibilità della «rimozione», per tale dovendosi intendere pur sempre l’impossibilità di rimozione dei vizi procedimentali o formali. Sicché, il principio espresso dalla Plenaria risulta saldamente circoscritto al primo presupposto applicativo descritto dall’art. 38, lasciando impregiudicato ogni ulteriore accertamento sull’applicazione della fiscalizzazione per impossibilità della riduzione in pristino (a prescindere dalla natura del vizio).
Infine, ad ulteriore conferma della lettura in esame, si consideri che, dopo aver interpretato «i vizi delle procedure» nel senso di ricomprendervi solo i vizi procedurali o formali, in riferimento al caso di specie la Plenaria ha rilevato l’impossibilità di ritenere integrato tale presupposto in ragione della sussistenza di vizi sostanziali, demandando tuttavia alla Sezione rimettente ogni accertamento in fatto circa la sussistenza «dell’altra condizione, pur prevista dall’art. 38, di “impossibilità della riduzione in pristino”».
È evidente, dunque, come la stessa Plenaria abbia riconosciuto che la sussistenza di vizi sostanziali, pur escludendo l’applicazione della fiscalizzazione dell’abuso sulla scorta del primo presupposto, non impedisca tout court l’applicazione dell’istituto de quo, dovendo l’amministrazione ulteriormente accertare l’impossibilità di procedere alla restituzione in pristino.
5. I principi chiarificatori espressi dalla sentenza n. 9243/2023 del Consiglio di Stato.
Conformandosi all’orientamento consolidato in giurisprudenza[36], la sentenza in commento ha fornito un’interpretazione dell’art. 38 conforme al tenore letterale della norma ed alla logica sistematica prefigurata dal legislatore.
Anzitutto, uniformandosi all’indirizzo più restrittivo espresso dalla Plenaria, i Giudici hanno circoscritto la nozione di «vizi delle procedure amministrative» ai soli vizi procedimentali o formali non emendabili, riconoscendo alla seconda condizione (della impossibilità della «restituzione in pristino») una valenza alternativa e distinta.
Invero, nel rimarcare il rapporto di alternatività tra i due presupposti applicativi previsti dalla norma in esame, il Collegio ha espressamente sostenuto che «l’art. 38 d.p.r. 380/2001 non trova applicazione nel solo caso di impossibilità di rimozione dei vizi delle procedure amministrative, ma anche nel caso di impossibilità di riduzione in pristino del bene, laddove il titolo edilizio sia stato annullato non per vizi formali o procedurali, bensì sostanziali. Si tratta, infatti, di due condizioni eterogenee poiché la prima attiene alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di costruire), ex art. 21 nonies comma 2, mediante rimozione del vizio della relativa procedura, non sia oggettivamente possibile; la seconda attiene alla sfera del privato e concerne la concreta possibilità di procedere alla restituzione in pristino dello stato dei luoghi»[37].
Peraltro, riprendendo tale principio espresso dalla Plenaria nella sentenza n. 17/2020, il Collegio ha precisato che la pronuncia de qua «si è occupata unicamente della prima delle due condizioni», così escludendo fermamente che il riferimento ai vizi procedurali possa precludere, in caso di vizi sostanziali, la fiscalizzazione dell’abuso per impossibilità della riduzione in pristino. È interessante notare come, nel sostenere tale assunto, il Collegio abbia espressamente rigettato il motivo di gravame con cui gli appellanti, richiamando proprio i principi espressi dalla Plenaria n. 17/2020, censuravano la sentenza di primo grado nella parte in cui il TAR non aveva considerato che «la sanzione pecuniaria dell’art. 38 T.U. non è applicabile ai titoli edilizi annullati per vizi sostanziali»[38].
Ciò posto, il Collegio si è ulteriormente soffermato sul secondo presupposto applicativo dell’art. 38, relativo alla impossibilità della riduzione in pristino.
In particolare, nel rilevare nel caso di specie l’effettiva impossibilità tecnico-costruttiva di procedere alla demolizione degli abusi senza pregiudizio per le parti conformi[39], la sentenza in commento riporta alcune importanti precisazioni in merito alla stessa possibilità di individuare la sussistenza di parti conformi dell’opera abusiva nelle ipotesi di annullamento integrale del titolo edilizio.
Tale questione, infatti, è attualmente dibattuta, essendo risolta in maniera tutt’altro che univoca dalla giurisprudenza amministrativa.
Da un lato, l’orientamento più restrittivo ritiene che dall’annullamento integrale del titolo edilizio derivi «la sopravvenuta abusività del fabbricato nella sua totalità», con conseguente preclusione in radice di «ulteriori valutazioni afferenti la possibilità, o meno, di procedere alla riduzione in pristino, posto che simili valutazioni sono finalizzate ad evitare la compromissione di opere – id est: parti del fabbricato – legittimamente realizzate, che nel caso di specie non sono esistenti»[40].
Dall’altro lato, la tesi più estensiva, cui aderisce la sentenza in commento, sostiene che l’annullamento integrale del titolo edilizio non renda necessariamente abusivo in toto il fabbricato, impedendo ex se l’individuazione di porzioni legittime (potenzialmente pregiudicate dalla demolizione delle parti abusive), dovendosi al contrario verificare se le abusività accertate abbiano «riguardato porzioni ben individuate e circoscritte degli immobili, con la conseguenza che la regula iuris discendente dal giudicato impone l’eliminazione delle sole parti abusive, senza incidere su quelle legittimamente realizzate»[41].
Di talché, la fiscalizzazione dell’abuso (per impossibilità tecnica della demolizione) può essere disposta anche ove il titolo edilizio sia stato annullato integralmente, purché la difformità (sopravvenuta) sia circoscritta ad una parte dell’edificio e ciò sia puntualmente desumibile dalla motivazione del provvedimento (amministrativo o giudiziale) di annullamento. Anche in tali casi, infatti, l’amministrazione, ove ritenga, sulla scorta di motivata valutazione tecnica[42], che la demolizione delle parti abusive non possa avvenire senza pregiudizio delle parti legittimamente edificate, potrà disporre l’irrogazione della sanzione pecuniaria con effetti sananti.
6. Conclusioni.
La sentenza in commento ricostruisce opportunamente la fiscalizzazione dell’abuso in maniera conforme alla ratio ed al tenore letterale dell’art. 38.
Invero, viene fermamente rimarcato il gradualismo logico sotteso alla disposizione legislativa in esame, per cui a seguito dell’annullamento del titolo edilizio, l’amministrazione, accertata preliminarmente l’impossibilità di procedere alla rinnovazione del titolo attraverso la rimozione dei vizi procedurali o formali ex art. 21-nonies della l. n. 241/1990, provvede, sulla scorta di «motivata valutazione», a disporre la fiscalizzazione dell’abuso in luogo della demolizione laddove: i) il titolo edilizio sia stato annullato per vizi procedimentali o formali non emendabili in concreto; ii)indipendentemente dalla natura del vizio, non sia tecnicamente possibile la riduzione in pristino, in quanto gravemente pregiudizievole per le parti conformi.
Così correttamente ricostruita, la disciplina della fiscalizzazione dell’abuso, nel mitigare il meccanismo sanzionatorio dei c.d. abusi sopravvenuti, è finalizzata a tutelare la buona fede ed il legittimo affidamento del privato che abbia costruito in virtù di un titolo legittimo successivamente annullato, individuando (attraverso la previsione di apposite condizioni applicative) un opportuno punto di equilibrio con gli altri (e contrapposti) interessi in gioco, costituiti dal corretto assetto urbanistico del territorio e dalla tutela dei terzi (controinteressati rispetto al titolo edilizio ed eventualmente ricorrenti vittoriosi nel giudizio di annullamento)[43].
Un punto di equilibrio che, risultando da una precisa scelta (lato sensu politica) del legislatore, non può in alcun modo essere alterato, in ossequio al fondamentale principio della separazione dei poteri, né in sede applicativa dall’amministrazione, attraverso un rinnovato bilanciamento in concreto degli interessi, né attraverso un’interpretazione (creativa) della giurisprudenza.
Non si trascura di certo che la fiscalizzazione dell’abuso per impossibilità della riduzione in pristino, ove disposta anche in presenza di difformità sostanziali dell’opera, possa arrecare un vulnus al corretto sviluppo urbanistico del territorio ed all’interesse dei terzi pregiudicati dall’edificazione abusiva, i quali potrebbero ottenere un vantaggio solo illusorio dall’accoglimento del ricorso di annullamento proposto avverso il titolo edilizio[44].
Limitazioni di tutela, tuttavia, che, oltre ad essere adeguatamente calibrate attraverso la previsione dei presupposti applicativi indicati dall’art. 38, devono essere accettate, in quanto espressamente autorizzate dalla legge, costituendo il “prezzo” individuato dal legislatore per ricucire il “corto circuito istituzionale” ingenerato dal rilascio di un titolo edilizio illegittimo e ciò nonostante idoneo, nelle more dell’annullamento, a legittimare l’edificazione in buona fede da parte del titolare.
Pare peraltro che la tutela dei terzi, pregiudicati dalla mancata demolizione delle opere abusive, possa essere sufficientemente recuperata in via risarcitoria, riconoscendo loro la possibilità di agire nei confronti dell’amministrazione[45] per ottenere il ristoro dei pregiudizi subiti in conseguenza del rilascio del titolo illegittimo.
La via del risarcimento dei danni, infatti, pare essere percorribile dai terzi, i quali possono dimostrare in giudizio la sussistenza di un danno ingiusto (non iure e contra ius) idoneo ad incidere negativamente sulla loro situazione giuridica sostanziale, avvinto causalmente all’esecuzione del titolo edilizio illegittimo adottato dall’amministrazione, dunque meritevole di risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c.
[1] Per un esame delle diverse ipotesi di fiscalizzazione degli abusi edilizi tipizzate dal d.p.r. n. 380/2001, si veda: F. Salvia, C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, III ed., Vicenza, 2017, 233 ss.; A. Fiale, E. Fiale, Diritto Urbanistico, Napoli, 2008, 903 ss.
[2] Le disposizioni dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 ripropongono la disciplina previgente contenuta nell’art. 11 della legge n. 47/1985, introducendo l’obbligo di «motivata valutazione» in capo all’amministrazione procedente e modificando la competenza per l’irrogazione della sanzione pecuniaria (in precedenza attribuita al Sindaco).
[3] Cfr. G.G.A. Dato, Sanzioni amministrative relative ad interventi eseguiti in base a permesso annullato, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F.F. Tuccari (a cura di), Sanzioni amministrative in materia urbanistica, Torino, 2014, 605 ss.; D. Caldirola, L’annullamento del permesso di costruire e della DIA, in S. Battini, L. Casini, G. Vesperini, C. Vitale (a cura di), Codice di edilizia e urbanistica, Milano, 2013, 1407; R. Leonardi, M. Occhiena, Commento all'art. 38, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell'edilizia, II ed., Milano, 2009, 656 ss.; A. Fiale, E. Fiale, Diritto Urbanistico, op. cit., 945 ss. Per un inquadramento generale dell’art. 38 nell’ambito della disciplina dei controlli sull’attività edilizia e del sistema sanzionatorio di repressione degli abusi, si veda M.A. Sandulli, Edilizia, in Riv. Giur. Edil., 3, 2022, 171 ss.; Id., Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e potere di autotutela, in Federalismi, n. 18/2019.
[4] Cfr. G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2019, 743.
[5] Al contrario, non si ritiene sia configurabile, né tantomeno tutelabile, alcun affidamento in capo al proprietario/autore dell’abuso «giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo ad ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata», atteso che il decorso del tempo e l’inerzia dell’amministrazione nella repressione dell’abuso «non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo» (cfr. Cons. St., Ad. Pl., 17 ottobre 2017, n. 9. In termini, anche Cons. St., Sez. VI, 9 agosto 2016, n. 3559).
[6] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 28 novembre 2018, n. 6753; Id., 9 aprile 2018 n. 2155 e 10 maggio 2017 n. 2160.
[7] Sulla scorta di tali considerazioni, la giurisprudenza ha sostenuto che la fiscalizzazione dell’abuso non possa applicarsi laddove il privato abbia consapevolmente concorso alla formazione o al rilascio del titolo edilizio illegittimo, celando all’amministrazione la realtà materiale-giuridico o ponendo in essere una condotta contrastante con le prescrizioni di legge confidando nel mancato (o parziale) esercizio dei poteri amministrativi di vigilanza. Infatti, «il mendacio non è equiparabile a vizio formale e l'invocata fiscalizzazione contrasterebbe con il principio di carattere generale che esclude la possibile di conformazione degli effetti di quanto dichiarato falsamente» (cfr. Cons. St., Sez. VI, 26 settembre 2022, n. 8285 e 8 aprile 2021, n. 2854).
[8] Cfr. Cons. St., Ad. Pl., 7 settembre 2020, n. 17.
[9] Su tale istituto, si veda A. Crosetti, Art. 36 Accertamento di conformità, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo Unico dell’Edilizia, Milano, 2015, 434; S. Gatto Costantino, P. Savasta, Manuale dell’urbanistica, dell’edilizia e dell’espropriazione, II ed., Lecce, 2012, 656 ss.; G. Mengoli,Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2009, 1157 ss.; P.F. Gaggero, Regolarizzazione edilizia successiva atipica e accertamento di conformità, in Riv. Giur. Ed., 2004, 4, 1397.
[10] Cfr. capo 10.2 della sentenza in commento.
[11] In tal senso anche A. Giusti, La fiscalizzazione dell’abuso edilizio fra esigenze punitive e di ripristino dell’equilibrio urbanistico, in Giur. It., 4, 2021, 925.
[12] Cfr. Cons. St., Sez. IV, 2 novembre 2010, n. 7731.
[13] Cfr. Cons. St., Sez. IV, 26 marzo 2019, n. 1986.
[14] Sulla scorta di tali premesse, TAR Campania, Sez. III, 2 dicembre 2022, n. 7543, ha sostenuto l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione adottata a seguito dell’annullamento del titolo edilizio, laddove nel corso del relativo procedimento l’amministrazione non abbia adeguatamente consentito al destinatario del provvedimento di esercitare le prerogative partecipative previste dalla legge n. 241/1990.
[15] La vicenda ad oggetto della sentenza in commento è emblematica delle diverse soluzioni amministrative e delle relative conseguenze processuali che si possono prospettare a seguito dell’annullamento del titolo edilizio. Si consideri, infatti, che a seguito del primo giudicato di annullamento dei titoli edilizi (intervenuto con la sentenza del Consiglio di Stato n. 7731/2010), l’amministrazione aveva adottato un provvedimento di riedizione dei titoli edilizi che, impugnato in sede di ottemperanza, era stato dichiarato nullo per contrasto con il precedente giudicato (cfr. sentenza del Consiglio di Stato n. 1986/2019). A seguito di quest’ultima declaratoria di nullità, l’amministrazione aveva deciso di procedere ai sensi dell’art. 38 con l’irrogazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, che, in quanto afferente ad una porzione di attività amministrativa distinta dalla precedente, ha seguito la strada processuale del giudizio ordinario di legittimità, non incontrando alcun limite conformativo derivante dalle pronunce precedenti.
[16] Cfr. capo 8.3 della sentenza in commento.
[17] Cfr. capo 8.5 della sentenza in commento.
[18] Com’è noto, in virtù del principio del c.d. «one shot temperato» l’amministrazione che abbia subìto l’annullamento di un proprio atto ha il potere di rinnovarlo, ma per una sola volta, dovendo riesaminare l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza poter in seguito tornare a decidere sfavorevolmente, per una terza volta, neppure in relazione a profili non ancora esaminati (cfr. T.A.R. Pescara, 1 marzo 2023, n. 107; C.G.A.R.S, 18 maggio 2022, n. 597; Cons. St., Sez. VI, 4 maggio 2022, n. 3480; Cons. St., Sez. II, 14 aprile 2020, n. 2378; Cons. St., Sez. V, 8 gennaio 2019, n. 144; Cons. St., Sez. III, 14 febbraio 2017, n. 660). Sulle più recenti evoluzioni giurisprudenziali in materia di «one shot temperato» e sulle questioni ivi sottese, sia consentito rimandare a R. Parisi, Il difficile punto di equilibrio tra l’effettività della tutela giurisdizionale e l’inesauribilità del potere amministrativo. Nota a T.A.R. Abruzzo - Pescara, 1 marzo 2023 n. 107, in Le note a sentenza di Giustizia insieme. Annuario della giurisprudenza amministrativa annotata 2023 (1° semestre), Napoli, 2023.
[19] Negli stessi termini si è espresso anche, in sede di ottemperanza, TAR Marche, Sez. I, 25 luglio 2022, n. 437.
[20] È interessante rilevare come nella diversa ipotesi in cui a seguito dell’annullamento del titolo edilizio l’amministrazione adotti un provvedimento di fiscalizzazione dell’abuso fondato sul primo dei presupposti previsti dall’art. 38, e questi sia annullato dal giudice amministrativo, in sede di riesercizio del potere l’amministrazione non perda comunque il potere di adottare un nuovo provvedimento di fiscalizzazione dell’abuso fondato sull’altro presupposto applicativo previsto dall’art. 38, ossia sull’impossibilità della riduzione in pristino, atteso che dal primo giudicato di annullamento non è derivato «alcun vincolo quanto all'inapplicabilità dell'art. 38 D.P.R. 380/2001 per la parte in cui consente la fiscalizzazione dell'abuso nel caso di impossibilità di riduzione in pristino» (cfr. T.A.R. Venezia, Sez. II, 3 giugno 2021, n. 736).
[21] La giurisprudenza amministrativa ormai consolidata, in cui si inserisce anche la sentenza in commento e la pronuncia n. 17/2020 della Plenaria, sostiene che ai fini dell’applicazione dell’art. 38 del T.U edilizia è indifferente che l’annullamento del titolo edilizio sia stato disposto (in autotutela) dall’amministrazione o in sede giurisdizionale, in ragione sia del tenore letterale della disposizione de qua – che «non si sofferma sulla natura giurisdizionale o amministrativa dell’annullamento» (Cons. di Stato, A.P., n. 17/2020) – che della sua ratio, volta a tutelare l’affidamento «del titolare del permesso di costruire circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione conseguente al rilascio del titolo» (cfr. capo 8.7 della sentenza in commento). Al riguardo, TAR Parma, Sez. I, 7 novembre 2022, n. 308 (sul cui appello si è pronunciata la sentenza in commento), ha sostenuto in maniera ancor più approfondita che «dalla semplice lettura della norma […] si evince chiaramente che la stessa non distingue il tipo di annullamento del permesso di costruire (amministrativo o giurisdizionale) e, dunque, la predetta norma non può certo essere oggetto di una lettura restrittiva, del tutto illogica peraltro, in base alla quale l’annullamento previsto dalla medesima sarebbe unicamente quello disposto in sede amministrativa. Il fatto che l’art. 38 non parli di “annullamento giurisdizionale” non significa, dunque, che tale tipologia di annullamento sia esclusa ma solo che la norma si applica a tale tipologia ed anche a quella (diversa) dell’annullamento amministrativo. Senza considerare che, come rilevato dallo stesso Collegio, «la casistica concreta relativa all’applicazione dell’art. 38 del DPR n. 380/2001 concerne molto più spesso gli annullamenti intervenuti in sede giurisdizionale, a seguito dei quali l’Amministrazione riemette il titolo edilizio o irroga la sanzione pecuniaria».
[22] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 9 maggio 2016, n. 1861; Id., 11 febbraio 2013, n. 753 e 16 marzo 2010 n. 1535.
[23] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 10 settembre 2015, n. 4221; Id., 8 maggio 2014, n. 2355 e 17 settembre 2012, n. 4923.
[24] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 19 luglio 2019, n. 5089; Id., 28 novembre 2018 n. 6753.
[25] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 28 novembre 2018, n. 675; Id., 16 marzo 2010, n. 1535.
[26] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 4 gennaio 2023, n. 136, laddove è stato precisato che «La riduzione in pristino, pertanto, deve risultare impraticabile alla luce di una valutazione tecnica e non di una ponderazione dei vari interessi in gioco, fra cui l'affidamento del privato nella legittimità delle opere». Infatti, «diversamente opinando, l’art. 38 d.P.R. 380/2001 si presterebbe a letture strumentali, consentendo sanatorie 'ex officio' di abusi attraverso lo strumento dell'annullamento in autotutela del titolo edilizio originario (Cons. di Stato, Sez. IV, 19/04/2022, n. 2919)». Negli stessi termini, anche Cons. St., Sez. IV, 26 settembre 2022, n. 8285; Id., 22 aprile 2021, n. 3270 e 15 dicembre 2020, n. 8032.
[27] Cfr. Cons. St., Sez. IV., 11 marzo 2020, ordinanza n. 1735, con cui si è chiesto alla Plenaria di pronunciarsi sulla «corretta interpretazione dell’art. 38 del T.U. 6 giugno 2001 n.380, nel senso di stabilire, nel caso di intervento edilizio eseguito in base a permesso di costruire annullato in sede giurisdizionale, quale tipo di vizi consenta la sanatoria che la norma prevede, ovvero l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria il cui pagamento produce, ai sensi del comma 2 dell’articolo in questione, “i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria”, istituto che comunemente si chiama “fiscalizzazione dell’abuso”».
[28] Cfr. Cons. St., Ad. Pl., n. 17/2020, capo 8.1 in diritto.
[29] In senso contrario A. Giusti, La fiscalizzazione dell’abuso edilizio fra esigenze punitive e di ripristino dell’equilibrio urbanistico, op. cit., 926 ss., laddove l’Autrice mette in luce talune criticità derivanti dall’adesione all’indirizzo restrittivo sostenuto dalla Plenaria, soprattutto in riferimento all’incerta delimitazione della categoria dei vizi formali, alla dequotazione della tutela dell’affidamento del privato ed alla complessiva coerenza dell’istituto risultante dall’interpretazione della Plenaria.
[30] A fondamento di tale assunto, la Plenaria pone ragioni, sistematiche, di tutela del corretto sviluppo urbanistico del territorio – astrattamente compromesse ove per il tramite dell’art. 38 si attribuisse all’amministrazione «una sorta di condono amministrativo affidato alla valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione urbanistica, ambientale o paesaggistica», nonché di tutela dei terzi, controinteressati rispetto al titolo abilitativo ed eventualmente ricorrenti vittoriosi nel giudizio di annullamento proposto dinanzi al giudice amministrativo, ritenendo che «la tutela dell’affidamento del costruttore, attraverso la fiscalizzazione dell’abuso anche in relazione a vizi sostanziali, di fatto vanificherebbe la tutela del terzo ricorrente, il quale, all’esito di un costoso e defatigante giudizio, si troverebbe privato di qualsivoglia utilità, essendo la sanzione pecuniaria incamerata dall’erario».
[31] Cfr. Cons. St., Ad. Pl., n. 17/2020, capo 5.3 in diritto.
[32] Tale lettura della Plenaria viene proposta in senso critico da C. Silvano, La “fiscalizzazione dell’abuso alla luce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato: un istituto destinato a scomparire?, in Riv. Giur. Edil., 4, 2021, 1251B ss.
[33] Tendenza, che, a dire il vero, negli ultimi anni si è manifestata in alcune pronunce della Plenaria, come dimostrato dalle sentenze “gemelle” adottate in materia di concessioni balneari marittime (sentenze 9 novembre 2021, n. 17 e n. 18), per il cui approfondimento si rimanda a: M.A. Sandulli, Sulle «concessioni balneari» alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, in Giustizia insieme, 16 febbraio 2022; A. Police, A.M. Chiariello, Le concessioni demaniali marittime: dalle sentenze dell'Adunanza Plenaria al percorso di riforma. Punti critici e spunti di riflessione, in Amministr@tivamente, 2, 2022; F. Di Lascio, Le concessioni di spiaggia tra diritti in conflitto e incertezza delle regole, in Dir. Amm., 4, 2022, 1037; A. Giannelli, G. Tropea, Il funzionalismo creativo dell'adunanza plenaria in tema di concessioni demaniali marittime e l’esigenza del katékon, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 5-6, 2021, 723 ss.; M. Gola, Il Consiglio di Stato, l’Europa e le concessioni balneari: si chiude una annosa vicenda o resta ancora aperta?, in Dir. Soc., III, 2021, 401 ss.; M. Matassa, Il Consiglio di Stato “immagina” il nuovo regime giuridico delle concessioni demaniali, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 5-6, 2021, 825 ss.; R. Dipace, All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, in Giustizia Insieme, 15 luglio 2021. Com’è noto, peraltro, la sentenza n. 18/2021 della Plenaria è stata impugnata ex art. 111 Cost. dinanzi alla Corte di Cassazione, sulla scorta di plurimi motivi di gravame, tra cui: illegittimo diniego della giurisdizione (per dichiarata inammissibilità degli interventi spiegati in giudizio da alcune associazioni di categoria e dalla Regione); eccesso di potere giurisdizionale, superamento dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa ed indebito esercizio di poteri legislativi ed amministrativi. Sul punto, è recentemente intervenuta la sentenza 23 novembre 2023, n. 32559 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, accogliendo il primo motivo di ricorso inerente al diniego di giurisdizione e dichiarando assorbiti gli altri.
[34] Cfr. A. Giusti, La fiscalizzazione dell’abuso edilizio, op. cit., 926.
[35] Cfr. capo 4.3.1 in diritto della sentenza n. 17/2020 della Plenaria.
[36] In termini analoghi alla sentenza in commento, si segnala anche Cons. St., Sez. VI, 4 gennaio 2023, n. 136.
[37] Cfr. Cons. St., n. 9243/2023, capi 12.2 e 12.3.
[38] Cfr. Cons. St., n. 9243/2023, capo 12. Infatti, nella sentenza di primo grado (n. 308/2022), il TAR Parma aveva espressamente rilevato che «la distinzione tra “vizi sostanziali” e “vizi procedurali” assume significato nel solo caso in cui il provvedimento ex art. 38 del DPR n. 380/2001 sia motivato con il richiamo all’impossibilità della rimozione dei “vizi delle procedure amministrative” e non anche quando il provvedimento sia motivato (come nel caso di specie) con il richiamo all’impossibilità di procedere alla “restituzione in pristino” degli abusi».
[39] Sul punto, la sentenza in commento ritiene sufficientemente motivati i provvedimenti impugnati, che richiamano i pareri tecnici con cui gli uffici tecnici amministrativi rilevavano che «l’eventuale demolizione della porzione di fabbricato oggetto di abuso può ridurre in modo significativo i livelli di sicurezza per la parte di fabbricato rimanente» (cfr. capo 13.2 della sentenza in commento).
[40] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 4 gennaio 2023, n. 136.
[41] Cfr. capo 13.7 della sentenza in commento.
[42] Alla luce del dato normativo, tale motivata valutazione può (e deve) essenzialmente riguardare due aspetti fondamentali: l’impossibilità della rinnovazione del titolo edilizio ex art. 21 nonies l. 241/1990 (ove non sia possibile e per quali ragioni); il dato tecnico, con precipuo riferimento alle ragioni sostanziali che rendono impossibile la riduzione in pristino.
[43] Aderendo a quanto recentemente sostenuto da Cons. St., Sez. II, 6 dicembre 2023, n. 10589, può definirsi «terzo» il soggetto «titolare di un interesse legittimo ‘oppositivo’, come tale legittimato ad impugnare l’altrui atto ampliativo e, specularmente, controinteressato sostanziale nel giudizio contro l’altrui diniego (o altro atto sanzionatorio-repressivo)», che «vanta una posizione qualificata nella misura in cui invoca l’osservanza di regole preordinate alla protezione (anche) della sua sfera giuridica», deducendo in giudizio «un interesse legittimo uguale e contrario a quello del destinatario dell’atto». Sulla definizione del «terzo», con particolare riferimento alla materia edilizia, si veda anche Cons St., Ad. Pl., 9 dicembre 2021, n. 22, con commento di M.A. Sandulli, La radicata incertezza intorno alla legittimazione a ricorrere in base al criterio della vicinitas, in S. Toschei (a cura di), L'attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2022.
[44] Il vulnus di tutela dei terzi era stato già evidenziato da G. Poli, La cd. fiscalizzazione dell’abuso edilizio nell’art. 38, t.u.e., in Riv. Giur. Edil., 4, 2020, 925.
[45] Diversamente, C. Silvano, La “fiscalizzazione dell’abuso” alla luce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, op. cit., 1262, ritiene che i terzi possano agire nei confronti del «soggetto intestatario del permesso di costruire annullato», al fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti a causa della costruzione illegittima.
Il risiko dei termini e ambiguità sulla disciplina del reclamo avverso gli atti del commissario ad acta nel rito del silenzio (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 8 gennaio 2024, n. 254)
di Andrea Crismani
Sommario: 1. Sulla (in)certezza e (in)stabilità degli effetti giuridici del provvedimento del commissario ad acta nel risikodei termini. 2. Il caso di specie. 3. La fase esecutiva del rito del silenzio, la disciplina e la giurisdizione sul reclamo. 4. La natura del commissario ad acta nel contesto del rito del silenzio. 5. Gli atti del commissario e l’attività. 6. Le ambiguità. 7. Una chiave di lettura.
1. Sulla (in)certezza e (in)stabilità degli effetti giuridici del provvedimento del commissario ad acta nel risikodei termini
Il codice del processo amministrativo non ha espressamente chiarito se la fase esecutiva del rito del silenzio possa equipararsi alla generale azione di ottemperanza prevista dagli artt. 112 e ss. c.p.a. creando nel corso degli anni una serie di posizioni giurisprudenziali “non del tutto univoche”[1] e quindi diverse “con intuitivi effetti anche sul piano della certezza e stabilità degli effetti giuridici discendenti dal provvedimento commissariale”[2].
La questione emerge in sede di eccezioni preliminari di irricevibilità del reclamo avverso gli atti del commissario ad acta nella procedura avverso l’inerzia della pubblica amministrazione, cioè di un non-provvedimento della pubblica amministrazione, per violazione del termine stabilito dall’art. 114, c. 6, c.p.a., che è di sessanta giorni, a fronte invece di chi ha promosso reclamo secondo il rito del silenzio ai cui termini, pertanto, la proposizione del reclamo resta assoggettata, con la conseguenza di risultare tempestiva, atteso il rispetto dei termini decadenziali previsti per il rito ex art. 117 c.p.a.
A fronte di un’eccezione di irricevibilità, si pone il dilemma, che diventa un vero risiko, se nel caso del reclamo continuerebbero ad applicarsi i termini previsti per il rito del silenzio di cui all’art. 31, c. 2, c.p.a. o quelli dimidiati per i riti speciali o i termini di cui all’art. 114, c. 6. La complessa decisione di selezionare i termini appropriati implica un rischio significativo, in quanto una scelta errata potrebbe determinare conseguenze rilevanti. Questo rischio crea non poche ansie per gli operatori del diritto, in particolare gli avvocati, che devono considerare attentamente le implicazioni di ogni scelta.
Da qui scaturisce il dibattito sulla possibile applicabilità per “analogia”[3] del disposto dell’art. 114, c. 6, c.p.a. (analogia che si estende non solo alla forma del rimedio, ma anche al suo termine di impugnazione)[4] oppure perché è “implicita nel disposto del comma 4 dell’art. 117 la disciplina dell’art. 114, c. 4”[5] o ancora perché “è evidente la ratio legis di concentrare in capo al giudice la cognizione di tutte le vicende conseguenti alla pronuncia avverso il silenzio-inadempimento, ivi incluso il sindacato sugli atti commissariali eventualmente emanati”[6].
Quindi il ragionamento seguirebbe il filo logico che la previsione della nomina di un commissario ad acta nel rito del silenzio[7] “presenta somiglianze con il giudizio di ottemperanza”, anch’esso soggetto alla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio, come stabilito dagli artt. 112 e ss c.p.a[8].
Ulteriore ragionamento si rinviene nella considerazione pratica dello scopo dei fautori del Codice che insieme alla giurisprudenza si sono concentrati sull’obiettivo di ridurre i costi legati all’individuazione precisa del giudice competente. Questo è stato fatto cercando strumenti più semplici e chiari per definire le rispettive competenze. L’adozione di un unico procedimento che copra tutti gli atti del commissario nominato dal giudice, sia nel contesto di un giudizio di ottemperanza stricto sensu che in un giudizio sul silenzio, rientra in questa logica. Questo approccio non solo semplifica gli adempimenti richiesti alle parti coinvolte, ma contribuisce anche a rendere l’intero processo più efficiente[9]. Sul punto anche la Plenaria n. 8 del 2021 fa riferimento alla “sussistenza di una disciplina unitaria in tutte le citate ipotesi di nomina giudiziale” e quindi “sia esso un giudizio di ottemperanza, un giudizio sul silenzio ovvero un giudizio cautelare”[10].
L’applicabilità di una disciplina rispetto all’altra sposta, in particolare, i termini per l’esercizio dell’azione ma fa anche emergere in radice una serie di questioni che ruotano attorno alla natura stessa del commissario ad acta, del tipo di attività che il commissario è chiamato a svolgere, la natura degli atti posti in essere, ma anche il tipo di giurisdizione applicato al reclamo. Da qui le ulteriori questioni se in caso di contestazione da parte dell’amministrazione quest’ultima al posto di esercitare il reclamo possa agire in autotutela sugli atti del commissario stesso e, ancora, quale sia la posizione processuale dello stesso. Questioni già affrontate dalla giurisprudenza e sviluppate dalla dottrina, in particolare, in questa Rivista con gli interventi di Scognamiglio[11].
2. Il caso di specie
La questione riguarda il reclamo avverso la decisione assunta dal commissario ad acta nominato nel giudizio avverso l’illegittimo silenzio dell’ASP di Catanzaro, culminato con sentenza Tar Catanzaro sez. I, n. 725/2017 di condanna a concludere, con determinazione espressa, il procedimento di evidenza pubblica avviato nel lontano 14 giugno 2005, relativo all’affidamento in concessione di una Residenza Sanitaria Assistenziale per Anziani. Nello specifico la sentenza dichiarava l’obbligo dell’amministrazione resistente “di assumere una determinazione espressa, sia essa positiva o negativa rispetto all’interesse ad ottenere la stipulazione”, nominando al contempo, “nel caso di persistente inerzia (…) quale Commissario ad acta il Prefetto di Catanzaro, con facoltà di delega ad altro funzionario dell’ufficio, il quale assumerà la relativa decisione entro il termine dei successivi 30 giorni, quale organo straordinario dell’amministrazione”.
Il commissario ad acta, in esecuzione di quanto statuito, ha concluso il procedimento manifestando la sua “determinazione negativa, in ordine alla stipulazione di un contratto per l’affidamento in concessione novennale della gestione della residenza Sanitaria Assistenziale sita nel Comune di San Mango d’Aquino, di proprietà dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro”. In sostanza egli aveva proceduto alla revoca in autotutela degli atti di gara e dell’aggiudicazione, (piuttosto che all’annullamento d’ufficio[12]), in ragione del sostrato motivazionale del provvedimento, dal quale emergono prevalenti ragioni di inopportunità fondate su un ripensamento, anche per effetto delle sopravvenienze verificatesi, dei modi di perseguimento dell’interesse pubblico all’avvio dell’attività della Struttura. Aspetto oggetto di contestazione nel merito della controversia che va a denotare il tipo di attività svolta dal commissario stesso in base alla citata sentenza sull’inerzia che ha ritenuto sussistente “indubbiamente l’inadempimento dell’Amministrazione, che non ha concluso il procedimento di evidenza pubblica” e quindi ha statuito che “deve essere dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di assumere una determinazione espresso, sia essa positiva o negativa rispetto all’interesse ad ottenere la stipulazione”.
Avverso la determina del Commissario ad acta ha proposto reclamo ex art. 114, c. 6, c.p.a. “recte, come poi dalla stessa dichiarato: art. 117, c. 4”, la ATI aggiudicataria della concessione della R.S.A, lamentando violazione del contraddittorio (in particolare sulle ragioni ostative addotte dall’A.S.P. di Catanzaro a proposito della stipula del contratto, sulle quali non avrebbe potuto interloquire) e delle norme sull’autotutela non avendo il Commissario proceduto nelle forme dell’annullamento d’ufficio degli atti di gara. L’ATI ha pure avanzato, in subordine alla richiesta di accertamento del diritto alla stipula del contratto, domanda di risarcimento danni per responsabilità precontrattuale dell’amministrazione.
La A.S.P. di Catanzaro, costituitasi in giudizio, ha eccepito, tra l’altro, l’irricevibilità del reclamo per tardività del deposito ex art. 114, comma 6, c.p.a.[13].
Il Tar adito decideva la causa con la sentenza n. 1541 del 3 settembre 2019 che ha ritenuto infondate le eccezioni preliminari sull’irricevibilità del reclamo in quanto considera “applicabile al reclamo promosso avverso gli atti del commissario ad acta ex art. 117, comma 4, c.p.a., il rito del silenzio inadempimento (Cons. di Stato, Sez. III, 5 marzo 2018, n. 1337), ai cui termini, pertanto, la proposizione del reclamo resta assoggettata, con la conseguenza di risultare tempestiva, atteso il rispetto dei termini decadenziali dimidiati previsti per il rito ex art. 117 c.p.a.”. Inoltre ha argomentato anche sulla sussistenza della “conversione del rito in annullatorio, tenuto pure conto della domanda risarcitoria (Cons. di Stato, Sez. III, n. 1337/2018 cit.)”. Nel merito invece il Tar rigettava le censure rivolte contro la deliberazione commissariale e anche quelle sulla domanda risarcitoria.
La sentenza appellata in via principale dalla ricorrente ATI veniva altresì appellata incidentalmente dall’A.S.P. la quale l’ha ritenuta manifestamente erronea e ingiusta nelle parti in cui ha respinto le eccezioni preliminari di irricevibilità e inammissibilità del reclamo, sollevate in primo grado. Il Consiglio di Stato ha accolto l’appello incidentale e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiarava irricevibile il ricorso di primo grado e improcedibile l’appello principale assumendo la massima che: “Il reclamo, ex art. 114, comma 6, c.p.a., rappresenta lo strumento attraverso il quale le parti, anche in un giudizio incardinato sul silenzio-inadempimento della p.a., possono impugnare gli atti del commissario ad acta, dinanzi allo stesso giudice che ha accolto il ricorso avverso il silenzio. In virtù del combinato disposto con l’articolo 117, comma 4, c.p.a., l’analogia si estende non solo alla forma del rimedio, ma anche al suo termine di impugnazione”[14].
Dalle osservazioni emerse nel paragrafo 1 e dalla ricostruzione della vicenda, emergono questioni che necessitano di un’analisi, anche se sintetica.
3. La fase esecutiva del rito del silenzio, la disciplina e la giurisdizione sul reclamo
Il procedimento del rito del silenzio, com’è noto, si compone di due fasi: una fase di cognizione e una fase di esecuzione, quest’ultima attivata solo se necessario. La fase di cognizione riguarda l’accertamento da parte del giudice della violazione dell’obbligo di adottare un provvedimento e la condanna dell’amministrazione a farlo. È ben possibile nella fattispecie ex art. 31 c. 3, c.p.a. che il giudice stesso possa pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa. Fuori da questi casi vi è la fase (eventuale) di esecuzione che viene attivata nel caso in cui l’amministrazione non adotti il provvedimento entro il termine stabilito dal giudice. Questa fase prevede la nomina di un commissario ad acta, il quale provvede a sostituire l’amministrazione nell’adozione dell’atto, come stabilito dall’articolo 117, c. 3, c.p.a. il quale prevede che “il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente su istanza della parte interessata”. L’esigenza di una supplenza giudiziaria si manifesta quando non vi possa essere un vuoto di tutela giurisdizionale e debba essere assicurata l’effettività della pronuncia.
Nella fase di esecuzione si innesta l’ulteriore fase (eventuale) data dal reclamo avverso gli atti del commissario ad acta, con l’inciso del comma 4 in base al quale “il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario”.
Nel testo del Codice non viene fornita alcuna indicazione riguardo alla procedura di reclamo, avviando così il dibattito sulla disciplina da seguire per i reclami riguardanti gli atti del commissario ad acta all’interno del rito del silenzio. Vi è solamente l’inciso del richiamato comma 4 dell’art. 117 c.p.a., il quale prospetta la possibilità, di impugnare questi atti mediante reclamo al medesimo giudice del rito del silenzio, al pari di quanto accade tra le parti nel giudizio di ottemperanza per l’impugnativa degli atti commissariali ai sensi dell’art. 114, c. 6, c.p.a[15].
Quindi, in base a questa ricostruzione, il reclamo si colloca nella fase del processo esecutivo di ottemperanza e quindi rientra nella giurisdizione di merito.
4. La natura del commissario ad acta nel contesto del rito del silenzio
Oggettivamente, anche a voler sostenere l’analogia della prima parte del comma 6 dell’art. 114 con quella del comma 4 dell’art. 117, la designazione del commissario ad acta presenta aspetti concettuali e operativi distinti a seconda che avvenga nell’ambito del procedimento di ottemperanza o nel contesto del rito del silenzio[16].
Nel caso dell’ottemperanza, il commissario assume il ruolo di mandatario del giudice, incaricato di attuare una decisione già presa dal giudice stesso, con la possibilità per quest’ultimo di esaminare tutte le questioni correlate, conformemente a quanto previsto dal dall’art. 114, c. 6, c.p.a.
Al contrario, nel contesto dell’inerzia, l’organo commissariale è chiamato per la prima volta a pronunciarsi su una richiesta rimasta inevasa, seguendo un ordine giudiziario volto a superare l’inerzia.
Quindi si è dibattuta la natura del commissario ad acta nel contesto del rito del silenzio, chiedendosi se egli agisca come ausiliario del giudice o dell’amministrazione. Mentre nell’ambito dell’ottemperanza è consolidato il ruolo del commissario come ausiliario del giudice[17], nel contesto del rito del silenzio questo ruolo presenta alcune peculiarità che hanno indotto la dottrina e la giurisprudenza ad assumere posizioni di distinzione rispetto alla figura nell’ottemperanza, almeno fino alla Plenaria n. 8 del 2021. La questione sebbene cristallizzata dalla Plenaria stessa in termini di unitarietà di disciplina secondo la quale le soluzioni: “valgono in tutte le ipotesi in cui il processo amministrativo contempla la nomina di un commissario ad acta la quale può essere disposta con la sentenza che definisce il giudizio di merito; in sede di ottemperanza al giudicato; in sede di esecuzione di una pronuncia esecutiva o di una ordinanza cautelare; all’esito del ricorso contro il silenzio”[18] non convince del tutto e non è esente da critiche dalla dottrina molto attenta sul tema[19].
In termini ricostruttivi, si notava che il commissario ad acta nel rito del silenzio disponesse di poteri più ampi rispetto a una semplice sentenza di accertamento dell’obbligo di adottare un provvedimento. Sulla base di questa considerazione il commissario ad acta non fungerebbe propriamente da ausiliario del giudice, bensì assumerebbe un ruolo di ausiliario dell’amministrazione. Ciò avviene poiché il suo compito non è tanto quello di adottare direttamente il provvedimento, dal momento che la sentenza non può sostituirsi all’amministrazione in tal senso, ma piuttosto di impegnarsi affinché siano soddisfatti tutti i requisiti necessari affinché l’amministrazione possa prendere una decisione e quindi avviare l’attività procedimentale e organizzativa come ad es. indire una conferenza di servizi o addivenire ad accordi amministrativi[20].
In situazioni in cui una sentenza impone all’amministrazione l’obbligo di provvedere, il commissario si trova spesso a prendere decisioni senza alcun vincolo sul contenuto sostanziale dell’atto da adottare, a meno che il giudice del silenzio non si sia pronunciato sull’oggetto della pretesa, come previsto dall’articolo 31, c. 3, c.p.a. Il commissario ad acta assume la funzione di redigere l’atto sostitutivo, valutando ogni aspetto, anche discrezionale, come farebbe l’amministrazione stessa.
Nel contesto del giudizio di ottemperanza, invece il vincolo è costituito dall’effetto conformativo del giudicato. Di conseguenza, emerge comunque la differenza dal giudizio di ottemperanza sul punto che non si potrebbe considerare il commissario nell’inerzia come una mera estensione del giudice in quanto egli svolge un’attività di pura sostituzione nell’esercizio del potere proprio dell’amministrazione soccombente. Il collegamento alla pronuncia giudiziale insiste solo per quanto attiene al presupposto della prolungata inerzia dell’amministrazione medesima[21].
Per altro verso, non senza le riserve sopra evidenziate, si ritiene oggi che il commissario ad acta nominato nello speciale rito avverso il silenzio dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 117, c. 3, c.p.a. così come quello nominato in sede di ottemperanza, sia un ausiliario del giudice e non un organo straordinario dell’amministrazione instaurando con l’amministrazione una relazione intersoggettiva e non interorganica[22].
5. Gli atti del commissario e l’attività
Inoltre volendo indagare la posizione processuale del commissario ad acta in base alla tesi del sostituto dell’amministrazione, il commissario agisce come uno degli attori processuali ed è tenuto ad attenersi alle regole applicabili a tali soggetti, comprese le modalità di costituzione in giudizio. Invece se il commissario opera come ausiliario del giudice, è possibile ammettere una certa flessibilità nei mezzi, poiché egli agisce all’interno di un ambito di competenza del giudice stesso[23]. La giurisprudenza sembra preferire questa seconda posizione e nota come l’intervento del commissario ad acta nel processo avverso il silenzio inadempimento non necessiti di un ricorso ma di una semplice istanza[24].
Sulla base di questi ragionamenti la giurisprudenza[25] ha escluso che gli atti adottati dal commissario ad actanominato dal giudice in esito allo speciale giudizio avverso il silenzio-inadempimento della pubblica amministrazione possono essere rimossi in autotutela dall’amministrazione sostituita dal commissario[26]. Gli atti del commissario non sono “geneticamente riconducibili all’ordinario esercizio della potestà amministrativa”, ma conseguono proprio al rilievo giurisdizionale di un illegittimo esercizio di tale potestà o di un’illegittima omissione di tale doveroso esercizio[27].
Oggi la posizione prevalente, confermata anche dalla giurisprudenza commentata, assume che l’istituto del reclamo da attività commissariale, espressamente previsto dal Codice solo in relazione al giudizio di ottemperanza, è applicabile anche per le attività surrogatorie dell’ausiliario del giudice volte a superare il silenzio-rifiuto dell’amministrazione.
Da qui poi si sviluppa il duplice discorso sulla natura “giudiziaria” degli atti, alla stregua degli atti del commissario designato in sede di giudizio di ottemperanza e la questione sul tipo di attività (di valutazione discrezionale o di mero adempimento) che il commissario è chiamato a svolgere nel giudizio di ottemperanza e nel giudizio avverso il silenzio.
Quindi la natura degli atti del commissario ad acta è sempre giudiziale, come nel giudizio di ottemperanza, e si attribuisce la massima estensione allo strumento del reclamo applicandolo a tutti gli atti commissariali, indipendentemente dal loro contenuto, in funzione della natura dell’atto. Tuttavia in caso di terzi estranei al giudicato, gli atti commissariali sono impugnabili secondo il rito ordinario come del resto prevede il 117, c. 6 ultimo periodo. Di conseguenza sul punto però la dottrina ha ritenuto lecito porsi il quesito se dalla duplicità di rimedi possa discendere una duplicità di natura giuridica (amministrativa e giudiziale) degli atti commissariali[28]. La giurisprudenza, oggi minoritaria, ha assunto invece la posizione che l’atto del commissario ad acta va impugnato con l’ordinario ricorso impugnatorio anche dalle parti (e non solo da terzi) e quindi non con il rito camerale del reclamo[29].
Questa teoria poi subisce alcuni temperamenti in quanto vi è l’ulteriore posizione che ammette il reclamo ex art. 117, c. 4, c.p.a., solo quando il giudice risolve gli incidenti di esecuzione strictu sensu intesi, dando direttive e istruzioni per la corretta esplicazione dei compiti del commissario[30].
Vi sono ulteriori estensioni e posizioni che distinguono il tipo di attività svolta dal commissario, discrezionale o vincolata, e quindi anche di trovarsi di fronte a fattispecie di “inadempimento” (inerzia a fronte di attività vincolata) o “rifiuto” (inerzia a fronte di attività discrezionale). In effetti dalla lettura delle sentenze è agevole individuare nel corpo l’espressione concettuale di silenzio-inadempimento e altre volte quella di silenzio-rifiuto; quindi, a rigor di logica, andrebbero indagate le singole pronunce al fine di capire il tipo di inerzia oggetto di trattazione e l’ambito del potere del giudice in considerazione sempre dell’inciso del comma 2 dell’art. 117 che distingue il totale accoglimento dal parziale accoglimento del ricorso.
6. Le ambiguità
Sulla scia di quanto detto va considerata l’ipotesi per la quale, il commissario ad acta è incaricato ad attuare una decisione giudiziale che ha semplicemente accertato l’obbligo di provvedere. In questa circostanza, il commissario valuta autonomamente e sin dall’inizio il merito della questione. In questo contesto, il commissario non andrebbe considerato come una estensione del giudice, bensì organo straordinario dell’amministrazione pubblica.
L’altra ipotesi, inversa, presuppone invece che il commissario ad acta si trovi ad attuare una sentenza del giudice del silenzio che ha riconosciuto fondatezza della pretesa. In questo caso, il commissario trova nella sentenza un’indicazione precisa e vincolante sul contenuto dell’atto da adottare, assumendo un ruolo di ausiliario del giudice e agendo come un organo sostanzialmente giudiziario.
Nel primo caso, gli atti risultano essere provvedimenti amministrativi autonomi, non soggetti all’impugnativa tramite reclamo come previsto dalla normativa in questione. Al contrario, l’impugnativa dovrebbe avvenire secondo le procedure ordinarie.
Nel secondo caso, invece, le parti coinvolte potrebbero contestare l’atto emesso dal commissario qualora non rispetti le disposizioni della sentenza, in conformità con quanto stabilito dall’articolo 117, c. 4[31].
Tuttavia altra giurisprudenza vede nella teoria che sostiene che il commissario ad acta in fase di silenzio abbia una “piena autonomia decisoria” un’incongruenza con il dato testuale dell’art. 117, c. 4, c.p.a. Quest’ultimo prevede che “il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto”, facendo così a opinione di questo filone giurisprudenziale, risaltare come il commissario stesso si muova in un contesto governato dal giudice, che ne indirizza, eventualmente anche in senso contenutistico, l’azione[32].
Su questo gioca il “carattere testuale”, degli artt. 114 e 117 che “parlano, con una uniformità terminologica significativa” di un giudice che “conosce di tutte le questioni”[33].
Tuttavia ancora la dottrina ha rilevato come “l’opzione evidentemente fatta propria dal legislatore non ha però sopito il dibattito intorno alla figura e al ruolo del commissario”[34]. Sul punto la dottrina, in particolare Scognamiglio, evidenzia, come già prima sopra rilevato, che si “configurerebbe il paradosso di un sostituto del giudice che gode rispetto a questo di poteri più ampi” ogniqualvolta “l’azione va oltre l’effetto conformativo della sentenza” e il commissario è chiamato a compiere valutazioni discrezionali “in luogo degli organi (ordinari) dell’amministrazione ogni qualvolta il giudice si sia limitato ad accertare l’inadempimento dell’obbligo di provvedere e ad emettere sentenza di mera condanna”.
7. Una chiave di lettura
La questione, se non affrontata con una soluzione decisiva, persiste nel creare incertezze e cicli giurisprudenziali lesivi dell’effettività e della certezza da cui può diventare difficile uscire. Affrontare, infatti, una questione senza una risoluzione chiara porta inevitabilmente alla creazione di una situazione problematica, in cui dubbi e incertezze si moltiplicano, alimentando una spirale negativa spesso difficile da interrompere. Questo circolo vizioso, una volta instaurato, diventa un labirinto di complicazioni da cui è arduo trovare una via d’uscita. La chiave sta nel riconoscere l’importanza di una posizione che indica la via per evitare l’insorgere di dinamiche contrarie.
Si consideri il potenziale vulnus all’effettività della tutela evidenziato dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento che riforma la sentenza di primo grado la quale prevedeva il regime temporale dell’azione previsto dall’art. 31 c.p.a. in un anno e in alcuni passaggi si richiamava a termini dimidiati, cioè di sei mesi. Termine che appare decisamente incongruo, in quanto estende all’impugnazione di un atto avente indubbio contenuto provvedimentale il regime elaborato dal legislatore per una situazione ontologicamente diversa, ossia per l’azione proposta avverso una inerzia, un non-provvedimento dell’amministrazione, “con intuitivi effetti anche sul piano della certezza e stabilità degli effetti giuridici discendenti dal provvedimento commissariale”, in particolare quando il giudice di primo grado si fa sfuggire, omettendo di indicare il dies ad quem di esperibilità del reclamo e quindi intende far decorrere ex novo il termine annuale dall’atto (commissariale) sopravvenuto, ma non si capisce bene da quando (potendo eventualmente intuire la data della pubblicazione o comunicazione)[35]. Nel contesto dell’incertezza dei termini, l’alto risiko sulla scelta dei termini e quindi del rito assomiglia a una roulette russa, dove ogni scelta rispetto a quella del termine più breve è potenzialmente rischiosa con esiti incerti.
La chiave di lettura, e la soluzione, è data dalla posizione di Scognamiglio sul meccanismo di reclamo previsto dall’art. 117, c. 4. Questo ragionamento mette in evidenza il ruolo del giudice e il controllo (sindacato) sugli atti del commissario ad acta e offre la prospettiva su come il sistema funzioni e su quali siano gli ambiti di intervento del giudice. Sebbene la questione dei termini non sia il fulcro centrale della discussione emerge comunque incidentalmente.
L’art. 117, c. 4. conferisce al giudice la competenza di esaminare “tutte le questioni” relative agli atti del commissario ad acta, estendendo il suo controllo a ogni aspetto dell’atto, inclusa la sua conformità ai principi di buon andamento, legalità e imparzialità. Quindi il “sindacato” menzionato nella norma si riferisce alla capacità del giudice di valutare e controllare gli atti del commissario ad acta. La norma stabilisce che tale controllo è ampio, implicando che il giudice può esaminare non solo la legalità dell’atto, ma anche la sua opportunità, efficacia e correttezza secondo i principi di buon governo. La particolarità di questo meccanismo di reclamo risiede nel fatto che si inserisce in una fase esecutiva o di ottemperanza del processo, ovvero quella fase in cui si attua concretamente quanto deciso in precedenza.
In questa fase, il giudice agisce all’interno della giurisdizione di merito, il che significa che il suo intervento è finalizzato a garantire l’effettiva realizzazione di quanto stabilito nel corso del processo.
In tale contesto il giudice non assume un ruolo sostitutivo o direttivo nei confronti dell’amministrazione o del commissario ad acta prima dell’emanazione dell’atto (ex ante), ma interviene dopo (ex post), valutando l’adeguatezza dell’azione dell’ausiliario (il commissario ad acta) in termini sia di legittimità che di merito. Questo significa che il giudice non dirige l’azione amministrativa prima che essa si realizzi, ma valuta l’operato del commissario ad acta dopo che l’atto è stato compiuto, con la possibilità di attribuire una maggiore ampiezza di poteri in questa fase, rispetto a quelli che avrebbe in un contesto di controllo ex ante[36].
In sintesi, il concetto chiave è che, in sede di reclamo, il giudice dispone di un ampio potere di controllo sugli atti del commissario ad acta, potendo esaminare ogni aspetto dell’atto, sia sotto il profilo della legittimità che del merito, in una fase successiva all’emanazione dell’atto stesso, al fine di garantire il rispetto dei principi fondamentali dell’azione amministrativa.
[1] Cons. St., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335.
[2] Cons. St., sez. III, 8 gennaio 2024, n. 254.
[3] Cons. St., sez. III, 5 marzo 2018, n. 1337.
[4] Cfr. Sentenza in comento n. 254/2022 pt. 11.5.
[5] Cons. St., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335.
[6] Cons. St., sez.. VI, 11 agosto 2020, n. 5006.
[7] Sul tema in ordine sparso se senza pretese di esaustività oltre ai Manuali di: M.A. SANDULLI, Il giudizio amministrativo, Napoli 2024, F.G. SCOCA (a cura di) Giustizia amministrativa, Torino 2023, M. CLARICH, Manuale di giustizia amministrativa, Bologna 2023; E. PICOZZA, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 2016; A. POLICE, Lezioni sul processo amministrativo, Napoli, 2021 si segnala L. BERTONAZZI, Il giudizio sul silenzio, in B. SASSANI – R. VILLATA (a cura di), Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, p. 986 ss.; G. MARI, L’azione avverso il silenzio, in M.A. SANDULLI (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Vol. I, Milano, 2013, p. 250 ss.; A. CIOFFI, Il dovere di provvedere nella legge sull’azione amministrativa, in A. ROMANO (a cura di), L’Azione amministrativa, Torino, 2016, p. 134 ss.; F. SCALIA, Profili problematici del rito sul silenzio dell’amministrazione nella prospettiva dell’effettività e pienezza della tutela, in Federalismi.it, n. 10/2016; G. TROPEA, La domanda cautelare, l’azione di ottemperanza e quella avverso il silenzio nel sistema del codice del processo amministrativo: per un inquadramento sistematico, in https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/195539/nsiga_4641007.pdf/54be7576-04a1-a216-ac73-976f3a9fa7e9?t=1646993082000; R. CHIEPPA, Il danno da ritardo (o da inosservanza dei termini di conclusione del procedimento), in https://www.giustizia-amministrativa.it, 4 aprile 2011. N. DURANTE, I rimedi contro l’inerzia dell’amministrazione: istruzioni per l’uso, con un occhio alla giurisprudenza e l’altro al codice del processo amministrativo, in https://www.giustizia-amministrativa.it, 13 settembre 2010; V. SALAMONE, I riti speciali nel nuovo processo amministrativo, in https://www.giustizia-amministrativa.it, 17 novembre 2010
[8] Per una ricostruzione della letteratura di riferimento si rinvia altresì al lavoro di S. D’ANTONIO, Il Commissario ad acta nel processo amministrativo. Qualificazione dell’organo e regime processuale degli atti, Napoli, 2012.
[9] Cons. St., sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006.
[10] Cons. St., Ad. Plen. 25 maggio 2021 n. 8.
[11] A. SCOGNAMIGLIO, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8), in questa Rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1940-sul-potere-di-provvedere-anche-dopo-la-nomina-del-commissario-ad-acta-nel-giudizio-sul-silenzio-della-p-a-nota-ad-ad-plen-25-05-2021-n-8?hitcount=0, 16 settembre 2021. I.d., Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta, in questa Rivista, 19 gennaio 2021; S. CAREGGI, L’esecuzione della pronuncia silenziosa, in questa Rivista, https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/118-diritto-processo-amministrativo/1199-l-esecuzione-della-pronuncia-silenziosa, 1 luglio 2020; R. FUSCO, Autotutela sugli atti del commissario ad acta nel giudizio avverso il silenzio (nota a Cons Stato, Sez. IV, 18 03 2021, n. 2335), in questa Rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1708-autotutela-sugli-atti-del-commissario-ad-acta-nel-giudizio-avverso-il-silenzio, 3 maggio 2021.
[12] Il TAR qualifica l’impugnata determinazione commissariale alla stregua di “una revoca in autotutela degli atti di gara e dell’aggiudicazione, piuttosto che sub specie di annullamento d’ufficio e ciò in ragione del sostrato motivazionale del provvedimento, dal quale emergono prevalenti ragioni di inopportunità fondate su un ripensamento, anche per effetto delle sopravvenienze verificatesi, dei modi di perseguimento dell’interesse pubblico all’avvio dell’attività della Struttura”. Ritiene che: “a differenza del potere di annullamento d’ufficio, che postula l’illegittimità dell’atto rimosso d’ufficio, quello di revoca esige solo una valutazione di opportunità, seppur ancorata alle condizioni legittimanti dettagliate all’art. 21-quinquies l. cit. (e che, nondimeno, sono descritte con clausole di ampia latitudine semantica), sicché il valido esercizio dello stesso resta rimesso, in buona sostanza, a un apprezzamento ampiamente discrezionale dell’Amministrazione procedente”.
[13] Aveva altresì insistito sull’inammissibilità sul rilievo che la ricorrente non avrebbe interesse all’annullamento della delibera impugnata, non potendo raggiungere lo scopo prefissato mediante l’auspicata sottoscrizione del contratto in ragione dei profondi mutamenti intervenuti, nel corso del tempo, nel quadro normativo, anche regionale, di riferimento.
[14] News Reclamo avverso gli atti del commissario ad acta e termine di impugnazione, in https://www.giustizia-amministrativa.it/-/105486-197.
[15] F. D’ALESSANDRI, Ottemperanza, come si impugnano provvedimenti adottati dal commissario ad acta in sede di rito del silenzio? in il QG, 23 marzo 2018.
[16] Per una ricostruzione della dottrina in generale senza esaustività si rinvia a F.G. SCOCA, Sentenze di ottemperanza e loro appellabilità, in Foro it., 1979, III, p. 4 ss, S. GIACCHETTI, Il giudizio d'ottemperanza nella giurisprudenza del Consiglio di giustizia amministrativa, in Giur. amm. sic., 1988, II, p. 36 ss. e in www.lexitalia.it (par. 6); L. MAZZAROLLI, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, p. 253; M. CLARICH, L’effettività della tutela nell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., n. 3/2018, p. 540.
[17] Sul punto Ad. Plen. 25 maggio 2021, n. 8.
[18] Per una ricostruzione delle teorie si rinvia a R. FUSCO, op. cit. , in questa Rivista.
[19] A. SCOGNAMIGLIO, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8), cit.; S. CAREGGI, L’esecuzione della pronuncia silenziosa, cit.
[20] S.n., Il processo amministrativo alla prova dei fatti: tutela cautelare e riti speciali. Il punto di vista del primo grado e il punto di vista dell’appello, Riti Speciali, in https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/195539/nsiga_4643866.pdf/1c2ea4e3-4e48-70fb-77fc-ed63cff32a41?t=1646993005000
[21] Cons. St., sez. IV, 25 giugno 2007, n. 3602, quest’ultima parla di un’ottemperanza “anomala o speciale” poichè “si prescinde dal passaggio in giudicato della sentenza, e, soprattutto si ammette l’intervento del commissario nell’ambito del medesimo processo, senza più bisogno di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice istanza al giudice che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio” e in quanto l’attività del commissario “può atteggiarsi come attività di pura sostituzione, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione se non per quanto attiene al presupposto dell’accertamento della prolungata inerzia dell’amministrazione”.
[22] Cons. St., sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006 in base alla quale: “È pacifico in giurisprudenza (per tutti, Cons. Stato, IV, 22 ottobre 2019, n.7172) che quando il commissario ad acta è nominato da un’autorità per consentire lo svolgimento delle funzioni dell’ente locale, senza l’indicazione degli specifici atti che deve emanare, la relazione che si instaura con l’ente è di natura interorganica e il provvedimento commissariale va qualificato come atto di un organo straordinario, che può essere rimosso dallo stesso ente locale nell’esercizio dei suoi poteri istituzionali di autotutela. Invece, laddove il commissario è nominato nell’esercizio dei poteri di controllo sostitutivo, per l’adozione di uno specifico atto indicato dall’autorità controllante, la relazione ha carattere intersoggettivo e le statuizioni del commissario possono essere solo impugnate dall’ente locale innanzi al giudice amministrativo. La correttezza di tale ricostruzione appare confermata, in termini di diritto positivo, dall’art. 57 del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia”, dedicato proprio alla “equiparazione del commissario ad acta agli ausiliari del magistrato”, in quanto ivi si è previsto che “al commissario ad acta si applica la disciplina degli ausiliari del magistrato, per l’onorario, le indennità e spese di viaggio e per le spese sostenute per l’adempimento dell’incarico”.
[23] Sul tema in generale: A. IANNOTTA, La natura giuridica del commissario ad acta e il regime di impugnazione dei suoi atti, in I Tribunali amministrativi regionali, 1993, II, p. 414.
[24] Cons. Stato, VI, 9 febbraio 2016, n. 557.
[25] Cons. St., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335
[26] In particolare, la natura intersoggettiva, esclude che l’atto emanato vada imputato all’ente sostituito, impedisce non solo che questo stesso possa rimuoverlo in autotutela, ma anche che all’atto possano applicarsi decadenze e preclusioni derivanti dalle omissioni dello stesso ente inadempiente cfr. Tar Veneto, II, 19 dicembre 2019, n.1379.
[27] L’Amministrazione sostituita, pertanto, non viene indebitamente “espropriata” del potere di autotutela, che, nel caso degli atti commissariali, in radice non le compete, proprio perché il commissario non è un organo straordinario dell’Amministrazione, bensì un organo ausiliario del giudice. Di converso, l’Amministrazione non è privata della facoltà di contestare gli atti commissariali, potendo attivare l’apposito rimedio del reclamo, cfr. Cons. St., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335.
[28] P.M. VIPIANA, L’ottemperanza al giudicato amministrativo fra l’attività del commissario ad acta e quella dell’amministrazione “commissariata”, in Urb. e app., n. 10/2015, p. 1055. Tema sviluppato in questa Rivista da R. Fusco, cit. supra.
[29] Tar Napoli, 17 luglio 2017, n. 3797, sostiene che gli atti di un Commissario ad acta nominato per porre rimedio alla persistente inerzia dell’amministrazione sono impugnabili con l’ordinario ricorso impugnatorio, e non già con lo strumento del reclamo.
[30] Tar Calabria, sez. I, 26/01/2017, n. 82, Cons. Stato Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 338.
[31] Cons. Stato Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 338.
[32] Cons. St., sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006.
[33] Se gli atti del commissario fossero provvedimenti imputabili all’ente, ossia se la sua attività fosse un’azione amministrativa autonoma, unicamente legittimata dal giudice solo per il suo avvio, questa estensione della cognizione del giudice non avrebbe senso: non avrebbe senso in rapporto all’esito finale perché, trattandosi di provvedimento amministrativo, questo sarebbe comunque autonomanente impugnabile senza una previsione esplicita; non avrebbe senso in relazione alle attività precedenti all’emissione del provvedimento, in quanto il giudice si ingerirebbe in poteri amministrativi ancora non esercitati (in violazione dell’art. 34 comma 2 c.p.a.) e, anzi, li connoterebbe, cfr. Cons. St., sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006.
[34] L’opzione evidentemente fatta propria dal legislatore non ha però sopito il dibattito intorno alla figura e al ruolo del commissario. In particolare, e in specie con riferimento all’ipotesi della nomina del commissario in sede di ricorso avverso il silenzio, è restata in campo la tesi secondo la quale si tratta di un organo straordinario dell’amministrazione in quanto egli esercita attività discrezionale in senso proprio; ovvero di un organo misto in quanto assume di volta in volta l’uno o l’altro ruolo a seconda che la sentenza abbia altresì accertato la “fondatezza della pretesa” o abbia un contenuto di mera condanna a provvedere; o ancora di un organo ausiliario del giudice, il quale però pone in essere atti soggetti a reclamo dinanzi al giudice che lo ha nominato ovvero con ricorso ordinario di legittimità a seconda che essi siano si muovano o meno entro il perimetro dell’accertamento svolto in sede di giudizio di cognizione. La tesi dell’organo misto è riproposta anche nella giurisprudenza successiva al codice e fino all’Adunanza Plenaria del 9 maggio 2019, n. 7. Cfr. A. SCOGNAMIGLIO, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8) in questa Rivista, cit. e Stessa A., Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta, in questa Rivista, cit.
[35] Cfr. Sentenza in commento n. 254/2024 pt. 11.8.
[36] Cfr. A. SCOGNAMIGLIO, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. cit.
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