ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La violenza contro le donne, in qualsiasi forma sia declinata, dalla violenza domestica a quella sessuale, dal femminicidio allo stupro di guerra, colpisce tutti, è una cicatrice per le generazioni future, crea disgregazione sociale e rappresenta sempre una ferita indimenticabile per l’intera comunità umana, nazionale o internazionale che sia.
La pandemia ha scoperchiato il calderone bollente della violenza domestica che una normativa nazionale ancora troppo giovane e non sperimentata (1), insieme alle restrizioni imposte dal lockdown, non ha consentito di arginare adeguatamente.
Abbiamo scoperto che nella pandemia di tutti c’era una pandemia occulta che avevamo sempre avuto sotto gli occhi e che aveva fatto della casa, invece che un rifugio contro gli assalti del virus, un inferno in terra.
È stato il primo violento colpo all’Agenda 20/30 che aveva aperto grandi prospettive al raggiungimento, in concreto, del goal n. 5 della parità di genere, obiettivo trasversale che inglobava in sé l’impegno, assunto da gran parte degli Stati, a una lotta concreta contro ogni forma di discriminazione, politica, amministrativa, di leadership ma anche a ogni forma di violenza alla vita, alla sessualità e alla psiche delle donne, imponendo a tal fine regole di politica sociale e di diritto.
Il conflitto russo-ucraino, con le deportazioni di donne e bambini e con gli abusi e le violenze sessuali massificate contro le donne, ha inflitto il secondo colpo .
Ancora una volta, come per la pandemia, un evento del tutto imprevisto, come un conflitto nel cuore dell’Europa, ci ha costretti a riflessioni che già ci erano state offerte sia dalle cronache quotidiane di casa nostra sia dalle guerre, note o dimenticate, in corso o apparentemente cessati (nei territori della ex Jugoslavia, in Siria, Yemen, Sud Sudan, Darfur, Mali, Congo…impossibile citarli tutti), o dalle situazioni di conflitto civile come il Myanmar (ex Birmania) o l’Iran, che dimostrano come il corpo delle donne continui ad essere oggetto di brutale e inarrestabile violenza (2). E che le donne sono ancora protagoniste in negativo, sia nella vita sociale sia nei conflitti, dove la violenza contro le donne è stabilmente utilizzata per annientare un nemico e una comunità e dove la terra da sottomettere è associata alle sue donne da violare. Tanto che viene da chiedersi come si possano indagare a fondo gli eventi bellici e le loro conseguenze senza affrontarne la dimensione sessuale.
La “tematizzazione dell’informazione" (3) ci porta a concentrarci quasi esclusivamente sul conflitto in corso. Ma non possiamo dimenticare le afghane che continuano ad essere assoggettate ad un regime oppressivo che le ha escluse dalla vita pubblica, politica, dal lavoro e dall’istruzione, insomma dalla vita.
Né le donne iraniane il cui grido Donne Vita Libertà è stato se non annientato certamente represso nel sangue, nelle strade, nelle case e nelle carceri dove, dalle poche notizie che filtrano, l’abuso sessuale è, per le donne, la regola ordinaria di punizione prima della pena .
Anche i dati di casa nostra non sono di conforto.
Il trend crescente dei femminicidi è sconcertante. In aumento persino rispetto al 2021, definito un “anno di sangue”, ha raggiunto quota 100 nei primi 9 mesi del 2023, un numero drammaticamente simbolico di un fenomeno che non accenna ad arrestarsi e che è entrato di prepotenza nei nostri Tg, come dimostra il ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, ultima di una lunga lista di nomi che raccontano uno schema sempre uguale.
Affermare come ho letto da qualche parte, non ricordo dove (credo di aver rimosso) che il fenomeno è sempre esistito e che anzi le statistiche ci dicono che gli omicidi in Italia sono complessivamente diminuiti, significa non aver capito che i due fenomeni non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro, perché il femminicidio trova le sue radici nell’odio sessuale che spinge a violare e umiliare un altro corpo, nel senso di proprietà che assimila la donna ad un oggetto e nello stereotipo di genere che impone all’essere umano donna regole, convenzioni comportamentali e in fondo diritti diversi da quelli dell’essere umano uomo.
Il dato delle violenze sessuali, anche di gruppo, non lo è da meno visto che si registra una evidente crescita delle denunce passate dal decremento del 2020 –4497- verosimilmente causato dalla segregazione e dalle difficoltà di accedere alla giustizia, alle 5991 del 2022 (4).
Il fenomeno degli stupri di massa nelle guerre, la pagina più oscura e più oscurata della violenza di genere, pratica costante in tutti i conflitti e che spesso assume i connotati del genocidio, è un argomento solo apparentemente distante perché, come la violenza domestica, la violenza sessuale o il femminicidio, esprime lo stesso meccanismo di disprezzo per la vita e per i diritti umani in generale e per quelli delle donne in particolare (5).
E dunque evidente, com’è stato autorevolmente detto (6), che esiste una linea diretta tra la violenza contro le donne, l’oppressione, che può manifestarsi in ogni luogo, anche tra le mura domestiche o nelle relazioni cosiddette “d’amore” e i conflitti.
Il conflitto israelo-palestinese in corso non si sottrae a questa regola.
Ce lo racconta un’immagine cruda e simbolica anche se risalente (5) che mostra una donna completamente velata stesa a terra con le gambe aperte e con sul petto la scritta “Gaza”. Terra da conquistare, donne da violare.
Anche lì "l’inferno della punizione collettiva” (7) e la caccia all’uomo non risparmia donne e bambini, con violenze e abusi che collidono con il diritto umanitario e con i diritti sanciti per i civili dalla Quarta Convenzione di Ginevra, se è vero, come attestano i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – OIM che conta circa 11 mila morti civili di cui circa la metà bambini tra cui i neonati morti nelle incubatrici rimaste senza elettricità (8). Le madri che piangono i figli non sono solo palestinesi. La violenza contro di loro è trasversale.
Le madri del Women Wage Pace, arabe, israeliane e palestinesi, di religione cristiana, ebraica o musulmana, che, senza bandiere, avevano marciato insieme il 4 ottobre, prima dell’attacco del 7 ottobre, continuano a farlo e chiedono a tutte le donne del mondo di unirsi a loro per fermare la follia della guerra che uccide i loro figli (9) .
È stato detto (10) che così come la sfida morale cruciale dell’800 è stata l’abolizione dello schiavismo e nel '900 la battaglia contro il totalitarismo, l’epocale campagna di civiltà dei secoli a venire sarebbe stata la lotta per l’uguaglianza tra i sessi e la sconfitta della violenza contro le donne.
Anche se il quadro attuale non è confortante…c’è ancora domani(11). Tuttavia sperare in questo domani non deve lasciare inerti.
I campi in cui agire sono tanti. Migliorare la normativa a tutela contro la violenza alle donne con riforme effettivamente migliorative e non di mera bandiera (12) è certamente una strada importante da percorrere con convinzione.
Ma il primo essenziale passo è portare il problema nelle scuole cominciando dalle primarie e a seguire negli altri gradi dell’istruzione.
Educare le nuove generazioni al rispetto e alla valorizzazione delle differenze e della parità di genere in termini di linguaggio, espressioni, atteggiamenti è diventato un’emergenza sociale e strumento essenziale per la prevenzione e il contrasto di episodi sempre più frequenti ed aggressivi di violenza contro le donne. E anche per indagare il punto di vista degli uomini, come ancora non si sta facendo, per capire quali insicurezze, stereotipi e giochi di ruolo si nascondono dietro questi modelli relazionali malati.
Note
(1) Legge 25.7.2019 n. 69 nota come Codice Rosso.
(2) Emanuela Zuccalà, Le guerre delle donne, Prefazione di Emma Bonino. Ed Infinito 2021.
(3) Metodo di organizzazione del flusso dell’informazione e di valorizzazione e di visibilità di una specifica informazione alla quale si intende conferire una posizione dominante. La Comunicazione, dizionario di scienze e tecniche a cura di Franco Lever, Per Cesare Rivoltella e Adriano Zanacchi.
(4) Dati del Ministero dell’Interno - Dipartimento di Polizia Criminale. Non ancora disponibili i dati del 2023.
(5) Stupri di guerra e violenza di genere a cura di Simona Rocca Ed Ediesse.
(6) Antonio Guterres Segretario Generale ONU – Comunicato sulla guerra israelo-palestinese dopo l’attacco del 7 ottobre.
(7) Espressione utilizzata in un articolo del 13.11.2023 – Piattaforma on line Valigia Blu.
(8) Fonte ISPI- Istituto di Studi Politiche Internazionali – 13.11.2023.
(9) Benedetta Perilli – La Repubblica- 23.10.23.
(10) Half of the Sky – Nicholas Fristof e Sheryl Wudunn – Giornalisti- Premi Pulitzer per il giornalismo d’inchiesta - 1990.
(11) C’è ancora domani. Film di Paola Cortellesi. La storia di una violenza domestica sconfitta, almeno per un giorno, dal diritto di votare.
(12) Legge 122/2023.
Guardati, guardati bene. Non quell’osservare fugace, quel correre superficiale sulla pelle di quando ti fai la barba o ti conti le rughe più recenti. Guardati bene, guardati dentro, potresti avere delle sorprese.
Lo so che non sei stato tu, che pensi che chi fa certe cose è uno psicopatico, un reietto della società, uno squilibrato. Tu non lo faresti mai, tu sei innocente.
Forse è vero, non l’hai mai fatto e mai lo farai. Probabilmente chi ti ha educato quando eri un bambino ti ha detto no, con fermo e attento amore. È stata una fortuna quel no, e ora hai gli strumenti per capire qual è la differenza fra l’essere protettivo e l’essere proprietario, fra il rispetto e il possesso, fra un uomo e un bambino viziato.
Ma è sempre utile insinuarti con cura negli interstizi dell’anima: magari non incontrerai una parte nera e inconfessabile, il pensiero buio che presagisce un’azione orribile. Ma potresti trovare la complicità passiva, la testa che si gira dall’altra parte quando dovresti intervenire.
Inizia allora dal no che hai ricevuto: chiediti se sei stato altrettanto fermo e amorevole nel dirlo ai tuoi figli, ai tuoi amici, a tutti quelli che a te si affidano. Comunica quel no: ti è stato dato per tramandarlo, perché la civiltà e i doveri e i diritti non sono altro che un passaparola.
Se non hai mai avuto un no, indaga meglio nelle pieghe più recondite e domandati se ti sei mai sentito proprietario di un’altra persona, se hai mai formulato nel tuo pensiero la frase “la voglio, quindi deve essere mia”, se hai giudicato intollerabile l’abbandono. Questo è il bordo del precipizio: pensare di poterti rapportare a una possibile compagna della tua vita, o anche di un solo occasionale incontro, come se fosse una macchina nuova che vuoi avere o tenere a tuo piacimento, costi quel che costi. Non rapinerai mai la concessionaria che vende l’auto, non prenderai mai con la forza la donna che ti attrae: ma sei a un passo dal desiderio di farlo.
Potresti però non avere l’istinto del possesso, ma semplicemente provare invidia per quella donna che vive la propria felicità senza coinvolgerti e senza condividerla. Invidia della bellezza e dell’intelligenza, delle speranze giovani e delle serenità adulte, in un mondo in cui pensi di stare male perché non fai tuo ciò che gli altri hanno, non appari come gli altri appaiono.
Coltiva allora quel no che ti hanno insegnato o che più tardi ti hanno comunicato, fallo crescere e prosperare anche nella tua vita adulta, senza rinunciare ai sogni e ai desideri ma declinandoli solo con la frase “mi piacerebbe”.
Ma anche se hai ogni buon motivo per autoassolverti, se sei sicuro che mai ti ha sfiorato il pensiero del possesso e dell’invidia, questo non dovrà fermare la tua indagine interiore. Prova a contare quante volte da ragazzo, o anche da adulto, hai espresso con i tuoi amici propositi di conquista solo per fregiarti della vittoria; quante volte hai riso a battute sessiste per essere parte del gruppo; quante volte hai pensato, girandoti da un’altra parte, che la sopraffazione, la violenza anche minima, il controllo possessivo e ossessivo delle vite non fossero affar tuo.
Troverai là la tua colpa: aver pensato che tirandotene fuori avresti potuto sempre dire “io non l’ho fatto, io non lo farei mai”. Affinché non ci faccia provare vergogna ciò che tu vedi allo specchio, che io vedo nel mio specchio, non basta star fermi: si deve agire, una buona volta, aiutando e proteggendo chi ha bisogno, mettendoci alla pari con i desideri altrui.
Dicendo sempre a noi stessi e agli altri quel benedetto no, con fermo e attento amore.
* in copertina Egon Schiele, Autoritratto con camicia rigata, 1910
di Mario Serio
Sommario: 1. Il complesso sfondo delle vicende migratorie in una prospettiva globale - 2. La vicenda sottoposta all'esame della giustizia inglese - 3. Il giudizio davanti alla Supreme Court - 3.1. La rilevanza delle questioni dedotte - 3.2. Le dimensioni dell’intervento della Supreme Court - 3.3. Il quadro normativo nazionale ed internazionale - 3.4. Le questioni devolute alla cognizione della Supreme Court - 3.5. Le conclusioni della Supreme Court e la ratio decidendi della Sentenza - 4. Tratti conclusivi.
L'intensità e la frequenza dei flussi migratori globali ormai da tempo interpella il mondo politico e quello giuridico che si trovano, così, alla ricerca di misure che rendano, almeno nelle intenzioni, compatibili i fondamentali principii via via elaborati dal diritto internazionale, pattizio e consuetudinario, e dagli ordinamenti sovranazionali e nazionali con le esigenze in concreto manifestate dai singoli Stati. Si assiste, pertanto, alla proliferazione di soluzioni adottate a livello interno o negoziale interstatale le quali sempre più spesso sono sottoposte a rigorose e doverose verifiche giudiziali al fine, appunto, di controllare l'effettiva realizzazione del non semplice obiettivo di compatibilità prima ricordato: solo da tale positivo riscontro è possibile, infatti, affermare la legittimità di tali soluzioni. Il problema è certamente noto anche in Italia. Questa circostanza conferisce ancor maggiore interesse ad accadimenti che si sono di recente verificati in altri paesi ed hanno costituito oggetto di rilevanti interventi giurisprudenziali.
È il caso della severa ed ampiamente motivata pronuncia resa all'unanimità il 15 novembre 2023 dalla Supreme Court del Regno Unito a proposito dell'accordo dell'aprile 2022 tra il governo inglese e quello del Ruanda in materia di trattamento dei richiedenti asilo trasferiti dal territorio del primo a quello del secondo.
1. Il complesso sfondo delle vicende migratorie in una prospettiva globale
La complessità, che si manifesta anche sotto forma di varietà spesso irriducibile ad unità, delle concrete situazioni, spaziali, climatiche, politiche, istituzionali che fanno capo alle persone in tutto il mondo è spesso la causa induttiva dei loro movimenti migratori alla ricerca di nuove e migliori condizioni che rendano le loro vite degne di essere vissute [1]. Si tratta di un contesto drammatico nel quale si collocano insieme vite umane, orientamenti politici, questioni giuridiche: la loro composizione riesce molto frequentemente ardua e combattuta. Avviene, così, che le soluzioni escogitate per la gestione dei movimenti nello spazio di consistenti gruppi di espatriati desiderosi di guardare per necessità ad altri angoli del pianeta auspicabilmente meno amari vengano perseguite mediante accordi negoziali tra due stati diretti ad assicurare, mediante sistemi di riconoscimento di costi rimborsabili e compensi, la ricollocazione di persone arrivate nel territorio del primo, generalmente più vasto ed economicamente sviluppato, in quello del secondo, generalmente privo di questi attributi.
Non mancano, tuttavia, esempi in cui il coordinamento tra i fattori inizialmente descritti, talora in vicendevole conflitto, avviene applicando la necessaria e soddisfacente ricerca dei criteri che più incisivamente lascino svettare la dignità della persona in virtù dei numerosi strumenti che la pluralità degli ordinamenti, nazionali, internazionali, transnazionali, è in grado di offrire. In altri termini, è il primato dei principii e delle regole giuridiche il mezzo più sicuro per governare fenomeni presenti su larga scala e con caratteristiche che di per sé possono suscitare divisioni e contrasti. Naturalmente, il ricorso alla via del diritto, di quel diritto che protegga il valore della persona, va effettuato con sapiente rigore in vista del reperimento degli strumenti adatti a risolvere i problemi connessi alla materia del trasferimento di esseri umani dal territorio di origine ad altri.
Un ottimo esempio di equilibrata ed attenta considerazione delle circostanze che circondavano un accordo intervenuto tra i governi del Regno Unito e del Ruanda in materia di richieste d'asilo è certamente costituito dalla sentenza resa lo scorso 15 novembre dalla UK Supreme Court [2] sul ricorso originariamente proposto davanti la Divisional Court della High Court da un gruppo di richiedenti asilo, in prevalenza medio-orientali, contro la decisione del governo inglese di giudicare inammissibili le loro richieste e di ricollocazione in Ruanda in esecuzione del citato accordo tra i due paesi della primavera del 2022.
2. La vicenda sottoposta all'esame della giustizia inglese
La controversia culminata nella sentenza della Supreme Court, che nel giro di alcuni mesi soltanto ha percorso tutti e tre i gradi di giudizio, nasce dall'azione proposta da alcuni cittadini stranieri che mirava alla dichiarazione di illegittimità, ed al conseguente annullamento, di una serie di provvedimenti dell'amministrazione britannica dell'interno (Home Office), che aveva dichiarato inammissibili le loro richieste di asilo e disposto al contempo la ricollocazione degli stessi in Ruanda in forza di un accordo del 13 aprile 2022 stipulato tra il governo inglese e quello del Ruanda denominato Migration and Economic Development Partnership (MEDP), integrato da un Memorandum of Understanding (MOU) e da due Note Verbali diplomatiche. La ragione della dichiarazione di inammissibilità della richiesta d'asilo era individuata nelle disposizioni comprese tra i paragrafi 345 A e D del regolamento in materia di immigrazioni (Immigration Rules), adottato in conformità all'Immigration Act del 1971. Tali disposizioni prevedono che le richieste di asilo vengano dichiarate inammissibili allorquando il loro autore avrebbe potuto rivolgerle ad un paese terzo sicuro ma non l'abbia fatto. In tal caso è nel potere dell'amministrazione provvedere al trasferimento della persona interessata ad un paese terzo sicuro che sia disposto ad accoglierla. In particolare, il paragrafo 345 B esige, ai fini della definizione di un paese terzo come sicuro (Safe third country), che lo stesso rispetti il principio di “non respingimento” (non refoulement) previsto dalla Convenzione ONU del 1951 sullo status di rifugiato (Convention on the status of refugees), integrata dal Protocollo del 1967. Esso implica il divieto di respingimento, diretto o indiretto, dei richiedenti asilo verso un paese in cui la loro vita o la loro libertà possa essere minacciata a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un determinato gruppo sociale, delle opinioni politiche; analogamente nel caso in cui i richiedenti corrano un rischio effettivo di essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. Sulla base delle assicurazioni che il governo inglese aveva ricevuto da quello ruandese circa l'effettivo rispetto del divieto di respingimento appena illustrato il primo stabilì che il suo interlocutore rientrasse nella categoria dei paesi terzi sicuri e dispose in conseguenza il trasferimento nello stato africano dei richiedenti asilo la cui domanda era stata dichiarata inammissibile nel presupposto che avrebbe potuto essere formulata nei confronti di un paese terzo sicuro, quale il Ruanda, rispettoso del divieto in parola.
Su queste basi i cittadini stranieri, vistisi dichiarare inammissibili le richieste di asilo, percorsero la via giudiziaria davanti la Divisional Court [3] al congiunto fine di ottenere la dichiarazione di illegittimità delle politiche migratorie del Ruanda in quanto contrarie al diritto internazionale consuetudinario e pattizio nonché della decisione del governo inglese di trasferirli nello stato africano.
Al procedimento intervenne l'Alto Commissario per i rifugiati dell'ONU (UNHCR) depositando documenti e rapporti concernenti proprio le politiche migratorie del Ruanda accertate anche alla luce di recenti esperienze.
Con sentenza del 19 dicembre 2022 [4] la Divisional Court dichiarò che in linea di principio l'intera sequenza dell'accordo tra i due governi, dal suo sorgere fino alla fase esecutiva del trasferimento dei richiedenti asilo, non presentava profili di illegittimità; tuttavia furono riscontrate delle irregolarità formali in taluni dei singoli provvedimenti con conseguente rinvio degli atti alle autorità di provenienza per il riesame.
Su impugnazione degli originari ricorrenti la Court of Appeal, con una lungamente argomentata pronuncia a maggioranza del 29 giugno 2023 [5], dichiarò, in riforma della sentenza gravata, l'illegittimità della politica migratoria del Ruanda in quanto, alla stregua del materiale probatorio raccolto dalla Divisional Court, sussistevano solide ragioni per ritenere che vi fossero concreti rischi di un esame inappropriato delle domande di asilo da parte delle autorità di quel paese. Ciò comportava l'ulteriore, concreto rischio del respingimento e la connessa conseguenza che, in difetto della modificazione di tale politica, il trasferimento in Ruanda dei richiedenti asilo in Ruanda, avrebbe causato la violazione dell'articolo 6 dello Human Rights Act del 1998 inglese, traspositivo dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani che proibisce la tortura ed ogni trattamento inumano e degradante. Fu, al contrario respinta la tesi degli appellanti secondo cui nella fattispecie si sarebbe verificata anche la violazione della parte del diritto comunitario ancora in vigore nel Regno Unito (retained EU law) e segnatamente della direttiva 2005/85 che fissa gli standard minimi da applicare nei procedimenti relativi al conferimento ed alla revoca dello status di rifugiato in quanto, a differenza da quanto richiesto dagli articoli 25 e 27 [6] nessuno dei richiedenti asilo presentava alcun collegamento con il Ruanda.
La sentenza è stata impugnata dal governo inglese in via principale con riguardo alla statuizione dell'illegittimità della politica migratoria del Ruanda ed alle conseguenze ricadenti sull'accordo dell'aprile 2022. Anche i cittadini stranieri hanno impugnato la sentenza in via incidentale per quanto attiene al diniego di violazione del diritto comunitario.
La stessa Court of Appeal ha autorizzato il ricorso di tutte le parti davanti la Supreme Court in considerazione della rilevanza delle questioni sollevate.
3. Il giudizio davanti alla Supreme Court
3.1. La rilevanza delle questioni dedotte
Del tutto fondata si rivela l'opinione espressa dalla Court of Appeal circa la rilevanza delle questioni scaturenti dalla fattispecie che ha giustificato il fatto di investire la Supreme Court. Proprio il giudizio che quest'ultima ha formulato si rivela per la ricchezza e profondità degli argomenti sviluppati e, in special modo, per l'atteggiamento di apertura mentale che da esso traspare, consente di affermare che ci si trova dinanzi ad un'autentica pietra miliare della civiltà giuridica ad un livello globale, corrispondente all'estensione globale dei temi trattati. Molteplici sono gli aspetti che consentono di attribuire a quello in esame la patente di documento giudiziario fondativo di un promettente ordine concettuale da cui certamente trarrà ulteriore ed esemplare beneficio il dibattito sui rapporti trilaterali tra l'esercizio della libertà migratoria, gli interventi legislativi ed amministrativi nazionali (in ineliminabile e coerente rapporto con la normativa di derivazione internazionale e transnazionale), il conseguente ed altrettanto ineliminabile momento di controllo giurisdizionale. Ed infatti, come si vedrà, il tema centrale della sentenza della Supreme Court è stato proprio quello indirizzato alla chiara delimitazione della possibile area di intervento giudiziario sui provvedimenti amministrativi di diretta incidenza nella sfera delle libertà personali dei migranti richiedenti asilo. E la Corte di ultima istanza ha dissentito in modo profondo e sistematico dall'atteggiamento minimalistico e formalistico adottato dalla Divisional Court, auto-relegatasi ad un compito di semplice verifica della legittimità estrinseca degli atti di governo, così rinunciando alla più estesa e penetrante opera di sindacato dell'intrinseca razionalità e conformità al complesso apparato normativo di varia derivazione dei provvedimenti impugnati: attività diligentemente ed accuratamente posta in essere proprio dai supremi giudici inglesi attraverso ragionamenti certamente candidati a divenire prezioso modello da imitare ed esportare. Ed ancora, la sentenza ribalta la conservativa impostazione della Divisional Court per ciò che attiene alle fonti probatorie utilizzabili in procedimenti nei quali si controverta sugli indici sintomatici della legittimità dell'azione amministrativa ed include in termini molto netti atti ed indagini esterne alla giurisdizione domestica ma saldamente poste nel circuito istituzionale internazionale quale l'alto commissariato per i rifugiati istituito presso le nazioni unite. Ancora una volta esce sconfitto un modello di controllo giurisdizionale che sacrifica la cruda e drammatica effettività dei fenomeni giudici sottoposti al vaglio di legittimità/legalità al timido rispetto dei soli sintomi esterni di apprezzamento dei provvedimenti del potere esecutivo. Lungo la medesima linea la Supreme Court ha proceduto allorquando ha spinto il proprio esame anche al versante della compatibilità, con il sistema internazionalmente costruito della protezione dei richiedenti asilo, del complessivo aspetto istituzionale-economico-politico del paese ricevente (nella fattispecie il Ruanda), così ampliando il proprio sguardo. Questo è stato lasciato spaziare dall'accertamento del contenuto dell'accordo tra paese inviante e paese di destinazione alla verifica in concreto delle modalità di relativa esecuzione da parte di quest'ultimo. Ed infine, la pronuncia di ultimo grado ha il merito, spendibile anche in funzione didascalica, della ricognizione e del collegamento tra le plurime fonti, di rango e derivazione differente, operanti sul terreno della disciplina dei flussi migratori.
3.2. Le dimensioni dell’intervento della Supreme Court
Ciò premesso in punto di prospettazione del taglio generale e connotativo della sentenza, va anticipato che essa ha all'unanimità (con un'opinione redatta congiuntamente dal Presidente Lord Reed e da Lord Lloyd Jones, cui tutti gli altri 3 giudici hanno senza riserve aderito) rigettato il ricorso dell'amministrazione britannica dell'interno nonché, per ragioni di successione di leggi nel tempo conseguenti alla fuoriuscita del Regno Unito dall'Unione Europea, quello incidentale dei richiedenti asilo.
Va adesso seguito in maniera precisa l'articolato itinerario di pensiero della Supreme Court perché solo attraverso la sua razionale consequenzialità possono cogliersene significato ed effetti.
La Supreme Court ha immediatamente chiarito le dimensioni del proprio intervento, sottolineando che il suo esclusivo oggetto è quello di valutare l'intrinseca legittimità delle politiche migratorie adottate dal Ruanda in esecuzione dell'accordo con il governo inglese nonché dell'idoneità di questo a soddisfare i requisiti imposti dall'ordinamento internazionale in termini cogenti, pattizi, spontanei. Altrettanto limpido e rassicurante è il messaggio iniziale, di dichiarato rifiuto di ingresso a qualsiasi giudizio di natura politica e di rigetto di ogni possibile interpretazione in chiave politica della propria decisione [7]: avvertenza assolutamente insolita per una corte inglese di giustizia, evidentemente resa necessaria dall'incandescenza della discussione condotta sul delicato e divisivo tema che non improbabilmente risente degli accenti che in altri evoluti ordinamenti dell'occidente del continente europeo sono esplosi a riguardo di provvedimenti ed orientamenti giurisprudenziali di impatto sulla (discutibile ortodossia della) disciplina dei fenomeni migratori.
Il perno della controversia riguarda, in ultima e sintetica analisi, l'osservanza nell'accordo negoziale tra i governi del Regno Unito e del Ruanda, del fondamentale principio di non respingimento, noto nella comunità internazionale come del non-refoulement. La declinazione di tale principio è stata in primo luogo effettuata sulla falsariga delle già sommariamente richiamate disposizioni interne [8] le quali, nel definire la nozione di paese terzo sicuro cui poter inviare richiedenti asilo, pongono i seguenti requisiti, necessariamente oggetto di riscontro giudiziale: a) che la vita e la libertà del richiedente asilo non sia minacciata, nel paese terzo, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un determinato gruppo sociale o dell'espressione di opinioni politiche; b) che venga rispettato nel paese terzo il principio del non-refoulement in conformità alla convenzione ONU sui rifugiati del 1951; c) che nel paese terzo venga rispettato il divieto di trasferimento ad altro paese e non venga violato il diritto di libertà dalla tortura e da trattamenti crudeli, inumani e degradanti sancito dal diritto internazionale; d) che ai richiedenti asilo venga riconosciuto dal paese terzo il diritto ad ottenere lo status di rifugiato e, nel caso di accertamento di tale condizione, a ricevere protezione in conformità alla Convenzione del 1951.
Nella declamata cornice di queste regole il governo inglese stipulò con quello ruandese nell'aprile 2022 il Migration and Development Partnership (MEDP), integrato da un Memorandum of Understanding (MOU) e da due note verbali diplomatiche riguardanti il procedimento di asilo di singoli richiedenti e l'accoglienza e l'alloggio dei richiedenti asilo trasferiti nello stato ricevente: di entrambi i documenti la Supreme Court nega la riconducibilità a fonti di diritto internazionale. Ai sensi del paragrafo 9 del MOU il governo del Ruanda ha assunto l'impegno “a trattare ogni richiedente asilo, e a gestire il relativo procedimento, in conformità alla Convenzione sui rifugiati, alle norme interne in materia di immigrazione, ai criteri internazionale ed interni, incluse le norme internazionali ed interne in materia di diritti umani nonché, ma non in maniera tale da escludere l'applicazione di altre norme, quelle rivolte ad assicurare protezione dai trattamenti inumani e degradanti ed a proibire il refoulement”, ossia il respingimento verso paesi terzi non sicuri. All'interno del Memorandum era anche inserita una previsione [9] secondo cui il governo ruandese avrebbe potuto trasferire in un paese in cui avessero diritto di risiedere i richiedenti asilo ai quali fosse negata la condizione di rifugiato e che fossero privi della necessità di protezione o di base giuridica per permanere in quel paese.
3.3. Il quadro normativo nazionale ed internazionale
Così descritto il tessuto negoziale su cui si fonda l'accordo dell'aprile 2022 la sentenza esplora nitidamente il campo delle plurime disposizioni ad esso applicabili. In primo luogo, annovera l'art.33 (1) della Convenzione sui rifugiati del 1951 che vieta ad ogni stato contraente di espellere o respingere in qualunque forma un rifugiato verso le frontiere di paesi in cui la vita o la libertà di questo sarebbero messe in pericolo a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un determinato gruppo sociale o delle opinioni politiche. Questa fondamentale disposizione è già stata interpretata estensivamente dalla giurisprudenza inglese nel senso di impedire non soltanto il trasferimento diretto verso un paese terzo nel quale il rifugiato possa temere di essere perseguitato ma anche quello indiretto attuato attraverso un paese terzo di transito [10]. In materie rilevanti ai fini della soluzione del caso in questione l'ONU è intervenuta con The United Nations International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR) del 1966, accordo cui aderirono 173 stati, che riafferma il principio dell'obbligatorietà per le parti stipulanti del rispetto del divieto di respingimento di richiedenti asilo verso paese che presentino i rischi paventati dalla Convenzione del 1951. Principio analogo fu espresso dalla United Nations Convention against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment del 1984 (UNCAT) che vieta agli stati aderenti l'espulsione, il respingimento o l'estradizione verso stati nei quali sia concreto il rischio che la persona possa essere soggetta a tortura.
Il diritto convenzionale europeo risultante dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani del 1950 a propria volta vieta all'articolo 3 l'espulsione di richiedenti asilo verso paesi nei quali possano affrontare il pericolo di respingimento diretto o indiretto verso il paese d'origine [11]. E la giurisprudenza di Strasburgo si è mostrata preoccupata di porre al centro della propria indagine in merito all'esatta applicazione dell'articolo 3 appena citato la possibilità per il richiedente asilo di accedere a una adeguata procedura nel paese terzo ricevente [12].
Di grande rilievo è la circostanza che l'articolo 6 dello Human Rights Act inglese del 1998 abbia espressamente e letteralmente recepito l'articolo 3 della CEDU.
La Supreme Court ha per completezza osservato che il principio del non-refoulement concorre alla formazione del diritto internazionale consuetudinario, così vincolando tutti gli stati. Ed infatti, la Dichiarazione degli stati contraenti della Convenzione del 1951 ed aderenti al collegato Protocollo del 1967 sottoscritta nel 2001 [13] racchiude nel suo quarto “considerando” premesso al Preambolo il riconoscimento della continua rilevanza e resistenza del regime internazionale dei diritti e dei principi relativi alla protezione dei rifugiati, “incluso quello basilare del non-refoulement inglobato nel diritto internazionale consuetudinario. Questo importante riconoscimento rende il principio ius cogens per tutti gli stati della comunità internazionale e contribuisce, quindi, a disegnarne il peso vincolante anche per il Regno Unito. Tale ordinamento ha, a propria volta, posto in essere coerenti ed univoche misure normative sempre facenti perno sul principio del non-refoulement. In questo filone trova spazio, ad esempio, la sezione 2 dell'Asylum and Immigration Appeals Act del 1993 che dispone nel senso che nessuna delle disposizioni contenute nelle Immigration Rules, corollario dell'Immigration Act del 1971 possa ammettere pratiche contrarie alla Convenzione del 1951. Analogamente, la sezione 82 (1) del Nationality, Immigration and Asylum Act del 2002, in combinato disposto con la successiva sezione 82(2), conferisce ai richiedenti asilo la facoltà di appellare le decisioni governative che si pongano in contrasto con la Convenzione ONU, con il logicamente incluso inglobamento del divieto di respingimento. Ed infine, il paragrafo 17 dell'allegato 3 all'Asylum and Immigration (Treatment of claimants) Act del 2004, consente al segretario di Stato di certificare che il paese terzo cui inviare un richiedente asilo possa definirsi “sicuro” solo laddove la sua vita e la sua libertà non siano messe a repentaglio per ragioni razziali, religiose, politiche o di appartenenza ad un determinato gruppo sociale.
Sulla scorta del quadro normativo così individuato, la sentenza procede all'esame delle questioni devolute alla sua cognizione (di una soltanto delle quali, quella relativa al ricorso incidentale fondato su una norma comunitaria non più in vigore dopo il 31 dicembre 2020 [14], e, pertanto, rigettato non è necessario in questa sede occuparsi).
3.4. Le questioni devolute alla cognizione della Supreme Court
Non considerando adesso, per le ragioni spiegate in chiusura del paragrafo precedente, l'oggetto del ricorso incidentale, la Supreme Court ha concentrato la propria attenzione sulla questione basilare attorno alla quale ruota la propria sentenza, ossia l'effettiva osservanza nella fattispecie del cardine dell'intero sistema planetario di trattamento dei richiedenti asilo, il non-refoulement principle. Per pervenire alla decisione sul punto, che in realtà investiva l'intera materia sviluppata nel ricorso del governo inglese contro la pronuncia per sé negativa della Court of Appeal, i giudici supremi suddividono in tre sotto-temi, di cui si andrà fornendo illustrazione, la complessiva materia, sapendovi dare una risposta unitaria ed armoniosa.
Si è già preannunciato che il vero obiettivo della pronuncia è stato quello di rispondere alle censure sollevate dal governo contro la decisione di secondo grado ponendola costantemente a raffronto, in termini di aderenza ad un idoneo percorso argomentativo ed al nugolo dei poteri esercitabili in materia dall'autorità giudiziaria, con quella della Divisional Court che aveva, al contrario, sancito la legittimità dell'operato del governativo e, per diretta e meccanica conseguenza, quella del sistema operante in Ruanda in materia di protezione dei rifugiati richiedenti asilo.
Ed invero, il primo quesito cui la Supreme Court si è assegnata il compito di dare risposta è stato quello sull'esattezza del metodo utilizzato in primo grado, e rovesciato in appello, di accertamento dell'esistenza del rischio del respingimento dei richiedenti asilo da parte del Ruanda.
Seguendo un ormai consolidato approccio sistematico alla definizione del proprio ufficio decisorio, ed in sostanza assolvendo la propria funzione al tempo stesso nomofilattica e di sindacato costituzionale e, più in particolare interpretando nel modo più proficuo il proprio ruolo di garante della rule of law, epicentro del Constitutional Act del 2005, la sentenza fissa il modello di riferimento cui ancorarsi. E lo individua, a dimostrazione del proprio incontaminato animo europeista in senso lato, in una sentenza della Corte EDU in un caso di estradizione del 1989 che riguardava proprio il Regno Unito [15]. La regula iuris consacrata fu che il dovere degli stati contraenti, nascente dal citato articolo 3 della Convenzione del 1950, di non sottoporre alcuno a tortura o a trattamenti inumani e degradanti si accompagna al correlato obbligo di non trasferimento verso stati rispetto ai quali si presentino fondate ragioni per ritenere attuale e concreto il rischio che ivi si pratichino maltrattamenti.
Del massimo interesse sul piano del legal reasoning è la conseguenza che la Supreme Court trae da quella che, provenendo dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, ben si assesta tra i precetti di diritto positivo. Ed infatti, i giudici supremi rinvengono nel caso Soering un sicuro elemento che giustifica l'affermazione secondo cui il test da applicare per verificare l'effettiva osservanza del principio proibitivo dei respingimenti di richiedenti asilo non può che essere quello, ignorato dalla Divisional Court e, all'opposto fatto giustamente proprio dalla Court of Appeal, che impone al Giudice di appurare e decidere direttamente e sulla base di un proprio, autonomo metro di giudizio se la fattispecie esibisca dati concreti che consentano di affermare che il trasferimento del richiedente asilo dal Regno Unito ad un altro stato (nella specie il Ruanda) esponga la persona ad un reale rischio di maltrattamenti. Viene ulteriormente affermata l'assoluta insufficienza al riguardo del metodo che aveva indotto i primi giudici ad assolvere l'operato governativo da ogni ombra sospetta di illegittimità, ovvero l'esistenza di assicurazioni dallo stesso fornite, ed a propria volta frutto di garanzie puramente verbali date dal governo del Ruanda, circa la conformità al diritto internazionale delle politiche in materia di immigrazione praticate in quel paese. Resta, così, platealmente bocciato l'atteggiamento remissivo e rinunciatario della Divisional Court, tenutasi prudentemente ai margini del merito della questione centrale vertente sull'assenza o presenza di rischi concreti circa il rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo. Severa è la censura rivolta ai primi giudici, cui si è imputato di essersi accontentati di valutare la ragionevolezza del giudizio governativo classificatorio del Ruanda come paese terzo sicuro e di aver abdicato alla propria inerente prerogativa di ergersi a giudice dei duri fatti e non solo degli atti ufficiali. È il metodo di giudizio a costituire il vizio motivazionale che intacca la prima sentenza, pronunciata in carenza assoluta di un controllo giudiziale intrinseco dell'effettivo rispetto del principio del non-refoulement. E, come si vedrà, la Supreme Court non si è sottratta all'impresa, omogenea rispetto al principio di diritto enunciato, di desumere dall'ampio materiale probatorio a disposizione le ragioni di un convincimento contrario alla legittimità dell'intera operazione di delocalizzazione umana senza particolari scrupoli giuridici realizzata dal governo britannico. La automatica conclusione è stata quella di ratifica del contrario e corretto atteggiamento assunto dalla Court of Appeal, assuntasi la responsabilità di dire la propria parola sulla presenza del rischio della violazione della Convenzione ONU del 1951 insito nell'accordo con il Ruanda.
Il secondo sotto-tema, derivante dalla questione essenziale relativa alla stretta osservanza, nell'intero accordo negoziale, del principio proibitivo del respingimento, consiste nel giudicare della correttezza della riforma, da parte della Court of Appeal, della statuizione principale della Divisional Court. La risposta positiva è in misura chiarissima il logico effetto del ragionamento appena illustrato.
Alla critica di fondo imperniata sulla concezione riduttiva dell'intervento giudiziale se ne aggiunge altra non meno abrasiva, rivolta a sottolineare la povertà del metodo adibito alla valutazione delle risultanze probatorie in atti. Lacuna, questa, a propria volta traente origine dalla trascurata valorizzazione dell'orientamento della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo in uno specifico passaggio della sentenza Ilias c.Ungheria del 2019. In esso il giudice europeo indica in modo stentoreo i criteri ai quali è tenuto ad attenersi lo stato contraente che intenda trasferire ad uno stato terzo i richiedenti asilo che si trovino nel proprio territorio. Sul primo stato incombe il dovere di esaminare approfonditamente la questione della sussistenza di un rischio effettivo che lo stato terzo ricevente possa negare accesso ai richiedenti asilo ad una procedura adeguata che li protegga dal grave pericolo del respingimento. E tale esame deve essere compiuto mediante la scrupolosa analisi delle modalità di funzionamento in concreto, nel paese terzo ricevente, del sistema di riconoscimento del diritto di asilo, tenendo conto delle eventuali carenze segnalate da organismi internazionali quali l'alto commissariato dell'ONU per i rifugiati ed avendo, altresì, riguardo a tutte le circostanze rilevanti note al momento. Questa osservazione fa giustizia del duplice errore addebitato dalla Supreme Court ai giudici di primo grado. Questi, infatti, non avrebbero, innanzitutto, potuto accontentarsi delle assicurazioni date dal governo ruandese a quello britannico circa l'effettivo rispetto dei divieti derivanti dalla Convenzione del 1951 in materia di respingimento. Ancora una volta è la giurisprudenza di Strasburgo il faro che orienta il ragionamento della Supreme Court. Ed infatti, in una sentenza del 2015 [16] la Corte EDU affermò che il peso da attribuire alle assicurazioni dello stato ricevente dipende volta per volta dalle circostanze concrete, così escludendone il valore assoluto. Indirizzo confermato da una sentenza del 2021 del medesimo organo giudicante inglese, ossia la Supreme Court [17], che sottolineò la necessità che i giudici chiamati a pronunciarsi su una richiesta di estradizione delibino accuratamente la sufficienza delle garanzie dello stato richiedente l'estradizione circa l'insussistenza di rischi di maltrattamenti alla luce di tutte le specifiche circostanze del caso e senza alcun automatismo. A questa stregua si è rivelato erroneo e carente il ragionamento seguito dalla Divisional Court che omise di considerare la concreta situazione del Ruanda con riguardo a lacune di sistema riscontrabili negli organi competenti ed alle procedure utilizzate per decidere sulle domande di asilo. Ancor più manchevole ed apodittico è apparso agli occhi della Supreme Court il passaggio motivazionale di primo grado fondato sul credito accordato, al fine di asseverare le assicurazioni del governo ruandese, alla competenza ed all'esperienza degli incaricati del governo inglese chiamati a pronunciarsi su di esse. E ciò perché non può essere delegato ad altri organi il giudizio, proprio della corte giudicante, circa l'insussistenza del concreto rischio della violazione del non-refoulement principle. Viene a questo proposito richiamato un caso-guida venuto all'esame della House of Lords nel 2001 [18] che, con l'opinione di Lord Hoffmann, affermò che, nell'ipotesi in cui la deportazione di un cittadino straniero in un altro paese comporti il rischio che gli vengano inflitte torture, è cedevole anche l'interesse inglese alla propria sicurezza nazionale ed è necessario che il governo metta in campo soluzioni alternative al trasferimento all'estero.
Il secondo, altrettanto decisivo nell'economia della ratio decidendi della Supreme Court, errore commesso dalla Divisional Court ed analiticamente censurato anche dalla Court of Appeal è caduto sulla sostanziale pretermissione dei più significativi ed inequivocabili elementi probatori presenti in atti che cospiravano a favore della conclusione che le concrete circostanze lasciavano con certezza emergere la presenza del rischio reale che il trasferimento dal Regno Unito al Ruanda di cittadini richiedenti asilo si sarebbe risolto nell'inosservanza del divieto di respingimento. Con acribia la Supreme Court effettua l'elenco di tali elementi, in larga parte tratti da rapporti dell'UNHCR [19] ed altrettanto largamente trascurati dalla Divisional Court, qui di seguito sommariamente riportati. Innanzitutto, in un recente passato il governo ruandese aveva mancato di adempiere le assicurazioni date a quello israeliano in relazione ad un accordo per il trasferimento dal secondo al primo di richiedenti asilo. Vi è poi un’esperienza molto allarmante di casi di respingimenti compiuti in violazione del diritto internazionale da parte del governo ruandese nonché di gravi manchevolezze nel sistema di amministrazione delle domande di asilo rivelatosi privo di garanzie circa l'adozione di decisioni motivate a livello governativo: d'altra parte, non vi è evidenza di un solo caso di ricorso giurisdizionale contro una decisione di rigetto delle domande d'asilo. Ad aggravare le omissioni appena ricordate è stato l'atteggiamento sprezzante dei primi giudici verso la preziosa opera informativa dell'UNHCR, sistematicamente ignorata ed altezzosamente sottovalutata in quanto priva di un particolare peso (“carries no special weight”). L'atteggiamento è stato pesantemente criticato dalla Supreme Court che, oltre a ricordare l'importanza delle circostanze di cui i rapporti dell'organismo danno conto, ha voluto corrispondere un tributo al ruolo da esso svolto, definito da un precedente della stessa Supreme Court come il “titolare di un ufficio rispettato a livello internazionale e detentore di elevati livelli di conoscenza e competenza che eccedono quelli di cui ordinariamente è dotata una corte di giustizia” [20]: sotto questo profilo è stato reputato ammissibile l'intervento in giudizio (una sorta di amicus curiae) dell'UNHCR, teso a riaffermare il principio per cui i richiedenti asilo hanno il diritto di vedere esaminate le proprie domande nel territorio dello stato in cui approdano o di quello che abbia giurisdizione nei loro confronti.
La somma di questi motivi ha portato la Supreme Court a concludere, quanto al secondo profilo del motivo principale di ricorso, che non meritava censure la decisione della Court of Appeal, la quale, come detto, aveva riformato quella di primo grado, autrice della serie di errori censurati.
Il terzo profilo del fondamentale tema incentrato sul rischio che i richiedenti asilo trasferiti in Ruanda potessero veder violato il non-refoulement principle ha riguardo alla esattezza della statuizione della Court of Appeal, di riforma di quella della Divisional Court che aveva escluso l'esistenza di fondati motivi per ritenere la sussistenza di tale rischio. Le osservazioni precedenti in punto di criteri di giudizio e di sostanza probatoria orientano ancora una volta in senso affermativo la risposta volta a confermare la correttezza della sentenza di secondo grado impugnata dal governo inglese.
Ulteriori e probanti elementi vengono portati a suffragio della tesi dell'alto grado di pericolo di attentato ai diritti umani dei richiedenti asilo nel caso di trasferimento in Ruanda. Si ricorda, a tal proposito, che la recente esperienza dimostra che il Ruanda è stato teatro di spaventosi periodi di violenza, solo in parte superati da successivi progressi in campo economico e sociale. Tuttavia, la corte non giudica questi ultimi idonei a superare il negativo impatto dei precedenti. Viene sottolineato che curiosamente era stata la stessa Divisional Court, seppur in diversa composizione, a definire in un caso del 2017 [21] il Ruanda come un paese che “ha istigato, in tempi molto recenti, omicidi politici, inducendo la polizia inglese ad avvertire cittadini ruandesi abitanti nel Regno Unito dell'esistenza di piani credibili, messi in opera dal governo, per ucciderli”. È anche accertato ormai che il Ruanda mantiene sì una politica di porte aperte nei confronti di rifugiati provenienti da paesi in cui alti sono i conflitti civili (quali la Repubblica democratica del Congo e la Repubblica del Burundi) senza, tuttavia, di norma definire positivamente le domande di asilo. È altrettanto noto, come fatto risaltare nella prima citata sentenza del 2017 della Divisional Court, il timore di una scarsa indipendenza del potere giudiziario (nonché, perfino, dell'avvocatura) da quello esecutivo: il che mette a repentaglio la possibilità di un vaglio autonomo in sede giurisdizionale delle domande di asilo respinte nella fase amministrativa. Le statistiche dimostrano che in tale fase si è registrato il 100% di rigetti delle domande. Ed ancora, i rapporti dell'alto commissariato danno contezza di prassi di refoulement adottate nel paese, tanto da aver indotto uno dei giudici di maggioranza della Court of Appeal, Underhill, a descrivere, nella migliore delle ipotesi, come insufficiente la cultura del rispetto, da parte delle autorità governative ruandesi competenti in materia di immigrazione [22], degli obblighi internazionalmente assunti: mentre, nella peggiore delle ipotesi quella politica viene definita come improntata al deliberato disprezzo verso tali obblighi. Né, al momento della sottoscrizione dell'accordo o in epoca successiva, l'autorità governativa inglese si è in alcun modo curata di indagare circa le prassi di respingimento vigenti nel paese dell'altro contraente, come criticamente messo in rilievo in un inascoltato rapporto stilato da un'autorità indipendente inglese, l'Independent Advisory Group on Country Information (IAGCI) [23]. Si desume, altresì, dai rapporti dell'UNHCR l'assoluta mancanza di preparazione professionale dei funzionari statali incaricati di trattare le pratiche di asilo: ciò che fa temere che non sia possibile modificare, almeno nel breve periodo, le prassi del passato. Né, si osserva dalla Supreme Court, i funzionari del governo inglese sembrano essersi minimamente curati, prima di esprimersi sull'incipiente accordo, di verificare se l'analogo accordo stipulato con Israele avesse dato luogo-come in effetti era avvenuto-a patenti violazioni della Convenzione del 1951 a causa del mancato rispetto dei diritti dei richiedenti asilo.
3.5. Le conclusioni della Supreme Court e la ratio decidendi della Sentenza
Al termine di una minuziosissima analisi delle circostanze emergenti dall'imponente compendio probatorio le conclusioni cui perviene la Supreme Court si fondono in modo coeso e danno vita ad una convincente e congrua ratio decidendi. Questa gira, dall'inizio alla fine della lunga sentenza, attorno al presupposto basilare ai fini della decisione del caso, ossia il pieno potere-dovere dell'autorità giudiziaria inglese di sottoporre a stringente scrutinio l'attività posta in essere dagli organi del potere esecutivo nella doverosa prospettiva di verificarne rispondenza e coerenza con i principii fondamentali consegnati da norme internazionali ed interne, nonché dallo stesso common law inteso nella sua origine e formazione giurisprudenziale. In questo completo rovesciamento dell'ottica dalla quale guardare al caso risiede il completo rigetto dell'ingiustificata autolimitazione impostasi dalla Divisional Court, solo attenta al controllo esteriore e formale della legittimità dei provvedimenti in discussione. Questo atteggiamento contraddittorio rispetto alla pienezza della propria funzione ha condotto i giudici di primo grado ad ergere a piattaforma di valutazione della legittimità dei provvedimenti impugnati, non la ricca ed obiettiva evidenza probatoria sgorgante dagli atti ma, la semplice messe di interessate assicurazioni fornite dal governo del Ruanda (a favore del quale, come sostegno finanziario dell'accordo era stata stanziata dal governo inglese per il 2022 l'ingente somma di 140 milioni di sterline) circa la compatibilità del proprio sistema istituzionale considerato nel suo complesso con gli obblighi internazionali in materia di diritti umani e di divieto di respingimento implicati dalla gravità del caso. Ancora una volta è netta e radicale la cesura rispetto a questa posizione tanto della Court of Appeal a maggioranza quanto della Supreme Court all'unanimità, pronunciatesi concordemente nel senso della ineludibile esigenza di esaminare ogni elemento acquisito al processo onde giudicare del thema decidendum. E questo era unicamente costituito non dalla esistenza della buona fede del governo ruandese nel concludere l'accordo ma dalla sua obiettiva-tale perché deducibile da dati obiettivi-capacità di adempiere le obbligazioni assunte, prima e fondamentale tra esse quella di rispettare il divieto di respingimento. La ponderata valutazione delle circostanze, condotta senza aprioristici dinieghi di rilevanza ad alcuna fonte di conoscenza, ha portato a ritenere che sia ancora inadeguata la percezione in Ruanda dell'efficacia cogente ed inderogabile di principii fondamentali stabiliti dalla Convenzione ONU del 1951, quale quello del non-refoulement. È risultata altrettanto chiara la necessità, avallata dallo sbrigativo trattamento di rifugiati richiedenti asilo medio-orientali ed afghani, che rimarchevoli modifiche di sistema vengano apportate prima che si possa nutrire fiducia nell'osservanza incondizionata di tali principii. Non poteva, pertanto, concepirsi conclusione diversa da quella fatta propria dalla Supreme Court secondo cui sono affiorati rilevanti e fondati motivi per ritenere che ricorra un reale rischio che le istanze dei richiedenti asilo possano non essere decise in Ruanda in modo appropriato e che essi possano essere esposti al rischio di essere respinti, in forma diretta o indiretta, verso i loro paesi d'origine nei quali concreto è il pericolo della sottoposizione a trattamenti vietati dalle norme internazionali.
4. Tratti conclusivi
Il terreno delle considerazioni finali è sparso di argomenti eterogenei ma non per questo inadatti a restituire l'immagine di un filo conduttore comune al discorso fin qui svolto.
Il tema dei flussi migratori, per la sua incidenza globale e per la sensibilità nei suoi confronti mostrata in ogni parte del mondo ampiamente dimostrata dal mondo politico-istituzionale, ha frequentemente aguzzato la fantasia dei decisori nazionali sbrigliandola in direzioni spesso avventurose ed immeditate come il caso inglese, tutt'altro che unico in Europa, prova. L'accentramento di decisioni così delicate nelle mani del solo potere esecutivo trascurando l'interlocuzione parlamentare (è proprio il caso inglese a lasciar auspicare che diverso debba essere il percorso da seguire in casi di accordi internazionali di siffatta portata), oltre a menomare la possibilità di un controllo pubblico diffuso sull'attività del governo, aumenta in modo rimarchevole la possibilità di dar luogo ad istruttorie affrettate, superficiali, carenti (imperdonabili appaiono, nel modo in cui sono state stigmatizzate dalla Supreme Court, ad esempio, le mancate indagini da parte dei funzionari governativi circa i comportamenti tenuti dal Ruanda in occasione di precedenti accordi e sullo stato generale delle garanzie democratiche indipendentemente dalle auto-certificazioni). Altra spia della cautela che avrebbe dovuto circondare l'intera operazione poi cassata dalla Supreme Court andava individuata nella disparità di consistenza economica dei due paesi contraenti, destinata ad incrementare il desiderio di concludere ad ogni costo l'accordo da parte del paese più debole in vista del corrispettivo conseguibile.
Ma insieme a questi messaggi che suggeriscono grande prudenza e ponderazione nel trattare la materia dei diritti dei migranti e le connesse obbligazioni degli stati operanti nello scenario internazionale non è difficile cogliere note rosee ed incoraggianti.
Invero, ove, seppur soltanto per (sterile) esercizio dialettico, dovesse dubitarsi dell'esistenza di un robustissimo telaio costituzionale nel diritto inglese, a dispetto della consolidata formazione di una inviolabile costituzione materiale, la vicenda cui è dedicata la presente ricerca presterebbe uno strumento potente ed incontrovertibile di rassicurazione. Ed infatti, volendo, e forse dovendo, elevare la vicenda stessa ad un piano conformativo e descrittivo dei caratteri dell'ordinamento inglese, viene da considerare che la sentenza della Supreme Court costituisce la più limpida e persuasiva esemplificazione e spiegazione della tanto spesso invocata (non sempre e non da tutti con pieno controllo concettuale) rule of law. Essa, epitome delle molteplici forme di manifestazione dello stato di diritto ordinatamente articolato secondo la divisione dei poteri, vive e si incarna nell'esempio fornito dall'esercizio quotidiano dei poteri stessi e dal loro coordinamento. Dicevano che, nell'impedire la sopraffazione di uno ad opera dell'altro, al contempo esige che ciascuno si esplichi senza timori o costrizioni in modo pieno. Ed è, pertanto, un segnale di vitalità di uno stato di diritto che il potere giudiziario non si lasci imprigionare dall'utilitaristica tentazione del quieto vivere e rinunci alle proprie funzioni di custode e promotore, attraverso l'espressione delle proprie decisioni, della legalità. E ciò anche a costo di esibire con motivata pronuncia l'illegittimità dell'agire governativo. In questo senso l'esempio che proviene da una indomita Supreme Court potrebbe sperabilmente rivelarsi contagioso e capace di valicare i confini nazionali.
[1] Sul carattere fondamentale ed antico del diritto di emigrare v.Ferrajoli, Crisi del diritto e dei diritti nell'età della globalizzazione in Questione Giustizia del 20 novembre 2023. Il testo riproduce l'intervento svolto dall'Autore al XXIV congresso di Magistratura Democratica, svoltosi a Napoli tra il 9 e l'11 novembre 2023.
[2] (2023) UKSC 42.
[3] Organo in composizione collegiale della High Court competente, tra l'altro, in materia di impugnazione, attraverso lo speciale procedimento della judicial review di atti e provvedimenti dell'autorità amministrativa.
[4] (2022) EWHC 320 (Admin.).
[5] (2023) EWCA Civ 745.
[6] Le due norme consentono il trasferimento dei richiedenti asilo in un paese terzo sicuro nella sola ipotesi della ricorrenza di un collegamento degli stessi con tale paese.
[7] Vale la pena riportare nel testo originale il passaggio per la sua forza persuasiva: “The court is not concerned with the political debate surrounding the policy, and nothing in this judgment should be regarded as supporting or opposing any political view of the issues”.
[8] Paragrafo 345 B delle Immigration Rules del 2016 emanate in omaggio alla previsione dell'Immigration Act 1971.
[9] Paragrafo 10.4.
[10] R v Secretary of State for the Home Department, Ex p Bugdaycay (1987) AC 532.
[11] Principio applicato dalla Corte EDU nel caso MSS c Belgio e Grecia del 2011 relativo al trasferimento di un richiedente asilo verso un paese in cui era transitato.
[12] Ilias v Hungary del 2019.
[13] Declaration of States Parties to the 1951 Convention and/or its 1967 Protocol Relating to the Status of Refugees (documento ONU 2001/09).
[14] In virtù delle previsioni del paragrafo 6 (1) dell'allegato 1 all'Immigration and Social Security Co-ordination (EU Wirhdrawal) Act 2020, caparbiamente propugnato dal governo di Boris Johnson in attuazione del procedimento conseguente al voto referendario del 23 giugno 2016.
[15] Soering c Regno Unito (1989).
[16] Othman c. Regno Unito. Il caso riguardava la deportazione in Giordania di un cittadino richiedente asilo nel Regno Unito e la sufficienza delle garanzie fornite dal paese di destinazione in ordine all'assenza di concreti rischi di maltrattamenti.
[17] Zabolotnyi v la Mateszalka District Court, Hungary (2021) UKSC 14 attinente alla sufficienza delle garanzie offerte dal governo ungherese ricevente sull'inesistenza del concreto rischio che l'estradizione del ricorrente non lo avrebbe esposto a maltrattamenti. È notevole il fatto che redattore della sentenza fu Lord Lloyd Jones, co-estensore con Lord Reed, di quella qui commentata.
[18] Secretary of State for the Home Department v Rehman (2001) UKHL 47. Il principio, illustrato nel testo, fu poi seguito dalla Supreme Court 20 anni dopo in R (Begum) v Special Immigration Appeals Commission (2021) UKSC 7. La sentenza resa in quest'ultimo caso, in cui si riaffermava l'infungibilità della valutazione giudiziale in ordine alla possibile violazione da parte dell'autorità governativa degli obblighi internazionalmente assunti in base all'articolo 6 dello Human Rights Act 1998 (che traspose nel diritto inglese il divieto di tortura sancito dall'articolo 3 della CEDU), fu redatta da Lord Reed, coestensore di quella odierna.
[19] La stessa Supreme Court ha riconosciuto quanto considerevolmente autorevoli siano i rapporti dell'alto Commissariato ONU definiti unici ed ineguagliabili nel caso IA (Iran) v Secretary of State for the Home department (2014) UKSC 6.
[20] Così si espresse, citando le parole usate nel primo grado di quel procedimento dal giudice Sedley, Lord Kerr in R (EM(Eritrea) v Secretary of State for the Home Department (2014) UKSC 12.
[21] Government of Rwanda v Nteziryayo (2017) 191 EWHC (Admin).
[22] Il Directorate General of Immigration and Emigration in Rwanda (DGIE)
[23] In tale rapporto sono menzionate le numerose falle registrate nel sistema amministrativo, di cui viene denunciata la mancanza di trasparenza, che regola le procedure per l'esame delle domande di asilo.
Recensione di Ilaria Buonaguro
Sulle colline di Tivoli, alla fine di un sentiero sterrato, incastonata fra gli alberi di ulivo c’è una casa di pietra. Lì, dopo la “curva del regresso” che costringeva il treno a vapore ad arrancare e a tornare verso Roma e che, oggi, altro non è che un’ennesima curva in salita da vincere scalando la marcia e facendo fare qualche giro in più al motore.
Una casa che è crocevia di storie diverse, ma che parlano tutte la lingua comune della solitudine. Ed è rifugio per chi passa e per chi resta. Per chi passa - Irene, fotografa romana trentottenne cresciuta in una famiglia algida del quartiere Prati, alimentando il gusto di negare soddisfazioni alla madre e imparando a sfuggire l’amore. Per chi resta - Adelia, una donna italo-portoghese di settant’anni che in quella casa, ereditata dal nonno materno, ha dato inizio a una nuova vita. E Osias, un ragazzo congolese diciannovenne arrivato in Italia grazie ad un’organizzazione umanitaria, con un futuro tutto da costruire rincorrendo sogni e stelle studiando astrofisica, eppure col ricordo ancora vivido della morte negli occhi e nel cuore. E che condivide con Adelia quella casa, perché un giorno, nel Villaggio dove Adelia lavorava e Osias era un groviglio di silenzi in un mare di dolori taciuti, l’empatia dei loro sguardi li ha uniti più del sangue.
Nella torrida estate del 2007 il desiderio di accoglienza di Adelia, il bisogno di affetto di Osias e l’esigenza di scappare di Irene si attraggono come poli opposti di un magnete. Istinti primordiali che agiscono come forze di un determinismo perfetto, dando vita ad un incontro che Adelia, Osias e Irene sanno riconoscere e trasformare in qualcosa di nuovo e di più grande.
Le storie dei tre protagonisti, narrate alternativamente in prima o in terza persona, prendono corpo attraverso prospettive diverse, intervallate da una voce “fuori campo” che, insinuandosi tra i capitoli, segue l’incedere del romanzo e dialoga talvolta con i personaggi, talvolta con il lettore, altre volte con lo scrittore stesso, instaurando rapporti diretti che trascendono il foglio di carta.
In quel luogo isolato, lontano da Roma tanto basta per vederla accendersi di luci all’orizzonte quando cala la sera, le resistenze di Irene scemano di giorno in giorno, tra l’esuberanza di Adelia e la presenza discreta di Osias, sottofondo di fado portoghesi e profumo, avvolgente, di biscotti allo zenzero appena sfornati.
Il rito di ritrovarsi ogni sera attorno allo stesso tavolo fa il resto, creando un’intimità familiare capace di abbattere le ultime fragili barriere. Attraverso la condivisione del proprio vissuto, Adelia, Osias e Irene si spogliano finalmente del proprio dolore, scoprendosi meno soli e trovando il coraggio di affrontare le proprie incertezze e le proprie paure.
In quella calda sera di luglio le fiamme - che hanno segnato traumaticamente il trascorso dei tre protagonisti - tornano a bruciare, ma questa volta con un significato diverso. Il fuoco che divampa non è più distruzione e fine, ma metafora di catarsi e cambiamento. E la fuga a cui costringe insieme Adelia, Osias e Irene non è più solo istinto di sopravvivenza ma slancio verso un futuro finalmente libero dalle ombre troppo lunghe di un passato ingombrante.
Attraverso una scrittura intima ma ritmata, l’autrice di Icarezenzero ci ricorda l’importanza e il senso profondo degli incontri, incastri di vite che il destino ci propone continuamente, ma il cui significato e valore sta a noi saper cogliere e saper alimentare. Per poter acquisire nuove consapevolezze, per far nascere un legame, per riuscire a lasciarsi il passato alle spalle e trovare la forza di cambiare. Per scrivere, ancora, l’inizio di una nuova storia.
(Silvia Filippi, Icarezenzero, Pluriversum Edizioni, Ferrara, 2022).
di Raffaello Belli
Sommario: 1. L’“accomodamento ragionevole” - 1.1. L’“accomodamento” - 1.1.1 Società vivibile per tutti - 1.2. L’“accomodamento ragionevole" e l’assistenza personale - 1.3. L’onere sproporzionato o eccessivo - 1.3.1. L’onere sproporzionato o eccessivo nella Convenzione - 1.3.2. La legge n. 67 del 2006 - 2. Le “risorse disponibili” - 2.1. Una sfida concreta - 3. La “vita indipendente” - 4. Il “progetto di vita individuale” - 4.1. Non prendersi in giro - 5. Alcune altre questioni - 5.1. Il Garante - 5.2. Il “modello sociale della disabilità” - 5.3. Revisioni delle prestazioni - 5.4. La “presa in carico” - 6. Conclusioni.
4. Il “progetto di vita individuale”
Nella Legge n. 227 qui in esame, per “consentire” ai disabili di non essere discriminati e vivere le libertà, di fatto viene accantonata la “vita indipendente” e ben altro spazio viene dato al “progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato”.
Rispetto alla normativa preesistente, in quella riguardante il “progetto di vita individuale” di passi in avanti c’è che viene stabilito di “prevedere che sia garantita comunque l'attuazione del progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato, al variare del contesto territoriale e di vita della persona con disabilità, mediante le risorse umane e strumentali di rispettiva competenza degli enti locali e delle regioni ai sensi della normativa vigente”[77]. Ovvero, se un disabile cambia zona di residenza, non deve più ricominciare tutto daccapo con i “servizi sociali” come accade attualmente e accadrà fino a quando non ci saranno i decreti attuativi di questa legge.
E non è per niente negativo neppure il fatto che nella Legge n. 227 sia prevista la partecipazione alla determinazione del “progetto di vita” anche da parte dei disabili gravissimi[78]. Però sarebbe davvero inammissibile se ai gravissimi non venisse consentita nemmeno la partecipazione alla determinazione del proprio “progetto di vita”. E il fatto che si sia ritenuto necessario introdurre una norma per garantire tale partecipazione è indicativo dei rischi che corre chi è costretto a rivolgersi ai servizi sociali.
Si rileva poi che in questa Legge n. 227 per un disabile viene stabilito che è indispensabile fare il “progetto individuale”, mentre la “vita indipendente” è solo una possibilità subordinata. Cioè, il “progetto individuale” va fatto in ogni caso, poi si vedrà se in tale progetto rientra o meno la “vita indipendente”. Viceversa, fra l’altro, la Convenzione dell'Onu sui disabili e la Costituzione italiana tutelano rispettivamente, in maniera esplicita o implicita, la “vita indipendente” e non prevedono il “progetto di vita”.
Per di più “progetto individuale” non vuole affatto dire “progetto autodeterminato”: nella Legge n. 227 qui in esame viene infatti stabilito chiaramente che questo progetto deve sì tener conto delle specifiche esigenze del singolo disabile, ma viene fatto dai servizi sociali con la partecipazione del disabile.
In vari punti di questa Legge risulta chiaro che il “progetto di vita” non è fatto dalla persona disabile stessa. Fra l’altro viene stabilito di “prevedere [...] assicuri […] con la partecipazione della persona con disabilità [...] l'elaborazione di un progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato”[79]. E l’immediatamente successivo punto 5) stabilisce di "prevedere che il progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato sia diretto a realizzare gli obiettivi della persona con disabilità secondo i suoi desideri, le sue aspettative e le sue scelte". Cioè la persona con disabilità è parte terza rispetto all’estensore del progetto.
In relazione al “partecipato” riportato qui sopra, per esigenze di lunghezza non è qui possibile esaminare ogni dettaglio di quanto stabilito sulla capacità legale dall’art. 12 della Convenzione dell'Onu sui disabili cit. E, tanto meno, è possibile esaminare in dettaglio il “Commento Generale”, relativo a tale articolo, scritto dal Comitato dell’Onu cit.
Poiché l’essere titolari dei diritti fondamentali si risolve in una scatola vuota se per il soggetto non è possibile decidere liberamente tutto quanto riguarda il loro concreto esercizio, dell’art. 12 cit. vanno comunque accennate almeno alcune parole, da tener ben presenti anche per altre questioni che verranno esaminate più avanti in questo scritto. In base a tale art. 12 della Convenzione, lo Stato deve fornire il “sostegno” al disabile per quanto riguarda l’esercizio delle decisioni riguardanti la propria vita, e quindi il disabile non “partecipa” (come stabilisce la Legge n. 227), ma rimane il soggetto che prende tali decisioni, ovvero è il soggetto da sostenere. Si badi poi bene che, sempre secondo l’art. 12 cit., gli Stati devono fornire ai disabili “il sostegno […] di cui dovessero necessitare”. Cioè a dire che, secondo questa disposizione, ovvero a seguito della parola “dovessero”, il fatto che i disabili abbiano necessità di essere aiutati per le decisioni riguardanti la propria vita è solo un’eventualità.
E pure da parte del Comitato cit. si ribadisce che deve trattarsi di “sostegno”[80] e viene stabilito che è talmente essenziale che il disabile sia il protagonista di tutto ciò che lo riguarda che tale “sostegno” deve essere fornito pienamente anche se richiede un onere sproporzionato[81].
Viceversa, con quel “partecipato”, la Legge n. 227 stabilisce che nessun disabile fa da sé il proprio “progetto di vita”. Inoltre tale “sostegno” deve essere scevro da ogni conflitto di interesse e da ogni influenza indebita[82]. Viceversa, secondo la Legge n. 227, il disabile “partecipa” alla formazione del “progetto” insieme a più persone (quindi in posizione numericamente molto minoritaria), che sono quelle che poi prenderanno la decisione finale sul finanziamento del “progetto”, quindi il disabile “partecipa”, se non altro, soggetto a “influenze”.
Infine, ma non meno importante, l’operato di quelle persone (senza qui approfondire se si tratta di equipe o altro), così come è imposto di fatto dalla Legge n. 227, ma attenendosi a quanto stabilito dall’art. 12 della Convenzione cit., deve essere sottoposto “a periodica revisione da parte di un’autorità competente, indipendente ed imparziale o di un organo giudiziario”. Invece questo non è previsto dalla Legge italiana.
Ben diversa è la situazione per chi non viene costretto a vivere da disabile. Infatti la singola persona normodotata, qualora decida di fare un “progetto di vita”, lo fa da sé o con i propri conviventi o familiari o con chi vuole lei, con la piena titolarità della propria autodeterminazione e della propria privacy. Ed è proprio anche per evitare ogni discriminazione che, secondo il Comitato dell’Onu cit., la persona disabile deve essere sempre il centro decisionale di ogni aspetto riguardante la propria assistenza personale tanto da poter decidere in ogni caso “liberamente il proprio grado di controllo personale sull'erogazione”[83].
Viceversa, con la Legge in esame, per quanto riguarda i disabili gravi, la titolarità del “progetto di vita” viene spostata ai servizi sociali, il che è una gravissima discriminazione. Infatti il disabile può solo partecipare alla stesura del progetto, quindi viene meno anche la sua piena autodeterminazione, pure in spregio della “vita indipendente”. In tal modo non c’è neppure la privacy per i disabili, la quale, non va dimenticato, è un diritto fondamentale e inviolabile. E l’inviolabilità di questo diritto deriva in larga misura dal fatto che, senza privacy, in concreto c’è meno, e talvolta nessuna, libertà di esercitare i propri diritti fondamentali, che quindi, in concreto, diventano violabili. In definitiva, già sotto questi primi profili, il “progetto di vita”, come viene imposto da questa Legge, in concreto per i disabili significa un livello di autodeterminazione molto inferiore a quello garantito alle persone normodotate e questa è una grave discriminazione.
Si osservi poi che questa Legge dispone di "dare attuazione al progetto medesimo, stabilendo ipotesi in cui lo stesso, in tutto o in parte, possa essere autogestito"[84]. E ancora "ferma restando la facoltà di autogestione del progetto da parte della persona con disabilità"[85]. Cioè a dire che nella Legge n. 227 cit., con le parole “ipotesi” e “facoltà", l’autogestione della propria vita da parte della persona disabile in pratica è un’eccezione alla regola. E questo mentre invece essa è la regola secondo i primi tre articoli della Costituzione italiana e secondo la Convenzione dell'Onu sui disabili, per cui pure questi autogestiscono la propria vita salvo eccezioni. Inoltre, nel punto 9) di cui qui sopra, con la parola “ipotesi”, l’autogestione sembra essere un possibile riconoscimento al disabile da parte dei servizi sociali, mentre nel punto 11) di cui qui sopra, con la parola “facoltà", l’autogestione, pur essendo da un punto di vista formale una libera scelta, e quindi un diritto, del disabile, in pratica si propone come un’eccezione alla regola, per chi riesce ad essere consapevole e a farsi valere.
Per di più moltissime persone normodotate vivono pienamente la loro vita senza l’onere di dover fare preventivamente un “progetto di vita”. E magari vogliono e hanno il diritto di vivere alla giornata, cioè senza tale progetto. E non c’è nessun motivo valido per sostenere che una vita vissuta “alla giornata” sia meno valida di quella con “progetto”. Tanto più che molte persone, appartenenti al popolo sovrano, sostengono che, con le turbolenze del modo contemporaneo, vivere “alla giornata” sia l’unico modo per preservare la propria salute mentale.
Ciononostante il disabile grave, se vuole avere l’assistenza e gli altri strumenti necessari per non morire prima dell’inevitabile, viene costretto di fatto a fare un “progetto di vita”. Anche questa è una grave discriminazione.
Pure ad una persona normodotata, che fa un “progetto di vita”, capita, o può capitare, nella vita di doverlo cambiare più volte. Però questo cambiamento lo fa in proprio, senza alcuna burocrazia. Viceversa il disabile grave, se deve cambiare qualcosa nella propria vita, con la conseguente necessità di supporti almeno un po’ differenti, viene costretto sia a chiedere tale cambiamento ai cd. servizi sociali e sia a farlo in accordo con loro, iI che è un’altra grave duplice discriminazione.
Ovvero la Repubblica ha il dovere giuridico di agevolare chi ha grave disabilità. Per chi ha queste gravi difficoltà fisiche, sensoriali ecc., rispetto a chi è normodotato, è materialmente senz’altro più complicato dover fare un “progetto di vita”. Per cui, costringere un disabile a farlo, vuol dire ribaltare i compiti della Repubblica: non semplificare la vita ai disabili, ma complicarla. E poi, con talune gravi difficoltà, la vita è comunque molto più complicata in sé. Per cui costringere un disabile grave, per ogni cambiamento della propria vita, a dover ottenere l’’approvazione dei servizi sociali, è un’ulteriore grave discriminazione.
E ancora: per poter fare un “progetto di vita” è necessario prima conoscere come si può vivere, com’è il mondo, quali sono le proprie possibilità ecc. Tant’è che, pure chi è normodotato, se decide di fare un “progetto di vita”, prima conosce un po’ sia se stesso che la situazione esterna e poi, semmai, fa il progetto. In tutti i processi educativi e di orientamento scolastico prima si mettono a disposizione gli strumenti conoscitivi e poi si fanno i progetti. Anche in amore prima ci si conosce liberamente e poi si fanno progetti. E non mi paiono condivisibili quei costumi in cui c’è prima il matrimonio e poi la conoscenza. Inoltre nell’art. 2 Cost. l’inviolabilità dei diritti (cioè l’opposto del progetto partecipato) è anche “nelle formazioni sociali”. E nel co. 2 dell’art. 3 Cost. c’è il precetto della rimozione degli ostacoli che limitano “di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”.
Il punto centrale è poi che un disabile grave può conoscere il mondo, le proprie possibilità, la vita reale, “soltanto se” la Repubblica gli dà gli strumenti (accessibilità, ausili, assistenza personale ecc.) per inserirsi nella vita e capire cosa può e vuole fare. La conoscenza del mondo dove si deve vivere è un principio generale perfino del mondo animale anche non umano. Nessun genitore diligente, anche non umano, nega al proprio figlio gli strumenti per conoscere un po’ del mondo prima di costruirsi una propria vita. E, quando c’è un figlio con una grave disabilità, per i genitori da soli può essere impossibile fornire tutti tali strumenti.
In questa Legge n. 227 cit. però, se un disabile grave non presenta un progetto, non gli vengono dati dalla collettività gli strumenti per conoscere se stesso e il mondo: quindi il “progetto individuale”, anche sotto questo punti di vista, è una prigione. E, a tal fine, non è affatto decisivo, come stabilito dalla Legge n. 227 cit., che il disabile venga informato su quali strumenti possono essergli messi a disposizione con il “progetto individuale”. Ad esempio, un contadino, che si trova a dover lavorare un terreno sconosciuto, può seriamente scegliere quantità e qualità dei semi, fra quelli a disposizione, solo dopo aver camminato sul nuovo terreno per rendersi conto della sua vastità nonché delle sue qualità e posizione.
Infine, ma significativo: abbiamo già visto che, per l’eventuale “progetto di vita” della persona normodotata, non viene imposta alcuna partecipazione o valutazione da parte di persone esterne. Viceversa, per il “progetto di vita” della persona disabile viene perfino imposta la valutazione da parte di un’“equipe multidisciplinare”, ovvero da un gruppo di persone esterne per niente scelte dal disabile e non indipendenti.
Abbiamo già esaminato che i supporti forniti dalla collettività servono a chi ha gravi disabilità innanzitutto per il concreto esercizio dei diritti inviolabili. Ebbene rientra nella definizione stessa di tali diritti l’insindacabilità del loro concreto esercizio (ovviamente fatti salvi i limiti posti dalla Costituzione e dal codice penale). E, solo fra molto altro, ad esempio, è sicuramente illegittimo sottoporre alla valutazione dell’“equipe multidisciplinare” la necessità per un disabile grave di più assistenza personale al fine di non limitarsi a votare un partito politico costituito, ma di voler partecipare attivamente, anche o soltanto, a delle attività pubbliche per la difesa della Costituzione.
Da un altro punto di vista si rileva che il disabile, pur non avendo commesso niente nemmeno lontanamente rilevante dal punto di vista penale, viene costretto a mettere a nudo tutta la propria vita davanti a persone non scelte da lui e, se vuole viverle, deve far venire fuori davanti a loro le proprie necessità e aspirazioni (atto estremamente difficile e umiliante) e poi, alla fine, sono quelle persone a decidere quali e quanti supporti (molto spesso soprattutto quanto denaro per l’assistenza personale) dare a quel disabile. E quindi, in definitiva, quasi sempre è quell’“equipe multidisciplinare” (in base alle direttive ricevute) a decidere, se non altro di fatto, quali diritti fondamentali, e in quale misura, verranno consentiti di vivere in concreto a quel disabile.
È necessario far chiarezza sul fatto che, per qualunque essere umano, anche normodotato, è difficile e umiliante dover esprimere tutte le proprie esigenze di vita ad alcune persone, tanto più non di propria scelta. Inoltre, almeno fino a quando la Repubblica non metterà a loro disposizione gli strumenti per vivere pienamente nel concreto almeno i diritti fondamentali, è probabile che una gran parte delle persone disabili riesca ad avere meno relazioni sociali di molte persone normodotate. Ed è quindi verosimile che, comprensibilmente, queste persone disabili gravi abbiano più difficoltà di molte persone normodotate ad esprimere ad altri tutte le proprie private, se non privatissime, esigenze di vita. Ed è un gravissimo errore ritenere che il supporto psicologico da parte dell’equipe sia idoneo a superare queste difficoltà sia perché è naturale e umano (e nient’affatto patologico) avere difficoltà ad aprirsi ad un’equipe di estranei (e sarebbe patologico il contrario). E sia perché nessun supporto psicologico può sostituire la forza e la ricchezza che vengono dal vivere in concreto una vita sociale.
E, invece di agevolare doverosamente queste persone disabili dando loro di necessari supporti senza procedure umilianti, al fine di far sì che riescano a vivere pienamente tutta la loro personalità, la Repubblica pone a loro carico un ulteriore balzello inesistente per chi è normodotato: mettersi a nudo davanti ad un’equipe multidisciplinare. Il risultato finale del “progetto di vita” è mettere molti disabili gravi nell’impossibilità di vivere in concreto pienamente i diritti personalissimi e i diritti fondamentali più in generale. E questa impossibilità può essere tanto maggiore quanto più rilevante è la disabilità. Ovvero l’opposto della non discriminazione.
Riepilogando, in sintesi c’è dunque una questione di enorme proporzioni giuridiche e pratiche che la scienza giuridica risulta incapace di risolvere alla radice: una persona normodotata esercita in concreto liberamente i propri diritti fondamentali “a meno che” la Repubblica, o altri, intervengano (legittimamente o con arbitrio) per limitare o impedire ciò. Viceversa i disabili esercitano in concreto i propri diritti fondamentali “soltanto se” la Repubblica o altri intervengono fornendo loro i necessari supporti. Il che pone i disabili in una situazione di inferiorità di non poco conto. Il legislatore ha tentato di rimediare con la legge n. 67 sulla non discriminazione cit.: è un primissimo passo in una strada ancora molto lunga, ma non risolve per niente il problema alla radice.
Tornando all’“equipe multidisciplinare” e connessi, si badi poi bene: anni fa in un atto della Regione Toscana fu possibile far inserire la norma per cui il piano individualizzato deve avere il consenso dell’interessato. Si tratta di una norma che, a se stante, ha un valore pratico molto relativo perché in concreto i servizi sociali hanno vari agevoli strumenti per ottenere il consenso dell’interessato. Però, almeno il principio giuridico di un minimo di civiltà, è stato creato. Ebbene questo principio giuridico minimale è assente nella Legge n. 227 qui in esame.
È vero che in questa Legge, a proposito del “progetto di vita”, c’è scritto "e all'attuazione dello stesso con modalità tali da garantire la soddisfazione della persona interessata"[86]. Però, innanzitutto sono parole scritte al termine di una frase inammissibilmente lunga e complessa, al punto da renderne difficile un’interpretazione univoca.
Ma soprattutto, fra quelle parole, non c’è il “consenso” ma c’è la “soddisfazione”. Ebbene, il “consenso”, da parte di chi lo dà, presuppone necessariamente un ruolo decisionale attivo e, di regola, determinante circa l’esecuzione dell’evento. E, di conseguenza, di regola, il “consenso” c’è prima dell’esecuzione dell’evento. Viceversa la “soddisfazione” non presuppone necessariamente un ruolo decisionale preventivo, da parte di chi la esprime, circa l’esecuzione dell’evento. E c’è prevalentemente durante o dopo l’esecuzione del medesimo. Dunque un conto è il doveroso “consenso” sull’esistenza, il contenuto e l’attuazione del “progetto di vita”, ben altro conto può essere la mera “soddisfazione” su come viene attuato.
A differenza di quanto disposto da alcune Regioni italiane e in conformità a quanto stabilito nella Convenzione dell'Onu sui disabili, nella Legge n. 227 i disabili con difficoltà psichiche o mentali non vengono esclusi dalla “vita indipendente”. E questo è importante. Però poi in sostanza dietro al “progetto di vita”, che ingloba la“vita indipendente”, c’è l’inammissibile pregiudizio che tutti i disabili di fatto non hanno la piena capacità di agire, al punto che la Repubblica si deve occupare sempre anche dei loro diritti fondamentali e perfino dei loro diritti personalissimi. Esattamente l’inverso di quanto stabilito, se non altro, nei primi tre articoli della Costituzione italiana e nella Convenzione dell'Onu sui disabili.
Da quest’ultima, fra l’altro, consegue che l’eventuale non piena capacità di agire non può neppure essere legittimamente stabilita, oltretutto in maniera generalizzata e di fatto, dai servizi sociali (i quali, di conseguenza, in concreto impediscono al disabile anche di evitare il “progetto di vita” e/o di farlo in privato), ma, solo qualora davvero necessario, va accertata preliminarmente dalla magistratura con le procedure e le garanzie del caso.
In definitiva dunque, per tornare alla disposizione riportata anche più sopra secondo cui “nell'ambito del progetto di vita individuale” possono “essere individuati [...] che supportino la vita indipendente”, subordinare la “vita indipendente” dei disabili al “progetto di vita” vuol dire incatenarla nel suo opposto e quindi distruggerla.
E, si badi bene, su questo pianeta ci sono molte valide esperienze[87] a dimostrazione del fatto che, pure con disabilità gravi, è possibile autodeterminare pienamente la propria vita senza intrusioni esterne. E quindi non si può legittimamente neppure dire che è un’impresa troppo difficile, e tanto meno impossibile.
Conseguentemente è da ritenere che in questa Legge n. 227 non ci sono nemmeno lontanamente indicazioni sufficienti per garantire il diritto alla “vita indipendente” dei disabili.
4.1. Non prendersi in giro
È poi evidente che, come per le persone normodotate, pure (e spesso anche di più per via degli ostacoli naturali e sociali incontrati) per la singola persona con gravi disabilità può essere particolarmente necessario chiarirsi un po’ le idee su come muoversi per il proprio futuro, e in tal senso il “progetto di vita” potrebbe, ma non è affatto detto, essere utile. Però:
È stato inoltre già esaminato più sopra il fatto che le persone normodotate non vengono condizionate, o limitate, quando esercitano molte delle proprie libertà inviolabili anche perché l’esercizio di queste libertà è spesso, ma non sempre, possibile senza l’impiego diretto di risorse pubbliche. Così l’ergastolano normodotato si gira nel letto e va in bagno quante volte vuole (però il wc e il letto sono stati pagati con risorse pubbliche anche per l’ergastolano normodotato) e la mamma normodotata tiene in braccio il proprio bambino quanto vuole (però difficilmente quel bambino sarebbe nato senza l’aiuto di altre persone, che molto spesso vengono retribuite con risorse pubbliche).
Viceversa, per consentire ai disabili gravi di esercitare in concreto le libertà fondamentali, a prima vista risulta che possono essere direttamente necessarie sempre molte più risorse che per le persone normodotate. Allora, e non solo per questo, la Repubblica (attraverso il Parlamento, i Consigli regionali ecc.) pone dei limiti alle risorse da destinare ai disabili, e controlla anche come tale denaro viene speso[89]. E questo, purché fatto in maniera rispettosa (è illegittimo trattare il bisogno di vivere di chi ha grosse difficoltà fisiche-psichiche-mentali-sensoriali con lo stesso “fiscalismo” che sarebbe, o dovrebbe essere, attuato per la smania di profitto delle imprese), non sarebbe del tutto privo di giustificazione perché si tratta pur sempre di risorse pubbliche, perché, come a tutte le altre persone, anche a chi è disabile può capitare di sbagliare e perché “con quattro occhi si” potrebbe vedere (ma non sempre accade) “meglio che con due”.
Solo che tali limiti e controlli pongono oggettivamente i disabili in condizione di inferiorità rispetto a chi è normodotato perché, come è stato visto più sopra, per i disabili si tratta di esercitare libertà inviolabili e personalissime e per via di altre difficoltà concrete nel rendicontare. Per cui sono doverose molta cautela e mille attenzioni al fine di effettuare questi controlli soltanto nella misura strettamente indispensabile, e senza inidonee rigidità, come peraltro già stabilito in linea di principio dal “Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali”[90]. Questione invece non prevista nella Legge qui in esame, ma che il Governo non può legittimamente trascurare nei decreti legislativi attuativi.
Il punto chiave, per non intromettersi indebitamente nella vita della persona disabile e nei suoi diritti inviolabili e perseguire l’impiego ottimale delle risorse pubbliche, è valutare seriamente e rispettosamente le linee fondamentali di ciò che la persona non può fare da sé e fornire i supporti necessari a compensare le capacità mancanti. Poi, come tutte le altre persone, anche chi ha determinate difficoltà (fisiche, psichiche, mentali, sensoriali) decide da sé della propria vita e l’autogestisce. Non c’è altra via per non discriminare i disabili. Qui sotto lo si esamina, a fini esemplificativi, in riferimento specifico all’assistenza personale. Si presti però attenzione al fatto che il ragionamento è applicabile anche a tutti gli altri supporti necessari a chi ha gravi disabilità.
Per stabilire di quanta assistenza personale ha necessità un disabile grave, senza creare discriminazioni, vanno presi in considerazione soltanto due fattori. Il primo fattore è sindacabile dalla Repubblica, sebbene evitando intromissioni indebite. Il secondo fattore lo è molto meno, solo nelle linee generali e soltanto per illogicità, impossibilità, violazione di legge.
Il primo fattore consiste nel difficilissimo dovere della Repubblica di accertare nel merito le effettive incapacità del soggetto disabile. Questo al fine di evitare errori di valutazione, senza in alcun modo prescindere dall’indispensabile e decisivo dialogo vero con il soggetto interessato e con la piena consapevolezza che, durante tale accertamento, solo in alcuni momenti si è oggettivamente lontani dalla linea di confine oltre la quale vengono violati i diritti fondamentali del soggetto.
Il secondo fattore consiste nel definire la quantità e qualità di assistenza personale eventualmente necessaria al soggetto. E qui, per ottemperare a quanto stabilito dalla Costituzione, la Repubblica può porre dei limiti, alle necessità espresse dal soggetto, soltanto per illogicità, impossibilità, violazione di legge. Questo perché, come abbiamo esaminato in sintesi in precedenza, la possibilità per il soggetto di esercitare in concreto i propri diritti inviolabili dipende sempre, parzialmente o totalmente, dalla quantità e/o dalla qualità dell’assistenza personale che ha a disposizione.
Per esemplificare in estrema sintesi supponiamo che in un soggetto venga accertata una minima o nulla capacità di utilizzare gli arti inferiori, una parziale capacità di utilizzare gli arti superiori e l’autosufficienza durante il riposo notturno. Se questo soggetto manifesta la necessità, ad esempio, di 22 ore al giorno di assistenza personale, è molto probabile che qualcosa non sia corretto perché, avendo sempre solo due ore di riposo a notte, non si vive a lungo, e quindi, soltanto per l’indispensabile, la Repubblica è tenuta ad ulteriori accertamenti. Se invece quel soggetto manifesta la necessità, ad esempio, di 14 ore al giorno di assistenza personale perché ha poca forza fisica e poca velocità per la sua aspirazione di essere scassinatore di sportelli bancomat, è evidente la legittimità giuridica del rifiuto da parte della Repubblica di fornire l’assistenza personale necessaria a tale scopo. E ancora, se quel soggetto con quelle difficoltà soltanto fisiche, manifesta alla Repubblica la necessità di risorse sufficienti per avere 5 ore al giorno di traduttori dal linguaggio dei segni per sordi, è possibile che qualcosa non torni dal momento che lui non ha manifestato alcuna sordità, e quindi da parte della Repubblica ulteriori accertamenti possono essere legittimi, purché riservati e invasivi solo per l’indispensabile.
Ma, sempre ad esempio, prendiamo invece due soggetti con difficoltà solo fisiche analoghe e riconducibili a quelle indicate all’inizio del paragrafo precedente. Supponiamo che il primo manifesti alla Repubblica la necessità di ricevere un finanziamento sufficiente per avere 7 ore medie al giorno di assistenza personale perché, oltre ad essere aiutato per le mere attività vitali, ritiene di esercitare autonomamente i propri diritti fondamentali all’interno della propria abitazione (leggendo libri, navigando su internet ecc.). Mentre supponiamo che il secondo soggetto manifesti alla Repubblica la necessità di ricevere un finanziamento sufficiente per avere 14 ore medie al giorno di assistenza personale perché, oltre ad essere anche lui aiutato per le mere attività vitali, ha necessità di assistenza personale per esercitare i propri diritti fondamentali all’esterno della propria abitazione (passeggiando nei parchi, frequentando biblioteche, partecipando a iniziative culturali, a rassegne cinematografiche, a dibattiti ecc.).
Ebbene, per l’assistenza personale a queste due differenti persone con analoghe difficoltà fisiche, la Repubblica non può sindacare sul fatto che sono necessari esborsi finanziari molto diversi fra loro perché si tratta di due modi, insindacabilmente diversi, di gestire i propri diritti inviolabili. E, per quando è dato di conoscere al momento attuale su questo pianeta, senza tale insindacabilità è impossibile conciliare l’inviolabilità dei diritti fondamentali e la non discriminazione dei disabili gravi, che sarebbero due temi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.
Sul tema fondamentale dell’assistenza personale un tentativo di affrontare correttamente la disabilità è stato fatto con una “Proposta di legge regionale”[91].
5. Alcune altre questioni
5.1. Il Garante
Nella Legge n. 227 c’è l’istituzione di un “Garante nazionale delle disabilità”[92]. Fra varie cose da osservare ci si limita al fatto che non è previsto che il Garante possa e debba intraprendere le azioni giudiziarie eventualmente necessarie a tutela del/i disabile/i. Inoltre, se, come stabilito anche dalla Legge in esame e che vedremo qui sotto, ci si attiene alla definizione di disabilità accolto nella Convenzione dell’Onu sui disabili, un nome più corretto potrebbe essere “Garante nazionale per il superamento della disabilità” perché da detta definizione emerge che la disabilità è un costrutto sociale.
5.2. Il “modello sociale della disabilità”
Nella Legge n. 227 qui in esame è stabilita l’“adozione di una definizione di “disabilità” coerente con l'art. 1, secondo paragrafo, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”[93]. Cioè in questa Legge n. 227 viene recepito il cd. “modello sociale della disabilità”. A riprova di ciò c’è anche il fatto che nell’art. 1 co. 1 di questa legge del 2021 non è previsto che essa sia attuativa dell’art. 32 Cost., cioè quello sulla tutela della salute.
Il punto è molto importante e rappresenta una rivoluzione culturale e giuridica in materia. Questo perché, in base al cd. “modello sociale della disabilità”, per chi ha determinate difficoltà fisiche-psichiche-sensoriali-mentali (che a chiunque può capitare di avere nella vita), l’impossibilità di vivere pienamente dipende non da tali incapacità, ma da come la società si comporta verso chi ha tali difficoltà. Quindi, in definitiva, la società non solo ha il compito di non lasciare a se stessi i disabili, ma è direttamente responsabile del fatto che queste persone siano costrette a vivere incontrando molte più difficoltà delle altre. Il che alza di parecchio il livello della responsabilità della società, e quindi anche della Repubblica.
In altre parole, un conto è dire ad una persona, ad esempio: “Lei non può più muovere le gambe perché ha avuto la sfortuna di un tuffo eccezionalmente andato male e io società, attraverso la Repubblica, La devo aiutare il più possibile per via di questo evento straordinario che può capitare nella vita”. Ben altro conto è dire alla stessa persona: “Lei non può più muovere le gambe per una delle tante cause che a chiunque (e purtroppo a non pochi) possono capitare nella vita, però ora non può vivere pienamente e liberamente la Sua vita perché io società, attraverso la Repubblica, mi sono organizzata non in maniera semplice e onesta a misura di tutti (quindi anche accessibilità, oggetti per la vita quotidiana semplici da usare, pochi inganni, poca burocrazia, ausili tecnici, assistenza personale ecc.), ma a misura soltanto di una parte della popolazione”.
E, di conseguenza, a seguito del “modello sociale della disabilità”, non si tratta più soltanto del dovere della società alla solidarietà, e quindi a fornire accessibilità, assistenza ecc. Viceversa la società deve essere organizzata in modo da essere vivibile e accogliente per tutte le persone. Se così non è, allora il deficit è nella società, e non nelle persone a cui è capitato un evento che può accadere a tutti. Ovvero, sempre ad esempio, se in una zona dove piove regolarmente, ma non tutti i mesi, viene costruita una casa senza tetto, in caso di pioggia il deficit non è nella pioggia, ma nella testa di chi ha progettato e/o voluto quella casa.
5.3. Revisioni delle prestazioni
Nella Legge n. 227 qui in esame è prevista la “separazione dei percorsi valutativi previsti per le persone anziane da quelli previsti per gli adulti e da quelli previsti per i minori”[94]. Questo punto può essere estremamente pericoloso perché spesso c’è la prassi di riconoscere meno servizi ai disabili anziani rispetto a chi è più giovane[95]. In primo luogo ad un’identica incapacità non si può far fronte con prestazioni inferiori qualora il soggetto sia diventato anziano. Questo, se non altro, perché l’età in cui si “diventa” anziani[96] è stabilito in maniera convenzionale e quindi artificiale, per cui risulta inammissibile, ad esempio, che una persona che acquisisce una certa incapacità (ad esempio paraplegia da incidente) a 66 anni di età riceva dalla società un supporto inferiore rispetto a chi è così “fortunato” da acquisire la stessa incapacità a 64 anni di età[97].
Inoltre, un disabile grave in pensione da attività lavorativa, spesso può avere più necessità di prima di assistenza personale e/o di ausili e/o di accessibilità perché è alto il rischio che, senza un’attività lavorativa, si trovi chiuso in casa e quindi muoia in tempi brevi, per cui erogare meno prestazioni agli anziani significa omettere il dovuto ossequio al diritto di vivere. Oltre al fatto che tante patologie legate alla senilità si prevengono e si curano proprio con l’autodeterminazione e con la socialità. Dunque il fatto che nella Legge n. 227 sia previsto un percorso valutativo diverso per gli anziani suscita numerose riserve e perplessità in relazione ai principi sia di eguaglianza[98] che di solidarietà[99].
In questa stessa Legge n. 227 viene stabilito di accertare e valutare la disabilità[100] in base all’ICF, al’ICD e a quanto stabilito dalla Convenzione dell’Onu cit.[101] con la “previsione di un efficace e trasparente sistema di controlli”[102].
Queste “novità”, e, non da meno, le modalità in cui vengono applicate ed effettuate, vanno seguite con attenzione per via del fatto che possono essere pericolose perché tante rilevanti conquiste, tuttora esistenti in Italia nel campo di disabilità, sono state ottenute dopo anni di importanti lotte in un periodo storico molto più aperto, democratico e pluralista di quello attuale.
Salvo precisare che per i disabili meno giovani, almeno in teoria, questi pericoli dovrebbero essere inferiori perché, viene stabilito “fermi restando i casi di esonero già stabiliti dalla normativa vigente”[103]. E questi minori pericoli per i disabili meno giovani dovrebbero esserci pure considerando che viene stabilito “facendo salvi le prestazioni, i servizi, le agevolazioni e i trasferimenti monetari già erogati ai sensi della normativa vigente in materia di invalidità civile, di cecità civile, di sordità civile e di sordocecità e della legge 5 febbraio 1992, n. 104”[104]. Ovvero l’esistente (assegni, indennità ecc.) dovrebbe rimanere. Tuttavia c’è da preoccuparsi molto per il futuro di chi oggi è più giovane o bambino e sarà costretto a vivere senza o con pochissimi diritti, nonché per l’urgente necessità di migliorare di parecchio le possibilità che pure i disabili meno giovani hanno di esercitare in concreto i loro diritti inviolabili.
In altre parole viola, se non altro il co. 2 art. 3 Cost., il fatto che, come in tanti altri campi, anche per quanto riguarda la disabilità, al giorno d’oggi ci si debba preoccupare non di andare avanti, ma di porre un argine alla perdita di quanto già conquistato.
5.4. La “presa in carico”
Infine c’è da rilevare che nella Legge in esame c’è la “presa in carico”[105] del disabile da parte dei servizi sociali: una bruttissima e offensiva espressione in tema di disabilità in uso da alcuni anni nella legislazione italiana.
Innanzitutto chi ha certe difficoltà fisiche-psichiche-sensoriali-mentali non è un peso per la società, se non altro perché chiunque ha delle incapacità e a chiunque, come abbiamo visto poco sopra, nel corso della vita può capitare di avere altre incapacità. Questo vuol dire essere tutti animali “umani”. E, poiché tutti nel corso della vita abbiamo delle incapacità permanenti o temporanee, tanto che senza incapacità vi sarebbe pochissima, o nessuna, vita umana, ritenere queste incapacità un carico significa disprezzare la vita. Oltre a contrastare con la Costituzione italiana e a capovolgere la Convenzione dell'Onu sui disabili cit.
Eppoi la diversità è una ricchezza, uno stimolo a cambiare e a crescere, a non morire di noia. Si pensi a come sarebbe statica e noiosa una società in cui fossimo tutti uguali. E si pensi al fatto che, verosimilmente, senza diversità non ci sarebbe crescita.
Inoltre, almeno a parere di chi scrive, i carichi per la società sono ben altri, quali, ad esempio, i colossali profitti delle multinazionali, le spese per le armi, le risorse assorbite dalle mafie, i vitalizi che tutti i parlamentari e i consiglieri regionali si guardano bene dal togliersi, tutta la restante enorme evasione fiscale e altri ancora.
Infine, ma non meno importante, abbiamo già esaminato che pure i disabili, al pari di tutte le altre persone, hanno lo stesso diritto inviolabile di autodeterminare pienamente la propria vita, di viverla interamente e di contribuire come tutti alla crescita collettiva. E hanno diritto di essere aiutati in tal senso quando questo è più difficile. E vedere una persona con talune gravi difficoltà, che riesce a vivere pienamente le gioie e le libertà della vita, è un fatto bellissimo, semmai da festeggiare, e non un carico.
È dunque fondamentale e doveroso da parte della Repubblica, e quindi anche del Governo, nell’emanare i decreti legislativi attuativi, far conoscere e imporre il fatto che i disabili non sono esseri passivi, ma sono esseri vivi.
Da ultimo, se si pensa, seriamente, in concreto e consapevolmente alle mille difficoltà che un disabile grave deve affrontare nella vita reale per non soccombere prima dell’inevitabile, oltre alle fondamentali e irrinunciabili questioni di autodeterminazione, libertà e privacy viste più sopra, è davvero irrealistico ritenere che i servizi sociali possano acquisire tutte le conoscenze tecniche, le competenze e i poteri necessari per occuparsi in maniera dignitosa e nella sua globalità della vita vera dei disabili gravi. E quindi, anche sotto questo profilo subordinato, la “presa in carico” è fuori luogo.
6. Conclusioni
In sintesi in questa Legge delega manca il dovuto rispetto per la dignità delle persone costrette a vivere da disabili. E non viene tenuto nella dovuta considerazione che pure ai disabili deve essere comunque assicurata la concreta possibilità di esercitare pienamente i diritti fondamentali.
In questa Legge viene menzionato spesso l’“accomodamento ragionevole”: per evitare disastri è di fondamentale importanza che venga applicato in maniera costituzionalmente corretta, come si cerca di esaminare in questo lavoro. Soltanto nella misura in cui ciò accadrà, questo aspetto della Legge può rappresentare un significativo passo avanti in tema di disabilità in Italia.
Nella Convenzione dell’Onu cit. viene stabilito che al superamento della disabilità dev’essere destinato il “massimo” delle “risorse disponibili”. Viceversa nella Legge qui esaminata viene stabilito che la disabilità va affrontata nell’ambito delle “risorse disponibili” e viene omessa la parola “massimo”, il che, in astratto e in pratica, significa lasciare più spazio ai tagli di risorse in tema di disabilità.
Nella Legge qui esaminata viene finalmente riconosciuta a livello nazionale la necessità di garantire il diritto alla vita indipendente, però poi la Legge viene decisamente sviluppata in senso contrario.
In particolare fa rabbrividire che di fatto tutti i disabili vengono considerati privi della piena capacità di intendere e di volere, omettendo che una notevole maggioranza di loro ha pienamente tale capacità. In tal modo vengono sovvertiti i principi fondanti sia della Costituzione italiana che della Convenzione dell’Onu sui disabili. Come pure è spaventoso che chi ha determinate incapacità venga considerato un “carico” per la collettività.
Un ringraziamento particolare a Beniamino Deidda per il consueto rigore con cui ha puntualizzato alcune questioni fondamentali sviluppate in questo scritto.
[77] Ibidem, lett. c) punto 7).
[78] Ibidem, punto 6).
[79] Ibidem, lett. c) punto 4).
[80] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality on equality cit., punto 48: “The fact that support to exercise capacity may impose a disproportionate or undue burden does not limit the requirement to provide it.” In italiano: Il fatto che il sostegno alla capacità di esercizio possa imporre un onere sproporzionato o eccessivo non limita l'obbligo di fornirlo.
[81] Idem.
[82] Convenzione cit., art. 12 cpv. 4°: “Such safeguards shall ensure that measures relating to the exercise of legal capacity respect the rights, will and preferences of the person, are free of conflict of interest and undue influence”. In italiano: Tali garanzie assicurano che le misure relative all'esercizio della capacità giuridica rispettino i diritti, la volontà e le preferenze della persona, siano prive di conflitto di interessi e di influenza indebita.
[83] UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 16: “(d) (iv) Self-management of service delivery. Persons with disabilities who require personal assistance can freely choose their degree of personal control over service delivery according to their life circumstances and preferences. Even if the responsibilities of “the employer” are contracted out, the person with disability always remains at the centre of the decisions concerning the assistance, the one to whom any inquiries must be directed and whose individual preferences must be respected. The control of personal assistance can be exercised through supported decision-making.” In italiano: Autogestione dell'erogazione del servizio. Le persone con disabilità che necessitano di assistenza personale possono scegliere liberamente il proprio grado di controllo personale sull'erogazione dei servizi in base alle proprie circostanze e preferenze di vita. Anche se le responsabilità del “datore di lavoro” sono appaltate, la persona con disabilità resta sempre il centro delle decisioni in merito all'assistenza, colui al quale devono essere rivolte le indagini e le cui preferenze individuali devono essere rispettate. Il controllo dell'assistenza personale può essere esercitato attraverso un processo decisionale supportato.
[84] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. c) punto 9).
[85] Ibidem, punto 11).
[86] Ibidem, punto 6).
[87] Fra moltissime: STIL a Stoccolma https://www.stil.se/, ULOBA vicino a Oslo https://www.uloba.no/ e CIL di Berkeley in California https://www.centerforindependentliving.org/.
[88] Idem.
[89] Legge n. 227 cit. art. 2 co. 2 lett. c) punto 9).
[90] Decreto Direttoriale n. 669 del 28.12.2018.
[91] In http://www.avitoscana.org/index.php/vita-indipendente/toscana/documentazione-toscana/252-proposta-di-legge-regionale-su-assegno-per-l-assistenza-personale-per-la-vita-indipendente-e-autodeterminata-di-persone-con-handicap-grave-quarta-versione.
[92] Legge n. 227 cit., art. 1 co. 5 lett. f).
[93] Ibidem, art. 2 co. 2 lett. a) punto 1).
[94] Ibidem, punto 3).
[95] Il punto è stato sollevato da più parti al convegno Exploring cit.
[96] In genere 65 anni.
[97] Adolf Ratzka al convegno Exploring cit.
[98] Art. 3 co. Cost. e molti trattati, accordi, carte internazionali e sovranazionali, che vietano la discriminazione in base all’età.
[99] Se non altro art. 2 Cost.
[100] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. b): “con riguardo all'accertamento della disabilità e alla revisione dei suoi processi valutativi di base”.
[101] Ibidem, punto 1): “previsione che, in conformità alle indicazioni dell'ICF e tenuto conto dell'ICD, la valutazione di base accerti, ai sensi dell'art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, come modificato in coerenza con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, la condizione di disabilità e le necessità di sostegno, di sostegno intensivo o di restrizione della partecipazione della persona ai fini dei correlati benefici o istituti”.
[102] Ibidem, punto 5).
[103] Idem.
[104] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. h) punto 1).
[105] Ibidem, lett. c) punto 2).
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