ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Valutare la personalità all’interno delle prove di selezione dei magistrati è appropriato? E, sul piano pratico, è possibile? I test psicologici possono – secondo quanto richiesto in certi interventi di politici - verificare la stabilità emotiva, l’empatia e il senso di responsabilità, caratteristiche essenziali della professione del magistrato?
Cercherò di rispondere sul piano tecnico, in base alle mie competenze professionali.
I tentativi di quantificazione delle caratteristiche della mente umana risalgono a tempi lontani: nella pragmatica società statunitense del primo novecento i test psicologici venivano usati per valutare i soldati da inviare in guerra e selezionare i migliori, scegliendo quelli da ammettere ai corsi per ufficiali ed evitando di sprecare risorse per addestrare reclute poco intelligenti. Le aziende e le scuole di tutto il mondo si appropriarono di questi strumenti per misurare attitudini e capacità sia cognitive che di adattamento, spesso con usi impropri e piegati ai fini della committenza. I test servirono ad indirizzare «l’uomo giusto al posto giusto» nelle fabbriche, e relegare in «classi differenziali» gli scolari riconosciuti come ipodotati.
Non mancarono reazioni decise: alla fine degli anni ’60 negli Stati Uniti veniva segnalata la pericolosità dei tanti improvvisati ‘scrutatori di cervelli’ (Brainwatchers era il titolo di un volume pubblicato proprio in quel periodo). Cominciò in quel periodo una seria riflessione sul senso di una misurazione che va oltre gli aspetti psicofisici o neurofisiologici – facilmente studiabili in laboratorio – tentando di indagare funzioni complesse della mente umana come l’intelligenza e i tratti di personalità normale e patologica.
I test sono strumenti rigorosamente standardizzati mediante metodi psicometrici, attendibili cioè ripetibili in tempi e luoghi diversi, e validi in quanto rappresentativi di una certa funzione o area della psiche che si vuole indagare; capaci di codificare le risposte del soggetto indipendentemente dalla soggettività dell'esaminatore, e di confrontarle con le ‘norme’ riferite ad un campione rappresentativo della popolazione da cui è tratto il soggetto sottoposto ad esame. I test che rispondono a queste caratteristiche, adeguatamente costruiti e correttamente applicati, sono strumenti con indubbio fondamento scientifico, e vengono usati proficuamente in ambito scolastico, clinico, lavorativo, giudiziario. Ma il loro uso è spesso subordinato ad alcuni presupposti ideologici più che scientifici.
Il primo presupposto è che la psiche sia una realtà misurabile e quantificabile come altri aspetti del mondo fisico, mediante procedure ritenute analoghe al modello delle scienze biologiche. La mente come unità funzionale sarebbe analizzabile alla pari delle sue componenti neurofisiologiche, sicché il test costituirebbe per le funzioni psicologiche un equivalente di ciò che sono l’elettroencefalogramma o la risonanza magnetica per specifiche modalità di funzionamento organico.
Il secondo presupposto è che la psiche nelle sue diverse componenti sia valutabile in base a criteri ‘oggettivi’: ottica che in termini tecnici viene definita nomotetica, cioè basata su regole generali e valide per tutti gli individui. Le diverse misurazioni dovrebbero poi essere ricomposte – in un’ottica idiografica legata alla specifica persona - per ricavare il ‘profilo’ complessivo che la descrive.
Purtroppo quando si valuta la realtà psichica le cose non sono così semplici. La validità della valutazione dipende, oltre che dalla correttezza delle operazioni metodologiche con le quali lo strumento è stato verificato empiricamente, dalla corrispondenza con il costrutto teorico cui si fa riferimento. Mentre sul primo aspetto la psicometria ha fatto notevoli passi avanti, per cui esistono strumenti validi sul piano ‘tecnico’, rilevanti problemi persistono riguardo al riferimento ai costrutti teorici.
In particolare, la ricerca sulla personalità ha oscillato a lungo fra lo studio dei “tratti” come disposizioni stabili che caratterizzano certi individui piuttosto che altri, e l’analisi delle modificazioni prodotte nelle caratteristiche delle persone dalle interazioni che esse hanno con le situazioni e il contesto. Di conseguenza, le modalità di valutazione risentono dei criteri usati per definire la personalità: ad esempio, i questionari, tra cui il tanto citato Minnesota Multiphasic Personality Inventory (ma altri più moderni ne esistono), tentano di “obiettivare” alcuni aspetti della personalità degli individui, inquadrando le persone in categorie diagnostico-predittive presunte “oggettive”. Ma fino a che punto può essere considerata oggettiva la raccolta di dati che - per quanto provengano da risposte a domande standardizzate, valutate in modo altrettanto rigoroso, e si possa controllare in qualche modo la tendenza alla falsificazione - esprimono pur sempre la valutazione che un soggetto dà riguardo ad aspetti della propria vita psichica? Ai fini della comprensione del funzionamento psichico complessivo della persona esaminata, l’inquadramento diagnostico su basi auto-valutate è condizione necessaria ma non sufficiente, e va integrato con criteri diversi di analisi scientifica, miranti a “comprendere” globalmente il funzionamento della persona.
Non va dimenticato inoltre che il test è uno strumento mai asettico (come una radiografia o una risonanza magnetica) ma sempre inserito all’interno del rapporto tra l’operatore e il soggetto, rapporto collocato a sua volta in un preciso contesto sociale di riferimento. Solo per fare un esempio, un aspirante magistrato con profilo di personalità esente da tratti psicopatologici potrebbe poi risultare poco assertivo e molto influenzabile nelle decisioni giudiziarie: aspetti che il test non può valutare e prevedere in astratto.
In conclusione, sul piano tecnico il test offre utili indizi su aspetti cognitivi e di personalità di un futuro professionista, che sarà poi attuato nello specifico contesto in cui il lavoro viene svolto, per cui la capacità predittiva del comportamento è di tipo probabilistico. Per migliorare questa probabilità occorrono valutazioni concorrenti, come la presentazione di situazioni concrete (seppur ipotetiche) di problemi da risolvere connessi alla futura mansione lavorativa: queste potrebbero essere introdotte nella selezione dei magistrati, e non solo… sempre se possono essere ritenute compatibili con le norme generali sulle procedure concorsuali.
A questo proposito, lascio per ultima una domanda cui le mie conoscenze non mi consentono di rispondere: se è legittimo nella selezione del personale valutare - oltre le attitudini e le competenze specifiche in funzione della mansione - anche la personalità, ed escludere chi presenta certi tratti caratteriali che vengono ritenuti (da chi? e in che misura?) inadatti per una certa professione, accettando solo chi risponde ad un ipotetico profilo ottimale per quella professione (ancora una volta, definito da chi?). E se tutto ciò è legittimo, perché applicare questa valutazione solo al magistrato, e non anche alle altre categorie che prendono decisioni importanti per la vita delle persone: al medico, all’avvocato, all’economista, al dirigente d’azienda, al politico…?
* ripubblicazione dell'articolo uscito su questa rivista il 25 luglio 2019
Il nostro sistema costituzionale disegna la Magistratura come potere diffuso e l'ordinamento colloca i giudici di merito come prima Istituzione per la tutela dei diritti. Una primazia che nasce dalla posizione nell'iter processuale ma che si è legittimata per i suoi contenuti fecondi che hanno trovato avallo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Per coglierne la genesi basta volgere lo sguardo a un passato non troppo risalente e in particolare agli anni '70 che furono quelli della promozione dei diritti e delle garanzie.
I giudici di merito in un contesto normativo scandito da diverse riforme come lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, l'obiezione di coscienza, la riforma sanitaria, avviarono un indirizzo giurisprudenziale attuativo della Costituzione, nella innovativa consapevolezza "della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione” come espresso nella mozione finale del congresso nazionale dell'ANM di Gardone nel settembre del 1965.
Nel corso degli anni sono state numerose e in diversi settori le ipotesi di applicazione diretta della Costituzione da parte dei giudici di merito.
Dall'art. 2 nell'ambito dei diritti della persona al principio di uguaglianza sostanziale di cui all'art. 3 comma 2, dall'art. 15 per la tutela della privacy agli artt. 17 e 18 in tema di libertà di riunione e di associazione, dall'art. 32 per la tutela del diritto alla salute all'art. 36 in materia di rapporto di lavoro si sono succeduti plurimi interventi della giurisprudenza di merito che hanno disegnato un percorso definitivamente consacrato dalla Suprema Corte, che, da ultimo, proprio in tema di retribuzione, con una recentissima decisione ha affermato che "in virtù della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost.", sottolineando che "in virtù dell’integrazione del nostro ordinamento a livello europeo ed internazionale, l’attuazione del precetto del giusto salario costituzionale è divenuta un’operazione che il giudice deve effettuare considerando anche le indicazioni sovranazionali e quelle provenienti dall’Unione Europea e dall’ordinamento internazionale".
La concezione dello Stato moderno come titolare esclusivo delle fonti del diritto non è più attuale.
La funzione legislativa non è più monopolio dello Stato nazionale.
Accanto allo stesso esistono altre istituzioni alle quali è attribuita una funzione regolatrice, come le Regioni, le Autorità amministrative indipendenti, ma soprattutto le fonti sovranazionali.
La primazia dell'ordinamento comunitario trova fondamento, come costantemente affermato dalla Corte costituzionale, negli artt. 11 e 117 della Costituzione, per cui, nelle ipotesi di disposizioni immediatamente applicabili, l'effetto diretto del vincolo del diritto comunitario si traduce nella disapplicazione della norma interna contrastante.
L'effetto vincolante è esteso alle decisioni della Corte di giustizia in quanto integrano nel significato le possibilità applicative della norma comunitaria.
Ne viene fuori un quadro composito e articolato di fonti con le quali è chiamato a confrontarsi in prima istanza il giudice di merito che in questo contesto dinamico, anche con la possibilità della disapplicazione della norma statale, esercita una sorta di controllo diffuso di "comunitarietà" della legge nazionale.
Non va trascurato, poi, che il giudice italiano ha l'obbligo di conformarsi al diritto dell'Unione, un obbligo che discende espressamente dall'art. 2 della l. 117/1988 secondo cui, ai fini della responsabilità civile dei magistrati, rileva la violazione manifesta del diritto unionale e nella relativa valutazione deve tenersi conto dell'inosservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale o del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia.
L'indebolimento della funzione legislativa tipica dello Stato post-moderno e la frammentazione della titolarità a dettare le regole si riflettono sul rapporto tra legislazione e giurisdizione e sul ruolo del giudice, sul quale aleggia il timore che possa espandersi verso un'attività "creativa" del diritto.
Le istanze sociali trovano sempre più spesso come primo interlocutore la Magistratura, in particolare quella di merito, avamposto istituzionale per la verifica della tutelabilità di ogni nuova pretesa alla quale il legislatore per scelta o per incapacità non abbia voluto o saputo dare risposta.
Tutto ciò si traduce in nuove responsabilità per il giudice che non può farsi legislatore, ma che, a differenza di quest'ultimo, che può decidere di dare ingresso o meno alle istanze sociali assumendosene la responsabilità politica, non può rispondere con un non liquet.
La funzione giurisdizionale va esercitata in ogni caso e non può essere mai rifiutata, anche se ciò ovviamente non vuol dire che ogni domanda debba essere accolta.
Però una pretesa, anche se respinta, è comunque entrata nel circuito sociale, ponendo il tema all’attenzione della collettività.
Nell'era della globalizzazione sulla giurisdizione si riversa una grande quantità di istanze sociali con una sostanziale delega diffusa alla risoluzione dei conflitti.
È sempre più attuale il dibattito sul delicato e controverso equilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario.
Tramontata l'idea del diritto chiaro e preciso e del giudice "bocca della legge", la mediazione del conflitto si sposta sempre più frequentemente dal momento della creazione della regola a quello della sua applicazione.
È evidente lo scadimento della qualità della legislazione che, per la verità, è anche dovuto al dinamismo frenetico della società attuale la cui fluidità rende difficile la sua regolamentazione con norme predeterminate, con evidenti ricadute sul margine di opinabilità interpretativa che finisce per generare incertezza e disomogeneità applicativa.
Arginare il timore di sconfinamenti interpretativi con norme più dettagliate possibili può trasformarsi in un rimedio peggiore del male in quanto una pur minuziosa regolamentazione quasi mai riesce a esaurire l'imprevedibile concreto atteggiarsi delle fattispecie e, in un singolare processo di eterogenesi dei fini, rende inevitabile per il giudice di ricercare altrove la soluzione, mentre l'adozione di norme di principio suscettibili di adattarsi elasticamente al divenire della realtà restituisce alla interpretazione la sua funzione più genuina di individuazione della regola da applicare al caso concreto.
Così i confini tra la funzione del giudice e quella del legislatore finiscono con l'apparire meno netti di quanto in passato si fosse tradizionalmente inclini a riconoscere.
L'interpretazione delle norme giuridiche da applicare compete a qualunque giudice di ogni ordine e grado.
In fondo, ogni decisione, sia del giudice di legittimità sia del giudice di merito, attua in qualche misura al tempo stesso lo jus litigatoris e lo jus costitutionis: definisce la vicenda del caso concreto ed enuncia la regola di diritto che la dirime, e questa regola costituisce "precedente" giudiziario, idoneo a definire qualsiasi altra controversia nella quale è in discussione la medesima quaestio juris.
In senso formale la nomofilachia è compito attribuito alla Corte di Cassazione che, però, nell'espletamento di questa funzione si avvale delle sollecitazioni provenienti dai giudici di merito.
Questi apportano il loro contributo attraverso l'elaborazione argomentativa in direzione di una diffusa ed efficace tutela avanzata dei diritti per spingerla sempre più in avanti e renderla maggiormente intensa, anche prospettando letture e soluzioni innovative che si trasformano in diritto vivente e che non possono non essere considerate dal Giudice di legittimità.
In questa opera non è affatto secondario l'apporto che può derivare dal dialogo mediato che i giudici nazionali intrattengono con la Corte di Giustizia, alla quale sono soprattutto i giudici di merito che si rivolgono.
Non va trascurato, poi, che il numero delle controversie che pervengono al giudice di legittimità è notevolmente inferiore a quello che investe i giudici di merito, le cui decisioni non impugnate, quindi, assumono carattere di definitività formale e di conseguente stabilità entrando nel circuito della nomofilachia diffusa anche senza il crisma della Suprema Corte.
Sotto altro profilo va osservato che l'esame di alcuni casi che involgono temi eticamente sensibili sollecitati dal divenire della comunità ha sollevato diversi problemi che hanno posto l'interrogativo se la giurisdizione di merito abbia ecceduto i limiti delle sue attribuzioni usurpando le prerogative parlamentari.
Non credo che questo possa porre in discussione il principio della divisione dei poteri, anche se non va sottovalutato il rischio di un soggettivismo giudiziario che vada al di là della doverosa attività interpretativa e si indirizzi verso una vera e propria "creazione" del diritto non già nella sua accezione fisiologica di opzione all'interno del perimetro tracciato dal legislatore ma nell'adozione di soluzioni sganciate dal dato normativo verso un vero e proprio "diritto libero" che potrebbe finire per obliterare proprio il principio costituzionale della soggezione del giudice alla legge.
Il sistema delle impugnazioni, compreso lo strumento disciplinato dall'art. 363 c.p.c., sembra costituire una remora sufficiente al timore dell'arbitrio e dell'adozione di provvedimenti abnormi dissimulati dall'impiego surrettizio dell'interpretazione adeguatrice.
Così la libertà dell'agire del giudice di merito e il suo essere protagonista nella difesa dei diritti non sconfinano nell'arbitrio ma si coniugano con la consapevolezza di essere parte di un sistema presidiato dalla garanzia costituzionale dell'autonomia e dell'indipendenza.
Questa stessa consapevolezza gli impone, però, di condividere le regole del sistema del quale fa parte e di assicurarne la coerenza, vivendo e interpretando l'autonomia e l'indipendenza come valori funzionali all'eguaglianza dei cittadini e non già come privilegio individuale: presidio che deve essere difeso senza se e senza ma da tutti in quanto pilastro della democrazia e della libertà.
L'attenzione alla controversia o al processo non deve esaurirsi nella ricerca ragionata della soluzione del caso concreto ma deve proiettarsi nel lungimirante sguardo oltre i propri confini, nella doverosa e responsabile attenzione alle ulteriori fasi processuali e, in particolare, a quella di legittimità, non già per la vanagloria che può derivare ex post dalla conferma di un provvedimento né per il timore della riforma delle decisioni vissuta come una mortificazione professionale ma che, se assecondato, determinerebbe una pericolosa china verso il conformismo.
Piero Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scrive che "per i magistrati ... il vero pericolo non viene dal di fuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante ... La pigrizia porta a adagiarsi nell’abitudine che vuol dire intorpidimento della curiosità critica e sclerosi della umana sensibilità:… subentra con gli anni la comoda indifferenza del burocrate ... la peggiore sciagura che potrebbe capitare a un magistrato sarebbe quella di ammalarsi di quel terribile morbo dei burocrati che si chiama il conformismo”.
Il magistrato conformista e burocrate così efficacemente ricordato nell'opera di Calamandrei non ci appartiene ed è ben lontano dal modello costituzionale al quale costantemente ci ispiriamo.
Sine spe sine metu, quindi, per potere adempiere alla funzione di giudice non solo come mediatore del conflitto sociale, ma soprattutto, come afferma Roberto Romboli, in qualità di difensore dei diritti, per farlo con quella indipendenza che costituisce la precondizione della fiducia da parte dei cittadini, che confidano in una interpretazione del diritto libera da condizionamenti ma prevedibile e tendenzialmente stabile.
L'uniformità dell'interpretazione della legge compete alla Corte di Cassazione ma ogni giudice di merito non è una monade senza finestre di un universo.
Di questo universo fa parte e, pertanto, per assicurare efficacia ed effettività alla tutela dei diritti deve contribuire alla realizzazione di un sistema che in nome di una malintesa idea di indipendenza non sia schizofrenico e disorientante.
In un contesto nel quale il formante giurisprudenziale ha un rilievo decisivo la prevedibilità delle decisioni assume un valore enorme.
Anche la Corte EDU ritiene la prevedibilità delle decisioni e la stabilità della giurisprudenza nell'interesse della certezza del diritto e dell'ordinato sviluppo della sua giurisprudenza, anche se ciò non le impedisce di discostarsi da precedenti decisioni ove sussistano "cogenti ragioni" che lo giustificano per garantire che l'interpretazione della Convenzione rifletta i cambiamenti sociali e resti in linea con le condizioni attuali.
Eppure, la prevedibilità è stata ritenuta espressione di mero conformismo e come ostacolo all'adeguamento della giurisprudenza ai cambiamenti della società, non considerando le esigenze di certezza che assicura e il costo su diversi versanti che deriva dal cambiamento non ponderato di indirizzi giurisprudenziali.
Non c'è dubbio che una giurisprudenza statica e insensibile alle sollecitazioni che vengono dall'evoluzione della comunità non avrebbe consentito gli approdi della tutela aquiliana del credito, del danno biologico e della tutela della persona, per citarne alcuni, per cui è necessario trovare un non facile punto di equilibrio e, per dirla con Pietro Curzio, "l’ordinamento deve lasciare spazio all’evoluzione della giurisprudenza", ma "le ragioni per il cambiamento devono essere forti, consapevoli e convincenti. Devono essere in grado di prevalere sulle ragioni della stabilità, che sono a loro volta importanti e hanno implicazioni di ordine costituzionale".
Da un lato, quindi, non si possono ignorare le “ragioni della stabilità” imposte da esigenze di garanzia e dalla necessità di assicurare l’uguaglianza dei cittadini, nonché dall'obiettivo di porre ciascuno nella condizione di indirizzare la propria condotta valutandone preventivamente le eventuali conseguenze.
Dall'altro, però, si deve tenere conto anche delle "ragioni del cambiamento", in quanto l'inarrestabile evoluzione della giurisprudenza è linfa vitale della democrazia e, come rilevato da Paolo Grossi, bisogna evitare che la prevedibilità del diritto sia strumentale a "garantire la impietosa disuguaglianza fra ricchi e poveri".
La geografia delle nuove diseguaglianze, alimentata anche dalla pandemia, investe diversi ambiti, dal mondo del lavoro, profondamente cambiato anche nelle dinamiche sindacali, investito da una precarizzazione strutturale vestita dei panni di un preteso dinamismo del mercato, alla categoria dei risparmiatori, impreparati e disorientati dal mercato finanziario in un contesto in cui la asimmetria informativa assume proporzioni straordinarie.
L'art. 3 Cost. si rivolge a tutte le Istituzioni compresa la Magistratura e la Costituzione, come ricorda Calamandrei, non è immobile, è rinnovatrice e mira alla trasformazione della società.
Contemperare le ragioni del cambiamento con quelle della stabilità è un obiettivo non agevole e nella sua declinazione concreta deve confrontarsi con la realtà, evitando di creare o alimentare il rischio di un dualismo tra giudici di merito e giudici di legittimità che vada al di là di quello funzionale, di una divaricazione tra diritto libero e verticalismo.
La distinzione solo per funzioni tra i giudici fissata dai Padri costituenti e l'orizzontalità ordinamentale che ne deriva fanno sì che il rapporto fra giudice di merito e giudice di legittimità sia quello della leale cooperazione, anche al di là del circuito delle impugnazioni, e che Antonio Ruggeri ritiene indispensabile per perseguire il miglior risultato possibile per le parti che sono davanti al giudice.
Peraltro, non può non tenersi conto della circostanza che la produzione giurisprudenziale della Suprema Corte ha raggiunto numeri incredibili e parallelamente la sua diffusione è divenuta sempre più rapida e aggiornata praticamente in tempo reale.
E questo è certamente una grande conquista in funzione dello scambio di informazioni ed è una preziosa risorsa che arricchisce la conoscenza, consentendo ai giudici di merito di disporre di indirizzi giurisprudenziali aggiornati, ai quali si aggiungono i dati sulle pronunce di merito che parimenti affollano i canali di informazione costituiti anche da chat e mailing list.
Il timore, però, è dato dal fatto che, per una singolare eterogenesi dei fini, la disponibilità di una così vasta produzione giurisprudenziale potrebbe alimentare la pigrizia dei giudici di merito, interessati più alla ricerca del precedente, soprattutto di legittimità, calzante alla decisione della controversia che alla fisiologica elaborazione di un più faticoso percorso di studio e di approfondimento propedeutico alla decisione e che, soltanto dopo, si confronti con l'indirizzo del giudice di legittimità.
Ne verrebbero fuori un sostanziale appiattimento della giurisprudenza e il suo impoverimento quali-quantitativo, innescando un circolo vizioso destinato a ripercuotersi negativamente anche sulla Suprema Corte, che sarebbe privata degli stimolanti contributi provenienti dai giudici di merito in relazione ai quali si formano e si consolidano gli orientamenti del giudice di legittimità.
Temo che non sia una preoccupazione infondata, anche perché una sollecitazione alla scorciatoia del recepimento acritico dei precedenti può essere alimentata dai carichi di lavoro spesso assai gravosi se non quando insostenibili e alla conseguente indisponibilità di tempi adeguati a un ponderato esame di ogni questione, anche in vista di un'eventuale motivata e critica non condivisione del precedente.
Sotto altro profilo va considerato che l’accelerazione verso l'immediatezza della decisione della Corte di legittimità, per l’autorevolezza formale e sostanziale che riveste, ha come controindicazione, della quale occorre tener conto, la riduzione dei contributi provenienti dai giudici di merito che non fanno neppure in tempo a formarsi.
Così, anche la decisione della Corte di Cassazione non segue sempre a un fecondo dibattito da parte dei giudici di merito che nella pronuncia di ultima istanza trova la sua composizione ponderata, ma obbedisce maggiormente alla necessità di una risposta urgente viepiù sollecitata dal frenetico e non sempre coerente divenire della legislazione sostanziale e soprattutto processuale.
Ma la prevedibilità del diritto e una nomofilachia completa non possono non tenere conto della necessità di assicurare il medesimo obiettivo anche nell’ambito della giurisdizione di merito, in cui naturalmente hanno connotazioni diverse ma obbediscono a esigenze analoghe.
Lo ha ricordato la Presidente Cassano, e Giovanni Canzio parla, al riguardo, di nomofilachia orizzontale o circolare, promossa dai giudici di merito in quanto i primi a confrontarsi con la fluidità sociale e che torna agli stessi giudici che verificano le ricadute della giurisprudenza di legittimità.
Presupposto di questo meccanismo virtuoso è la circolarità della giurisprudenza e l'ordinamento appresta uno strumento apposito disciplinato dall'art. 47 quater dell'Ordinamento giudiziario che tra i vari compiti del presidente di sezione delinea quello di curare lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all’interno della sezione.
Si tratta di una disposizione dalle potenzialità enormi che sollecita informazione e confronto e chiama tutti i protagonisti a un impegno di responsabilità non già per conseguire il conformismo della giurisprudenza ma per acquisire consapevolezza di eventuali contrasti e promuovere la ricerca di soluzioni interpretative condivise, così realizzando per quanto possibile la prevedibilità delle decisioni.
Non va trascurato che la prevedibilità delle decisioni riduce la quantità della domanda di giustizia e consente maggiore possibilità di approfondimento anche in funzione di sottoporre a revisione critica orientamenti consolidati e così stimolare l'affinamento della qualità della Giustizia.
E al tempo stesso consegna certezza alla collettività sul diritto vivente, aumentando la fiducia nella Magistratura alla quale è chiesto un impegno sempre più arduo nella tutela dei diritti e, in particolare, di quelli fondamentali.
Credo che sia sempre attuale l'insegnamento di Stefano Rodotà secondo cui i temi di una vita sono i diritti, quelli individuali e sociali perché è da quelli che si misura la qualità di una società.
*Intervento nell'ambito del convegno di studi organizzato dalla Corte dei Conti "Giustizia al Servizio del Paese", Palermo 13 ottobre 2023.
(Immagine: Hans von Aachen, Giustizia e Pace, inchiostro e sanguigna su carta, 1604, Museo Nazionale di Danzica)
«La civiltà dei popoli si misura non tanto dalla bontà delle leggi che li reggono, quanto dal grado di indipendenza raggiunto dagli organi che queste leggi sono chiamati ad applicare»
PIERO CALAMANDREI, Governo e magistratura, Siena, 2021, 7
Sommario: 1. I progetti di riforma costituzionale volti a separare la carriera della magistratura giudicante da quella requirente - 2. Essi contengono, soprattutto, ulteriori modificazioni dell’ordine giudiziario di particolare allarme. Analisi di queste altre proposte di riforma - 3. Prima ulteriore proposta: la modifica della composizione dei membri del CSM - 4. Seconda ulteriore proposta: l’abolizione del principio secondo il quale i magistrati si distinguono soltanto per funzioni - 5. Segue: la normativa e gli orientamenti che già oggi derogano a questo fondamentale principio costituzionale - 6. Terza ulteriore proposta: la riscrittura dell’art. 106, 3° comma Cost. e il venir meno della regola secondo la quale l’accesso alla magistratura ordinaria si dà solo per concorso pubblico - 7. I limiti di tali proposte di riforma - 8. Segue: i limiti alla revisione costituzionale e l’impossibilità di compromettere il principio di indipendenza della magistratura - 9. Segue: i limiti in base ai nostri valori repubblicani.
1. I progetti di riforma costituzionale volti a separare la carriera della magistratura giudicante da quella requirente
Sono in discussione da qualche anno in Parlamento più disegni di modifica della nostra Carta costituzionale sulla possibilità di separare la carriera dei magistrati giudicanti da quella dei magistrati requirenti.
A questi progetti è stato dato il nome di Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura.
Vi sono, infatti, sul tavolo, più proposte di revisione della costituzione: in tal senso possono essere ricordati i progetti A.A.C. 23, 434, e 824, che presentano testi identici, e poi la proposta A.C. 806, che presenta, rispetto a quelle, solo piccole differenze.
Tutte queste proposte prevedono di separare le carriere della magistratura giudicante da quella requirente.
Gli A.A.C. 23, 434, e 824 riproducono integralmente il testo dell’A.C. 14 della XVIII legislatura di iniziativa popolare, e si tratta di un progetto che fu esaminato dalla Commissione affari costituzionali a partire dal febbraio del 2019; le ultime proposte di riforma sono invece del gennaio 2023.
Tutte queste proposte prevedono:
a) la separazione formale dell’ordine giudiziario nelle due categorie della magistratura giudicante e della magistratura requirente, con previsione di distinti concorsi per l’accesso in esse;
b) e conseguentemente due diversi organi di autogoverno della magistratura, uno per la magistratura giudicante e uno per la magistratura requirente.
Si prevede, infatti, una modifica dell’art. 104 Cost. che andrebbe ad affermare che: “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente”; e si prevede conseguentemente un: “Consiglio superiore della magistratura giudicante” e poi, art. 105 bis Cost. un “Consiglio superiore della magistratura requirente”; e infine l’art. 106 Cost. asserirebbe che: “Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati”.
In questo modo, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, da tempo da molti pretesa, si realizzerebbe in modo pieno, e senza alcun equivoco o mezza misura.
A ciò si aggiunga che i progetti di riforma in questione pretendono di modificare altresì l’art. 112 Cost. sull’obbligatorietà dell’azione penale, con un testo che disporrebbe per il futuro che: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge”.
Non solo così il pubblico ministero sarebbe in futuro un magistrato separato all’interno dell’ordinamento giudiziario, ma anche non avrebbe più la determinazione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale, le quali passerebbero nelle mani della politica, ovvero del Parlamento (rectius: del Governo), che farebbe (magari di anno in anno) una legge per stabilire quali siano i reati da perseguire con priorità e quali viceversa da collocare in lista di attesa.
Piero Calamandrei, nel 1921, scriveva che: «Dire da un lato che la giustizia è indipendente dalla politica, e dall’altra lasciare al governo la facoltà di decidere se la giustizia debba seguire il suo corso; affermare da una parte che la legge è uguale per tutti, e dall’altra lasciare al potere esecutivo la facoltà di farla osservare soltanto nei casi in cui ciò non dispiaccia al partito che è al governo, è tale un controsenso che non importa spendervi su molte parole per rilevarne tutta la enormità».
Evidentemente, dopo cento anni, siamo sempre al medesimo punto.
2. Essi contengono, soprattutto, ulteriori modificazioni dell’ordine giudiziario di particolare allarme. Analisi di queste altre proposte di riforma
Personalmente, mi sia consentito ricordare che fin dalla stesura della prima edizione del mio manuale di Ordinamento giudiziario, ovvero venti anni fa, nel 2004, presi posizione contro la separazione delle carriere, addirittura, provocatoriamente, definendo i pubblici ministeri “giudici requirenti” (pag. 155).
Negli anni, non ho poi avuto modo di mutare questa mia posizione, che anzi ho ribadito anche in un più recente saggio apparso su www.judicium.it del 9 novembre 2017, Contro la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici.
Ma non è questo, al momento, il tema che mi preoccupa.
Al contrario, desidero evidenziare che sotto l’etichetta di una modifica che riguarderebbe la separazione delle carriere, in realtà oggi si profilano modifiche dell’ordine giudiziario di più vasta e più incisiva gravità, e che viceversa non emergono né nei titoli delle proposte di riforma, che continuano a definirsi solo Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, né nel dibattito pubblico.
Conviene allora rivolgere la nostra attenzione soprattutto a quelle, perché, sommessamente, le trovo preoccupanti.
3. Prima ulteriore proposta: la modifica della composizione dei membri del CSM
La prima è questa: i progetti di riforma menzionati intendono modificare la composizione dei membri del CSM rispetto a quella esistente, e dispongono che il rapporto tra membri togati e membri laici non dovrà più essere quello di 2/3 di membri togati e un 1/3 di membri laici, così come stabilirono i nostri costituenti nel 1947, ma dovrà trasformarsi invece in un rapporto di parità, ovvero metà dei membri dovranno essere nominati tra i magistrati ordinari secondo criteri fissati dalla legge, e l’altra metà dovrà al contrario comporsi di avvocati e professori universitari nominati dal Parlamento (oppure dal Parlamento e dal Presidente della Repubblica nella misura di ¼ ciascuno).
Al riguardo, infatti, si propone di modificare l’art. 104 Cost., che al 4° comma andrebbe a statuire che: “Gli altri componenti (del CSM giudicante) sono scelti per metà tra i giudici ordinari con le modalità stabilite dalla legge, e per l’altra metà dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio”; parimenti il nuovo art. 105 bis Cost. sul CSM requirente disporrebbe che: “Gli altri componenti sono scelti per metà tra i pubblici ministeri ordinari con le modalità stabilite dalla legge e per l’altra metà dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio”.
È evidente che se la maggioranza dei membri del CSM è togata, è possibile considerare l’amministrazione della giurisdizione distanziata dall’attività politica; ma se al contrario i membri laici saranno in parità di numero rispetto ai togati, è vice-presidente resterà egualmente un membro laico, va da sé che gli equilibri dell’organo non saranno più gli stessi, e l’idea dei nostri costituenti di una amministrazione della giurisdizione non subordinata alla classe politica, se non ai governanti di turno, andrà persa.
L’incidenza della politica sulla giurisdizione, così, potremmo dire, si istituzionalizzerebbe, ed entreremo in questo modo in una nuova fase costituzionale della magistratura.
4. Seconda ulteriore proposta: l’abolizione del principio secondo il quale i magistrati si distinguono soltanto per funzioni
La seconda importante novità, contenuta anch’essa in tutti i progetti di riforma qui a commento, è la soppressione del 3° comma dell’art. 107 Cost.
Quella disposizione recita, come è noto, che: “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”.
Si tratta di un momento essenziale dell’organizzazione della magistratura, volto a significare che tutti i giudici sono eguali fra loro, e sono soggetti soltanto alla legge, e che quindi la magistratura, come da più parti negli anni è stato sostenuto, costituisce funzione diffusa, priva di strutture gerarchiche.
Nelle schede di lettura su tale intervento predisposte dalla Camera dei Deputati a pag. 24 si legge che: “La modifica appare consequenziale rispetto alla separazione formale dell’ordine giudiziario nelle due categorie della magistratura giudicante e della magistratura requirente”.
Certamente questa contrapposizione sarà la prima che caratterizzerà i magistrati se si arriverà ad una simile riforma; tuttavia questa contrapposizione non dovrebbe egualmente impedire che i vari magistrati, ognuno nel proprio ordine, continuino poi però a distinguersi solo per diversità di funzioni.
Se si arriva, invece, all’abrogazione integrale del 3° comma dell’art. 107 Cost. senza nient’altro specificare, pare evidente che la novità può essere non solo funzionale alla nuova contrapposizione tra magistratura giudicante e requirente, ma anche idonea ad incidere sulla struttura e l’organizzazione delle due magistrature, con il rischio che a questo punto tutti gli ordini giudiziari, giudicanti o requirenti che siano, perdano il modello di magistratura diffusa fino ad oggi avuto, e si assimilino così, puramente e semplicemente, alle altre pubbliche amministrazioni.
5. Segue: la normativa e gli orientamenti che già oggi derogano a questo fondamentale principio costituzionale
Il tema, sia consentito, è di particolare delicatezza, poiché l’idea di immaginare una gerarchia nell’esercizio della funzione giurisdizionale, e di limitare la libertà dei singoli giudici di interpretare la legge, è purtroppo una realtà che già esiste; e se il valore costituzionale secondo il quale i giudici si distinguono solo per funzioni verrà meno, allora davvero si potrà immaginare un ordine giudiziario futuro con dei giudici sovra-ordinati e dei giudici sotto-ordinati, con dei giudici di serie A e altri giudici di serie B; e la novità costituzionale non inciderebbe più, solo e soltanto, sull’art. 107, 3° comma Cost., bensì anche, conseguentemente, sull’art. 101, 2° comma Cost., secondo il quale: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”; e lo scadimento del 2° comma dell’art. 101 Cost. potrebbe infine, fuori da ogni retorica, incidere altresì, a mio sommesso parere, su lo stesso 1° comma della medesima disposizione costituzionale, e per la quale “La giustizia è amministrata in nome del popolo”.
Sia consentito ricordare la situazione già oggi esistente.
a) Una prima tendenza a gerarchizzare l’attività del giudice la troviamo nella legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario 17 giugno 2022 n. 71, che ha rafforzato i poteri dei capi degli uffici, prevedendo che la loro carriera dirigenziale sia subordinata alla acquisizione di competenze manageriali, alla capacità di analisi ed elaborazione dei dati statistici, e alla capacità di dare piena e completa attuazione a quanto indicato nel progetto organizzativo, ed inoltre ha disposto che ai fini della valutazione della professionalità di ogni singolo magistrato, oltre alla valutazione di produttività e laboriosità, va dato un giudizio con riferimento ad un fascicolo personale contenente i dati statistici, nonché possibili gravi anomalie in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio.
b) Un’altra tendenza, che si è andata via via nel tempo rafforzando, è quella per la quale l’interpretazione della legge spetta solo alla magistratura di vertice, ovvero alla Corte di Cassazione, e non a tutti i giudici; ed infatti: ba) i giudici di merito, a fronte di una nuova questione, non possano liberamente interpretare la legge ma devono (preferibilmente) rimettere la questione alla Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 362 bis c.p.c.; bb) i giudici non hanno parimenti (preferibilmente) la libertà di interpretare la legge secondo Costituzione o secondo la normativa comunitaria, ma sono invece tenuti a sollevare questioni di costituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale o pregiudiziali comunitarie dinanzi alla CGUE; bc) e soprattutto, è opinione diffusa che il principio di nomofilachia si sia trasformato in una sorta di stare decisis di natura anglosassone, con (preferibilmente) obbligo dei giudici di merito di attenersi agli indirizzi della Corte di Cassazione senza niente osservare.
c) Una terza tendenza è quella di immaginare che il Ministro della Giustizia possa superare i limiti di cui all’art. 110 Cost. ovvero possa occuparsi non solo dei servizi attinenti alla giustizia, bensì proprio di taluni aspetti dell’esercizio della funzione giurisdizionale (per questo mi permetto di rinviale al mio Brevi note sul dimenticato art. 110 Cost., in questa rivista, ottobre 2023), in questo modo, inevitabilmente, e in una certa misura, consentendo al Ministero stesso di vigilare e contribuire alle modalità di esercizio della funzione giudiziaria.
L’abolizione del 3° comma dell’art. 107 Cost. può costituire legittimazione e rafforzamento di tutte queste tendenze, capaci di modificare la natura e la struttura della nostra magistratura.
6. Terza ulteriore proposta: la riscrittura dell’art. 106, 3° comma Cost. e il venir meno della regola secondo la quale l’accesso alla magistratura ordinaria si dà solo per concorso pubblico
La terza novità concerne la modifica dell’art. 106, 3° comma Cost., che andrebbe a disporre che: “La legge può prevedere la nomina di avvocati e di professori ordinari universitari a tutti i livelli della magistratura giudicante”.
Si ricorda che il 3° comma dell’art. 106 Cost. prevede invece che: “Su designazione del CSM possono essere chiamati all’ufficio di consigliere di cassazione per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni di esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori”, e la materia è disciplinata nel dettaglio dalla legge 5 agosto 1998 n. 303.
Le differenze tra un testo e l’altro sono evidenti: ca) nel primo caso il potere di inserire in magistratura soggetti aspiranti fuori concorso è affidato al CSM, nel secondo caso viene invece trasferito alla legge, che evidentemente potrà regolare il fenomeno in modo del tutto discrezionale, non essendo fissati in Costituzione criteri per ciò; cb) nel primo caso si tratta di accedere solo presso la Corte di cassazione, mentre ora si immagina che il fenomeno possa estendersi a tutti i livelli della magistratura giudicante; cc) nel primo caso la condizione per accedere senza concorso alla magistratura è quella di aver conseguito meriti insigni, mentre oggi pare che ogni professore e ogni avvocato, anche senza meriti insigni e senza anzianità particolare, possa accedere ad ogni tipo di magistratura.
Si comprende non solo, così, come l’istituto sia stato totalmente snaturato, ma anche come vi sia in questo modo il rischio che in magistratura possano accedere soggetti privi di idonea formazione, fuori da ogni logica concorsuale, e fuori da ogni controllo del CSM.
E soprattutto può esservi il rischio, se si esce dalla logica del concorso pubblico, che vi siano un domani dei magistrati che debbano dire grazie a qualcuno per essere diventati tali.
7. I limiti di tali proposte di riforma
Alla luce di tutto questo non si tratta allora, a mio parere, di discutere se sia giusto o meno separare la carriera giudicante da quella requirente, si tratta di domandarsi che fine possa fare il nostro ordine giudiziario si dovessero approvare riforme di questo genere.
Nel nostro sistema costituzionale i tre cardini sui quali poggia il principio di separazione dei poteri e di indipendenza della magistratura sono quelli:
a) di avere un organo di amministrazione della giurisdizione il quale, seppur non composto di soli magistrati, sia comunque indipendente dal potere politico;
b) di avere una magistratura ordinaria alla quale si accede solo per concorso pubblico;
c) e infine di avere una magistratura soggetta solo alla legge, strutturata in modo non gerarchico, e distinta al proprio interno esclusivamente in base alla funzioni svolte.
Se queste tre caratteristiche vengono meno, la stessa idea di magistratura quale corpo che si distingue dalle altre amministrazioni dello Stato viene meno.
E io credo che una rivoluzione costituzionale di questo genere, che disegnerebbe un’altra magistratura rispetto a quella che fino ad oggi abbiamo avuto, non solo sia programma che abbiamo il dovere di osteggiare, ma anche, più radicalmente, costituisca una novità impedita nel nostro sistema repubblicano.
Ed infatti, giova ricordare, ci sono riforme della Costituzione che si possono fare, e riforme della Costituzione che non si possono fare; non tutto può essere oggetto di revisione costituzionale.
Non è forse inutile, dunque, aprire una parentesi per ricordare i limiti di revisione della nostra Carta costituzionale.
8. Segue: i limiti alla revisione costituzionale e l’impossibilità di compromettere il principio di indipendenza della magistratura
Ed infatti, seppur l’art. 139 Cost. reciti solo che: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”, nessun costituzionalista ha mai pensato che fuori da questo limite tutto il resto possa essere modificato.
È evidente che in Assemblea costituente, appena usciti dalla guerra e dal fascismo, la paura del ritorno alla monarchia era forte, e questo giustificava la disposizione di cui all’art. 139 Cost., voluta tanto dalle sinistre (Togliatti), quanto dai cattolici (Dossetti, Moro).
Ma già in Assemblea giuristi di primo piano quali Piero Calamandrei sottolineavano come la rigidità della Costituzione non potesse ridursi al solo impedire il ritorno della monarchia, e doveva invece necessariamente estendersi alla immutabilità dei valori fondamentali della Repubblica e delle disposizioni relative ai diritti di libertà.
E così, facendo seguito alla presa di posizione di Piero Calamandrei, Lodovico Sforza Benvenuti sottoponeva all’Assemblea plenaria del 3 dicembre 1947, un art. 130 bis, che recitava: “Le disposizioni della presente Costituzione che riconoscono e garantiscono diritti di libertà, rappresentando l’inderogabile fondamento per l’esercizio della sovranità popolare, non possono essere oggetto di procedimenti di revisione costituzionale, tendenti a misconoscere o a limitare tali diritti, ovvero a diminuirne le guarentigie”.
L’articolo, seppur condiviso nella sostanza da tutti, non trovava tuttavia approvazione per ragioni formali, atteso che taluni sostenevano che la norma potesse essere fonte di dispute e dubbi interpretativi.
Ad ogni modo nessuno in Assemblea costituente metteva in dubbio che i diritti di libertà della persona e i principi fondamentali della Repubblica potessero essere oggetto di revisione costituzionale; ed in particolare ciò veniva sottolineato con forza in un importante intervento da Paolo Rossi.
Il tema della revisione costituzionale si rendeva poi, evidentemente, materia di dibattito dottrinale, nonché oggetto di decisione da parte della Corte Costituzionale.
Già Costantino Mortati poneva la differenza tra limiti espressi e limiti impliciti, e altri giuristi sostenevano parimenti che il limite di revisione della forma repubblicana implicasse inevitabilmente l’interpretazione del valore da dare al termine “repubblica”, dovendo esso essere necessariamente comprensivo dell’intero impianto fondamentale del sistema costituzionale.
Si sosteneva, inoltre, che questi limiti impliciti potessero poi dividersi tra limiti impliciti materiali, se ricavabili dal testo formale di altre disposizioni della carta costituzionale, e limiti impliciti sistematici, non ricavabili direttamente da specifiche norma ma desumibili dai principi fondamentali irrinunciabili della nostra organizzazione statuale libera e democratica, ovvero ancora da “quei diritti i quali, pur non essendo esplicitamente menzionati nella costituzione, risultano implicitamente tutelati sulla base del sistema di valori che essa fa proprio” (Pizzorusso).
D’altronde, sarà poi questa la posizione della Corte costituzionale, per la quale: “La costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana, quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (così Corte Cost. 29 dicembre 1988 n. 1146).
Tra questi valori fondamentali, o “valori supremi”, non può non essere ricompreso quello della divisione dei poteri, che già infatti era stato indicato come non rivedibile in Assemblea costituente da Piero Calamandrei e Lodovico Sforza Benvenuti.
9. Segue: i limiti in base ai nostri valori repubblicani
Possiamo concludere con una affermazione del tutto evidente e del tutto scontata: il nostro sistema costituzionale non può fare a meno di un suo pilastro fondamentale quale quello dell’indipendenza della magistratura.
Se nel periodo del fascismo l’amministrazione della giustizia fu, come in tutti i regimi totalitari, controllato e diretto dalle forze di Governo, la nostra Repubblica, uscita da quella esperienza, doveva, e deve ancor oggi, in modo del tutto immutato, avere necessariamente dei giudici indipendenti dal Governo; e per avere veramente dei giudici indipendenti dal Governo “non basta liberarli dal timore che il loro atteggiamento di ribellione contro gli intrighi politici possa in qualche modo danneggiarli, ma bisogna altresì togliere loro ogni speranza che un atteggiamento servile ed inchinevole possa giovare alla loro carriera futura.” (Calamandrei).
Tornare viceversa ad un sistema che richiami il passato, ove l’influenza della politica, e quindi del Governo, sulla magistratura si faccia sentire, è rivoluzione costituzionale da ritenere impossibile, qualcosa che si pone non solo in contrasto con la lettura sistematica dell’art. 139 Cost., bensì anche, e tutt’assieme, con i valori della nostra vita democratica.
E non si tratta, al riguardo, di avere opinioni di destra oppure di sinistra; le prime proposte di riforma del Titolo IV della nostra Costituzione, infatti, furono avanzate nel 2019 da forze politiche di centro sinistra, mentre le ultime, di questo anno 2023, sono state presentate da forze politiche di centro destra: è possibile in questo modo constatare, con una certa delusione, la convergenza di tutte le forze politiche in argomento.
Contro questi progetti, di destra o di sinistra che siano, dobbiamo opporre il principio irrinunciabile della separazione dei poteri e ricordare in modo netto, secondo un motto della filosofia illuminista, che difendere l’indipendenza della magistratura non significa difendere i giudici (con, alle volte, le loro arroganze nella gestione quotidiana della vita giudiziaria): significa difendere la democrazia dello Stato, significa custodire la libertà di tutti i cittadini: perché nessun avvocato avrà una funzione nel processo se il giudice che gli sta di fronte non avrà l’indipendenza del decidere, nessuno cittadino sarà mai libero se non saranno liberi i giudici, nessuno Stato potrà definirsi democratico se il suo governo pretenda di incidere nello svolgimento della funzione giurisdizionale.
Intervento tenuto il 16 novembre 2023, in Siena, nell’Aula magna del Rettorato, in occasione del convegno Il modello costituzionale di giudice alla luce delle prospettive di riforma, organizzato per il commiato da Siena del Presidente del Tribunale Cons. dr. Roberto Carrelli Palombi.
Dei comportamenti della P.A. che costituiscono inottemperanza al dictum giurisdizionale: l’effetto conformativo del giudicato e la sua elusione (nota a Consiglio di Stato, Sezione Seconda, 22 maggio 2023 n. 5072)
di Silvia Casilli
Sommario: 1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso al Consiglio di Stato – 2. Sulla natura e sul margine di cognizione del giudizio di ottemperanza – 3. Comportamenti della PA che costituiscono inottemperanza al giudicato e silenzio assenso – 4. Il decisum della Sezione Seconda: l’elusione del giudicato.
1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso al Consiglio di Stato.
Con la sentenza n. 5072/2023, la Seconda Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata sul duplice aspetto della formazione del silenzio assenso nonché sui comportamenti della Pubblica Amministrazione che costituiscono inottemperanza al giudicato e, di conseguenza, sul margine di cognizione nel giudizio di ottemperanza.
Se quanto al primo profilo la Sezione ha sposato la teoria, già sostenuta da parte della giurisprudenza[1], che ammette il silenzio significativo anche laddove l’attività oggetto del provvedimento (tacito) sia priva dei requisiti di validità, non sono ravvisabili invece precedenti nei medesimi esatti termini quanto alla perimetrazione, che effettua il Collegio, del concetto di inottemperanza al giudicato rispetto al caso di specie; si legge, infatti che “deve ritenersi inottemperante il comune che, dopo essere rimasto inerte per anni, riavvia da capo l’istruttoria di un procedimento, senza tenere conto né delle precedenti produzioni documentali, né delle risultanze processuali”, confermando così la sentenza in commento l’indissolubile legame tra comportamenti parzialmente esecutivi del giudicato, che ne costituiscono sostanzialmente un’elusione, e inottemperanza.
La vicenda contenziosa trae origine dal ricorso al Tar Lazio con il quale il ricorrente impugnava, oltre alla disposizione dirigenziale con la quale il comune di Roma rigettava l’istanza di condono in relazione al parziale cambio di destinazione d’uso (da magazzino a negozio) di un locale, anche l’ingiunzione a demolire, nonché l’intimazione a non proseguire le attività commerciali esercitate in loco.
Avendo il Tar respinto[2] il ricorso ed essendo stata appellata la decisione, il Consiglio di Stato[3] accoglieva l’appello e annullava gli atti avversati, sancendo la convenienza, piuttosto che la doverosità, dell’applicabilità del regime delle sanatorie alla modifica di destinazione d’uso senza opere, ben potendo l’interessato adibire l’immobile ad esercizio commerciale vista la sua insistenza in una zona omogenea che ammetteva la presenza tanto di negozi quanto di magazzini. In particolare, la sentenza affermava che il ricorrente, al fine di ottenere la legittimazione postuma del proprio intervento, avrebbe potuto attingere, oltre che alla invocata disciplina del condono di cui all’art. 32 d.l. n. 326/2003 (scelta giustificata in via presuntiva in quanto più vantaggiosa economicamente), anche al paradigma dell’accertamento di conformità[4] di cui agli artt. 7 l.r. n. 36/1987 e 36 d.P.R. n. 380/2001[5].
Il ricorrente, pertanto, a fronte dell’inerzia degli uffici, diffidava reiteratamente il Comune ad avviare e concludere il procedimento di rilascio del condono, promuovendo poi, in data 8 novembre 2022, ricorso per l’ottemperanza della pronuncia del Consiglio di Stato chiedendone l’esecuzione, se del caso, mediante la nomina di un commissario ad acta.
Il Comune di Roma si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso e, in ogni caso, eccepiva la prescrizione di quanto eventualmente preteso a titolo indennitario, risarcitorio e/o di ristoro di qualsiasi natura. Successivamente veniva prodotta relazione dell’ufficio competente in materia di condoni nella quale, a giustificazione del ritardo nell’avvio della riedizione del potere, si invocavano le problematiche organizzative connesse alla pandemia da COVID 19, nonché, più di recente, l’impossibilità di accedere ai locali-archivio delle pratiche protrattasi dal 22 aprile 2021 al 5 aprile 2022. Veniva poi versata in atti ulteriore nota con la quale si dava finalmente notizia del “riavvio” dell’iter istruttorio, ribadendo tuttavia l’incertezza degli esiti, sull’assunto che la sentenza ottemperanda non avrebbe attinto al contenuto della propria futura valutazione.
Infine, in data 22 marzo 2023, a riprova del preannunciato riavvio della pratica, veniva prodotta la comunicazione inoltrata al ricorrente via PEC il 20 gennaio 2023 di richiesta di copiosa documentazione integrativa, atta anche a dimostrare l’epoca di realizzazione e la consistenza dell’abuso, significando la necessità della sua produzione esclusivamente tramite il sistema informatico dedicato accessibile dall’apposita piattaforma.
La Sezione Seconda del Consiglio di Stato, adita per l’ottemperanza, ha ritenuto, con la sentenza in commento, fondata la domanda del ricorrente.
Nell’accogliere il ricorso, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto opportuno soffermarsi su due aspetti principali, che costituiscono i punti nevralgici della pronuncia: l’obbligo di eseguire il giudicato e la relativa discrezionalità in capo all’amministrazione (aspetto questo che implica la necessità di volgere lo sguardo al margine di cognizione presente nel giudizio di ottemperanza); il rapporto tra l’obbligo di dare ottemperanza alla sentenza ed il tardivo avvio di un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso al fine di appurare se l’avvio tardivo possa essere equiparato alla doverosa ottemperanza o se, invece, concretizzi un’elusione del giudicato.
Si rende pertanto necessario, al fine di comprendere pienamente la portata del decisum, inquadrare dapprima tali aspetti.
2. Sulla natura e sul margine di cognizione del giudizio di ottemperanza.
Il Collegio esordisce con una premessa ben chiara: l’Amministrazione è sempre tenuta ad eseguire il giudicato, obbligo cui non può venir meno per nessuna ragione di opportunità amministrativa o di difficoltà pratica[6].
Il giudizio di ottemperanza, infatti, rappresenta un rimedio, espressione dei principi di effettività e concentrazione della tutela giurisdizionale, posto a disposizione del privato che voglia ottenere da parte dell’amministrazione soccombente l’attuazione del favorevole giudicato di cognizione. Il sistema di esecuzione delle sentenze e dei titoli esecutivi contemplati dall’art. 112 c.p.a. è ispirato ad un duplice modello, surrogatorio e compulsorio, volto a consentire la piena attuazione di quelle sentenze[7] di cui non venga data spontanea esecuzione ex art. 33 comma 2 c.p.a.
Si tratta di uno dei pochi casi in cui la giurisdizione è estesa al merito[8], potendosi il giudice dell’ottemperanza, nel caso di perdurante inerzia della PA, sostituire a questa, adottando il provvedimento anche nei casi di massima discrezionalità.
L’art. 112 c.p.a. prevede, infatti, che l'azione di ottemperanza possa essere proposta per conseguire l'attuazione tanto delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato, quanto delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo.
L’art. 114, poi, precisa i poteri che il giudice può esercitare in tale sede – pur potendosi desumere questi già implicitamente dall’art. 134 comma 1 lett. a) che attribuisce al giudice amministrativo la giurisdizione con cognizione estesa al merito – statuendo che “il giudice, in caso di accoglimento del ricorso: a) ordina l'ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l'emanazione dello stesso in luogo dell'amministrazione; b) dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato; c) nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, determina le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvede di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano; d) nomina, ove occorra, un commissario ad acta; e) salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo”.
L’Amministrazione è dunque sempre tenuta ad eseguire il giudicato ed ha al riguardo discrezionalità solo in odine al quomodo; la pronuncia chiarisce[9] infatti che nessuna discrezionalità sussiste in relazione all’an e al quantum. Ed è proprio la discrezionalità quanto al quomodo che esige di prendere in considerazione la natura (anche) di cognizione del giudizio di ottemperanza: l’esecuzione del giudicato si scontra, sì, con il limite invalicabile dello stesso – che rende ontologicamente estraneo all’alveo dei giudizi de quibus il riesame di questioni già definite in maniera compiuta – ma al contempo non può prescindere dal contenuto concreto della sentenza da ottemperare, implicando necessariamente un margine di cognizione intrinseco condizionato dallo sviluppo motivazionale della pronuncia ottemperanda.
La natura del giudizio di ottemperanza è stata a lungo ritenuta controversa, soprattutto quanto alla possibilità che esso serva anche a completare l’accertamento giudiziale che ha avuto il suo esito nel giudizio di cognizione[10].
L’opinione prevalente, che trova conferma nell’opera di codificazione legislativa del 2010, riconosce un profilo anche di cognizione e non di sola mera esecuzione del giudizio di ottemperanza. Il c.p.a. ha preso infatti esplicita posizione sulla natura mista del giudizio di ottemperanza, ponendo, anche se in qualche misura solo parzialmente, la parola fine al dibattito che ha a lungo animato la dottrina e che ha tracciato una spaccatura tra coloro che, non ravvisando una reale differenza rispetto al giudizio di esecuzione civile (soprattutto in relazione alle obbligazioni di facere), escludevano qualsiasi attività cognitiva del giudice dell’ottemperanza[11] e chi, invece, attribuendo fondamentale importanza alla circostanza che tale facere consistesse nel riesercizio del potere amministrativo, rilevava la non assimilabilità dei due riti[12].
Oggi il codice accoglie una tesi intermedia tra le due, predicando la natura mista del giudizio di ottemperanza[13]; la stessa relazione al codice ha confermato che tale giudizio presenta fisiologici momenti di cognizione, ragion per cui si è ritenuto di poter consentire la concentrazione in esso di azioni cognitorie connesse, per evidenti ragioni di economia processuale.
Dall’interpretazione delle disposizioni del codice operata dall’Adunanza Plenaria[14] emerge un modello del giudizio di ottemperanza conforme alle ricostruzioni teoriche, di cui si è dato atto, offerte in passato dalla dottrina più influente; ed anzi, per alcuni commentatori[15] si potrebbe affermare che le novità del codice del processo avrebbero non solo confermato, ma addirittura rafforzato la teoria sulla natura complessa del giudizio di ottemperanza[16].
Posto allora che non può negarsi l’esistenza di un profilo di cognizione, permangono, tuttavia, diverse opinioni, circa natura, oggetto, poteri e vincoli di una siffatta cognizione[17].
È opportuno allora chiarire cosa si intenda per giudizio di cognizione[18]. In particolare, il giudizio di ottemperanza è un giudizio necessariamente di cognizione ed eventualmente di esecuzione, allorché si tratti di dare attuazione al giudicato del g.o., mentre diventa necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cognizione, se a dover essere eseguita è la sentenza del g.a.
La diversità della formula si spiega con il fatto che nel primo caso il g.a. è tenuto a verificare e assicurare la rimozione dell’atto amministrativo dichiarato illegittimo dal g.o. solo incidenter tantum, stanti i limiti interni alla giurisdizione di quest’ultimo. Ne deriva che parte della cognitio è attribuita al giudice amministrativo dell’ottemperanza, chiamato a determinare in concreto le modalità di rimozione dell’atto. Diversamente, nel secondo caso, la statuizione contenuta in sentenza sarà più precisa e puntuale, con la conseguenza che si riduce la componente cognitiva limitata alla definizione della portata dell’obbligo di conformazione della p.a. Va tuttavia evidenziato che il g.a. non può mai integrare il giudicato del g.o., diversamente da quanto accade in relazione al giudicato del g.a.: in quest’ultimo caso, infatti, viene in rilievo il “giudicato a formazione progressiva”.
Quest’ultimo concetto è stato coniato proprio ad indicare la complementarietà tra le due sentenze integrate tra loro, pur conseguenti a distinti processi coordinati: quella da ottemperare e quella che ne definisce l’esecuzione.
Il Collegio, nella sentenza in commento, ripercorre e conferma lo scenario fino ad ora descritto.
È infatti un principio ormai consolidato in giurisprudenza quello in forza del quale il giudice dell’ottemperanza può arricchire, integrare e dettagliare le argomentazioni rede in sede di cognizione dagli organi della giustizia amministrativa[19]. Si parla non di sola esecuzione, bensì di attuazione in senso stretto (implicando così una cognizione)del contenuto del dictum giudiziale; attuazione – precisa la Seconda Sezione – purché evidentemente se ne ravvisi la necessità anche in funzione propulsiva del corretto operato della P.A., assicurando, sì, effettività alle tutele esperite, ma senza stravolgere né modificare il giudicato originario, né invadere competenze riservate alla discrezionalità amministrativa.
Tale modello di costruzione graduale del giudicato amministrativo trova conferma – come richiamano i giudici di Palazzo Spada – in un’importante pronuncia dell’Adunanza Plenaria[20] che non solo ne predica la compatibilità a livello eurounitario, ma afferma che proprio l’integrazione giurisdizionale delle pronunce conformative rese in sede di cognizione consente di “recuperare” eventuali difformità rispetto al diritto europeo[21]. In altre parole, l’ottemperanza diviene ulteriore luogo di adeguamento al diritto europeo, costituendo quella dell’esecuzione del giudicato sede idonea per garantire il rispetto del diritto eurounitario, in attuazione del principio che impone al giudice nazionale di adoperarsi per evitare la formazione (anche progressiva) di un giudicato contrastante con le norme di rango sovranazionale, cui lo Stato italiano è tenuto a dare applicazione.
Il giudizio di ottemperanza allora, su queste premesse, esige che il giudice effettui una triplice operazione[22]: interpretare il giudicato; accertare il comportamento tenuto dall’Amministrazione; valutarne, infine, la conformità alla regola giurisdizionale.
Nell’ambito di questa triplice azione, il giudice deve svolgere una prima operazione ermeneutica, ossia perimetrare in maniera esatta il contenuto della sentenza da eseguire[23]. È evidente allora l’ambito di cognizione, funzionale alla valutazione sulla sussistenza o meno del presupposto dell’inottemperanza.
La sentenza ottemperanda presenta infatti effetti sia ripristinatori (consistenti nell’obbligo per l’amministrazione di adeguare lo stato di fatto a quello di diritto) che conformativi in senso stretto[24]; ed è proprio alla luce di questi ultimi che va valutata l’eventuale inottemperanza. L’effetto conformativo del giudicato è diretto a vincolare la successiva attività dell’amministrazione e si affianca a quello preclusivo, volto a vietare che la p.a. reiteri l’atto inficiato dai vizi già stigmatizzati nella sentenza di annullamento, violando il principio generale del ne bis in idem. L’effetto conformativo e quello preclusivo, dunque, guardando al futuro evidenziano che l’amministrazione può riesercitare il potere, che, tuttavia, deve essere rapportato non più alla norma attributiva del potere, ma alla regula iuris contenuta nella sentenza.
L’inottemperanza della sentenza, dovendosi valutare alla luce dell’obbligo conformativo, sussiste non solo nel caso di totale inerzia dell’amministrazione, ma anche laddove l’amministrazione non adempia in maniera esatta. Se, infatti, in passato l’esperibilità del giudizio di ottemperanza veniva ancorata al presupposto della sola inerzia, arrestandosi di fronte all’emanazione di atti amministrativi, con il tempo si è decisamente aperta una breccia su questo versante, ritenendo esperibile il giudizio anche in presenza di atti elusivi o contrastanti con il giudicato[25].
E, particolarmente rilevante è il passaggio della sentenza che ravvisa il presupposto dell’inottemperanza anche in quei comportamenti parzialmente esecutivi del giudicato o solo formalmente tali, che ne costituiscono nella sostanza un’elusione, piuttosto che una violazione. E proprio in tale affermazione risiede il cuore della pronuncia, nonché la liasontra inottemperanza, elusione del giudicato e silenzio assenso: in particolare, il Collegio ha ritenuto che il tardivo avvio di un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso, come quello oggetto della sentenza in commento, mediante nuova richiesta di documentazione, senza chiarire le tempistiche finali di definizione dello stesso né specificare le sopravvenienze che ne hanno resa necessaria l’acquisizione anche in riferimento a situazioni ormai cristallizzate nel giudicato, non possa equipararsi alla doverosa ottemperanza dello stesso.
3. Comportamenti della PA che costituiscono inottemperanza al giudicato e silenzio assenso.
Nello sviluppo motivazionale della sentenza il riconoscimento del presupposto dell’inottemperanza si interseca con la questione del tardivo avvio di un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso[26].
In particolare, il Collegio si spende in una dettagliata digressione sull’istituto che è opportuno ripercorrere, almeno nei suoi aspetti fondamentali.
Il silenzio assenso[27] costituisce senz’altro in prima battuta un istituto di semplificazione[28], obiettivo questo che il legislatore ha tentato di rafforzare introducendo rimedi ulteriori, e soprattutto accentuando gli elementi di garanzia della certezza delle situazioni giuridiche. Tale esigenza di certezza si fa particolarmente stringente sul piano delle prassi distorte degli uffici, che possono collocarsi in astratto a monte dello stesso avvio dei procedimenti: il Collegio paventa non a caso il rischio che la presunta incompletezza di una pratica possa fungere da grimaldello per una serie di richieste aggiuntive che finiscano per procrastinare sine die il perfezionamento dei procedimenti ad istanza di parte, come di fatto avvenuto nel caso di specie.
Se si leggono, in chiave sistematica, gli istituti di semplificazione attraverso la lente della conformità ai principi generali dell’attività amministrativa, allora tale impostazione comporta necessariamente che il comportamento della p.a. sia improntato alla buona fede al pari di quello del privato[29], come peraltro oggi normativamente espresso.
Proprio attraverso la lettura filtrata dalla fondamentale rilevanza della buona fede si spiega anche la natura sanzionatoria[30] del meccanismo del silenzio assenso, che è volto sì a semplificare l’attività amministrativa, ma ancor più rappresenta non una fisiologica conclusione del procedimento, pur essendo oggi il ricorso all’istituto tendenzialmente generalizzato[31], ma la più grave delle sanzioni per la p.a. che è rimasta inerte e non ha provveduto[32].
Tra provvedimento espresso e silenzio assenso, allora, non vige un rapporto di identità sostanziale: il comportamento silenzioso non configura una modalità di esercizio della funzione, bensì un mero fatto, al quale la legge riconosce la capacità di produrre i medesimi effetti di una fattispecie diversa, ovvero dell’atto di assenso.
Non si tratta, infatti di una modalità ordinaria di svolgimento dell’azione amministrativa, bensì costituisce uno specifico rimedio messo a disposizione dei privati di fronte all’inerzia dell’amministrazione, come può esserlo d’altra parte anche la previsione dell’art 2 comma 9 l. 241/1990[33] che individua nella mancata o tardiva emanazione del provvedimento elemento di valutazione della performance individuale, nonché della responsabilità disciplinare e amministrativo contabile del dirigente e funzionario inadempiente.
Tutto questo è coerente con quanto si legge in motivazione laddove il Collegio afferma che un’ingiustificata attesa nell’avvio dell’istruttoria di una pratica non solo non può impedire la decorrenza del termine per il silenzio assenso ove questo sia previsto, ma “a maggior ragione impone la successiva compressione dei tempi di chiusura della stessa, ‘rimediando’ per quanto possibile al pregresso colpevole ritardo nei confronti della legittima aspettativa del cittadino a conoscere il contenuto e le ragioni, qualunque esse siano, delle scelte dell’amministrazione”[34].
Attraverso il meccanismo del silenzio assenso, l’inerzia assume un valore significativo ed equivale a provvedimento di accoglimento nel senso che gli effetti che promanano dalla fattispecie sono sottoposti al medesimo regime dell’atto amministrativo. Corollario che discende dall’art 20, e che ha trovato consacrazione in una recente pronuncia del Consiglio di Stato[35], è che il silenzio assenso può configurarsi anche in presenza di una domanda non conforme a legge; diversamente, reputare che la fattispecie sia produttiva di effetti soltanto ove corrispondente alla disciplina sostanziale, oltre che non avere alcun appiglio normativo nella formulazione dell’art 20, significherebbe sottrarre i titoli così formatisi al regime dell’annullabilità espressamente prevista dall’art 21 nonies[36]. Ma la previsione dell’art 21 nonies non costituisce il solo indice normativo da cui desumere la possibilità che il silenzio assenso si formi anche in mancanza dei presupposti di legge per lo svolgimento dell’attività: particolare risalto viene dato anche al nuovo comma 2 bis dell’art. 20, il quale prevede il rilascio obbligatorio, da parte dell’amministrazione su richiesta del privato, di un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda in virtù della formazione del silenzio assenso. Tale disciplina, non aliena da criticità, della cd. certificazione del silenzio[37], unitamente alla sanzione dell’inefficacia prevista dal comma 8 bis dell’art 2[38],costituisce chiara indicazione rispetto alla finalità acceleratoria dell’agire amministrativo dell’istituto.
Alla luce di tutto quanto premesso allora la doverosità dell’azione amministrativa e la scansione dei suoi tempi non possono che essere lette unitamente ai principi generali dell’agere amministrativo, rappresentando queste anzitutto una peculiare declinazione del principio di legalità – che non può qualificarsi esclusivamente come limite negativo all’esercizio del potere in ossequio alla concezione liberale, ma, soprattutto, in ossequio a una concezione sostanziale, come affermazione in positivo dell’obbligo che il potere venga esercitato (in tempo utile).
Se raccordata al principio di legalità, la doverosità dell’azione amministrativa risulta di conseguenza strettamente legata anche al principio di buon andamento, di rilievo costituzionale, e più in generale al dovere di buona amministrazione (secondo la terminologia europea). Ed è proprio in tale contesto che troviamo una congiunzione con quanto detto nel paragrafo precedente, inscrivendosi il potere conformativo del giudice amministrativo in sede di cognizione, ma ancor più di ottemperanza, nella direzione dell’effettività delle tutele poste a presidio proprio della legalità e del buon andamento.
4. Il decisum della Sezione Seconda: l’elusione del giudicato.
Inquadrati gli istituti in questione e l’utilizzo che La Seconda Sezione ne fa nella costruzione del proprio percorso argomentativo, possono declinarsi le relative conclusioni nel caso di specie.
Pur non avendo nel caso in questione il ricorrente invocato l’avvenuta formazione del silenzio assenso successivamente al giudicato, comunque non può essere priva di conseguenze[39] la circostanza che il legislatore abbia previsto tale modalità di acquisizione del titolo.
Non può poi l’illecito dell’abuso, peraltro nel caso de quo meramente formale, giustificare un rigore tale da comportare un ritardo quale quello maturato dal Comune di Roma, tenuto anche conto della sussistenza, già richiamata, del requisito della doppia conformità.
Alla luce di quanto fino ad ora ricostruito si spiega allora come il comportamento del Comune, pure dopo il formale riavvio dell’istruttoria del procedimento, senza peraltro indicare alcuna tempistica di chiusura dello stesso, integri il presupposto dell’inottemperanza al giudicato. L’amministrazione, dando tardivo avvio ad un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso, ha di fatto dato solo formale esecuzione alle statuizioni della sentenza da ottemperare, aggirandole tuttavia dal punto di vista sostanziale. Il comportamento tenuto non solo è inerte, ma è di fatto elusivo del giudicato, non avendo l’amministrazione valutato l’effetto conformativo dello stesso.
In queste conclusioni emerge chiaramente la relazione[40] tra inottemperanza, inerzia ed elusione del giudicato; l’elusione del giudicato altro non è che una forma di inottemperanza, o addirittura di inerzia[41], laddove l’amministrazione, pur agendo, lo faccia in maniera difforme rispetto al parametro, prefissato, del dictum giurisdizionale. È in quest’ottica, allora, ancora attuale la nozione di “ottemperanza imperfetta” o “inesatta”[42] da collocarsi nel contenitore più ampio della nozione di elusione che opera anche come sanzione sul piano del diritto sostanziale.
[1] In tal senso si erano già espressi Cons. Stato, Sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746 nonché TAR Campania, Salerno, Sez. II, 20 febbraio 2023, n. 406.
[2] La sentenza si fondava sull’assunto che non sarebbe stata provata l’avvenuta realizzazione dell’intervento in epoca antecedente al 31 marzo 2003 (termine ultimo per la fruizione dell’invocato “terzo condono edilizio” di cui alla legge n. 326/2003).
[3] Cons. Stato, Sez. II, 9 giugno 2020, n. 3667.
[4] L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria” consiste nella regolarizzazione di abusi “formali”, laddove l’opera sia stata sì effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dello stesso, ma senza violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione che a quello di presentazione della domanda. Modalità di acquisizione del titolo, questa, diversamente da quella invocata, non sottoposta al regime del silenzio assenso.
[5] La riconosciuta sussistenza dei requisiti per avanzare sia un’istanza di sanatoria ordinaria che di condono, implica allora l’affermazione che nel caso di specie sussiste anche il requisito della doppia conformità.
[6] Punto 10 della pronuncia in commento.
[7] Per una trattazione sistematica su come si concretizza il principio di effettività in relazione alle diverse tipologie di sentenze si rinvia a F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 4, 2016, 1025 ss. che evidenzia come tra sentenza del giudice amministrativo e ottemperanza vi sia una correlazione necessaria, quasi naturale: qualsivoglia giudice viene adito per emettere una sentenza che assicuri certezza per risolvere un conflitto tra le parti; se la sentenza, una volta resa, non venga osservata spontaneamente dal soccombente, si rende necessario un ulteriore processo volto a realizzarne gli effetti, potendo solo in questo modo garantire il principio di effettività della tutela giurisdizionale.
[8] Ex art. 134 comma 1 lett. a) c.p.a.
[9] Al punto 10.
[10] F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 2, 2018, 534.
[11] G. Verde, Osservazioni sul giudizio di ottemperanza alle sentenze dei giudici amministrativi, in Rivista di diritto processuale, 1980, 649. Nel medesimo senso, ossia della riconduzione dell’istituto al modello dell’esecuzione forzata civile, si veda anche C. Caianiello, Lineamenti del processo amministrativo, Utet, Torino, 1979, 559 ss.
[12] M. Nigro, Giustizia Amministrativa, Il Mulino, Bologna, 1983, 186. Sulla scia di tale posizione dottrinale, ponendo in risalto la peculiarità dell’attività esecutiva richiesta dalla sentenza di annullamento, è stato osservato che il giudizio di ottemperanza è in primo luogo un processo di cognizione, realizzandosi in esso un completamento del contenuto della pronuncia di annullamento, vista la natura del giudicato amministrativo di un giudicato “a formazione progressiva”.
[13] Natura che emerge già dalla disamina delle azioni astrattamente proponibili con il ricorso ex art. 114 c.p.a., che possono addirittura risolversi in una richiesta interpretativa (art. 112 comma 5 c.p.a).
Ma la possibilità che vi sia un esercizio della giurisdizione cognitoria scevra da profili di esecuzione in senso stretto emerge anche dalla possibilità di domandare l’accertamento e la condanna al risarcimento del danno per la mancata o inesatta esecuzione di cui all’art. 112 comma 3 c.p.a. Si pensi poi anche all’accertamento della nullità del provvedimento adottato in elusione o violazione del giudicato, ora rimesso alla competenza esclusiva del giudice amministrativo in sede di ottemperanza (art. 114 comma 4 lett. b e art. 133 lett.a n. 5 c.p.a.) o, ancora, alla necessità di accertare eventuali fatti sopravvenuti che abbiano reso impossibile l’attuazione del giudicato.
[14] Cons. Stato., Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2.
[15] M. Lipari, L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, in La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti organizzativi e riforme strutturali, in Atti del LVI Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Giuffrè, Milano, 2011, 102 ss.
[16] In tale ottica, l’unica reale novità apportata dal codice al regime previgente è stata riconosciuta nell’introduzione dell’art. 34 comma 1 lett. e) c.p.a. che, al fine di garantire la reale effettività della tutela, statuisce che, in caso di accoglimento del ricorso, “il giudice, nei limiti della domanda, dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza”.
In tal modo il sistema viene mutato: il giudice già in sede di cognizione è dotato di poteri più incisivi; in un’ottica di effettività e rapidità della tutela si registra un anticipo alla sede di cognizione di poteri prima attribuiti solo in sede di esecuzione.
[17] Per una trattazione più approfondita sulla complessità del tema si veda ancora F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, cit.
[18] Sul punto, ancora F. Manganaro, Ibidem che postula, premesso che ogni processo di esecuzione presenta una benché minima valutazione di cognizione, la necessità di distinguere tra cognizione ordinaria, strictu sensu, e cognizione volta all’esecuzione. Se nell’ambito della cognizione strictu sensu si possono proporre le ordinarie questioni generali quali la legittimazione, corrispondenza tra chiesto e pronunciato, tipologia delle azioni e tipi di prova ammissibili, oggetto della cognizione per l’esecuzione è invece, oltre la legittimazione, solo la verifica dell’effettiva attuazione di quanto previsto nella sentenza, con più limitati poteri del giudice in ordine all’accertamento dell’inadempimento o dell’elusione.
[19] Punto 10.1.2 della sentenza.
[20] Cons. Stato, Ad. Plen., 9 giugno 2016, n. 11.
[21] Si legge in motivazione che “la dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva – non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni ‘integrative’, ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale”.
[22] Come evidenziato da Cass. SS. UU., 31 marzo 2015, n. 6494.
[23] Come si legge anche nella sentenza in commento al punto 11.
[24] La diversità delle posizioni giuridiche fatte valere nel giudizio amministrativo comporta anche una diversità degli effetti del giudicato. Nel superamento della contrapposizione tra giudizio sull’atto e giudizio sul rapporto, la sentenza che dia ragione al privato titolare di interessi pretensivi pone la regola per l’ulteriore e futura attività della p.a., necessaria affinché l’interesse legittimo pretensivo trovi piena realizzazione. L’integrazione tra la regola contenuta nella statuizione giurisdizionale e la successiva attività della p.a. deriva dalla peculiare conformazione del giudicato amministrativo, definito complesso in quanto connotato da una parte da un effetto demolitorio e ripristinatorio (effetti, questi, che guardano al passato) e dall’altra da un effetto conformativo e preclusivo (che guardano al futuro).
Se gli effetti ripristinatorio e preclusivo hanno rilievo soprattutto nei giudizi aventi ad oggetto interessi oppositivi, connotati da una natura conservativa della posizione giuridica incisa dal provvedimento impugnato, l’effetto conformativo, viceversa, viene in rilirvo nei giudizi relativi ad interessi legittimi pretensivi, rispetto ai quali il privato, mira ad ottenere non solo che la p.a. adempia, ma che adempia in maniera esatta.
[25] F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, cit.
[26] Per una ricostruzione dell’istituto prima e dopo la L 14 maggio 2005, n. 80, e sull’ambito di applicazione ed effettività dell’istituto nonché sulla consumazione del potere di amministrazione attiva a fronte del provvedimento tardivo, si rinvia a P. L. Portaluri, Note sulla semplificazione per silentium (con qualche complicazione), in Nuove autonomie, 2008, 664 ss.
[27] Si segnalano, per un approccio ragionato sulle criticità dell’istituto, M. A. Sandulli, Silenzio assenso e termine a provvedere. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in Il Processo, fasc. 1, 1 aprile 2022, 11 ss e P. Carpentieri, Silenzio assenso e termine a provvedere, anche con riferimento all’autorizzazione paesaggistica. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, 11 aprile 2022, rielaborazione della relazione, prima citata, presentata nella giornata di studi “Questioni controverse di diritto amministrativo. Un dialogo tra Accademia e Giurisprudenza” svoltasi il 1° aprile 2022 presso il Consiglio di Stato.
[28] Lo dimostra la stessa collocazione dell’art 20 nel capo IV della l. 241/90, rubricato proprio “Semplificazione dell’azione amministrativa”.
[29] Il comma 2 bis dell’art. 1 l. 241/1990 prevede oggi espressamente che i principi della collaborazione e buona fede informino i rapporti tra cittadino e amministrazione. In particolare, anche la giurisprudenza ha da subito chiarito come tale norma debba essere letta nel senso dell’operatività in via bilaterale di tale obbligo che ha valore cogente sia verso il privato che verso la p.a., a prescindere dalla posizione di supremazia ricoperta da quest’ultima (da ultimo si veda Cons. Stato, Sez. IV, n. 7843, 8 settembre 2022).
[30] Analoga, in parte, valenza sanzionatoria, quale conseguenza della violazione dell’obbligo di buona fede si rinviene nella conseguenza della consumazione della discrezionalità (anche tecnica) dell’amministrazione che agisca in modo reiteratamente capzioso, equivoco e contraddittorio causando “un’insanabile frattura del rapporto di fiducia” con il cittadino. In tal senso, valorizzando la portata dell’obbligo di buona fede, il Cons. Stato., Sez. VI, n. 1321, 25 febbraio 2019 ha giustificato l’intervento del giudice in deroga al divieto di cui all’art. 34 comma 2 c.p.a. (ai sensi del quale “nessun giudice può pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”), ma pur sempre nei limiti previsti dall’art. 31 comma 3 c.p.a.
[31] Per quanto la giurisprudenza nel tempo abbia cercato di restringerne l’ambito applicativo prevedendo determinati requisiti dell’istanza – che, dovendo dettare per alcuni il futuro ed eventuale “provvedimento tacito”, non può essere lacunosa, ma deve essere radicata su una fattispecie concreta, ed essere circostanziata, precisa e determinata – e precludendone il ricorso nei casi in cui, esprimendo la p.a. discrezionalità pura, la motivazione appare irrinunciabile. Non è tuttavia pacifica quest’ultima preclusione al ricorso all’istituto; si legga al riguardo M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi, n. 10, 15 aprile 2020, 25 ss. in cui viene chiarito come dovrebbe ritenersi ormai sopito il dibattito circa la possibilità di circoscrivere l’operatività del regime del silenzio assenso ai soli procedimenti connotati da un ridotto margine di discrezionalità, non contemplando l’attuale formulazione della norma alcuna deroga connessa a tale profilo ed operando invece le numerose eccezioni espressamente indicate dal comma 4 relativamente a specifici profili.
Motivo di questa, almeno tentata, progressiva restrizione del ricorso all’istituto in seguito all’avvenuta generalizzazione del regime stesso è rinvenibile nel fatto che attraverso questa fictio iuris (sebbene la tesi “attizia” sia oggi recessiva almeno in dottrina, a favore di una posizione e volta a valorizzare in primo luogo la natura reale di mero comportamento del silenzio, tale da non consentirne l’equiparazione all’atto in quanto tale, bensì unicamente l’assimilabilità a quest’ultimo quanto agli effetti) si attribuisce all’inerzia della p.a. valenza di provvedimenti di assenso che concedono beni della vita al privato e possono pertanto risultare talvolta controproducenti per l’interesse pubblico; proprio in questo senso se ne comprende la valenza sanzionatoria.
[32] Cons. Stato, parere n. 1640, 13 luglio 2016.
[33] Che sancisce l’obbligo a provvedere della p.a. e disciplina il tempo dell’azione amministrativa, rappresentando piena attuazione del dovere di correttezza
[34] Punto 20 della sentenza.
[35] Cons. Stato, Sez. VI, n. 5746, 8 luglio 2022. Per una trattazione più approfondita della pronuncia si rinvia a A. Persico, Silenzio assenso e tutela del legittimo affidamento: il perfezionamento della fattispecie non è subordinato alla presenza dei requisiti di validità, in questa Rivista, 6 ottobre 2022.
[36] Che, nel disciplinare in generale l’annullamento d’ufficio, ne individua l’oggetto anche nel provvedimento formatosi ai sensi dell’art 20; presuppone allora evidentemente che la violazione di legge non può incidere sul perfezionamento della fattispecie, ma rilevi invece in termini di illegittimità dell’atto. Proprio per questo l’ordinamento prevede il rimedio postumo dell’annullamento d’ufficio.
[37] Sul punto si rinvia ancora a M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit. per delle proposte risolutive volte a superare l’inadeguatezza degli strumenti di tutela processuale offerti dall’ordinamento; in particolare, viene suggerita una duplice soluzione a tale condizione di grave incertezza: da un lato, ricostruendo il dovere della pubblica amministrazione di rilasciare un atto a carattere ricognitivo finalizzato all'accertamento della formazione del silenzio assenso; dall’altro lato, de iure condendo, prospettando una modifica dell’art. 20 l. n. 241/1990, tesa a riconoscere in capo al soggetto richiedente il diritto di rinunciare al regime del silenzio assenso, optando per il modello del silenzio inadempimento.
[38] Citato nella sentenza al punto 22.2 come conferma del fatto che, decorso il termine a provvedere e formatosi il silenzio assenso, all’amministrazione residua solo il potere di autotutela.
[39] Si legge al punto 19.
[40] Cui si fa riferimento in conclusione del paragrafo secondo.
[41] S. S. Scoca, Violazione ed elusione del giudicato: differenza anodina o utile?, 2012, in www.giustamm.it.
[42] M. S. Giannini, Contenuto e limiti del giudizio di ottemperanza, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1960, 473 ss. che distingueva tra inottemperanza, ottemperanza perfetta e ottemperanza inesatta, rilevando, tuttavia, come all’epoca la giurisprudenza fermamente escludesse l’esperibilità del giudizio di ottemperanza in caso di ottemperanza imperfetta o inesatta.
DELITTI DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E DELITTI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: OPINIONI A CONFRONTO
Il rapporto tra la criminalità organizzata e la criminalità economica è argomento tra i più spinosi ed attuali del nostro sistema penale, tanto da aver provocato negli ultimi anni più di un intervento legislativo.
Le connessioni esistenti tra le associazioni di tipo mafioso radicate in un territorio e gli esponenti delle pubbliche amministrazioni locali sono innegabili ed incontestate.
Ma dottrina ed operatori del diritto sembrano divisi nettamente tra chi ritiene che oggi per recidere questi legami occorra estendere la legislazione antimafia ai delitti contro la Pubblica Amministrazione, ritenendo questi reati come spia del controllo della cosa pubblica da parte delle cosche, e chi pone l’accento sulla necessità di tenere distinti nettamente le norme antimafia da quelle anticorruzione, per evitare un effetto indiretto di indebolimento dell’efficacia della lotta ai gruppi criminali, ritenendo che “se tutto è mafia niente è mafia”.
Giustizia Insieme ha affidato la riflessione su questo punto centrale dell’attività di contrasto alla criminalità a due esponenti di punta di due degli uffici di Procura più coinvolti storicamente in materia, anche al fine di verificare se i due corni della riflessione siano – e in che misura – influenzati dal contesto territoriale di appartenenza e dalla relativa storia criminale: Ida Teresi, Sostituto Procuratore della D.D.A. di Napoli e Maurizio de Lucia, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.
Pubblichiamo oggi il primo dei due contributi.
La Redazione
Mafia, corruzione, impresa
di Ida Teresi
Sommario: 1. Premessa. Le spinte riformiste e le loro tesi - 2. I caratteri delle mafie secondo le più recenti indagini - 3. Le Relazioni delle Commissioni Parlamentari di inchiesta che hanno preceduto l’introduzione della fattispecie incriminatrice dell’associazione di stampo mafioso - 4. Conclusioni.
1. Premessa. Le spinte riformiste e le loro tesi
In quella fisiologica, e ciclicamente ricorrente, esigenza di rivalutazione critica di statuti normativi esistenti che connota la vita pubblica del nostro Paese risulta recentemente riproposta da più parti, sebbene con accenti e finalità diversificate, l’istanza di revisione dell’apparato legislativo destinato al contrasto e alla repressione dei delitti commessi da organizzazioni criminali di stampo mafioso e delle gravi condotte di lesione o messa in pericolo del corretto esercizio della funzione pubblica. Le questioni appaiono strettamente connesse, sia in considerazione delle caratteristiche intrinseche dei delitti contro la pubblica amministrazione - connotati, come i reati di mafia, da interesse comune alla segretezza del patto e intrinseca attitudine all’omertà - sia per il loro forte legame con i primi, che taluni tendono a sottovalutare ma che qui si vuole sostenere potersi ritenere strutturale.
Non può dirsi, invero, che si tratti di spinta riformista ascrivibile solo o prevalentemente a ragioni e colorazioni politiche, più o meno contingenti e/o connotate dagli specifici obiettivi programmatici della maggioranza parlamentare di turno; in quanto è da riconoscere una risalente e sempre vitale esigenza di rinnovata interpretazione e rielaborazione critica di tali apparati normativi, in ragione (quantomeno per i reati di criminalità organizzata) delle caratteristiche specifiche di quel complesso regolatorio di settore che ha le sue ragioni funzionali nella particolare struttura delle organizzazioni criminali di stampo mafioso ed è effettivamente qualificabile, nel suo insieme, in termini di sistema normativo di doppio binario.
Caratteristiche strutturali del fenomeno mafioso che hanno condotto, in primis, alla emanazione di una norma (l’art. 416 bis cod.pen.) che presenta in sé elementi di tipicità di necessitata ampiezza, e correlata problematicità: rispetto alla quale formulazione ci si interroga tuttora, di fronte alle tante e diversificate condotte astrattamente sussumibili, su quali siano effettivamente gli elementi di fattispecie e quali la loro ampiezza e funzione qualificatoria, quale l’applicabilità a contesti nuovi o apparentemente tali, quali le caratteristiche della condotta punibile, quale il rapporto tra violenza e corruzione e il loro rispettivo ruolo in termini di definizione del metodo e di forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo [1]. E hanno altresì prodotto il noto e travagliato percorso di ricerca nel sistema di una norma che consentisse di qualificare penalmente le condotte di coloro che forniscono un contributo causale effettivo e più o meno stabile alle organizzazioni mafiose pur non essendo intranei: pervenendosi, come noto, al riconoscimento dell’applicabilità della disciplina del concorso di persone nel reato anche ai reati associativi. Neppure può dirsi che sia una proposta di rinnovata analisi e rilettura del sistema da considerare infondata, poiché, nonostante gli indiscutibili risultati ottenuti in un trentennio di operatività della legislazione antimafia, criticità e insufficienze operative sono sicuramente da riconoscere, e da affrontare con laico realismo e attenta competenza. Può riconoscersi pertanto necessaria una costante verifica della adeguatezza ed efficacia del sistema regolatorio, in una visione costituzionalmente orientata (e da tempo imposta anche dalla normativa sovranazionale) che tenga conto della sussistenza di effettiva adeguatezza e proporzionalità tra gli strumenti repressivi e le condotte di danno e pericolo, nel doveroso bilanciamento tra beni ugualmente tutelati; ma risulta parimenti ineludibile, nel rispetto dei ruoli istituzionali, interrogarsi sul senso, sulla portata e sulle finalità di un apparato normativo che nasce su precise basi conoscitive e ricostruttive del fenomeno oggetto di regolamentazione, al fine di rinvenire eventuali ragioni che possano fungere da argine e contenimento rispetto a dannose derive riformiste, disattente o contraddittorie dal punto di vista tecnico e assiologico.
Preoccupazione che si manifesta nella sua pienezza a fronte di ipotesi di riforma che, operando su più fronti, inducono a ravvisare un complessivo possibile indebolimento degli strumenti di contrasto alle forme più pericolose di criminalità organizzata di stampo mafioso, che fondano la propria potenza criminale non soltanto sulla violenza ma soprattutto sul legame strutturale e funzionale con segmenti deviati della politica e della pubblica amministrazione, oltre che dell’economia: interventi demolitori sul concorso esterno in associazione mafiosa, ulteriore riduzione della possibilità di incriminare le più gravi condotte di abuso da parte di pubblici funzionari, revisione della estensione delle norme sulle intercettazioni per i reati di mafia ai più gravi reati contro la pubblica amministrazione, rappresentano un combinato disposto che rischia di minare, del tutto irragionevolmente, l’efficacia delle indagini senza apportare nessun reale beneficio in termini di garanzie; e a pagarne il conto, quanto mai salato se si pensa alla attuale crisi socio-economica e alle speranze assegnate agli interventi economico-finanziari del PNRR, sarebbe ancora una volta la collettività.
Non può pertanto lasciare indifferenti la proposta di intervenire sul concorso esterno in associazione mafiosa in ragione di asserite tensioni del principio di legalità o di imperativi sovranazionali che imporrebbero riassetti normativi in termini di tassatività e certezza del rischio di incriminazione: come se potesse parlarsi di un delitto davvero di origine giurisprudenziale, nel senso di fonte alternativa a quella di stretta legalità, mentre è noto trattarsi esattamente dell’applicazione di una norma (l’art. 110 cod.pen.) della legge italiana; e come se tale sussunzione non corrispondesse alla sentita esigenza, sempre presente fino a oggi negli interventi legislativi dell’ultimo trentennio, di non lasciare fuori dall’area del penalmente rilevante condotte umane assolutamente funzionali alle organizzazioni mafiose, seppur realizzate da soggetti non intranei.
Questione che appare in tutta la sua centralità soprattutto se posta in relazione alla contemporanea progressiva attività di selezione delle condotte da ritenere effettivamente di partecipazione all’associazione realizzata dalla giurisprudenza di legittimità per comprensibili istanze di rigore qualificatorio: poiché si rischia in tal modo da un lato la restrizione dei confini delle condotte associative e dall’altro l’esclusione della punibilità di soggetti che non è possibile qualificare né come intranei (proprio e anche alla luce del maggior rigore oggi operante nella ricostruzione astratta della condotta di partecipazione) né come concorrenti esterni; sebbene essi siano a disposizione del sodalizio e portatori di contributi causali spesso particolarmente qualificati, come accade per schiere di professionisti e di imprenditori.
Ancora, in occasione di proposte di riforma della normativa in materia di utilizzo del captatore informatico nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione [2], viene sostenuta da alcuni la irragionevolezza della estensione (operata dalla l. 9 gennaio 2019 n. 3, dopo che già la riforma del 2017 ne aveva regolamentato l’uso per tutti i delitti che consentono le intercettazioni) delle norme applicabili alle indagini per delitti di mafia anche ai più gravi tra i reati di pubblica amministrazione; in particolare, sul presupposto delle affermate differenze sostanziali tra le due tipologie di delitti, si segnala da alcuni il potenziale di invasività del captatore informatico e la sua capacità di realizzare una intercettazione itinerante che troverebbe una giustificazione per la criminalità organizzata di stampo mafioso - attesi i caratteri propri di tali organizzazioni, protette da meccanismi di omertà, e in ragione della loro eccezionale pericolosità - mentre sarebbe strumento non assolutamente necessario e comunque sproporzionato per altri pur gravi reati [3].
La tesi, muovendo dal riconoscimento del carattere “totalizzante” dei delitti della “grande criminalità organizzata”, che presuppongono attività che si svolgono in permanenza e in tutti i luoghi frequentati dagli indiziati e rendono accettabile una compressione dei diritti più intensa di quella realizzabile nelle indagini per altri pur gravi reati, conclude nel ritenere che la “devastante invasione della sfera privata realizzata dal trojan ben può essere considerata un prezzo sproporzionato e non strettamente necessario nell’ambito di una società democratica per il contrasto ai reati amministrativi…" poiché “…la proporzione, che appare certamente ricorrente nel contrasto delle attività delittuose delle associazioni criminali, risulta socialmente e giuridicamente discutibile quando il trojan è usato per i reati comuni…” [4].
Occorre allora interrogarsi sui parametri fondamentali che appaiono sorreggere tali proposizioni, invero piuttosto assertive: in primo luogo, verificando se effettivamente i caratteri strutturali tipici dei delitti di mafia (“protezione” delle condotte e dei soggetti autori grazie a meccanismi di omertà, diffusività “ambientale”, eccezionale pericolosità e allarme sociale) non siano finalmente da riconoscere anche a delitti, quali la corruzione, intrinsecamente fondati sul comune interesse dei soggetti coinvolti a mantenere comportamenti omertosi; caratterizzati dalla medesima diffusività “ambientale” tipica del fenomeno mafioso, che può rendere difficile se non impossibile l’accertamento della condotta in assenza di strumenti di investigazione maggiormente invasivi; e di eccezionale pericolosità in quanto dannosi per il corretto funzionamento dello Stato e lesivi dei suoi beni e interessi fondamentali, quali la gestione delle risorse e delle finanze pubbliche, anche di fonte sovranazionale, la somministrazione ai cittadini di servizi pubblici essenziali, espressione minima di democrazia, e la garanzia di argini contro tensioni sociali che possano derivare dalla dissipazione di denaro pubblico.
Ma soprattutto, considerata la centralità dell’affermazione di una asserita differenza o lontananza tra delitti di mafia e delitti contro la pubblica amministrazione, può essere utile chiedersi se sia proprio così oppure se, all’opposto, l’intrinseca struttura delle organizzazioni di stampo mafioso abbia in sé, costituzionalmente, una quota indefettibile di attitudine ad avvalersi strumentalmente dei pubblici poteri per affermare il proprio metodo mafioso; se, ancora e oltre, definire il metodo soltanto in termini di violenza agita o evocata ma comunque espressa sia probabilmente frutto di una non indiscutibile interpretazione della norma e di un carente approfondimento delle ragioni storiche e politico-criminali della sua emanazione, nonché delle basi cognitive e ricostruttive del dato fattuale che ne hanno determinato la specifica formulazione.
In altre parole, la sfida appare proprio quella di rimettere in discussione le reali componenti del concetto di metodo mafioso, il ruolo da attribuire alla forza di intimidazione promanante dal vincolo nella ricostruzione della fattispecie, la stessa fenomenologia attraverso cui essa può manifestarsi, e il tasso di incidenza che su di essa hanno l’attitudine e l’esigenza di avvalersi di metodi corruttivi che appaiono essere un connotato indefettibile delle organizzazioni più strutturate e concorrono a determinare quello stato di soggezione che condiziona e orienta i comportamenti di chiunque si trovi ad avere occasioni o motivi di contatto o relazione con l’organizzazione, impedendone una effettiva libertà di autodeterminazione [5]. E, tutto questo, guardando in prima battuta a come le organizzazioni mafiose vivono e operano, oggi come nel passato.
In questo processo di verifica risulta indispensabile affidarsi in primo luogo ai documenti parlamentari, posto che indubbiamente nel secolo scorso la capacità di analizzare e rappresentare la mafia è stata espressa soprattutto dalla funzione parlamentare: fatto non soltanto fisiologico e doveroso, deve ritenersi, ma anche connesso all’arretratezza operativa e al deficit culturale che a lungo ha caratterizzato il sistema giudiziario del tempo; in particolare, il riferimento è alle Relazioni delle Commissioni Antimafia che hanno offerto la più approfondita ricostruzione del fenomeno mafioso prima che le nuove regole di diritto sostanziale e processuale offrissero finalmente alla magistratura gli strumenti per accertare anche in via giudiziaria dinamiche e caratteristiche operative di quei sodalizi, contribuendo a promuovere una più diffusa crescita culturale in termini di consapevolezza.
Ma ancora prima occorre rilevare che in senso contrario a quanto affermato dai sostenitori di esigenze riformiste/demolitorie depongono indubitabilmente le acquisizioni giudiziarie degli ultimi decenni [6] che descrivono sodalizi di stampo mafioso nei quali una componente fondamentale è rappresentata proprio da soggetti dediti con assoluta cautela comunicativa e spasmodica cura della riservatezza agli investimenti speculativi e al condizionamento delle pubbliche amministrazioni per conto dell’organizzazione e in suo favore [7]. Il che induce a ritenere che una strategia di contrasto davvero efficace non possa assolutamente prescindere dall’includere nel focus investigativo quei segmenti operativi, tanto più produttivi per l’organizzazione quanto insidiosi e nascosti.
Si dirà che intercettando gli affiliati, anche in modo invasivo, si potrà pur sempre giungere ai loro legami affaristici e politici; ma tale affermazione contrasta con il dato di realtà, emergente da decine di indagini che hanno consentito di accertare la raffinata strategia di occultamento dei soggetti, dei legami e degli affari più strategici per i sodalizi, e la possibilità di giungerne efficacemente alla ricostruzione partendo proprio da indagini di pubblica amministrazione o frode fiscale. Soprattutto, ci si chiede quali possano essere le ragioni tecniche e di politica criminale che conducano a rendere consapevolmente più ardua l’investigazione, ponendo ancora una volta lo Stato in condizioni di minorata difesa rispetto a condotte criminali di drammatico impatto socio-economico: se è vero, come è vero, che “il contrasto alle mafie, oggi caratterizzate da modelli imprenditoriali che alterano le dinamiche economiche, la libera concorrenza e l’ambiente, deve sempre più ispirarsi ad una migliore tutela della spesa pubblica…”[8].
Molte indagini condotte dalla procura partenopea [9], infatti, hanno consentito di pervenire finalmente al disvelamento dei rapporti più sensibili e fruttuosi per l’organizzazione, e parimenti più nascosti, soltanto mettendo in campo uno straordinario impegno investigativo [10], e relative risorse, per giungere - in tempi non brevi - a individuare quei soggetti particolarmente mimetizzati e protetti che hanno svolto a lungo una fondamentale opera di raccordo tra l’organizzazione, la pubblica amministrazione, il mondo dell’impresa: il tassello intermedio, dunque, a lungo nascosto, rappresenta lo scoglio maggiore per ottenere risultati investigativi positivi. Non è pertanto del tutto condivisibile l’idea che l’estensione degli strumenti operativi più efficaci ai delitti dei pubblici amministratori sarebbe comunque salvaguardata dalla sussistenza dell’aggravante mafiosa [11], quando riconoscibile, che renderebbe comunque applicabile il regime normativo più rigoroso, in quanto è proprio la difficoltà di individuazione dei soggetti che, intermediati da fiduciari a loro volta sapientemente nascosti, operano nella pubblica amministrazione e nell’economia a favore dell’organizzazione a rendere anche difficilmente applicabile l’aggravante mafiosa a fatti che (in assenza del disvelamento di quel segmento di intermediazione) potrebbero apparire delitti comuni.
Viceversa, poter indagare su fatti di corruzione con gli strumenti intercettivi più efficaci rende maggiormente possibile il disvelamento del legame con il sodalizio, e dunque la possibilità di condurre indagini maggiormente produttive in tempi più brevi e con un più ragionevole impiego di risorse, partendo dal reato comune. E ciò, come prima detto, a tacere delle ragioni di politica criminale che fondano ex se la giustificazione di strumenti più efficaci per un delitto di eccezionale gravità e allarme sociale, e di difficilissimo accertamento, quale la corruzione.
Resta pertanto non ragionevole, né sufficientemente motivata, se non con affermazioni piuttosto apodittiche e astratte e prive di collegamento con la realtà fattuale, la scelta di indebolire anziché rafforzare la capacità di accertamento e di contrasto di tali fenomeni criminali da parte dell’Autorità giudiziaria.
2. I caratteri delle mafie secondo le più recenti indagini
Con un linguaggio che ritroviamo nelle pronunce giudiziarie che, all’esito delle indagini eseguite dalla Direzione distrettuale antimafia napoletana, hanno ricostruito già da qualche anno gli assetti attuali della criminalità organizzata campana, la Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia per il primo semestre del 2022 riconosceva la “tendenza rilevata ormai da diversi anni circa il generale inabissamento dell’azione delle consorterie più strutturate che hanno raggiunto un più basso profilo di esposizione e, come tale, particolarmente insidioso proprio in ragione dell’apparente e meno evidente pericolosità. Tale atteggiamento risulta sempre più diffuso in tutte le matrici mafiose in considerazione del vantaggio loro derivante dalla mimetizzazione nel tessuto sociale e dalla conseguente possibilità di continuare a condurre i propri affari illeciti in condizioni di relativa tranquillità senza destare le attenzioni degli inquirenti. La criminalità organizzata infatti preferisce agire con modalità silenziose, affinando e implementando la capacità d’infiltrazione del tessuto economico-produttivo anche avvalendosi delle complicità di imprenditori e professionisti, di esponenti delle istituzioni e della politica formalmente estranei ai sodalizi” [12].
L’accertamento giudiziario di questa capacità di inabissamento [13] e mimetizzazione, infatti, appare sicuramente uno dei risultati più importanti conseguiti negli ultimi anni dalle indagini e dai processi in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso; sicuramente in Campania, dove tale strategia è stata realizzata anche strumentalizzando opzioni “dissociative” volte a contenere di fatto il danno derivante dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e ottenere benefici (in primis evitare condanne all’ergastolo per gli omicidi, contestati nei provvedimenti cautelari e quindi confessati) senza tuttavia fornire nessun apporto all’accertamento delle reali dinamiche criminali dei grandi sodalizi, incentrate soprattutto sui rapporti con la politica e sui correlati grandi affari, che sono stati a lungo protetti da una fitta coltre [14]; ma, per quanto è possibile rilevare, ciò è accaduto anche nei sodalizi operativi in altre regioni italiane [15]. Non per nulla, del resto, la Relazione al Parlamento la indica quale caratteristica di tutte le consorterie criminali di stampo mafioso più “strutturate”.
E la questione non è da poco, ai fini che qui interessano, poiché induce a porsi alcune domande centrali, le cui risposte non potranno che condizionare la soluzione al quesito posto in premessa: se questa è la caratteristica strutturale degli attuali sodalizi mafiosi, quali ulteriori affermazioni in termini di ricostruzione del fenomeno mafioso è possibile inferirne? Quale, cioè, la connotazione propria di quelle strutture criminali che il Legislatore intende perseguire e contrastare, e con strumenti adeguati a coglierne la fenomenologia specifica? Quale, in termini strutturali e funzionali, il ruolo della politica e dell’economia?
Infine, quale corollario logico: se questa azione di ricostruzione dell’operatività propria delle organizzazioni di stampo mafioso è stata accertata grazie agli strumenti investigativi e processuali posti sinora a disposizione dell’autorità giudiziaria, per quali ragioni, in che limiti e a quali fini intervenire in direzione riformista su uno statuto normativo che ha dato i suoi frutti?
Probabilmente uno dei punti di partenza dovrebbe cogliersi proprio in quella che i giudici prima e il Ministro dell’Interno poi hanno definito “capacità di inabissamento e mimetizzazione”, che in sintesi descrive null’altro che quel carattere di segretezza che è proprio delle associazioni criminali, ma che in quelle di stampo mafioso si esprime nella spiccata attitudine a tenere riservati i rapporti, più preziosi per il sodalizio e pericolosi per la collettività, con il mondo della politica, della pubblica amministrazione, dell’imprenditoria: talvolta non individuabili neppure in termini di alterità ma di immedesimazione.
Mentre il braccio armato di queste organizzazioni, caratterizzato dai livelli bassi o intermedi di una manovalanza che rappresenta pur sempre uno dei fondamenti su cui si regge la struttura, si “espone” e “viene esposto” necessariamente (seppure, è chiaro, con tutte le cautele volte a contenere i danni derivanti da detenzioni e condanne), essendo dedito essenzialmente alla raccolta delle provviste necessarie a mantenere gli affiliati e le loro famiglie (attraverso le estorsioni e lo spaccio di stupefacenti; il mercato del falso o l’usura) oppure alla espansione o mantenimento dei “confini”, non soltanto territoriali, sottoposti al proprio controllo criminale (giungendo alla commissione di omicidi, gambizzazioni, e cc.dd. “stese”: atti plateali e violenti espressione quasi sempre di momenti di fibrillazione interna ed esterna e dunque di debolezza dei gruppi, cui le organizzazioni più strutturate ricorrono soltanto là dove strettamente necessario, sia perché ne hanno poco bisogno sia perché attraggono evidentemente le maggiori attenzioni delle autorità), esiste in quasi tutte le organizzazioni più radicate, e quantomeno in quelle aventi origine nel territorio campano, un livello più alto e nascosto composto da “quadri”, reggenti e capi, che, dedito ai grossi affari, regge le fila di una protettissima rete di professionisti e imprenditori, di pubblici amministratori e politici, talvolta essi stessi intranei talaltra asserviti al gruppo mafioso in funzione di reciproci vantaggi, o semplicemente concorrenti in specifici delitti di tipo affaristico [16].
E questo livello “alto” appare sicuramente quello maggiormente mimetizzato, in misura direttamente proporzionale da un lato ai benefici che apporta all’organizzazione, dall’altro ai danni che arreca alla collettività e al Paese. In esecuzione di una strategia [17] che ha dato certamente i suoi frutti - se è vero, come è vero, che negli ultimi trent’anni alcune delle organizzazioni campane, pur fortemente indebolite da processi e condanne, hanno mantenuto una preoccupante presenza nell’economia e nelle relazioni con la pubblica funzione - gli esponenti di vertice dei sodalizi più forti hanno intessuto e mantenuto nel tempo rapporti anche con i livelli più alti del potere economico e politico-amministrativo, di talché sono stati accertati giudizialmente gli interessi mafiosi non solo nei più disparati settori del medio o piccolo commercio (dalla vendita di abbigliamento a quella di altri beni di largo consumo; dai distributori di carburanti alla gestione di aree di servizio, di bar e ristoranti) ma anche in settori più strategici e storicamente più protetti da ingerenze esterne e bisognevoli di provvedimenti amministrativi favorevoli quali la commercializzazione del petrolio, la raccolta e il trattamento dei rifiuti, l’edilizia e i settori a essa connessi. Per non parlare del mercato immobiliare, anche di lusso, e della grande ricettività alberghiera [18].
Ebbene, la possibilità per i vertici dei sodalizi di stampo mafioso di sedere ai tavoli dove si decidono gli affari (sia pubblici che privati) più importanti deriva evidentemente non solo da contingenti capacità personali ma soprattutto da una “riserva di utili” e da un patrimonio operativo oggettivamente trasmissibile, costituito da un know-how oramai stabilmente acquisito dall’impresa mafiosa e da rapporti sensibili più che rodati.
Il che fa pensare alla ulteriore conseguente considerazione: non può essere recente l’acquisizione di questa professionalità che consente di muoversi con dimestichezza nella economia e nella politica, tale è elevato il livello raggiunto e tanto strategici sono i settori in cui i capitali mafiosi sono stati ammessi e immessi. Osservazione che peraltro riceve forte sostegno dalla analisi di ciò che la mafia, o le mafie, sono state da sempre, dalle loro origini: seppur con gli inevitabili (e per quei sodalizi assolutamente vitali) “adattamenti” alla evoluzione socio-economica e politica dei territori ove esse si sono nel tempo insediate.
Esiste infatti un pensiero abbastanza diffuso, non solo nella pubblicistica ma anche tra gli operatori del diritto, secondo il quale negli ultimi tempi la mafia si sarebbe evoluta in soggetto imprenditoriale, inserendosi molto spesso ai livelli più alti dell’economia, ed abbia pertanto - in misura direttamente proporzionale, considerata la complessità della moderna organizzazione sociale e la stretta correlazione tra impresa privata ed esercizio dei poteri pubblicistici - sempre più bisogno, oggi, non solo di professionisti, faccendieri o imprenditori collusi ma anche di pubblici amministratori infedeli più o meno stabilmente a disposizione dei sodalizi, se non addirittura a essi organici: soggetti qualificati o comunque titolari di poteri pubblici pronti a strumentalizzare le proprie funzioni, all’occorrenza, al fine di garantire il raggiungimento degli obbiettivi di pervasivo controllo dell’economia legale da parte delle organizzazioni mafiose.
Si tratta di una osservazione non infondata ma imprecisa sotto il profilo della sua collocazione temporale: la mafia ha sempre fatto impresa e ha sempre intessuto opportunistici e strumentali rapporti con il potere pubblico e con la pubblica amministrazione. La stessa ragione dell’inserimento nel codice penale della nuova fattispecie di cui all’art. 416 bis nel lontano 1982 (introdotto dall’art. 1 della legge n. 646 del 13 settembre 1982), infatti, risiedeva esattamente dalla necessità di criminalizzare quelle condotte che, per quanto prepotentemente capaci di attentare all’ordine pubblico ed economico e alterare profondamente il mercato, rischiavano di non essere sussumibili nel delitto associativo semplice; e ciò, essenzialmente, in quanto riferibili a contesti associativi non necessariamente connotati dal programma di commettere delitti e neppure indefettibilmente dediti a comportamenti apertamente violenti [19].
Occorreva in altri termini adottare strumenti in grado di fronteggiare strutture economiche e di potere orientate a occupare i mercati e stravolgerne le regole sfruttando la propria dote criminale e i profondi legami con la politica, soprattutto quella espressa dai centri decisionali locali ma anche sostenuta da quelli centrali; strutture capaci di ostacolare lo sviluppo di una moderna imprenditoria e occupare interi segmenti economici grazie alla combinazione tra forza mafiosa e finanziaria, e il sostegno insostituibile di esponenti politici e amministratori pubblici [20].
Non è pertanto del tutto esatto affermare che le attuali forme di manifestazione delle organizzazioni criminali abbiano assunto negli ultimi tempi caratteri più moderni e raffinati, lasciando da parte le armi o la coppola per indossare il doppiopetto: una lettura attenta dei dati storici ricavabili dalle fonti induce a conclusioni esattamente opposte e consente di affermare che la mafia ha sempre fondato il proprio potere sia sulla violenza, non sempre né necessariamente manifesta o agita, sia sul dialogo e talvolta la compenetrazione diffusa e asfissiante con i pubblici poteri, con il mondo dei professionisti e con i detentori della ricchezza (patrimoniale o imprenditoriale che fosse) del Paese. Quello che è più recente, invero, è l’accertamento giudiziario definitivo di tali caratteristiche, che deriva evidentemente da più fattori: una più raffinata capacità di ricostruzione fattuale in ambito giudiziario, frutto sicuramente di una maggiore professionalità e specializzazione acquisita nel tempo dalla magistratura italiana; una più matura consapevolezza pubblica, resa indispensabile anche dai traumi del tragico periodo stragista; e strumenti investigativi e processuali più efficaci, nel tempo approntati.
È stato possibile accertare, infatti, che importanti sodalizi campani hanno largamente beneficiato dell’occultamento dei rapporti con la politica e le istituzioni, mai oggetto di rivelazioni; del nascondimento e della implementazione delle risorse finanziarie, mai svelate, sfruttando nel tempo la disponibilità di ampi settori dell’impresa a fare affari con la forza economica e mafiosa della camorra vincente; della assoluta protezione della riservatezza di una nutrita schiera di soggetti, mai svelati, che per esperienza e attitudini avrebbero meglio potuto sviluppare nel tempo la manovra di diffusa infiltrazione nella politica e nell’economia; del legame strutturale con gli amministratori pubblici, risalente a una stagione (quella tra gli anni ‘80 e gli anni ’90) caratterizzata non soltanto da faide cruente ma anche e soprattutto da patti tra politica e camorra. Lasciando indietro alcuni capri espiatori.
Non è del resto di limitato rilievo il fatto che una delle vicende più oscure della storia del Paese [21], rappresentata dalla trattativa tra lo Stato e Raffale Cutolo per il rilascio dell’assessore ai lavori pubblici della Regione Campania Ciro Cirillo, democristiano, sequestrato dalle Brigate Rosse il 27 aprile 1981, abbia visto la discesa in campo di camorristi e loro referenti politici accanto a esponenti nazionali della forza politica in quel momento più forte, la Democrazia Cristiana, servizi segreti e apparati deviati dello Stato, al fine - comune a tutti - di convincere il capo della N.C.O., che aveva un sostanziale predominio nelle carceri, a intervenire sugli appartenenti alle Brigate Rosse detenuti affinché fosse restituita la libertà all’uomo politico, e soprattutto fosse impedito che lo stesso potesse svelare ai brigatisti i segreti del post-terremoto. Vale a dire del saccheggio del denaro pubblico a opera di una nutrita schiera di imprenditori e pubblici amministratori strettamente legati alla criminalità organizzata, campana e non solo.
3. Le Relazioni delle Commissioni Parlamentari di inchiesta che hanno preceduto l’introduzione della fattispecie incriminatrice dell’associazione di stampo mafioso
Nel corso della VI Legislatura il Parlamento italiano attraversò una fase di fondamentale importanza per lo studio e la ricostruzione dei caratteri peculiari delle organizzazioni mafiose, e per l’individuazione degli strumenti di contrasto; la lettura delle Relazioni di maggioranza e di minoranza che nel 1976 chiusero i lavori della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia fornisce un quadro estremamente istruttivo.
Il tema aveva invero impegnato il Parlamento già nelle precedenti legislature, ma l’impegno profuso in particolare negli anni Settanta condusse poi all’adozione della norma-cardine della legislazione antimafia; soprattutto, è da dire, grazie alle conclusioni raggiunte nel 1976 nella Relazione di minoranza [22] della quale furono artefici principali Pio La Torre e Cesare Terranova.
Ebbene, ciò che in primo luogo colpisce della Relazione di minoranza è la aperta e coraggiosa denuncia della volontà della maggioranza, chiaramente emergente dalla sua Relazione [23], di sterilizzare in qualche modo la portata dirompente degli accertamenti compiuti dalla Commissione affermando che la mafia di quegli anni si era evoluta verso forme di gangsterismo e banditismo, e che si era attenuata, grazie anche all’intervento dello Stato (con le indagini, le operazioni di polizia, le azioni dei prefetti) la sua storica propensione al condizionamento dei pubblici poteri e al controllo della economia. Addirittura, secondo la relazione del senatore Carraro, stava in qualche modo diradandosi anche la tendenza della popolazione ad assumere comportamenti omertosi, diffondendosi una maggiore fiducia verso lo Stato, che induceva anche a denunciare.
E in effetti il corposo documento della maggioranza, pur avendo affermato in premessa di non voler tanto proporre una ricostruzione storica del fenomeno mafioso quanto una analisi dei suoi connotati fondamentali, finalizzata a “tentare di individuare i modi più efficaci di una lotta decisa alla mafia”, si diffondeva poi in una approfondita rappresentazione storica (il capitolo primo veniva non per nulla intitolato “La Genesi della Mafia”) che, partendo dalle vicende dell’800, attraversava un paio di secoli di storia della Sicilia; e, pur evidenziando soprattutto il ruolo della violenza e dei fatti di sangue nell’agire mafioso, non aveva potuto comunque fare a meno di riconoscere la mano mafiosa in numerosi e vitali momenti della storia politica ed economico-sociale siciliana, impegnandosi nella descrizione dell’iniziale ruolo della mafia nella economia rurale, attraverso la difesa del latifondo, e del successivo sviluppo della sua presenza nella vita della regione durante il periodo della forte urbanizzazione, a partire dal dopoguerra.
Venivano infatti analizzate le gesta, e i legami con il potere pubblico, di una mafia definita “agricola” a cui si riconosceva un ruolo fondamentale nel periodo pre- e post- unitario, durante le due guerre e nel periodo fascista; per poi passare in rassegna la c.d. mafia “urbana”, con la precisa indicazione di soggetti e vicende dimostrative della straordinaria capacità di adattamento dell’organizzazione rispetto alla evoluzione economica e socio politica: capacità che le aveva consentito non soltanto il mantenimento ma soprattutto il rafforzamento della sua infiltrazione negli assetti del potere pubblico e privato.
La Relazione dedicava invero una intera sezione alla questione “Mafia e potere pubblico”, giungendo ad ammettere che “si può dire senz’altro che le ricerche compiute hanno messo in luce molteplici anomalie di funzionamento dei vari organi della pubblica amministrazione, che hanno causato alla comunità gravi pregiudizi di ordine sociale, igienico, urbanistico ed economico, sotto le frequenti spinte di forze extra-legali che indubbiamente portano un’impronta di natura mafiosa”. Impronta mafiosa che la Relazione ritrovava in particolare negli “interventi comunali in materie di alto interesse sociale, in primo luogo in ordine allo sviluppo edilizio ed urbanistico delle città e dei centri più importanti della Sicilia occidentale…La gestione dei Comuni di qualche importanza della Sicilia occidentale è stata connotata da una serie frequente, anzi continua, di irregolarità amministrative di ogni genere…che per la natura più che per la quantità, e soprattutto per il contesto in cui si sono verificate, denunciano chiaramente, se non un’origine mafiosa, certamente il pericolo di un cedimento della pubblica amministrazione alle insidie, alle lusinghe, in una parola alla capacità di infiltrazione e di ricatto del potere mafioso in quegli anni presente con tutta la sua forza nei centri urbani presi in esame”.
“Irregolarità” sistematiche nel rilascio di licenze edilizie e di commercio e nella concessione di appalti: tra i tanti esempi - ricordava ancora la Relazione di maggioranza - dopo la frana di Agrigento del 1966 una commissione ministeriale di inchiesta accertò che “gli uomini di Agrigento hanno errato fortemente e pervicacemente …nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, interamente e coscientemente voluta, di atti di prevaricazione…di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento…”. Abusi, favoritismi e illeciti penali che mettevano in luce “come fosse sempre ampia la zona di permeabilità dei pubblici poteri alle azioni e ai tentativi di infiltrazione della mafia”.
Ancora la Relazione di maggioranza affermava “…ma fu in particolare a Palermo che l’accennato fenomeno assunse dimensioni per così dire visive, di tale evidenza cioè da non lasciare dubbi sull’insidiosa penetrazione mafiosa all’interno dell’apparato pubblico”, riconoscendosi che negli anni ’60 (e la Relazione, si ricorda, è del 1976) la gestione amministrativa del Comune raggiunse “vertici sconosciuti nell’inosservanza spregiudicata della legge”, con la “connivenza degli organi pubblici con gli ambienti mafiosi”; e che tutti gli abusi commessi e i favoritismi assicurati a tali ambienti andavano analizzati nel quadro delle vicende personali di colui che fu uno dei protagonisti della situazione di quegli anni a Palermo, Vito Ciancimino, cui la Relazione dedicava ampio spazio, per concludere che “il caso Ciancimino è stato l’espressione emblematica di un più vasto fenomeno che inquinò negli anni sessanta la vita politica e amministrativa siciliana, per effetto delle interessate confluenze e aggregazioni delle cosche mafiose e dei tentativi di recupero, ai fini elettorali o per giochi interni di partito, delle vecchie forze del blocco agrario o di uomini politici logorati dalla consuetudine con mondo mafioso…il successo di Ciancimino non si spiega come un fatto casuale…ma si comprende solo se visto nel quadro d’una situazione ampiamente compromessa da pericolose collusioni o da cedimenti non sempre comprensibili…”.
Tuttavia, teneva a precisare la Relazione, quasi ad anticipare le conclusioni che avrebbe di seguito offerto, “attualmente Ciancimino non fa nemmeno parte del consiglio comunale di Palermo…”, segnalando altresì che a carico dell’uomo politico pendessero diversi procedimenti penali per delitti contro la pubblica amministrazione. Ciancimino nell’angolo, dunque; e i rapporti tra mafia e politica nel dopo-Ciancimino in fase di evaporazione.
Non per nulla, infatti, nella parte finale la Relazione si diffondeva nella descrizione di una c.d. “quarta ondata mafiosa” dedicata al decennio che precedeva il 1976 (data della conclusione dei lavori della Commissione e del deposito della relazione stessa) per descrivere una mafia dedita in quella fase soprattutto a omicidi, stupefacenti, contrabbando.
Per tal via, di fatto contraddicendo quanto essa stessa aveva riconosciuto essere accaduto fin dalle origini e almeno fino a pochi anni prima, la maggioranza riusciva a concludere nel senso di una sostanziale sparizione di quei connotati peculiari del fenomeno mafioso poco prima descritti, per affermare “d’altra parte…la stessa delinquenza mafiosa tende a trasformarsi lentamente, ma in modo mano a mano accentuato, in una comune forma di delinquenza organizzata, non più connotata da requisiti tipici, pur priva di proprie caratterizzazioni, ma improntata soltanto a metodi di spietata violenza e di spregiudicata decisione…l’inserimento della mafia nella società urbana e industriale, la maggiore e più incisiva compressione che questa società necessariamente esercita sulle possibilità di aggregazione di un potere informale…infine, la lenta trasformazione della mafia verso forme di gangsterismo, hanno prodotto…una sensibile modificazione dei suoi rapporti con i poteri pubblici…e tende ad allentarsi (se non a scomparire) la presa che per tanto tempo la mafia ha avuto sull’apparato del potere formale.”
Dunque, mafia sempre più organizzazione criminale comune, basata sulla violenza e sul crimine di strada e non più sui rapporti con il potere pubblico; capacità in qualche modo autonoma della società urbana e industriale di ridurre gli spazi della prepotenza mafiosa e non più spasmodica ricerca di collegamento e supporto vicendevole tra mafia ed economia.
Ricostruzione chiaramente espressiva di un approccio negazionista e comunque consapevolmente e volutamente riduttivo dell’effettivo ruolo che in quel momento aveva la mafia, in Sicilia e non solo considerato lo stretto collegamento degli amministratori pubblici dell’isola con i centri decisionali romani. E volontà, neppure tanto nascosta, di frenare in qualche modo interventi normativi ben più efficaci.
I rapporti tra mafia e potere pubblico erano secondo la maggioranza evaporati in appena un quinquennio, più o meno per autonoma consunzione; tanto che la stessa Relazione affermava: “non è senza significato che gli ultimi anni, a differenza di quelli fino al 1970, non abbiano fatto registrare nelle città siciliane nessuno scandalo di qualche dimensione, che coinvolgesse insieme mafia e pubblici poteri. È un segno in più di una evoluzione nel senso indicato del fenomeno mafioso...”.
Dimenticava, la relazione di maggioranza, che Ciancimino era uomo della Democrazia Cristiana, l’uno e l’altra ancora saldamente al potere; che era rimasto nella carica di sindaco di Palermo fino al 1971; che era vicino a Salvo Lima, del quale (e dei relativi legami con la mafia) la relazione di maggioranza neppure parlava; che non era stato certamente messo nell’angolo dal partito, se è vero come è vero che soltanto la battaglia parlamentare della minoranza guidata da La Torre e da altri, e confluita nella relativa Relazione, fu in grado di far traballare ma non crollare il potere dell’ex sindaco di Palermo, che continuò anche negli anni successivi a essere tra i massimi esponenti della DC siciliana accanto a Salvo Lima, a capo della corrente andreottiana.
Una conclusione che determinò la forte, appassionata e indignata reazione della minoranza, che osteggiò fermamente tali tentativi con una accurata ricostruzione e documentazione di ciò che essa qualificò in termini di “compenetrazione” tra mafia e potere politico, viva e vitale più che mai, accusando che nel documento di maggioranza “pur affermando…che il dato caratteristico peculiare che distingue la mafia dalle altre forme di delinquenza organizzata è la “ricerca del collegamento con il potere politico”, si oscilla, nel seguito, tra la tesi sociologica della mafia come “potere informale” che occupa il vuoto di potere lasciato dallo Stato, e la realtà storica della compenetrazione fra il sistema di potere mafioso e l’apparato dello Stato. Si sfugge cioè al nodo centrale della questione: che tale compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)”.
Non un potere informale che si insinua negli spazi lasciati vuoti dal potere formale, ma un potere “compenetrato” in quello formale: la mafia è un fenomeno di classi dirigenti, affermava la Relazione La Torre. La compenetrazione tra mafia e potere politico aveva avuto fino ad allora, e per decenni, l’obiettivo di tenere a bada le classi subalterne, impedendo la modernizzazione e lo sviluppo democratico della regione.
E significativamente la Relazione di minoranza segnalava come a partire dagli anni ’60, con l’intensificarsi di un’azione di contrasto (espressa da parte della politica, e da inchieste giudiziarie), che passava anche attraverso la stessa istituzione di quella Commissione parlamentare, qualcosa stava cambiando: “prima del 1963 molti mafiosi ostentavano i loro rapporti con gli uomini politici e gli amministratori locali, e viceversa. La presenza dei mafiosi nei seggi elettorali era sfacciata e aggressiva. Oggi questi fatti vistosi di rapporti tra mafiosi e uomini politici si sono rarefatti”.
Ma, concludeva, ciò non consentiva di affermare che la mafia non esisteva più, né che i suoi rapporti con il potere pubblico e politico fossero stati definitivamente tagliati, né che la mafia si fosse trasformata in puro e semplice gangsterismo: sarebbe stato un grave errore, secondo la relazione La Torre-Terranova, se la Commissione avesse accolto le tesi della maggioranza, che miravano a ridurre il ruolo della corruzione come elemento strutturale esaltando soltanto le espressioni di violenza manifesta; ciò non avvenne, tanto che l’atto successivo fu la introduzione della norma che diede veste giuridica a quelle acquisizioni.
Infatti, il 31 marzo 1980 fu presentata alla Camera dei Deputati una proposta di legge che aveva quale primo firmatario proprio Pio La Torre, cui si aggiunsero poi le proposte di Virginio Rognoni; l’art. 416 bis del codice penale, come noto, fu quindi introdotto con la legge n. 646 del 13 settembre 1982. Pio La Torre era stato nel frattempo assassinato dalla mafia il 30 aprile dello stesso anno; Cesare Terranova il 25 settembre 1979.
4. Conclusioni
La Relazione La Torre-Terranova si oppose fermamente al tentativo di disconoscere le specificità del fenomeno mafioso, fondate sul rapporto strutturale col potere pubblico. Tanto la violenza quanto la corruzione, dunque, apparivano gli elementi peculiari e indefettibili dell’agire mafioso. Una diversa tesi avrebbe reso inutile l’introduzione della nuova norma: come la maggioranza parlamentare lasciò intendere quando affermò che la mafia era divenuta, sul finire di quegli anni ’70, una normale organizzazione criminale, soltanto particolarmente violenta e spregiudicata.
Piuttosto, l’intensificarsi di un’azione di inchiesta e contrasto aveva indotto a nuovi comportamenti: il nascondimento di rapporti in precedenza sfacciatamente ostentati. Cominciava, potremmo dire, quello che le sentenze di questi anni e la Relazione del Ministro dell’Interno del 2022, come segnalato in apertura, definivamo inabissamento: la accurata protezione dei rapporti più sensibili, quelli tra le organizzazioni criminali di stampo mafioso e i pubblici e privati poteri.
Il rischio di non comprendere e non agire adeguatamente fu evitato, allora, grazie alla coraggiosa attività di denuncia delle forze migliori del Paese.
[1] Davvero numerose le sentenze che, a dimostrazione di una riflessione che è sempre in atto, negli ultimi anni si sono interrogate su questioni nevralgiche eppure ancora non risolte; tra esse: le essenziali forme di manifestazione della condotta di partecipazione e la loro necessaria concretezza ed efficacia causale rispetto alla vita del sodalizio; il valore dell’affiliazione rituale; la definizione del metodo mafioso e il ruolo della violenza e della intimidazione, soprattutto in relazione a forme associative fortemente connotate da logiche corruttive; le nuove mafie, le mafie straniere, le mafie delocalizzate; i confini tra partecipazione e concorso esterno. Tra le tante, SS.UU. Penali n. 36958/21 del 27.5-11.10.21, imp. Modaffari; Sez. III pen. n. 2351/23 del 18.11.22-20.1.23, imp. Almanza; Sez. II pen, n. 31920/21 del 4.6-23.8.21, imp. Alampi; Sez. VI pen., n. 1162/22 del 14.10.21-13.1.22, imp. Di Matteo; Sez. VI pen., n. 14444/23 del 21.2-5.4.23, imp. Abubakar; Sez. II pen., n. 39774/22 del 7.5-20.10.22, imp. Aiello.
[2] Disegno di legge del Sen. Zanettin di Forza Italia, volto a introdurre “Modificazioni agli artt. 266 e 267 del codice di procedura penale e alla legge 9 gennaio 2019, n. 3 in materia di utilizzo del captatore informatico nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione”. La Relazione della Commissione giustizia del Senato redatta al termine dell’indagine conoscitiva dal presidente Bongiorno e dai relatori Zanettin e Berrino, è stata approvata il 20 settembre scorso.
[3] Vedasi, ad esempio, Nello Rossi, Trojan Horse: tornare alla riforma Orlando? Il difficile equilibrio nell’impiego del captatore informatico, su Questione Giustizia, 28.12.22.
[4] Ancora Nello Rossi, nell’articolo riportato nella precedente nota.
[5] La vicenda di Mafia Capitale è nota. Diversi commentatori hanno ritenuto che con la decisione della VI sezione della Cassazione del 22 ottobre 2019, depositata il 12 giugno 2020, si sia giunti all’epilogo di un percorso rischioso di eccessiva dilatazione della fattispecie penale che avrebbe condotto alla possibilità di criminalizzare una mafia soltanto “giuridica”; e ciò soprattutto grazie alla identificazione dei caratteri fondamentali del metodo mafioso e della intimidazione, della c.d. “riserva di violenza” e della sua necessaria “esteriorizzazione” attraverso atti di violenza e minaccia effettivamente realizzati o comunque percepiti e idonei a imporre soggezione; del rapporto tra intimidazione e corruzione. Il tema appare invero troppo ampio per la limitatezza di questo scritto; ci sia consentito però di esprimere riserve sull’idea che si sia davvero messa la parola fine alla questione, con il definitivo preteso “riordino” degli aspetti applicativi della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., poiché è probabilmente necessario riflettere ulteriormente sul ruolo della corruzione all’interno della fattispecie incriminatrice, proprio e già dal punto di vista letterale, oltre che su quale fosse realmente la mafia che il Legislatore del 1982 aveva in mente, per averla analizzata e ricostruita, e intendeva perseguire.
[6] Nella sua audizione al Senato il 31 gennaio 2023 il Procuratore Nazionale Antimafia osservava: ..al piano dell’innalzamento delle garanzie attiene anche la questione dell’ulteriore delimitazione dell’impiego di alcune delle tecniche di indagine più invasive, come quelle legate all’impiego a fini di captazione del c.d. trojan…omissis…avverto la responsabilità di porre a disposizione delle valutazioni del Parlamento i dati di una ormai vasta e consolidata esperienza, i quali dimostrano…che l’efficacia reale dell’azione di contrasto della criminalità mafiosa dipende largamente dalla capacità di proiettare le indagini sui versanti nei quali operano le sue componenti più sofisticate e pericolose, perché deputate ai processi di reinvestimento speculativo, di condizionamento delle pubbliche amministrazioni...e di penetrazione profonda dei mercati d’impresa, a partire da quelli sui quali si riversano i maggiori flussi della spesa pubblica. Tali processi sono affidati non a uomini con la coppola sul capo e la lupara in spalla, ma al linguaggio, largamente praticato dal mercato e nel mercato, della frode fiscale e soprattutto della corruzione. Molte ed anche importanti indagini di mafia …sono originate da indagini avviate sul fronte del contrasto della corruzione e delle frodi fiscali; escluderle dal novero di quelle per le quali quelle tecniche investigative sono consentite sarebbe dunque scelta legittima ma destinata ad avere conseguenze pesantissime, non solo sul versante del contrasto della corruzione ma anche su terreno delle indagini di mafia…”; riportato da Giustizia Insieme, 3.2.23.
[7] La Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia per il primo semestre del 2022 segnala come “l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi, il 25 maggio 2022, nel suo intervento a conclusione della cerimonia organizzata a Milano nel trentennale dell’istituzione della DIA, ha riassunto le linee d’azione del Governo rispetto agli attuali format della criminalità organizzata, rimarcando che il contrasto alle mafie, oggi caratterizzate da modelli imprenditoriali che alterano le dinamiche economiche, la libera concorrenza e l’ambiente, deve sempre più ispirarsi ad una migliore tutela della spesa pubblica. Tale azione, prosegue, dovrà privilegiare la semplificazione delle procedure del sistema di contrasto alle infiltrazioni, il rafforzamento dei controlli e l’ampliamento di strumenti preventivi…”.
[8] Mario Draghi alla cerimonia per il trentennale della DIA a Milano, il 25 maggio 2022.
[9] Tra le altre, l’indagine denominata Petrolmafie che ha consentito di accertare ingenti investimenti della camorra napoletana e della ‘ndrangheta nel settore petrolifero, grazie anche a un accorto coordinamento investigativo tra le DDA di Napoli, Roma, Catanzaro e Reggio Calabria, coordinate dalla Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo.
[10] Il riferimento è ad esempio all’indagine denominata Morfeo che ha rivelato i risalenti e ingenti investimenti di un potentissimo clan campano nel settore degli appalti della Rete Ferroviaria Italiana e della TAV di Afragola e in quello della raccolta, di fatto monopolistica, di oli esausti in diverse regioni italiane, con l’apporto fondamentale di pubblici amministratori corrotti. Accertandosi ancora una volta il doppio assetto dell’organizzazione: i delitti “di strada” come spaccio, usura ed estorsioni affidati al braccio armato e militare, più esposto e pronto a sacrificarsi con arresti e condanne; gli affari più importanti affidati a mimetizzati intermediari, a contatto con i vertici, da un lato, e con imprenditori, professionisti e funzionari pubblici collusi, dall’altro.
[11] A tacere della attuale problematica connessa alla applicabilità del regime speciale delle intercettazioni per i delitti associativi anche ai delitti-fine aggravati dal metodo e/o dalla finalità agevolatrice, a seguito dei noti arresti giurisprudenziali relativi all’art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 e ai recenti interventi del Legislatore.
[12] Così ancora la Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia per il primo semestre del 2022, indicata nella precedente nota.
[13] Sentenza della 5^ Sezione del Tribunale di Napoli del 9.3.2016, nr. 66727/10 RGNR sostanzialmente confermata dalla Corte di Appello di Napoli con sentenza nr. 4486/17 del 2.12.2019, che condannava numerosi esponenti del clan MOCCIA per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. con condotte a partire dal 2004 e fino al dicembre 2010. Il processo risultava originato dalle indagini che avevano portato all’emissione dell’ordinanza cautelare del 18.6.2010 del GIP del Tribunale di Napoli. Si riportano alcuni stralci della sentenza di I grado:“... È emersa altresì la struttura gerarchizzata di tali relazioni secondo una compartimentazione riservata e piramidale facente capo a soggetti posti tanto in alto da non essere in contatto con le vittime e addirittura con gli stessi usurai ed inaccessibile ai sodali con mansioni meramente esecutive o di mera assistenza esterna. I contatti tra questi ultimi ed i livelli intermedi e terminali dell’organizzazione sono stati infatti l’oggetto più difficile e discusso dell’accertamento penale ed è importante evidenziare fin da questo momento che per coglierlo sarà necessario non parcellizzare mai il singolo dato intercettivo ma collegarlo ogni volta alle altre emergenze captative parallele …Omissis… Una gestione realizzata con grande riservatezza attraverso la mediazione di pochi fidati soggetti che possono avvicinarlo direttamente… i collaboratori di giustizia li indicano metaforicamente con il nome di senatori …. in tal modo filtrando collegamenti altrimenti compromettenti per i vertici..Omissis…Si è potuto verificare al tempo stesso nel corso delle indagini che la famiglia MOCCIA mantiene un atteggiamento molto prudente e defilato rispetto alle attività più marcatamente delinquenziali e fa mostra di prendere le distanze almeno formalmente dai cd gruppi operativi… E’ una tecnica di inabissamento di cui tutti i collaboratori di giustizia hanno dato conferma e di cui il tenore di molte conversazioni oggetto di intercettazione da prova…”
[14] Il Gip di Napoli nella occ. n. 5/18 del 5.1.2018, p.p. 30350/13 RGNR operava una valutazione sulla dissociazione della famiglia mafiosa oggetto del procedimento, clan storicamente appartenente alla Nuova Famiglia, risultata vincente sulla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo:“…Proprio in quegli anni, peraltro, alterne vicende giudiziarie portavano all’uscita di scena di Moccia Angelo che, nel 1992, si costituiva presso la Casa Circondariale dell’Aquila perché, a suo dire, intenzionato “a chiudere i conti” con il passato. In particolare, il pentimento del Galasso e dello stesso Alfieri in uno alla preoccupazione per le possibili ripercussioni delle dichiarazioni di altri collaboratori, induceva i germani Moccia Angelo e Luigi (nel frattempo parimenti arrestato perché ritenuto anch’egli organico alla N.F.) ad intraprendere la strategia della “dissociazione”, raffinata iniziativa processuale volta a contemperare due esigenze apparentemente antitetiche: quella di una “negoziazione processuale” con l’autorità giudiziaria onde evitare la condanna all’ergastolo; quella di conservare, proteggere e mantenere un saldo legame criminale col sodalizio di appartenenza. I due indagati, resisi infatti conto della impossibilità di contrastare con operazioni di tipo militare l’apporto alle indagini fornito dai collaboratori di giustizia ed essendo consapevoli che le loro posizioni processuali (in particolare, quella di Angelo Moccia) fossero irrimediabilmente compromesse, si rendevano protagonisti di un’inedita ma lucidissima iniziativa processuale - quella della cd. “dissociazione” dalla criminalità organizzata - al fine di evitare la condanna all’ergastolo…omissis… accreditandosi come ex camorristi intenzionati a chiudere i conti “col passato”, si limitavano a confessare i propri reati, senza peraltro effettuare alcuna chiamata in correità nei confronti di terzi (a meno che non fossero collaboratori di giustizia ovvero persone decedute); e, così, Angelo riconosceva di aver assunto la gestione camorristica del circondario di Afragola e di aver partecipato agli omicidi...omissis…l’indagato non ha mai reciso i legami con il sodalizio di origine, mantenendoli anzi - anche nel nuovo millennio (quanto meno fino al 2013) - ai medesimi livelli di “eccellenza” del passato. Gli esiti delle indagini di cui al presente procedimento hanno infatti dimostrato che la “dissociazione” ed il successivo trasferimento a Roma hanno costituito solo un’astuta e lungimirante scelta criminale, con la quale l’indagato ha tentato di allentare la pressione investigativa delle forze dell’ordine nei propri confronti e, nel contempo, cercato di fornire una falsa immagine di affrancamento dai propri trascorsi criminali…”.
[15] Così ancora la Relazione del Ministro dell’Interno: “…‘ndrangheta che trova il suo punto di forza, da un lato, nella fedeltà alle origini e nella solida strutturazione su base familiare e, dall’altro, nella massima flessibilità ed intuito affaristico-finanziario che la proietta all’esterno della Regione di origine ed anche all’estero…La criminalità organizzata siciliana…continua ad annoverare tra le principali fonti di guadagno il traffico di stupefacenti, la gestione del giro di scommesse on line, le estorsioni declinate in tutte le loro forme e, con particolare riferimento alla zona di Palermo, la ricettazione e il riciclaggio di metalli preziosi - provento di rapine e furti - mediante la complicità di imprese commerciali del tipo “compro oro”. …In merito alla criminalità organizzata campana…si rileva un complesso sistema criminale permeato dall’operatività di storiche e consolidate compagini criminali e di aggregazioni dagli equilibri instabili che, non di rado, cercano di legittimarsi ricorrendo a metodi violenti per affermare il proprio controllo del territorio. Una criminalità sempre alla ricerca di nuove, migliori e più lucrose posizioni nei mercati illegali ma anche interessata alla espansione di una fitta rete di imprese. Le indagini hanno documentato la capacità, da parte dei sodalizi criminali di maggiore tradizione, di penetrare nell’alveo socio-economico-imprenditoriale riuscendo spesso a consolidare posizioni monopolistiche in interi settori così da incidere significativamente nel tessuto economico del territorio. Non si può più parlare, dunque, di una camorra parassitaria ma di sedimentate organizzazioni divenute esse stesse protagoniste di sofisticati processi finanziari, potendo contare su una propria classe imprenditoriale e riuscendo così a sfruttare spazi criminali offerti dalle “maglie larghe” di frange colluse della pubblica amministrazione. Proprio a causa di accertate infiltrazioni mafiose negli apparati amministrativi, con DPR del 28 febbraio 2022 è stato sciolto il Comune di Castellammare di Stabia (NA) ed il 10 giugno 2022 quello di San Giuseppe Vesuviano (NA)…la criminalità organizzata pugliese si manifesta, con articolazioni nei territori di Foggia, Bari e nel Salento, in continua evoluzione… La capacità di inserirsi nel settore imprenditoriale e nelle pubbliche Amministrazioni è stata comprovata dagli esiti dell’operazione “Levante”, conclusa dalla DIA unitamente alla Guardia di Finanza il 15 febbraio 2022, dalla quale emergono la presenza di un clan barese impegnato nel controllo delle aziende locali, nonché una serie di frodi fiscali, attività di riciclaggio e trasferimento fraudolento con riferimento anche al contrabbando di prodotti energetici…”
[16] Già nella richiesta di misura cautelare formulata nell’ambito del p.p. 9086/1992, instaurato a carico di Agizza Antonio + 101, la procura partenopea osservava che “la "politica della dissociazione", per alcuni mesi perseguita da alcuni dei più pericolosi settori della criminalità organizzata (e concretatasi soltanto nell'interrogatorio di Angelo Moccia allegato, oltre che nello spettacolare quanto strumentale rinvenimento delle armi abbandonate in Salerno) sembra essere l'espressione di un consapevole disegno di perpetuazione del potere criminale camorristico, attraverso forme di "negoziazione" con lo Stato ambigue e pericolose. Accanto all'evidente scopo di frenare gli effetti delle collaborazioni con la giustizia già in atto e di impedirne l'espansione, non può non scorgersi il raffinato disegno di: - lasciare intatta la rete di trame collusive per anni intessuta con rilevanti settori della pubblica amministrazione e delle istituzioni politiche, nulla rivelando su tali, invasivi versanti criminosi; - conservare ed anzi legittimare le ingenti risorse economiche accumulate dalle organizzazioni criminali, nulla ovviamente rivelando circa provenienza e canali di reinvestimento delle stesse; - tacere sui collegamenti operativi (al fine della realizzazione dei traffici delittuosi più vari) con altre organizzazioni non coinvolte dalla scelta della "dissociazione"; - continuare ad avvalersi del potere economico-criminale conseguito, dopo aver riconquistato nel volgere di pochi anni libertà personale e di relazioni grazie ai trattamenti premiali pretesi…”.
[17] Nella relazione sull’attività della Direzione distrettuale antimafia di Napoli indirizzata il 16 giugno 1997 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari si segnalava “…La “politica della dissociazione” - quale forma moderna ed ambigua della tradizionale omertà - appare logicamente espressione di un consapevole disegno di perpetuazione di un potere criminale camorristico, minacciato dall' efficacia dell’azione degli organi repressivi e di giustizia dello Stato. Accanto all'evidente scopo di frenare gli effetti delle collaborazioni con la giustizia già in atto e di impedirne l'espansione, non può non scorgersi il preciso disegno di:
- lasciare intatta la rete di trame collusive per anni intessuta con rilevanti settori della pubblica amministrazione e delle istituzioni politiche, nulla rivelando su tali versanti criminosi;
- conservare ed anzi legittimare le ingenti risorse economiche accumulate;
- occultare e potenziare le strutture destinate ai traffici illeciti di ogni natura (armi, droga, ecc.), tenendone i responsabili e le principali pedine fuori da ogni azione di contrasto;
- tacere sui collegamenti operativi (al fine della realizzazione dei traffici delittuosi più vari) con altre organizzazioni non coinvolte dalla scelta della “dissociazione” e non minacciate dalle indagini;
- individuare, all'interno dell'organizzazione, i soggetti meno “produttivi”, più deboli od esposti per caricare su di loro il peso di delitti ad altri membri dell'organizzazione ascrivibili;
- continuare ad avvalersi del potere economico - criminale conseguito, dopo aver riconquistato nel volgere di pochi anni libertà personale e di relazioni grazie ai trattamenti premiali pretesi, nonostante l'incredibile gravità ed efferatezza degli innumerevoli crimini commessi;
- ingolfare, in questo modo, l'intero meccanismo di contrasto e la già precaria macchina giudiziaria, conducendola su strade progettate dai capi più pericolosi dell'organizzazione, e distogliendole da versanti veramente incisivi.
La Relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia della XIII Legislatura approvata nella seduta del 24.10.2000 condivideva la ricostruzione operata dall’ufficio napoletano.
[18] Si tratta delle indagini, concluse con condanne, nei confronti di clan storicamente operanti nella città e in parte della provincia di Napoli quali quelli confederati nella c.d. Alleanza di Secondigliano (Mallardo, Licciardi, Contini) o originariamente facenti parte, con i primi, della Nuova Famiglia, come il clan Moccia di Afragola, i clan Russo e Fabbrocino del vesuviano; ancora, il clan dei Casalesi. Tutti, con varie declinazioni, fortemente inseriti nella economia legale, non solo campana, anche ad altissimi livelli; e tuttora sostenuti da importanti referenti politico-amministrativi. Insomma, una camorra che almeno dalla fine dello scorso secolo non spara, salvo sia strettamente necessario, ma fa grandi affari.
[19] “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri…”: così la lettera della legge, all’art. 416 bis cod. pen. La forza di intimidazione derivante dal vincolo, per espressa disposizione normativa, non richiede una specifica manifestazione di violenza fisica; in secondo luogo, la violenza morale e comunque la capacità di coartazione che induce a comportamenti non liberi e condiziona la libertà di autodeterminazione di chi venga in rapporto col sodalizio può derivare non solo dal timore di subire violenza fisica ma anche dalla consapevolezza di un sistema corruttivo talmente esteso e radicato da apparire invincibile; d’altra parte, quella forza, per legge, è finalizzata alternativamente a commettere delitti o affari. Queste considerazioni appaiono non irrilevanti nella riflessione sulle vicende di “Mafia Capitale” e sui temi da quella posti; apparendo anche significativo che la decisione di disconoscerne la sussumibilità nel paradigma in contestazione (l’art. 416 bis, appunto) fa leva anche su una rilevazione in qualche modo “quantitativa” dei casi in cui i soggetti terzi abbiano dimostrato di subire la soggezione violenta del principale imputato, dimostrando di utilizzare come paradigma il condizionamento derivante dal timore, in sostanza, di violenza fisica: uno ma non l’unico elemento che può fondare, secondo la norma, la forza di intimidazione e la soggezione conseguente.
[20] Relazione alla proposta di legge 31 marzo 1980, on. La Torre, atto parlamentare, Camera dei Deputati, n. 1581.
[21] Merita di essere meglio conosciuta la monumentale sentenza-ordinanza del giudice istruttore Carlo Alemi emessa il 28 luglio 1988 nel procedimento n. 896/83 e altri riuniti.
[22] Legislatura VI - Disegni di legge e relazioni - Documenti. Relazione di minoranza dei deputati La Torre, Benedetti e Malagugini, dei senatori Adamoli, Chiaromonte, Lugnano, Maffioleti e del deputato Terranova.
[23] Legislatura VI- Disegni di legge e relazioni- Documenti. Relazione di maggioranza del senatore Luigi Carraro.
[24] Vedasi pag. 214 e ss della Relazione di maggioranza, citata nella precedente nota.
[25] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente - pag. 216
[26] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente - pag. 217.
[27] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente - pag. 237.
[28] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente - pag. 256.
[29] La Relazione La Torre dava ampio spazio alla figura di Salvo Lima, i cui collegamenti con Cosa Nostra -quale referente politico dell’organizzazione- hanno agitato a lungo e condizionato significativamente la vita del Paese, costituendo peraltro parte significativa di molte delle ricostruzioni sui rapporti tra mafia e politica operate anche nelle relazioni delle Commissioni parlamentari d’inchiesta istituite negli anni successivi. E appare degno di nota il fatto che egli, come Ciancimino, sia stato sottoposto tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ‘70 a diversi procedimenti penali per reati contro la pubblica amministrazione (interesse privato in atti d’ufficio, peculato e falso ideologico, con relative richieste di autorizzazione a procedere avanzate al Parlamento, in cui sedeva come Deputato della Repubblica dal 1968): dato che acquista una sua rilevanza proprio nell’ambito della riflessione generale sulla natura e sui confini del rapporto tra mafia e pubblica amministrazione nella prospettiva dell’adozione di statuti normativi, oltre che protocolli investigativi, che tengano conto di tale stretta relazione.
[30] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente - pag. 569.
[31] Con la puntuale indicazione di fonti e documenti la Relazione di minoranza analizzava i principali momenti della storia siciliana, dal periodo post-unitario a quello fascista e fino al dopoguerra, costantemente segnati dal ruolo dei gruppi di potere mafioso; in questa ricostruzione, un momento epocale dei rapporti tra mafia, banditismo e Governo veniva indicato nella strage di Portella della Ginestra, avvenuta il primo maggio 1947 a opera di Salvatore Giuliano, la cui mano fu armata, secondo la Relazione, proprio dal blocco agrario, mafioso, che intendeva impedire l’affermazione dei partiti dei lavoratori che in quel momento avevano appena ottenuto la maggioranza nel Governo regionale. Quelle stesse forze politiche che avevano fatto gli interessi del blocco agrario, espressione di potere mafioso, avevano impedito per anni l’attuazione della riforma agraria introdotta con una legge del 1950, che avrebbe consentito un significativo sviluppo sociale. E, continuava la Relazione, il Governo si servì poi della mafia per eliminare il bandito Giuliano, che doveva essere preso morto perché non potesse parlare: la Democrazia Cristiana, dopo Portella, “cedette al ricatto del blocco agrario e anticipò in Sicilia la rottura dell’alleanza tra i grandi partiti di massa” (Relazione di minoranza, pagg. 573-575).
[32] Relazione di Maggioranza, citata in nota precedente - pag. 581.
[33] “I cambiamenti anche profondi che sono intervenuti nel modo di essere della mafia non consentono comunque di affermare che essa abbia perduto la sua caratteristica originaria della incessante ricerca del collegamento con il potere politico”: così la Relazione di Minoranza a pag. 584.
[34] “Siamo rammaricati…di non essere riusciti a trovare un’intesa sulla relazione generale perché ci divide dal partito della Democrazia Cristiana il giudizio sulle responsabilità politiche nel sistema di potere mafioso in Siclia. Abbiamo voluto così sottolineare l’esigenza di voltare pagina nel modo di governare la Sicilia…”: Relazione di minoranza, pag. 609.
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