Consigli alle giovani magistrate. Intervista di Paola Filippi a Gabriella Luccioli
1. Premessa
L’intervista di Giustizia Insieme a Gabriella Luccioli è rivolta alle giovani magistrate.
Le domande riguardano la magistratura di ieri e di oggi, il cambiamento determinato dall’ingresso delle donne e poi consigli alle giovani magistrate
La Presidente Luccioli ricorda il sistema dei ruoli chiusi e il congresso di Gardone e poi come la legge cd. Castelli con la cd. contro riforma Mastella e il testo unico del Csm in tema sulla dirigenza hanno prodotto, combinate tra loro, l’effetto perverso del carrierismo, con il danno collaterale della discriminazione delle magistrate.
Ci ricorda con orgoglio come le donne hanno mutato la cultura della magistratura e quella della società traducendo le istanze di giustizia in risposte concrete di eguaglianza e di tutela dei diritti fondamentali.
Con riguardo alla domanda sul come conciliare carriera e famiglia non esita a denunciare che “nel nostro Paese vi è ancora un diverso prezzo da pagare da uomini e donne per raggiungere gli stessi traguardi professionali”.
Ma poi ci rammenta che “Sulle donne grava anche la responsabilità di contrastare una trasformazione in senso impiegatizio della magistratura, della quale si avvertono alcuni sintomi per il diffondersi di comportamenti di scarsa sensibilità al proprio ruolo”. Il consiglio conclusivo è dunque “non scadere mai nella routine e nel pressappochismo e mettere in campo una professionalità elevatissima, di livello superiore a quello degli uomini”.
2. Le Domande
Paola Filippi: come è cambiata la magistratura dagli anni sessanta, cosa è cambiato in meglio e cosa è cambiato in peggio?
Gabriella Luccioli: per rispondere a questa domanda con un minimo di compiutezza credo sia indispensabile richiamare in rapida sintesi l’evoluzione della normativa in tema di ordinamento giudiziario.
Ai tempi del mio ingresso in magistratura era necessario per accedere al concorso soltanto il conseguimento della laurea, e questo comportava la possibilità di diventare magistrati molto giovani. Era tuttavia prevista una seconda prova di esame dopo un biennio, il cosiddetto esame di aggiunto, un esame pratico che consentiva agli uditori di divenire aggiunti giudiziari, acquisendo in via definitiva lo status di magistrati. Si trattava di un impegno oneroso, perché richiedeva di aggiungere all’esercizio delle funzioni frattanto conferite la fatica di affrontare un nuovo esame: e si trattava di un passaggio importante, perché offriva l’opportunità di migliorare definitivamente la posizione in graduatoria assunta nella prima prova.
E tuttavia va riconosciuto che l’esperienza dell’esame di aggiunto presentava aspetti positivi, in quanto imponeva, pur ad un prezzo molto alto, di arricchire con una preparazione funzionale alla pratica della giurisdizione quel bagaglio di conoscenze essenzialmente teoriche che il corso di laurea aveva garantito.
Con la legge n. 357 del 1970 l’esame di aggiunto fu abolito e fu sostituito da una valutazione del consiglio giudiziario; con la successiva legge n. 97 del 1979 la figura dell’aggiunto venne soppressa.
L’ordinamento prevedeva inoltre la progressione in carriera a ruoli chiusi: per l’appello mediante concorso per esami e titoli o per soli titoli, o mediante scrutinio per merito; analogo sistema era previsto per la cassazione. Alla titolarità delle diverse funzioni era collegata la possibilità di ricoprire posti corrispondenti ad un certo livello di gerarchia degli uffici, con il correlato trattamento economico.
Si trattava di un sistema fortemente burocratizzato, che affidava la selezione all’alta magistratura, secondo una terminologia propria di quegli anni, in evidente contrapposizione con la bassa magistratura, e che delineava una struttura piramidale così rigida da condizionare la stessa attività giurisdizionale, basandosi i concorsi per titoli sulla valutazione dei provvedimenti giudiziari. Ricordava efficacemente Cordero che, essendo una sciagura essere discriminati, come in ogni carriera burocratica, regnava l’impulso mimetico.
Tale sistema non poteva reggere alla forza propositiva del dibattito che già dal Congresso di Gardone animava la magistratura associata sul ruolo del giudice e sul suo rapporto con la Costituzione, della quale secondo acquisizioni ampiamente condivise egli era chiamato ad inverare i valori.
Maturò tra i magistrati - contestualmente al prorompere di nuove istanze sociali recepite dal legislatore nella straordinaria stagione delle riforme, che segnò una forte espansione delle libertà e dei diritti - la forte consapevolezza che fosse necessario superare la struttura gerarchica dell’ordinamento ed abolire la carriera, sopprimendo ogni distinzione che non fosse ricollegabile alle funzioni ricoperte e agganciando la progressione economica alla sola anzianità.
Era a tutti evidente che un sistema basato su una rigida selezione attraverso esami e concorsi per accedere ai gradi più alti della giurisdizione non lasciava spazio all’impegno dei tanti magistrati che dedicavano ogni sforzo a contrastare la criminalità in tutte le sue forme o a garantire la tutela dell’ambiente, della sicurezza nei luoghi di lavoro, dei diritti civili e sociali, senza preoccuparsi delle ricadute o dei ritardi che ne potevano derivare sul piano della carriera.
Il modello del giudice burocrate, puro tecnico del diritto e teso alla conservazione dell’esistente nello svolgimento di un’attività avalutativa e meccanica, doveva essere sostituito dalla figura di un giudice garante dei diritti di tutti, e soprattutto dei più deboli.
L’aver pienamente compreso ed introiettato la portata del principio di eguaglianza di tutti i magistrati espresso nell’art. 107 Cost. costituì certamente l’acquisizione più significativa di quegli anni.
Le iniziative legislative in tema di riforma dell’ordinamento giudiziario assunte in detto periodo risentono chiaramente delle elaborazioni fin lì compiute anche e soprattutto in ambito associativo. Con la legge n. 570 del 1966, detta legge Breganze, fu abolito il sistema di promozione a magistrato di appello a seguito di scrutinio, ed in sua sostituzione fu adottata una forma di selezione in negativo, compiuti undici anni dalla nomina a magistrato di tribunale: ciò vale a dire che se la valutazione era positiva la promozione seguiva automaticamente per anzianità, a ruoli aperti, con il conseguimento del titolo e dello stipendio di consigliere di appello, a prescindere dalla permanenza nell’esercizio delle funzioni inferiori.
Passaggio successivo fu la legge n. 831 del 1973, che estese il sistema Breganze alle promozioni in cassazione ed al conferimento delle funzioni direttive superiori, conseguibili ora rispettivamente dopo sette anni dall’ottenimento della qualifica di appello e dopo otto anni dalla nomina a consigliere di cassazione. Tale sistema, che realizzava una completa scissione tra qualifica e funzioni, subì un limitato correttivo con la sentenza n. 86 del 1982 della Corte Costituzionale, che soppresse la possibilità di nomina a consigliere di cassazione indipendentemente dal conferimento delle relative funzioni, ma conservò la possibilità di conseguire la relativa idoneità a ruoli aperti ai fini della progressione economica.
Questo complesso di interventi permise a ciascun magistrato di raggiungere le qualifiche più elevate, con le relative retribuzioni, senza sottoporsi ad alcuna effettiva selezione, in quanto la realizzata equiparazione tra tutti i componenti dell’ordine giudiziario non era accompagnata da adeguati strumenti di verifica della professionalità. Tale sistema, se da un lato eliminò la vecchia gerarchia prodotta dal controllo dei concorsi da parte della Corte di Cassazione, dall’altro lato diede luogo ad una nuova forma di gerarchia generata da canoni di selezione per gli uffici direttivi segnati da ampia discrezionalità.
Nel lungo periodo il descritto sistema di avanzamento automatico a tutti i livelli finì per provocare l’appiattimento delle carriere e per sopprimere ogni tipo di incentivo sul piano della preparazione e dell’aggiornamento dei magistrati; né la raggiunta autonomia dai vincoli preesistenti valse a produrre effettivi benefici sul piano dell’efficienza del servizio.
Come è noto, la riforma dell’ordinamento giudiziario realizzata con la legge n. 111 del 2007 ha segnato il superamento del sistema fondato sulla mera anzianità, ora rilevante soltanto ai fini della legittimazione per l’attribuzione delle funzioni, prevedendo che sia per la progressione in carriera che per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, dei quali è sancita la temporaneità, siano privilegiati la capacità professionale, la laboriosità, la diligenza e l’impegno, secondo una prospettiva tesa ad introdurre la cultura della valutazione: una prospettiva che a sua volta si ispira al principio della formazione permanente del magistrato.
Un cambiamento radicale, dunque, che si poneva come una sostanziale controriforma rispetto agli assetti della precedente riforma Castelli, la quale era stata dettata da una politica di forte contrasto all’autonomia dell’ordine giudiziario ed appariva ispirata al modello napoleonico di magistrato, con evidente compromissione della professionalità dei singoli e del valore della funzione giurisdizionale.
Non è certo questa la sede per analizzare pregi e difetti della controriforma del 2007, alla quale va comunque riconosciuto il merito di aver eliminato le più gravi storture della precedente normativa. Mi limito ad osservare, attualizzando il discorso, che in relazione ai criteri di nomina dei direttivi e semidirettivi dettati dalla circolare 28 luglio 2015 del CSM sulla dirigenza - emessa al dichiarato scopo, una volto eliminato il criterio dell’anzianità, di rendere trasparenti i parametri per l’assegnazione degli incarichi e di orientare le scelte dell’organo di autogoverno - l’indicazione minuziosa di una serie di indicatori generici e specifici che si intrecciano tra loro, con prevalenza di quelli specifici (che in alcuni casi non appaiono idonei ad esprimere alcuna attitudine alle funzioni direttive del candidato), consegna il giudizio ad un notevole tasso di discrezionalità e può assecondare logiche diverse da quella di selezionare il magistrato più meritevole e più idoneo ad assumere l’incarico: è forte il rischio che detti indicatori possano essere piegati verso un determinato esito ed utilizzati strumentalmente nella motivazione, per giustificare scelte già effettuate aliunde, come alcune decisioni del CSM, molto criticate o non comprese dalla base dei magistrati, inducono a ritenere sia avvenuto.
Al tempo stesso tale sistema produce l’effetto perverso di indurre i magistrati, sin dall’inizio della loro carriera, a precostituirsi quante più esperienze spendibili al momento della selezione, anche se si tratta di attività del tutto inconferenti rispetto all’incarico direttivo cui si aspira.
Ne consegue la diffusione di un carrierismo e di un individualismo esasperati, sui quali allignano ben note degenerazioni correntizie, come già ho avuto modo di rilevare rispondendo ad una domanda di Morena Plazzi nella precedente intervista. Ed è evidente che questa perenne tensione verso le agognate promozioni finisce per intaccare l’indipendenza dei magistrati, incoraggiando il conformismo e l’appiattimento sugli orientamenti giurisprudenziali dominanti.
Va infine sottolineato l’impianto discriminatorio del citato t.u., che sembra ignorare tutti i principi in tema di discriminazioni indirette e di pari opportunità, introducendo meccanismi oggettivamente idonei a limitare o comunque a rendere più arduo l’accesso delle donne alle funzioni direttive e semidirettive.
Paola Filippi: Quanto le donne hanno cambiato il mondo della magistratura?
Gabriella Luccioli: L’ingresso delle donne in magistratura a seguito dell’approvazione della legge n. 66 del 1963 fu certamente ritardato da quell’ambigua formulazione dell’art. 51 Cost. che in esito ad un lungo e non esaltante dibattito i Padri Costituenti si risolsero ad adottare: un testo che, con l’inciso secondo i requisiti stabiliti dalla legge, sostanzialmente rimetteva al legislatore ordinario la scelta dei requisiti necessari per svolgere le funzioni giurisdizionali.
La legge n. 66 del 1963, sollecitata e in qualche misura imposta dalla nota sentenza n. 33 del 1960 della Corte Costituzionale - che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 7 della legge 19 luglio 1919 n. 1176, nella parte in cui escludeva in via generale le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - ha costituito una grande conquista di civiltà, allineando finalmente l’Italia alle altre democrazie occidentali.
Come è noto, il numero delle donne vincitrici di concorso, nei primi anni assolutamente esiguo, cominciò a raggiungere percentuali pari al 30-40% negli anni ottanta e registrò un'impennata negli anni successivi, sino a superare ampiamente già da qualche tempo la metà dei vincitori e nelle ultime prove di esame a raggiungere percentuali vicine al 70%. Il numero complessivo delle magistrate è ormai pari al 54% e sembra destinato ad aumentare nel tempo, essendo del tutto prevedibile la prosecuzione del trend che vede sempre più donne vincitrici del concorso.
Questo processo così rapido di femminilizzazione non solo ha determinato il cambiamento dal punto di vista sociologico nella composizione del corpo della magistratura e la trasformazione della sua stessa immagine, ma ha arrecato importanti mutamenti nei contenuti della giurisdizione, oggetto di attente ricerche in ambito accademico, purtroppo del tutto ignorate al nostro interno.
Molto è certamente cambiato nella cultura dei giudici, se è vero che sono sempre meno frequenti le decisioni influenzate da quegli stereotipi culturali che negli anni passati avevano giustificato palesi discriminazioni nelle cause di lavoro, di separazione e di divorzio, nei processi per i reati di maltrattamenti, di violenza e di femminicidio, condizionando sia il momento di acquisizione delle prove sia quello del giudizio.
Ed il cambiamento è dovuto non solo al processo di trasformazione della società e alle istanze di eguaglianza e di rispetto espresse dalle donne nei vari settori dell’organizzazione sociale, ma anche alla presenza vigile delle magistrate che a tale processo hanno ampiamente contribuito, impegnandosi sul fronte dei diritti fondamentali e traducendo quelle istanze in risposte concrete di giustizia.
Al riguardo non posso non rivendicare con orgoglio l evoluzione della giurisprudenza nelle materie dei diritti della persona, di famiglia e di biodiritto verificatasi negli ultimi venti anni nell’ambito della prima sezione civile della Corte di Cassazione grazie all’impegno ed alla sensibilità delle consigliere che ne hanno fatto parte.
Ricordava l’indimenticabile Graziana Campanato al XXXI Congresso dell’ANM che la presenza delle donne in magistratura “ha costituito un volano di trasmissione del pensiero femminile soprattutto quando la magistrata è riuscita a superare il modello tradizionale del buon magistrato ed ha elaborato un proprio modello capace di coniugare il rigore scientifico del giurista con la sensibilità specifica del suo essere donna, rivendicando il diritto di interpretazione delle norme che mettesse in rilievo i canoni della differenza”.
Saperi e sensibilità diverse hanno anche ispirato nuove misure organizzative e determinato la nascita dei comitati pari opportunità prima presso il CSM, successivamente presso la Corte di Cassazione e infine presso le varie Corti di Appello: tali organismi hanno consentito una elaborazione collettiva delle problematiche di genere, facendo emergere difficoltà e carenze organizzative che penalizzano le donne e che per la prima volta hanno trovato luoghi istituzionali di analisi e di soluzione.
L’adozione di normativa primaria e secondaria volta ad affrontare le problematiche organizzative connesse alle assenze per maternità, compresa l’istituzione dei magistrati distrettuali, è stata la risposta non sempre immediata e non sempre appropriata del sistema alle esigenze di cambiamento che la presenza delle donne poneva.
E tuttavia non possono essere sottaciuti alcuni profili di negatività della progressiva femminilizzazione della magistratura posti in luce da alcuni osservatori, soprattutto con riferimento alla composizione dei collegi giudicanti. Ricordo che in Francia, dove il rapporto donne - uomini corrisponde al 65%- 35 %, si è aperto negli ultimi anni un ampio dibattito sulla necessità di una composizione mista dei collegi, sul rilievo che un corretto esercizio della giurisdizione postula l’apporto del pensiero, delle competenze e della sensibilità di giudici appartenenti ad entrambi i generi.
Paola Filippi: Cosa non rifaresti, cosa rifaresti, cosa rifaresti diversamente?
Gabriella Luccioli: È una domanda cui non so rispondere, e quindi mi limiterò a poche battute. Quando si contestualizzano le decisioni prese, quando si considerano le circostanze di tempo, di lavoro, la qualità dei rapporti professionali ed umani, le esigenze familiari che hanno ispirato o condizionato certi passaggi del nostro percorso, è difficile valutare a posteriori la bontà di quelle decisioni e stabilire se non fosse stato preferibile adottarne altre.
So tuttavia per certo che se nell’esprimere certe opzioni sulla carriera, sulla sede in cui lavorare, sulle funzioni da esercitare si tiene ben saldo il rispetto per l’attività che siamo chiamati a svolgere ogni determinazione assunta trova una sua razionalità.
Ciò vale a dire che se, come credo, la soluzione di ogni dilemma deve essere ispirata dalla finalità non già di fare carriera, ma dall'ambizione di adempiere nel modo migliore alla funzione di garanzia della legalità e dei diritti delle persone, ogni decisione che si ispiri a questo valore sarà sempre la decisione più saggia.
Paola Filippi: Cosa pensi sia utile consigliare alle colleghe che impegnate oggi in magistratura?
Gabriella Luccioli: So che i consigli non sono generalmente graditi alle nuove generazioni. Mi limiterò a formulare qualche mia personale valutazione, che ha piuttosto il senso di una testimonianza.
Nella mia lunga storia professionale mi è sempre apparso essenziale avere la memoria delle tante battaglie che hanno segnato la storia delle donne nel nostro Paese e far emergere con forza nella giurisdizione i valori, la dignità, la sensibilità e i diritti delle donne.
Questa consapevolezza mi ha suggerito di non abbassare mai la guardia a presidio delle vittorie già ottenute sul piano dei diritti, perché non è vero che le conquiste raggiunte sono definitive, ma è piuttosto vero che esse esigono di essere sempre riaffermate e difese.
In particolare in questi tempi difficili è percepibile un'onda lunga di ritorno che spinge all’indietro, cancellando diritti e posizioni che sembravano definitivamente acquisiti (il riferimento più immediato è all’infelice disegno di legge Pillon, che appare fortunatamente accantonato con il mutare della maggioranza di Governo, o alla recente normativa in tema di immigrazione e di sicurezza). Assistiamo ad interventi legislativi non ispirati ai valori di libertà e di democrazia, ma dettati da interessi politici contingenti e dalla propaganda, con i quali la magistratura è chiamata a confrontarsi facendosi garante dei diritti fondamentali delle persone.
Sul piano culturale vanno superate le residue discriminazioni di genere dirette e indirette che ancora esistono nella società e nella famiglia, che si sostanziano in una rigida divisione dei ruoli nell’ambito domestico, con inevitabili ripercussioni sulla vita professionale delle donne; discriminazioni che anche al nostro interno si riproducono in forma strisciante attraverso atteggiamenti di diffidenza o di sfiducia o attraverso criteri di selezione per gli uffici direttivi e semidirettivi che pur apparentemente neutri finiscono, come già accennato, per penalizzare le donne.
Ci sono ancora tante cose nel nostro Paese che offendono le donne e che vanno contrastate: dalla disciplina del cognome dei figli bloccata dagli incredibili ritardi del legislatore (a dimostrazione che il restringimento dell’area dei diritti può avvenire anche con il non fare), alla persistente violazione e reificazione del corpo femminile, alla volgarità dei messaggi pubblicitari, alla declinazione sempre al maschile di termini che ben possono essere tradotti al femminile, ad alcune infelici motivazioni di sentenze penali di cui la stampa ha avuto di recente occasione di occuparsi.
Il percorso da compiere per superare archetipi culturali resistenti al cambiamento è ancora lungo ed esige una chiara consapevolezza ed un forte impegno delle magistrate, soprattutto delle più giovani.
Sulle donne grava anche la responsabilità di contrastare una trasformazione in senso impiegatizio della magistratura, della quale si avvertono alcuni sintomi per il diffondersi di comportamenti di scarsa sensibilità al proprio ruolo (dei quali certe improvvide apparizioni sui social costituiscono esempio) o in qualche caso di negligenza, pure a fronte di difficoltà familiari e personali che devono trovare soluzione attraverso diverse modalità organizzative e il coinvolgimento della dirigenza dell’ufficio.
A tali assunzioni di responsabilità va a mio avviso aggiunta la necessità per le donne di superare gli ostacoli, le vischiosità e le pregiudiziali diffidenze che rendono ancora difficile il loro percorso professionale opponendo la reazione più seria ed efficace: non scadere mai nella routine e nel pressappochismo e mettere in campo una professionalità elevatissima, di livello superiore a quello degli uomini.
Cercando di non considerare che anche questa è una discriminazione indiretta.
Paola Filippi: C’è un sistema per coniugare famiglia e carriera?
Gabriella Luccioli: Non credo sia possibile individuare un sistema con valenza generale, credo piuttosto che il punto di equilibrio tra impegno professionale e oneri familiari vada ricercato caso per caso, con riguardo alla specificità delle singole situazioni.
Esistono enormi difformità di esigenze in relazione alla diversità di funzioni, di uffici, di territorio, di presenza di figli, dell’età dei figli, della qualità del rapporto con il partner, della disponibilità di questo a condividere l’attività di cura familiare.
Esiste inoltre per le giovani generazioni il grande problema della sede all’atto del conferimento delle prime funzioni: si tratta spesso di luoghi di lavoro molto lontani o difficilmente raggiungibili da quello di provenienza, che comportano scelte organizzative complesse, rese tanto più difficili dalla presenza di figli, non infrequente a seguito dell’elevazione dell’età di ingresso in magistratura.
Di fronte a realtà così delicate e complicate è impossibile intercettare soluzioni valide per tutti o consegnare ricette; l’unica certezza generalizzabile è che nel nostro Paese vi è ancora un diverso prezzo da pagare da uomini e donne per raggiungere gli stessi traguardi professionali.