ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
DE ROBBIO: Alcune settimane fa è stato depositato un disegno di legge costituzionale che modifica profondamente il Titolo IV della Seconda parte della Costituzione, quello dedicato alla Magistratura. Oltre alla separazione delle carriere, sono previste la creazione di due distinti CSM, la modifica della composizione di entrambi con parificazione dei componenti laici e di quelli togati, il divieto per lo stesso CSM di esprimere pareri in materia di riforma della Giustizia, l’abrogazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’abolizione della norma che distingue i magistrati solo per funzioni e tante altre modifiche destinate a mutare profondamente non solo l’assetto della magistratura ma anche il rapporto tra questa e gli altri poteri dello Stato.
Il disegno di legge è stato accolto da veementi critiche da parte dell’ANM e, più recentemente, degli esponenti di Area DG nel corso del congresso tenutosi a Palermo alla fine di settembre.
La nostra rivista ha pensato di proporre, sotto forma di doppia intervista, un momento di confronto e riflessione tra il professor Giorgio Spangher, professore di procedura penale, ex componente del Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura e da sempre attento osservatore del mondo della giustizia, de Eugenio Albamonte, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, ex Presidente ANM ed ex Segretario di Area DG. Il confronto è stato esteso altresì ad alcuni temi attualmente al centro del dibattito politico-giudiziario.
(prima domanda) Il disegno di legge costituzionale presentato dal Governo modifica quasi tutte le norme della Costituzione dedicate alla magistratura. Presentato come un provvedimento idoneo a restituire efficienza ad un sistema cronicamente in difficoltà nel fornire adeguate risposte alla domanda di giustizia, è stato indicato dall’organo di rappresentanza dei magistrati come un tentativo di alterare profondamente il principio di separazione dei poteri riconducendo il potere giudiziario sotto il controllo di quello esecutivo. Qual è la verità tra queste due interpretazioni e come giudicate le linee generali del provvedimento in discussione in Parlamento?
ALBAMONTE: Le riforme ordinamentali, soprattutto quelle che incidono sui principi costituzionali che governano la magistratura, non hanno alcun riverbero sull’efficienza della giustizia, sui tempi dei processi, sulla qualità delle decisioni e sulla loro effettività. Riguardano, invece, la ridefinizione dei rapporti tra i poteri dello Stato che la Costituzione ha disegnato in modo da creare un adeguato equilibrio tra prerogative, responsabilità e controlli. Alterare questo equilibrio è molto pericoloso per la tenuta dell’intero sistema. Rischia di sbilanciarlo in favore di uno dei poteri consentendogli di esondare e sottrarsi ai controlli, diventando onnipotente.
SPANGHER: Non credo che queste preoccupazioni siano fondate. È vero proprio il contrario. Credo che per molti anni la politica, cioè, l’esecutivo sia stato subordinato al potere giudiziario, subendone le iniziative processuali, non tutte fondate, con ricadute significative sulla vita del paese, ma anche sotto il profilo normativo, subendo le richieste di adeguamento legislativo.
Proprio alcuni più recenti episodi, mi hanno indotto a riflettere sulla necessità che la politica rivendichi il suo ruolo e la magistratura debba limitarsi alla sua funzione. Sotto questo aspetto il ruolo della procura nazionale antimafia, del pubblico ministero europeo, costituiscono un tema di riflessione in tema di separazione dei poteri.
Il discorso si salda con i profili più strettamente processuali, del giusto processo, connessi alle modalità con le quali il procuratore della repubblica esercita il suo ruolo nel processo, diciamo accusatorio.
L’attuale C.S.M. a livello costituzionale è frutto della ricaduta del sistema inquisitorio codificato dagli artt. 13 e segg. Cost., dove si parla di carcerazione preventiva e di autorità giudiziaria.
In altri termini il discorso ordinamentale, C.S.M. compreso, va adeguato alle modifiche strutturali del ruolo del p.m. nel giusto processo.
Non vale il principio della comune cultura della giurisdizione che se valesse, assegnerebbe al p.m. gli stessi poteri e le stesse decisioni del giudice. Ciò non è: il p.m. è parte; il giudice terzo.
Sul punto le opinioni prospettate sono diverse da questa. I giudici – sottovoce – ad esempio, ritengono che la separazione rafforzerebbe ancora di più di quanto sia adesso i pubblici ministeri.
Se i p.m. fossero subordinati all’esecutivo si porrebbe un problema a livello europeo.
In ogni caso non capisco come ciò possa avvenire in un C.S.M. modulato su quello esistente per i giudici, con le stesse garanzie di autonomia e indipendenza, disciplinato dalla Costituzione e presieduto dal Capo dello Stato.
DE ROBBIO (seconda domanda): La separazione delle carriere è la bandiera e il cardine di tutte le riforme della giustizia messe in cantiere dall’attuale maggioranza governativa. Un’attenzione difficilmente giustificabile sulla base dei numeri (nel 2023 ci sono stati 9 trasferimenti da pubblico ministero a giudice e solo 1 in senso inverso) e evidentemente frutto di un’opzione culturale che vuole allontanare i magistrati inquirenti dalla giurisdizione. Quali sono a vostro avviso le ragioni della volontà di procedere ad una revisione costituzionale in tal senso e cosa pensate delle norme che la prevedono nel d.d.l? Esiste il rischio che questa riforma porti all’assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo o chi paventa questo pericolo lo fa, come ha riferito di recente il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, “perché non vuole la separazione delle carriere per altri motivi?”
ALBAMONTE: La separazione delle carriere è stata da sempre la bandiera di una parte dell’avvocatura e del mondo politico, sventolata nel tentativo di ridimensionare il potere, sia formale che sostanziale, esercitato dalla magistratura requirente. Sarebbe una riforma priva di effetti sulla qualità della giustizia e sulla sua efficienza e non inciderebbe di certo sull’esercizio della funzione giudicante, che già adesso non subisce alcuna interferenza o limitazione, al di là degli slogan e delle affermazioni apodittiche ed indimostrate dei sostenitori della riforma. Nel perseguire il progetto non si tiene in considerazione il fatto che i poteri conferiti dalla legge al PM sono strettamente dimensionati con riferimento all’esercizio delle funzioni. Conseguentemente meno poteri equivarrebbero ad una minore capacità di accertamento dei fatti di reato e, in ultima analisi, ad un minore contrasto alle attività criminali. Questo non vuol dire che talvolta i poteri requirenti non siano stati utilizzati in modo sbagliato o persino eccedente i parametri di legalità formale. Ma questa è una patologia che deve essere trattata con severità. Patologia che rischierebbe di diffondersi in una categoria di magistrati requirenti sganciati dai giudicanti e più facilmente condizionabili dalla logica del perseguimento del risultato anche a scapito del rispetto delle regole processuali.
SPANGHER: Ribadendo quanto appena detto, in tema di sistema, non voglio attribuire finalità recondite e di potere alla opposizione della magistratura alla riforma.
Se ci fossero, non sarebbero decisive, in una materia che sottende questioni di principio sul sistema costituzionale dei poteri, delle funzioni e dei ruoli.
DE ROBBIO (terza domanda): Oltre alla duplicazione (con la creazione di un CSM dei giudici ed uno dei PM), il CSM è interessato da un’ulteriore importante previsione: la parificazione del numero dei componenti laici con quello dei componenti togati. Qual è a vostro avviso la ragione di questa previsione e cosa ne pensate?
ALBAMONTE: La modifica della composizione del CSM, attraverso la parificazione dei componenti laici a quelli eletti dai magistrati, è finalizzata ad alterare profondamente la struttura costituzionale dell’organo per come è stata disegnata dalla Costituzione. Una composizione paritaria determinerà inevitabilmente un ruolo di maggior peso della componente politica che diventerà sempre decisiva nell’assunzione delle determinazioni consigliari. Quelle di indirizzo e quelle di gestione. Quindi un governo autonomo molto meno autonomo e più etero determinato dalla politica. Peraltro, già da molto tempo il Parlamento si è orientato nello scegliere non avvocati o giuristi insigni ma parlamentari in carica, talvolta con incarichi di governo, o ex parlamentari. Questa torsione fa sì che la componente laica, anziché farsi portatrice della cultura dell’accademia e dell’avvocatura, diventa espressione di specifici valori, istanze ed interessi che sono propri della politica, dei partiti e, prevalentemente del Governo che ne esprime la maggior parte. Né credo che questa modifica possa arginare il c.d. potere delle correnti all’interno del CSM. Infatti le vicende della consiliatura attuale evidenziano come si sia determinata una forte e stabile saldatura tra un gruppo della magistratura associata e la componente laica espressa dal Governo. Questa dinamica non è certo caratterizzata dalla riduzione del peso della specifica corrente ma, all’opposto, dal suo rafforzamento e predominio sulla vita e su tutte le scelte del Consiglio. Non sicuramente un passo avanti verso la trasparenza e l’autorevolezza delle delibere assunte con tali modalità.
SPANGHER: Non sono favorevole ad una eventuale modifica di questo tenore, considerate le dinamiche che si determinerebbero dentro il C.S.M., anche al di là del possibile preponderante peso che avrebbero i laici, anche alla luce della modalità della loro elezione parlamentare, seppur temperata – solo parzialmente – dal quorum richiesto per la loro elezione. Già ora emerge collateralismo (politico-culturale) tra la componente laica e quella togata.
DE ROBBIO (quarta domanda) : È previsto il divieto per il CSM di rendere pareri in tema di giustizia. La concentrazione dell’organo di autogoverno ai soli compiti di alta burocrazia della giustizia è un vantaggio o uno svantaggio?
ALBAMONTE: Credo sia uno svantaggio, innanzitutto per il legislatore. Infatti i pareri del CSM sulle riforme in materia di giustizia sono sempre stati orientati ad evidenziare le aporie dei testi in discussione, i rischi di contrasto con altre leggi e con la Costituzione, i problemi di coordinamento con la normativa preesistente, l’impatto delle nuove norme sull’organizzazione giudiziaria. Normalmente i pareri sono molto analitici nelle motivazioni giuridiche prospettate e hanno suggerito modifiche e correttivi che, talvolta, adottati dal Parlamento in sede di approvazione, hanno migliorato le norme poi introdotte. Privare il CSM di questa prerogativa vuol dire quindi impoverire il percorso legislativo di un valido contributo. Questo riguarderebbe in modo ancor più incomprensibile le riforme dell’Ordinamento giudiziario le quali norme devono poi essere applicate prevalentemente dal CSM. Non vi è dubbio che il Consiglio sia il principale luogo di studio, oltre che di applicazione, dell’Ordinamento giudiziario ed elidere la possibilità di un contributo sulle leggi di modifica sarebbe estremamente dannoso oltre che contraddittorio.
SPANGHER: Il Consiglio Superiore della Magistratura vive di “stagioni” nei rapporti tra magistratura e politica. A parte la considerazione che l’art. 10 della l. del 1958, sembrerebbe indicare che il C.S.M. riferisca a richiesta del Ministro, la norma sembrerebbe limitare l’intervento consigliare alle ricadute organizzative e non, invece, interferire con le scelte che ne costituiscono la premessa anche se il confine tra le due situazioni non è e non può essere stretto. Ad un osservatore attento come lo sono stato nel periodo 2002 – 2006, le differenze a volte sono macroscopiche e configura il C.S.M. come organo di opposizione politica e non solo tecnico-organizzativa.
Per chiarire il punto, venendo all’attualità: una cosa è la prospettazione delle conseguenze della ipotizzata riforma della prescrizione sul funzionamento degli uffici della Corte d’appello, altra l’opposizione all’iniziativa parlamentare e forse governativa.
Escluderei iniziative in relazione a possibili ipotesi riformatrici, non ancora materializzatesi.
Peraltro, il tema trova ampia tutela nelle c.d. audizioni davanti alle Commissioni parlamentari che costituiscono la sede istituzionali per evidenziare la problematicità delle iniziative riformatrici.
DE ROBBIO (quinta domanda) Ha ancora senso il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale data l’impossibilità attuale per gli uffici di procura di occuparsi di tutte le notizie di reato? Quali sono i rimedi per restituire effettività all’articolo 112 della Costituzione o in alternativa che ricadute avrebbe la sua sostanziale abrogazione?
ALBAMONTE: Il principio di obbligatorietà dell’azione penale discende direttamente da quello di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Abolirlo ci porterebbe fuori dal perimetro disegnato dalla Costituzione al fine di garantire la parità dei diritti dei cittadini. La sua effettività è condizionata dalle risorse destinate alla Giustizia che spetta al Governo e al Ministro della Giustizia approntare e mettere a disposizione. Quello che è avvenuto è invece che, a fronte di un carico di lavoro sempre crescente, determinato dalla continua introduzione di reati e dall’appesantimento del rito penale, le risorse, anziché essere proporzionalmente incrementate, sono state ridotte. Questo fa sì che non sia sempre possibile trattare nei tempi dovuti tutte le notizie di reato che gravano sugli uffici requirenti. Per risolvere il problema non si deve abdicare al principio, si devono invece incrementare le risorse o ridurre i reati e semplificare le procedure. È come se a fronte dell’inidoneità del sistema sanitario ad offrire servizi adeguati anziché potenziarlo si decidesse di abolire il diritto costituzionale alla salute. E lo stesso esempio si potrebbe fare per il diritto alla casa, al lavoro, all’istruzione ecc. Un paradosso inaccoglibile.
SPANGHER: Ritengo che il principio di obbligatorietà dell’azione penale vada presidiato e non condivido una riforma che rinvii alla legge le individuazioni di casi e modi del suo esercizio.
Ritengo maggiormente significativa una previsione di criteri di priorità per i quali il Parlamento possa indicare, con maggiore incisività, di quanto ora previsto, i contenuti. Il tema è complesso perché la criminalità non è distribuita omogeneamente, così come le risorse giudiziarie e amministrative, nei vari uffici di procura. Gioverebbe all’obbligatorietà una maggiore trasparenza e controllo nel suo esercizio da parte dei pubblici ministeri.
DE ROBBIO (sesta domanda): Quanto può spingersi a vostro parere un giudice nell’interpretazione della legge che è chiamato ad applicare?
ALBAMONTE: Uno dei temi ricorrenti nel dibattito pubblico sulla giustizia è collegato alla frequente accusa, rivolta ai giudici, di sostituirsi al legislatore attraverso l’attività di interpretazione c.d. “creativa” del diritto. A mio giudizio si tratta di una accusa infondata. L’interpretazione delle norme è dettata da canoni stringenti ai quali i magistrati si attengono con scrupolo. Tra questi canoni vi è quello di conformità delle norme ai principi costituzionali e al diritto sovranazionale. Spesso è proprio questo il tema della critica. Si vorrebbe che il magistrato si attenesse al testo letterale della normativa nazionale e trascurasse la sua conformità ai sistemi normativi sovraordinati alla legge ordinaria. D'altronde questo tema non è soltanto italiano e le stesse tensioni si ritrovano in altre democrazie occidentali (e a dire il vero anche in sistemi che difficilmente potremmo ritenere sostanzialmente democratici) ma sempre quando i relativi Governi sono sostenuti da forti maggioranze e pertanto, proprio grazie a tali investiture, sono portati a superare la cornice nell’ambito della quale soltanto si può esercitare la legislazione, a ritenersi completamente svincolati da qualsiasi limite. Non sono quindi i magistrati ad esondare dall’ambito del loro potere ma spesso sono i Governi a tentare di forzare i principi costituzionali e a disattendere le norme sovranazionali che invece ne condizionano il potere in modo insuperabile.
Al fianco di tale dinamica ne ritroviamo spesso un’altra, che è diretta conseguenza della cattiva tecnica di drafting delle leggi. Tanto più il legislatore è generico ed impreciso tanto più inconsapevolmente concede spazi interpretativi al giudice. Salvo poi accusarlo di supplenza.
Credo che una maggiore cultura del diritto da parte di chi governa e di chi legifera (sempre più spesso lo stesso Esecutivo) sarebbe necessaria, al fine di superare questo corto circuito nocivo per il corretto equilibrio dei poteri costituzionali.
SPANGHER: il tema è complesso perché il superamento del principio del giudice “bocca della legge”, si riconnette alla più generale crisi della legalità, intesa come primato della legge, determinato dalla pluralità delle fonti, spesso ispirate e sorrette da principi e valori, nonché dalla presenza di normative secondarie, non ultimi i protocolli, le intese, le best practices, le softlaw, variamente intersecate e inserite nei percorsi ricostruttivi di situazioni processuali e sostanziali, accentuati da ritardi dell’intervento del legislatore da una normativa alluvionale, contraddittoria, variamente lacunosa e “ambigua”. Si tratta di dati noti agli operatori di giustizia, mentre si accentuano le istanze di certezza e prevedibilità delle decisioni, non ultime delle quali, al di là di quelle esistenti, potrebbe trovare posto il c.d. rinvio pregiudiziale e l’adesione dell’Italia al protocollo 16 della Cedu.
Tra i valori, tuttavia, che il giudice non potrebbe porre a fondamento delle sua interpretazione, potendosi configurare come una invasione di campo cioè quella della funzionalità del sistema (Battistella, Galtelli, Bajrami, per citare esempi direi eclatanti), che seppur anticipatori, di modifiche normative variamente estrinsecatisi, rappresentano una attività di supplenza che deroga alla funzione nomofilattica della Cassazione, pur nel contesto di una possibile interpretazione estensiva, ma non estesa.
DE ROBBIO (settima domanda : I magistrati hanno diritto di esprimere pubblicamente la loro opinione su qualsiasi tema o devono tenere conto delle refluenze che le manifestazioni del loro pensiero possono avere sulla immagine di imparzialità che sono tenuti a trasmettere?
ALBAMONTE: Il tema dell’essere ed apparire imparziali è stato portato al centro del dibattito a causa di recenti accese polemiche suscitate da esponenti di Governo. Nella vicenda della collega Apostolico, giudice della sezione di Protezione Internazionale del Tribunale di Catania, si è cercato di suggerire una sua presunta parzialità di giudizio non dall’esame delle motivazioni dei suoi provvedimenti ma da suoi comportamenti estranei all’esercizio delle funzioni e assunti da privata cittadina, quali la partecipazione a manifestazioni pubbliche del tutto legittime e pacifiche. Ritengo che ciò sia un grave errore. Il nostro sistema normativo prevede che l’unico strumento di verifica circa la terzietà del giudizio sia la motivazione del provvedimento. Cercare riscontri altrove ci porta al di fuori del sistema, in una terra di nessuno dove non sono fissate regole formali che limitino la libertà di manifestazione del pensiero del magistrato (che gode degli stessi diritti sociali, civili e politici degli altri cittadini) ovvero che limitino la ricerca, nella sfera privata, di comportamenti del magistrato che, pur essendo assolutamente legittimi, possono essere portati a testimonianza di una sua pretesa faziosità. Mi sembra ovvio che tutto ciò ha poco a che fare con la civiltà giuridica che dovrebbe costituire il terreno di confronti tra le istituzioni e tra queste ed i cittadini.
SPANGHER: Discorso anche questo complesso. Ritengo che un self restraint sia necessario sia nei comportamenti sia nelle esternazioni. A me piace il riferimento all’”opacità” che, per effetto del comportamento non necessariamente suscettibile di valutazioni disciplinari, il giudice manifesta nel luogo dove esercita la sua funzione.
Il potere del RUP di determinare l’esclusione dalle procedure di gara nel vecchio Codice 2016 e la nuova impostazione del D.Lgs. n. 36/2023. Nota a Consiglio di Stato, sez. V, 10 gennaio 2024, n. 353.
di Stefania Caggegi
Sommario: 1.- Fatti di causa e oggetto di indagine; 2.- La figura del Responsabile Unico del Procedimento come disciplinata dal D.Lgs. n. 50/2016, linee guida ANAC e Regolamento Unico; 2.1- (segue) competenza del RUP in materia di esclusione delle offerte. Rapporto con la commissione giudicatrice; 2.2. - (segue) cumulo dei ruoli di responsabile unico del procedimento e componente della commissione; 3 - Il punto del Consiglio di Stato sui motivi legati alla figura del RUP; 4 - Il nuovo Responsabile Unico di progetto del D. Lgs. n. 36/2023. Cenni.
1. Fatti di causa e oggetto di indagine.
La pronuncia in commento offre lo spunto per svolgere una serie di riflessioni sul ruolo del Responsabile Unico del Procedimento (di seguito RUP) nelle procedure di appalto ed in particolare sulla sua competenza a determinare l’esclusione dalla gara di un operatore economico, nonché sulla compatibilità di siffatto ruolo con quello di componente della commissione giudicatrice.
Il tutto secondo l’impostazione del vecchio Codice Appalti del 2016, applicabile ratione temporis alla fattispecie sottoposta al vaglio del Consiglio di Stato.
I fatti sottesi alla pronuncia ruotano intorno ad un appalto finalizzato alla sistemazione ed al ripristino di un torrente nella provincia di Avellino. La società - poi ricorrente in primo grado - veniva esclusa sia per mancata presentazione di alcuni documenti (segnatamente: organizzazione del personale e progetto migliorie), sia perché aveva formulato un’offerta tecnica del tutto sovrapponibile rispetto ad altre due offerte presentate da altre società, con la conseguente configurazione di una ipotesi di sostanziale unicità del centro decisionale [1].
Per quanto qui di interesse, la società censurava il provvedimento di esclusione facendo leva su un primo assorbente profilo di illegittimità, fondato sulla presunta autonoma e/o arbitraria iniziativa del Responsabile del procedimento, che avrebbe istruito ed adottato tale decisione, in spregio alle disposizioni della lex specialis che riservavano alla Commissione – nel caso di specie mai nominata – le verifiche e le valutazioni dell’offerta tecnica. Il provvedimento del RUP veniva censurato anche per avere lo stesso illegittimamente cumulato le qualità di responsabile del procedimento di gara, di responsabile unico del procedimento e di componente unico del Seggio di gara, in violazione dell’art.77, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016.
Il Tar Salerno [2], rigettava il ricorso e rispetto al suddetto impianto difensivo affermava, in sintesi, che: a) la competenza a determinare le esclusioni dalla gara è del RUP e non della commissione giudicatrice; b) non è stata data alcuna dimostrazione di incompatibilità tra il ruolo di RUP e quello di commissario di gara; c) la mancata nomina della commissione di gara è ininfluente ai fini della decisione di esclusione del RUP.
La società ricorrente proponeva appello ed il Consiglio di Stato, investito della questione, con la pronuncia in commento, confermava le statuizioni del Tar elaborate in riferimento alla questione oggetto di indagine, cogliendo l’occasione per definire l’ambito di competenza del RUP in questo tipo di procedure, anche a confronto con le competenze proprie delle commissioni esaminatrici.
Pertanto, nel presente scritto ci si occuperà preliminarmente di delineare il quadro normativo afferente le competenze del RUP, figura centrale invero in tutti i procedimenti amministrativi, ma con particolare riguardo al suo ruolo nelle procedure ad evidenza pubblica, analizzando il modo in cui questa figura è stata disciplinata dal vecchio codice del 2016. Ci si soffermerà, poi, sulla natura delle competenze allo stesso affidate, operando - sulla scorta delle conclusioni elaborate dai Giudici di Palazzo Spada - un confronto con le competenze proprie delle commissioni di gara, e analizzando anche l’ipotesi di cumulo del ruolo di RUP e membro della commissione giudicatrice.
In conclusione, per completezza espositiva, non ci si può esimere dal far cenno alle principali novità introdotte dal nuovo Codice, il D.Lgs. n. 36/2023, che hanno interessato il ruolo e le competenze di quello che oggi è definito dal legislatore il Responsabile Unico del Progetto.
2. La figura del Responsabile Unico del Procedimento come disciplinata dal D.Lgs. n. 50/2016, linee guida ANAC e Regolamento Unico.
Il Responsabile del procedimento, quale istituto regolamentato dalla Legge n. 241 del 1990, può definirsi come una figura organizzativa con compiti istruttori, caratterizzati da una c.d. discrezionalità procedimentale e solo eventualmente decisori: la sua funzione si esaurisce all’interno della macchina amministrativa, di cui il Responsabile è parte e di cui cura gli interessi, allo scopo di mediare i contrapposti interessi per il raggiungimento del “giusto provvedimento”[3].
Tuttavia, nell’ambito delle procedure di appalto – e anche di concessione – questa figura assume anche una veste diversa. Rimane sempre personalizzazione dell’amministrazione, che in questo caso è stazione appaltante, ma la sua funzione non è più solo quella appena descritta di mediatore degli interessi, ma propende verso un’attività più propriamente decisionale.
La figura del responsabile unico del procedimento negli appalti è stata innovata in questi termini dalla disciplina del D. Lgs. n. 50/2016 [4], che ha operato una vera e propria svolta “culturale”, attuata sulla spinta delle direttive europee che hanno costituito le fondamenta del codice del 2016 [5].
Nel dettaglio, l’art. 31 del Codice, dopo aver definito le modalità di nomina ed i compiti del RUP al comma 4 [6], al comma 5 demandava, in un primo momento, all’ANAC il compito di definire una disciplina di dettaglio, rispetto a quanto disposto dal Codice, su: compiti del RUP, presupposti e modalità di nomina, nonché sugli ulteriori requisiti di professionalità [7].
Rispetto alla decisione di affidare all’ANAC l’elaborazione della “disciplina di dettaglio”, si è detto che la stessa fosse giustificata [8] in ragione della rilevanza centrale della figura di che trattasi nelle procedure disciplinate dal Codice. Per tale via, si è valutata conveniente l’opportunità che i suoi compiti non fossero definiti in maniera tassativa dal disposto legislativo, così da lasciare al RUP il giusto margine di “movimento” nella gestione delle procedure. Così facendo, peraltro, si è risposto all’esigenza di rendere meno rigido l’ingresso delle nuove funzioni attribuitegli.
Con la legge 14 giugno 2019 n. 55, sono state abrogate le linee guida dell’ANAC e sono state sostituite, per quanto riguarda la figura del RUP, con l’emanazione del Regolamento Unico di cui al comma 27 octies, art. 261 D. Lgs. n. 50/2016.
L’insieme di queste fonti ci hanno consegnato, come detto, una figura di Responsabile del procedimento parzialmente diversa da quella della 241/90.
Resta fermo che lo stesso conserva comunque anche nelle procedure di appalto la sua funzione di garanzia, propria della figura disciplinata dalla legge sul procedimento, e pur rappresentando gli interessi particolari della stazione appaltante, tende comunque al perseguimento dell’interesse pubblico, e non solo al corretto svolgimento della gara, ma anche a quello dell’intera collettività e del sistema economico, affinché l’appalto costituisca effettivamente uno strumento di sviluppo sociale ed economico [9].
Il tutto con qualcosa in più. In particolare, il Codice del 2016 ne ha previsto la partecipazione attiva già nella fase di pianificazione e programmazione e ha attribuito allo stesso significativi poteri decisionali, come ad esempio il potere di ammissione od esclusione dalla procedura di gara all’esito della mera verifica dei requisiti di partecipazione.
2.1. (segue) Competenza del RUP in materia di esclusione delle offerte. Rapporto con la commissione giudicatrice.
Come si accennava, la funzione del RUP nelle procedure di appalti si presenta come un qualcosa di più pervasivo, con poteri decisionali precisi che gli sono stati affidati espressamente dal legislatore del 2016 e dalle successive integrazioni dell’ANAC prima e del Regolamento Unico dopo. Tra questi poteri decisionali rientra, come detto, anche quello di procedere alla verifica del possesso dei requisiti degli operatori economici che partecipano alla procedura, al fine di determinarne l’ammissione ovvero l’esclusione.
Infatti, il provvedimento di esclusione dalla gara è un atto di stretta competenza della stazione appaltante, della quale il RUP è non solo parte integrante ma anche rappresentazione massima e quindi deputato a prendere decisioni come questa.
La giurisprudenza, cui il Consiglio di Stato mostra di aderire nella pronuncia in commento, ritiene questa una regola di carattere generale, le cui basi vadano rintracciate nell’art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016, a tenore del quale è la stazione appaltante a procedere all’esclusione, nei casi stabiliti. [10]
La commissione giudicatrice, di contro, quale organo “straordinario” non è deputata a tale compito, piuttosto alla stessa spetta esclusivamente la valutazione delle offerte pervenute. È vero che la documentazione di gara può demandare alla Commissione giudicatrice ulteriori compiti, di supporto ed ausilio al RUP, ma per l’appunto tali ulteriori compiti devono essere espressamente affidatigli.
Può ritenersi di acquisizione pacifica, il principio secondo il quale, in caso di procedura di gara che preveda l'affidamento con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, competenza esclusiva della commissione giudicatrice sia l'attività valutativa, mentre il R.U.P. può svolgere tutte le attività, anche non definite dal Codice, che non implicano l'esercizio di poteri valutativi [11].
La commissione giudicatrice è, dunque in definitiva, responsabile della valutazione delle offerte tecniche ed economiche dei concorrenti e fornisce, ove ritenuto necessario, ausilio al RUP nella fase di verifica della documentazione amministrativa e di verifica dell’anomalia delle offerte [12].
Da quanto detto, è agevole concludere che il RUP, secondo quanto disposto dalla normativa di settore, nell’ambito delle procedure di appalti e concessioni può senz’altro essere definito il dominus della procedura di gara, titolare di tutti i compiti che non siano espressamente attribuiti ad altri soggetti [13].
2.2. (segue) cumulo dei ruoli di responsabile unico del procedimento e componente della commissione.
Sulla base del modo in cui è stata delineata fino a questo punto la figura del RUP, anche in relazione alla diversità della funzione allo stesso affidata in “contrapposizione” alla funzione affidata alla Commissione giudicatrice, parrebbe potersi concludere per l’incompatibilità dei due ruoli e quindi per l’impossibilità che uno stesso soggetto possa cumulare su di sé il ruolo di RUP e quello di componente della commissione di gara.
Invero, l’art. 77 comma 4, del d.lgs. n. 50/2016, precisamente nell’ultimo periodo, andava esattamente in questa direzione. Tuttavia, la modifica introdotta dal D. Lgs. n. 56 del 2017, ha determinato che questa ipotesi fosse tutt’altro che esclusa e, ancorché sia rimasta ferma la disposizione secondo la quale “i commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”, rispetto al RUP il legislatore si è preoccupato di specificare che la sua nomina a membro delle commissioni di gara “è valutata con riferimento alla singola procedura”.
A detta della giurisprudenza recente, tale fattispecie di incompatibilità deve ritenersi integrata nell’ipotesi di concentrazione in capo alla medesima persona delle attività di preparazione della documentazione di gara, implicante la definizione delle regole applicabili per la selezione del contraente migliore, e delle attività di valutazione delle offerte, da svolgere in applicazione delle regole procedurali all’uopo predefinite [14].
Del resto, tale norma risponde all’esigenza di una rigida separazione tra la fase di preparazione della documentazione di gara e quella di valutazione delle offerte in essa presentate, a garanzia della neutralità del giudizio ed in coerenza con la ratio generalmente sottesa alle cause di incompatibilità degli organi amministrativi [15], al fine di evitare la partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti, interni o esterni, alla stazione appaltante che abbiano avuto un ruolo significativo, tecnico o amministrativo, nella predisposizione degli atti di gara [16].
Non valga a smentire quanto detto che, in ogni caso, il legislatore inserendo la disposizione a tenore della quale permette questa possibilità, specificando che debba essere valutata caso per caso, legittima tale scelta nel caso in cui venga compiuta dalle stazioni appaltanti, ovviamente in assenza di ulteriori profili di specifica incompatibilità.
A conferma di ciò, la giurisprudenza ha, infatti, costantemente affermato che la violazione del disposto di cui all’art. 77 comma 4 D.Lgs. n. 50/2016 viene integrata nel caso in cui emergano elementi idonei a un’evidenza concreta che valga, su un piano sostanziale, a denotare l’incompatibilità tra i ruoli svolti, desumibile da una qualche comprovata ragione di interferenza e di condizionamento tra gli stessi [17].
3. Il punto del Consiglio di Stato sui motivi legati alla figura del RUP.
Il Consiglio di Stato nella pronuncia in commento, dopo aver ricostruito la disciplina del Codice del 2016 che viene in rilievo nella definizione delle competenze e della funzione del Responsabile Unico del procedimento, richiama gli orientamenti della giurisprudenza che: ribadiscono la legittima competenza del RUP all’emanazione del provvedimento di esclusione; distinguono le sue funzioni da quelle della Commissione eventualmente nominata; definiscono i limiti dell’ipotesi di cumulo dei ruoli di responsabile unico del procedimento e componente della commissione, nei termini richiamati nei paragrafi precedenti.
In conclusione rigetta l’appello proposto, concludendo che nel caso oggetto di causa, peraltro, anche sulla base del disposto della lex specialis, risulta chiara la distinzione tra i compiti del “soggetto deputato all’espletamento della gara” (ossia il RUP) e la commissione di gara: mentre quest’ultima è chiamata ad esprimere un giudizio su aspetti tipicamente tecnico-discrezionali, in particolare, la valutazione offerte tecniche ed assegnazione dei relativi punteggi, il primo è tenuto ad operare scelte di carattere più vincolato ossia ad adottare talune decisioni allorché ne ricorrano i presupposti.
Tra le decisioni c.d. a carattere vincolato il Consiglio di Stato, nel solco definito dalla giurisprudenza precedente, fa rientrare anche quelle relative alla esclusione dei concorrenti.
Del resto, aggiungono i Giudici di Palazzo Spada, “se previsto dalla lex specialis [come nel caso deciso con la sentenza in commento], il provvedimento di esclusione può essere comminato anche in seguito all’esame dell’offerta tecnica, allorché essa contenga elementi tali da comportare l’esclusione dei concorrenti”. E nel dire questo viene, ancora una volta, sottolineata la differenza tra questo tipo di operazione, ovvero l’esame dell’offerta tecnica - certamente di legittima competenza del RUP - da un’operazione di tipo diverso, ovvero la sua valutazione, questa si di competenza della commissione giudicatrice, ove nominata.
Ed è proprio sulla base di tale distinzione che l’attività del RUP nel caso di specie viene ritenuta legittima, perché lui ha comminato l’esclusione a seguito dell’esame acritico delle offerte, dal quale sono emersi elementi tali da provare l’esistenza di un unico centro decisionale. Il RUP non ha svolto alcuna valutazione nel merito delle offerte e quindi è rimasto legittimamente nell’ambito delle sue funzioni, come delineato dal legislatore.
Nella qualità di “soggetto deputato all’espletamento della gara” (indicazione letterale che il Consiglio di Stato riprende dalla lex spcialis della procedura oggetto di causa), conferma che il RUP era certamente abilitato ad aprire preliminarmente i plichi contenenti le offerte tecniche, e ciò non per valutarle sul piano della loro rispettiva meritevolezza - compito questo sicuramente da riservare alla commissione di gara - ma soltanto per accertarne la rispondenza in ordine ai requisiti del disciplinare e del codice dei contratti ai fini della loro possibile esclusione.
E pertanto, ritenendo che “l’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche non era dunque preordinata ad una loro valutazione ma ad un mero esame di rispondenza rispetto ai requisiti di gara e di legge prescritti ai fini della loro mera ammissibilità”, accerta la legittimità del provvedimento di esclusione ad opera del RUP.
Infine, rispetto all’invocata incompatibilità del ruolo di RUP e di componente del seggio di gara, il Consiglio di Stato si limita a richiamare ormai pacifica giurisprudenza, a tenore della quale “nelle procedure di gara ad evidenza pubblica, il ruolo di responsabile unico del procedimento può anche coincidere con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice, e tanto ad eccezione dei casi in cui sussista la concreta dimostrazione che i due ruoli siano incompatibili, per motivi di interferenza e di condizionamento tra gli stessi” [18], circostanza che ritiene del tutto assente nel caso sottoposto al suo esame.
4. Il nuovo Responsabile Unico di progetto del D. Lgs. n. 36/2023. Cenni.
L’impostazione del nuovo Codice Appalti è emblematica di un cambiamento del modo di intendere l’intervento pubblico che diventa quasi un progetto. Un progetto che deve portare dei risultati utili per la collettività, quali l’esecuzione tempestiva e il migliore rapporto qualità/prezzo, sempre nel rispetto dei principi dell’attività amministrativa, quali la trasparenza, la legalità, il buon andamento [19].
La nuova impostazione di base del Codice influenza inevitabilmente anche la disciplina del Responsabile del Procedimento, in capo al quale si assommano ulteriori responsabilità e compiti rispetto al passato.
Il nuovo approccio del legislatore del 2023 alla figura del Responsabile del Procedimento, lo si desume preliminarmente da una mera valutazione del dato letterale. Difatti l’art. 15 del D. Lgs. n. 36/2023 disciplina la figura del “Responsabile Unico di Progetto (RUP)”. Questo deve essere nominato dalle stazioni appaltanti e dagli enti concedenti “nel primo atto di avvio dell’intervento pubblico”, ed allo stesso viene affidata la responsabilità di dirigere e coordinare tutte le fasi di ciascuna procedura soggetta al Codice. Il nuovo Responsabile Unico del Progetto è coinvolto a partire dalla fase di pianificazione e programmazione, passando dall’espletamento della procedura di selezione del contraente, per finire alla successiva fase di esecuzione contrattuale con l’opportuno coinvolgimento del Direttore dell’Esecuzione Contrattuale.
Per mitigare la forte implementazione di responsabilità affidate al RUP, il legislatore al comma 4 prevede la possibilità di individuare un modello organizzativo ad hoc attraverso la nomina di responsabili di procedimento per ognuna delle fasi dell’appalto, che però agiscono sempre sotto diretta responsabilità del RUP, il quale mantiene le funzioni di supervisione, indirizzo e coordinamento [20]. Al comma 6 è, poi, prevista la possibilità di istituire una vera e propria struttura di supporto al RUP, il quale affida direttamente eventuali incarichi di assistenza, il tutto purché l’affidamento comporti un impegno di spesa non superiore all’1% dell’importo a base d’asta.
Forse la previsione normativa che più di tutte da l’idea della rinnovata veste del RUP è quella contemplata al comma 5 del suddetto articolo, a mente del quale la sua funzione primaria è quella di assicurare “il completamento dell’intervento pubblico nei termini previsti e nel rispetto degli obiettivi connessi al suo incarico”, rispettando, quindi, le tempistiche preventivate, il livello di qualità richiesto e la manutenzione programmata. Tale previsione non può non considerarsi diretto corollario del principio del risultato di cui all’art. 1, posto alla base della nuova disciplina [21].
Altra significativa differenza rispetto al passato dal punto di vista quanto meno della tecnica legislativa utilizzata, è rappresentata dal fatto che la disciplina di dettaglio è sancita nell’Allegato I.2, rubricato “Attività del RUP”, che – essendo parte integrante del nuovo Codice – è auto-esecutivo con valenza di legge. Il RUP dovrà possedere i requisiti individuati nel predetto allegato e le competenze professionali adeguate in relazione ai compiti affidatigli, nel rispetto dell’inquadramento contrattuale e delle relative mansioni. Dovrà aver maturato un’adeguata esperienza nello svolgimento di attività analoghe a quelle da realizzare, con riguardo alla natura, complessità e/o importo dell’intervento.
Viene comunque riconfermato il ruolo del RUP come Project Manager, l’articolo 5 comma 4 dell’allegato, dispone che “nelle procedure di affidamento di lavori particolarmente complessi, il RUP possiede, oltre a un’esperienza professionale di almeno cinque anni nell’ambito delle attività di programmazione, progettazione, affidamento o esecuzione di appalti e concessioni di lavori, una laurea magistrale o specialistica nelle materie oggetto dell’intervento da affidare nonché adeguata competenza quale Project Manager, acquisita anche mediante la frequenza, con profitto, di corsi di formazione in materia di Project Management”.
In definitiva, può dirsi che – in linea con il nuovo impianto codicistico – il nuovo Responsabile Unico del Progetto, oggi, non deve non solo governare e sovraintendere le procedure, ma anche “portare a casa il risultato”, in termini di raggiungimento degli obbiettivi della pubblica amministrazione alla quale appartiene. Il tutto nei tempi previsti (in molti casi sensibilmente ridotti) e senza che questo comporti né un abbassamento del livello qualitativo, né tanto meno un aumento dell’impiego di risorse economiche. Si passa, dunque, da un soggetto responsabile della procedura, in senso stretto intesa, ad un soggetto che è responsabile, invece, dell’intero progetto e quindi non più solo della procedura, intesa come mezzo attraverso il quale il progetto viene realizzato.
Quanto all’oggetto di indagine del presente scritto, il nuovo codice non modifica l’impostazione delineata, anche il Responsabile Unico del Progetto è personificazione della stazione appaltante – anzi, come visto, più di prima – e, dunque, certamente legittimato ad esercitare il potere di esclusione degli operatori economici. La differenza è che, prima la base legale di tale potere veniva rintracciata nella disposizione dell’art. 80, a mezzo della quale il potere di esclusione era affidato alla stazione appaltante, nella nuova disciplina, invece, il potere di esclusione del RUP viene esplicitamente menzionato dall’art. 7, lettera d), dell’allegato I.2.
[1] Per una panoramica sulla giurisprudenza afferente la questione dell’unicità del centro decisionale, ipotesi sanzionata nel vecchio codice dall’art. 80 del D.Lgs. n. 50/2016, comma 5, lett. m), si veda: Consiglio di Stato, sez. V, 23 maggio 2023, n. 5107; Cons. Stato, sez. III, 7 giugno 2022; Cons. Stato, Sez. V, 3 gennaio 2019, n. 69; Cons. Stato – Sez. V, 4 gennaio 2018 n. 58; Cons. Stato, Sez. V, 6 febbraio 2017, n. 496; Cons. Stato, V, 10 gennaio 2017, n. 39; nonché sentenza della Corte di Giustizia della Comunità europea, 19 maggio 2009, in causa C-538/07.
[2] pronuncia di primo grado: Tar Campania – Salerno, Sez. I, n. 1334/2023.
[3] Per un’analisi generale sulla figura del responsabile del procedimento si veda: Il Responsabile del procedimento: funzioni istruttorie e poteri di regolarizzazione, in Azione amministrativa e disciplina del diritto pubblico, a cura di F. LUCIANI E R. ROLLI, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 2008, 189 ss.; M.A. SANDULLI e L. MUSSELLI, Commento agli artt. 4, 5, 6 in AA. VV., L’azione amministrativa. Commento alla legge 7 agosto 1990 n. 241 modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15 e dal d.l. 14 marzo 2005 n. 35, Milano Giuffrè, 2005, 191 ss.; V. CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale dell’azione amministrativa. Un primo commento alla legge 11 febbraio 2005 n. 15, recante modifiche ed integrazioni della legge 7 agosto 1990 n. 241, in Astrid Rassegna, 2005, n. 4.
[4] D.Lgs. n. 50 del 2016, art. 31, rubricato <<Ruolo e funzioni del responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni>>.
[5] in questo senso C. SALTELLI, Responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni, in Trattato sui contratti pubblici, II - Soggetti qualificazione regole comuni alle procedure di gara, 2019, diretto da M.A. Sandulli, R. De Nictolis, Cap. 36, p. 49 ss. Per una disamina generale delle novità introdotte dal Codice del 2016 si rinvia anche a: Codice dei Contratti pubblici. Il D.L.vo 18 aprile 2016 n.50 commentato, a cura di G.F. FERRARI e G. MORBIDELLI, Piacenza, La Tribuna, 2017; Il nuovo diritto dei contratti pubblici. Commento organico al D.Lgs. 18 aprile 2016 n.50, diretto da F. CARINGELLA, P. MANTINI e M. GIUSTINIANI, Roma, Dike, 2016.
[6] L’articolo 31, comma 4 coincide con quella del precedente codice del 2006; i compiti sono stati specificati dall’art. 10 del D.P.R. n. 207 del 2010.
[7] Ci si riferisce alle Linee guida n. 3, di attuazione del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, recanti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni»”, approvata con deliberazione n. 1096 del 26 ottobre 2016 e aggiornata e al d.lgs. 56 del 19/4/2017 con deliberazione n. 1007 del’11 ottobre 2017, alla quale fa riferimento anche il Consiglio di Stato nella pronuncia in commento.
[8] Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 2 agosto 2016 n. 1767
[9] in questi termini C. SALTELLI, Responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni, op. cit.; in tal senso cfr. anche: C. Conti, Sez. Giurisd. Calabria, 27 dicembre 2017, n. 372; Cons. Stato, Sez. V, 5 febbraio 2018, n. 738
[10] Consiglio di Stato, Sez. VI, 08/11/2021, n.7419.
Consiglio di Stato, Sez. V, 01/06/2021, n. 4203
[11] Consiglio di Stato, Sez. V, 01/06/2021, n.4203; Consiglio di Stato, Sez. V, 13 settembre 2018, n. 537; Id., 6 maggio 2015, n. 2274; Id., 21 novembre 2014, n. 5760; Sez. III, 19 giugno 2017, n. 2983.
[12] cfr. Linee guida n. 3 del 26 ottobre 2016, cit.
[13] in questo senso: TAR Veneto, Sez. I, 27 giugno 2018 n. 695; Cons. St., Sez. III, 19 giugno 2017 n. 2983.
[14] Cfr. ex multis Cons. Stato, VI, 8 novembre 2022, n. 7419
[15] Cons. Stato, III, 8 gennaio 2021, n. 6744
[16] Cons. Stato, V, 10 gennaio 2022, n. 167
[17] Consiglio di Stato, Sez. V, 27 febbraio 2019 n. 1387; T.A.R. Catania, sez. I, 25/01/2021, n.209; T.A.R. Roma, sez. II, 22/02/2019, n. 2420.
[18] Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2018, n. 6082.
[19] Utile in proposito la Relazione agli articoli e agli allegati, che precede lo Schema definitivo di Codice dei contratti pubblici in attuazione dell’articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante “Delega al Governo in materia di contratti pubblici”, trasmesso dal Consiglio di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri il 7 dicembre 2022. In dottrina si veda: M.A. Sandulli, Prime considerazioni sullo Schema del nuovo Codice dei contratti pubblici, in giustiziainsieme.it, Diritto e processo Amministrativo, 22 dicembre 2022; L. Carbone, La scommessa del “Codice dei contratti pubblici” e il suo futuro (Relazione al Convegno su: «Il nuovo codice degli appalti – La scommessa di un cambio di paradigma: dal codice guardiano al codice volano?» - Roma, 27 gennaio 2023), in giustizia-amministrativa.it, 12.; A. CIOFFI, Prima lettura del nuovo Codice dei contratti e dei suoi tre principi fondamentali, in ApertaContrada.it, 16 gennaio 2023; S. PERONGINI, Il principio del risultato e il principio di concorrenza nello schema definitivo di codice dei contratti pubblici, in L’amministrativista, 2 gennaio 2023; M.A. SANDULLI, Procedure di affidamento e tutele giurisdizionali: il contenzioso sui contratti pubblici nel nuovo codice appalti, in federalismi.it, fasc. 8/2023, 5 aprile 2023; F. SAITTA, I principi generali del nuovo Codice dei contratti pubblici di Fabio Saitta, (Relazione al Seminario di studi su: «Il diritto dei contratti pubblici alla luce del nuovo Codice» - Cosenza, 16 maggio 2023), in giustiziainsieme.it, 08 giugno 2023;
[20] Sul ruolo del Rup e del Responsabile di fase si veda Tar Calabria sentenza n. 782 del 23.10.2023, il quale – nel delineare la natura delle due figure – ne tratteggia le differenze e in particolare sull’impugnabilità degli eventuali atti specifica che quelli del responsabile di fase sono atti endoprocedimentali e quindi privi di contenuto decisorio. Anche la proposta di aggiudicazione predisposta dal responsabile di fase può al massimo far nascere un’aspettativa nell’aggiudicatario. Tuttavia, non trattandosi di un’aggiudicazione definitiva non può essere impugnata. Al contrario, spiega il Tar, il Rup ha la competenza per valutare la proposta di aggiudicazione, verificare i requisiti dell’offerente e disporre l’aggiudicazione definitiva. L’atto del Rup potrebbe quindi essere impugnato.
[21] per l’analisi del principio del risultato si rinvia alla dottrina già citata (n. 19)
Sommario: 1. L’impegno, la giurisdizione e la narrazione – 2. Da “I pascoli di carta” a “L’inferno non prevarrà” - 3. Apologo del p.m. ingenuo e curioso – 4. Un racconto senza prove – 5. Se irredimibile è la speranza.
1. L’impegno, la giurisdizione e la narrazione
“Ormai è diventato quasi ridicolo parlare di impegno ma io continuo a ritenermi uno scrittore impegnato”, rispondeva Leonardo Sciascia a Danilo Dolci nel corso di un dibattito svoltosi al Circolo Culturale di Palermo il 15 aprile 1965. E dopo quasi sessant’anni, quando addirittura parlare di impegno può creare fastidio e diffidenza, per un magistrato che già è impegnato nell’esercizio della giurisdizione in un ufficio giudiziario tanto periferico quanto strategico può valere la pena affaticarsi a scrivere delle storie al fine di combattere i mali della società e riscattare la dignità dell’uomo, come voleva fare Sciascia?
Andrea Apollonio, sostituto procuratore presso il Tribunale di Patti, con il suo romanzo dal titolo “L’inferno non prevarrà” ha risposto di sì. E non è la prima volta. Perché questo non è il suo primo romanzo.
Segue infatti un’altra pregevole opera letteraria, “I pascoli di carta”, che egli dedicò alla Sicilia “che mi ha reso adulto”, introducendola con una frase tratta da “Il nome della rosa” di Umberto Eco, che per un magistrato tenuto a scrivere atti giudiziari, è tutta un programma: “di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare”
Sciascia diceva di essersi messo ad affilare la penna, per ristabilire il diritto e fugare l’ingiustizia e il sopruso, perché non riusciva a sentirsi sufficientemente incisivo facendo il maestro elementare.
Chissà se un magistrato che esercita i suoi compiti come deve, cioè nei limiti fissati dalla legge, si sente sufficientemente incisivo nel contrastare le ingiustizie; talvolta potrebbe persino rendersi conto di non essere in grado nemmeno di farle emergere con gli strumenti a sua disposizione. Resta il fatto che alla legge egli deve attenersi, accettando anche l’inadeguatezza dei risultati che riesce a conseguire. Sempre che ci riesca.
La giurisdizione è giurisdizione e non si può piegare né distorcere per giungere a qualcosa di più o a qualcosa di diverso da quanto è consentito dalla legge di accertare, descrivere e, se del caso, sanzionare. Ma ciò che non può essere oggetto di un provvedimento giudiziario, si può comunque narrare? Si può. E fors’anche si deve, al pari di come si deve con ciò che non si può teorizzare.
2. Da “I pascoli di carta” a “L’inferno non prevarrà”
Il protagonista de “L’inferno non prevarrà” è Salvatori, un sostituto procuratore di un Tribunale dei Nebrodi con sede in una città chiamata Pasicò, non un luogo immaginario ma un nome immaginato dall’autore del romanzo. Che appella il suo protagonista, così come si è fatto sopra, sempre con il solo suo cognome, come si faceva con i compagni di scuola o come si fa con certi colleghi con quell’effetto paradossale quanto consueto, per cui l’omissione del nome del battesimo e l’insistenza sul solo cognome sembra essere il modo più intenso per esprimere fratellanza e confidenzialità.
Salvadori era stato nei “Pascoli di carta” un giovanissimo sostituto alle prime armi, appassionato e ingenuo, alle prese con un’indagine su un eclatante duplice omicidio, che aveva condotto incontrando sviluppi imprevisti, inciampando in barriere improvvise dietro l’angolo di varchi aperti, acquisendo prove che erano trappole, ottenendo qualche aiuto che si rivelava impedimento. Ma infine commettendo un ingenuo quanto imperdonabile errore.
Chiusasi con un bruciante insuccesso investigativo, la storia di “Pascoli di carta” si riapre in questo nuovo romanzo in cui Salvatori, ammorbidito dalla nascita di un figlio e ammaccato dalle prime delusioni professionali, si ritrova ancora giovane ma con due anni di anzianità di servizio in più. Cambiano i procedimenti da trattare, cambia il suo procuratore, in qualche modo è cambiato anche lui, ma attorno al suo ufficio giudiziario le vicende che affliggono il territorio in cui opera proseguono il loro corso producendo nuovi delitti, nuova ricchezza, poco sviluppo, tanta rassegnazione e qualche segno di reazione.
Mentre si confronta con l’umanità dolente che con qualche flebile speranza o forse solo per disperazione riversa le proprie sofferenze nel processo penale, mentre prosegue l’attività ordinaria fingendo di non pensare più a quel duplice omicidio rimasto irrisolto e invece intimamente avvertendolo come una ferita non rimarginata della sua anima e di quella terra oramai divenuta sua, Salvatori non appare più quell’”animale esotico condotto in un piccolo centro da un circo internazionale di passaggio”, quale lo aveva percepito il maresciallo di Alzapietra, dove avvenne il delitto dei “Pascoli di carta”.
Si confronta con un mondo che ora conosce non perché gli si sia svelato ma perché ora egli si rende meglio conto di quante sono le cose che ancora deve capire; più accorto, ma forse nemmeno più di tanto, egli ancora fatica a canalizzare la sua passione nell’equilibrio e quando sente crescere in lui o attorno a sé la disillusione, nello stesso momento in cui ne comincia ad avvertire le suggestioni, reagisce con vigorosa insofferenza.
È la morte per cause naturali di un alto magistrato, tanto alto quanto chiacchierato, in pensione da tempo, a rimettere in moto le sopite tensioni di Salvatori verso un mondo che gli sfugge e che vuole capire.
Un sopralluogo per dovere d’ufficio, quasi una mera formalità, nella casa del Procuratore generale Ficarra nel paese di Alcara, dove viveva da solo e dove era stato trovato cadavere, riaccende nel giovane sostituto sentimenti di rivalsa e rinfocola curiosità sugli interessi border line che, lungo un crinale tracciato a partire da Bruxelles fino ai paesi spopolati dei Nebrodi, affratellano classi dirigenti, professionisti, operatori economici ed esponenti mafiosi, “lembi di un’unica rete”, scrive Apollonio; ma individuati i lembi, comunque la rete “non era visibile ad occhio nudo”.
Dove tutto è mafia e nulla è mafia, dove il tutto sta nel nulla e nel nulla, nelle campagne incolte, nei pascoli deserti, nelle comunità senza popolo, proprio lì sta tutto.
3. Apologo del p.m. ingenuo e curioso
Salvatori porta un nome che evoca il desiderio di un giovane magistrato di salvare il mondo o almeno di concorrere a salvarlo e Apollonio sembra averglielo scelto con un filo di ironia sorniona visto che di lui racconta l’impotenza dinanzi ad un mondo sottilmente complesso e solidamente potente, che gli compare senza farsi afferrare, che si rappresenta dinanzi a lui come mistificazione quando è reale e come reale quando è mistificazione e che comunque infine gli sfugge.
Questo senso di inadeguatezza egli lo confessa al suo procuratore, una donna trapiantatasi in Sicilia all’inizio della sua carriera, divenuta negli anni “più siciliana dei mafiosi siciliani, su cui aveva indagato e per cui aveva chiesto e ottenuto montagne di ergastoli”.
A lei che gli rimproverò l’ennesima ingenuità dice: “io ho scelto di fare questo lavoro perché voglio cambiare le cose secondo un senso di giustizia, appunto, e invece mi sento intrappolato, come dentro una montagna di fatti, e di leggi da applicare automaticamente”.
Appena insediatasi, nel primo incontro con lei Salvatori le aveva sentito spiegare la differenza tra il siciliano e il mafioso: “mentre un siciliano, per congenita diffidenza nei confronti dell’ambiente, del contesto, del sistema di cose in cui si colloca, prima di compiere un’azione – parlare, ad esempio – pensa alle conseguenze che essa può avere due o anche tre passaggi causali dopo, un mafioso riesce ad arrivare a cinque o sei passaggi successivi”.
Salvatori non voleva disfarsi dell’ingenuità degli inizi “perché gli era diventata scudo e protezione” e per questo cade nell’errore che il procuratore gli aveva predetto: “lascia che te lo dica: se non ci si attrezza con una buona dose di realismo si rimane alla mercé del moto inesorabile delle cose”.
È il “mare di oggettività”, di cui parla Italo Calvino, più volte citato nello svolgimento della storia, che con il flusso ininterrotto di ciò che esiste sovrasta e confonde le coscienze. E sovrasta e confonde il giovane sostituto alla ricerca dei “nessi imperscrutabili”, che gli si affacciano persino quando assume a sommarie informazioni le persone che sporgono denuncia e che sembrano raccontare fatti e riferire informazioni del tutto estranei alle vicende da investigare.
E mentre a capo della sua procura Salvatori incontra una donna che dice di essere interessata al fenomeno generale che muove le vicende particolari, il maresciallo di Alzapietra riceve ordine dal suo colonello di togliere dalle pareti la cartina geografica delle campagne della Sicilia perché “secondo lui invogliava l’immaginazione e le fantasticherie”.
Un percorso ad ostacoli per un investigatore, dove ora si elabora il contesto senza i fatti ora si raccontano i fatti senza il contesto. Lo stesso percorso che riesce invece del tutto agevole alle mafie, che “a ben vedere, sono prevedibili da circa duecento anni”, pensa tra sé e sé Salvatori, mentre rilegge un albo di Tex. Per poi aggiungere: “era un pensiero terribile, eppure rassicurante nella sua ineluttabilità”.
4. Un racconto senza prove
A casa del Procuratore Generale Ficarra Salvatori si introduce per prendere atto di una morte per cause naturali, ma, approfittando della situazione, sfoglia con attenzione alcuni documenti posti nello studio del defunto, che pure non sembrano significare nulla; intravede uscendo una testa di gesso fracassata sul pavimento e non dispone alcun ulteriore atto istruttorio.
Ma poi si reca dal maresciallo di Alzapietra con il quale aveva condotto l’indagine fallita sul duplice omicidio di due anni prima, delitto che gli era sembrato legato agli interessi della mafia dei pascoli che controlla i terreni dei Nebrodi e che li sfrutta per ottenere i finanziamenti europei. Salvatori cerca stimoli e trova disillusioni. Vi incrocia un allevatore che vuole sporgere una denuncia per un fatto difficile a credersi e al quale lo stesso maresciallo del paese non sembrava voler credere.
Un misto di ingenuità e di istinto lo porta senza alcun apparente motivo ai funerali di Ficarra, a fiutare l’ambiente, ad inquadrare i volti dei partecipanti e degli officianti.
Due giorni dopo nel suo ufficio giungono due investigatori a portargli una prova inutilizzabile, raccolta un po' per errore, forse anche per abuso, in un’indagine che non era coordinata da lui ma da altro magistrato. Una prova che dimostrava un fatto che però non poteva esistere perché era la prova non sarebbe potuta esistere.
Da qui l’intreccio delle vicende che seguono portano Salvatori a scoprire l’esistenza di una struttura semiconventuale, denominato Malò, dove un innominato ordine di suore offre ospitalità a personalità autorevoli e potenti di quel territorio in cerca di tranquillità e meditazione.
Proprio a partire da quel luogo che tratteggia un Todo modo nebroideo, la storia si snoda in un pellegrinaggio laico con il quale Apollonio rende omaggio a Leonardo Sciascia, autore del quale è devoto lettore e colto cultore, evocandone personaggi, storie e persino citazioni e soprattutto introducendosi con le chiavi narrative nell’attualità del fenomeno mafioso, insuscettibile di essere definito arcaico o moderno, perché capace di essere contemporaneo in ogni epoca.
Incontriamo richiami di A ciascuno il suo con il personaggio di un prete unico abbonato del paese all’Osservatore romano (il titolo del romanzo è tratto dall’iscrizione riportata dalla testata – portae inferis non praevalebunt – che sembra fare il paio con la sconsolata considerazione del maresciallo di Alzapietra: “A volte i Nebrodi, anche con la loro impareggiabile bellezza, mi paiono le porte dell’inferno”); e ci viene da pensare a ciò che fa somigliare Salvatori all’ingenuo prof. Laurana.
Ci troviamo una citazione di Friedrich Dürrenmatt, riportata da Sciascia in Una storia semplice, e ripensiamo all’ambasciatore Giorgio Roccella, alla denuncia che avrebbe voluto fare sul rinvenimento del quadro misterioso in casa sua e al suo successivo apparente suicidio che nessuno voleva decodificare.
Affiora il vescovo di Patti, monsignor Angelo Ficarra, protagonista di Dalle parti degli infedeli, che a Salvatori viene ricordato da Carmine Ragusano, uno dei colletti bianchi che aveva fatto processare e che era stato assolto, anch’egli ospite di Malò. E Salvatori è costretto a masticare amaro in silenzio, sentendosi dire da lui: “sa, per noi siciliani Sciascia è come il maestro che ai suoi allievi apre gli occhi sul mondo”.
Molte altre ancora sono le risonanze e le movenze narrative che rimandano allo scrittore di Racalmuto; e scovarle, mentre si dipanano gli intrighi della storia, rende la lettura ancor più appassionante per gli amanti di Sciascia.
5. Se irredimibile è la speranza
Fra errori tattici, irritualità procedurali, ingenue arditezze e disvelate inconsapevolezze, Salvatori non riesce a dominare il corso degli eventi, talvolta non riesce a comprendere pienamente i fatti, ma dinanzi ai suoi fallimenti e alle sue delusioni è davvero fino in fondo un personaggio sciasciano.
Perché nonostante tutto, pur talvolta assalito dalla tentazione di lasciare la toga, non perde mai la fiducia nel diritto e nella giustizia, non rinuncia mai ad affilare i suoi strumenti spuntati per tutelare la dignità delle persone e giunge persino ad ammettere e ad accettare i turbamenti che procura il senso di impotenza, ben noto a investigatori e magistrati, e che gli viene rinfacciato dal maresciallo di Alzapietra, quando sconfitto e amareggiato, decide di andare in pensione.
“Cosa se ne fa lei di questi turbamenti?” gli chiede l’investigatore disilluso. “Me li tengo dentro”, gli risponde Salvatori, “Li seppellisco da qualche parte, tra lo stomaco e il cuore. Sono semi che, spero, prima o poi daranno frutto”.
Sciascia, lo scrittore della Sicilia irredimibile, è in realtà quello che si svela uomo di fede e di speranza in un’intervista rilasciata a Ian Thomson nel 1985 per il London Magazine, ripubblicata da Rubbettino nel 2022: “io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono e soffrono dentro”.
Sciascia si diceva ammiratore degli uomini che sembravano non avere molte speranze e che riuscivano però ad essere il cuore della speranza, “la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori”. Come continuano ad esserlo oggi certi suoi personaggi, per quanto sconfitti. Come ci si presenta Salvatori, che anche in questo da una storia all’altra siciliano lo è sempre di più. E sempre meglio.
Un marziano a spasso per il processo amministrativo (divertissement sul non-processo)[1]
di Francesco Volpe
A un certo punto, la depressione per quel cielo, sempre rosso e sempre aranciato, divenne insostenibile.
Arthur Dent prese una decisione e, dopo aver strofinato tre volte il naso con sua mamma Trillian (i marziani si salutano così), salì a bordo della sua astrocar. Aveva sentito parlare di un pianeta bianco e azzurro: doveva essere bello vivere lì.
L’astrocar era una vecchia utilitaria e ci vollero venti giorni standard, ma alla fine Arthur arrivò sulla Terra e, scelto un posto a caso, fece landing in Italia.
Fu il paradiso. Conobbe la pasta al pomodoro, il frico e la malvasia. Anche il sole, immerso in quei cieli blu, era una tiepida e piacevole scoperta. Arthur si sentiva finalmente bene e, poiché era di spirito gentile, si fece presto degli amici.
Un giorno venne a sapere che l’Università aveva bandito un concorso per un posto a cattedra di lingua e letteratura marziane.
“È proprio quello che fa per me” – pensò - “È vero che su Marte facevo il consulente legale e che, a scuola, prendevo sempre cinque in marziano, ma qui sono l’unico che conosce la lingua, senza tenere conto che ho anche una discreta conoscenza della letteratura, perché ho letto tutti i gialli di Douglas Hactar!”.
Con stupore apprese, tuttavia, che il concorso era stato vinto da una studiosa di filologia ugrofinnica con dottorato a Kuala Lumpur. Arthur era arrivato terzo, perché gli era stato preferito anche un associato di fisica dei corpi fluidi che veniva dall’Università di Capo Passero.
“Non è possibile!”, pensò Arthur.
Poiché era entrato in confidenza con Santino, che faceva l’avvocato, una sera lo invitò in birreria e, davanti a un wurstelpallido e a un piatto di patatine lutee, disse: “Voglio rivolgermi al giudice”.
“Un momento”. – replicò Santino – “Non basta dire che vuoi andare dal giudice. Si deve prima stabilire davanti a qualegiudice”.
Il dialogo che seguì si svolse più o meno in questi termini.
“Come?” – fece Arthur – “Qui non c’è un solo giudice?”.
“No. Ce ne sono diversi e per la tua causa quello giusto è il giudice amministrativo”.
“Boh, io, questa cosa, non la capisco tanto. La giustizia dovrebbe essere applicata in modo uguale per tutti e un giudice che decide su cause particolari è un giudice che riserva ad alcuni soggetti un trattamento speciale. Ma, alla fine, basta che sia indipendente e che possa giudicare in modo imparziale. Sarà così anche per questo giudice amministrativo”.
“Dipende da quello che intendi” – fece Santino – “I giudici del primo grado, in effetti, sono assunti per concorso. Ma i giudici di secondo grado – quelli che metteranno la parola fiat sulla tua causa – sono nominati per un quarto dall’esecutivo. Cioè, proprio da quell’amministrazione su cui saranno chiamati a giudicare. Spesso, inoltre, questi giudici vanno e vengono dai ruoli della pubblica amministrazione. Ora fanno i consiglieri dei ministri, altre volte dirigono importanti autorità. Poi tornano a fare i magistrati e il loro posto nei ministeri viene preso da altri loro colleghi con cui si danno il turno”.
“Questo non è tanto bello” – osservò Arthur – “Ma immagino che, se i giudici commettessero delle birbanterie, ci sarebbero dei procedimenti disciplinari…”.
“Sì e no. Nel senso che è vero: ogni tanto se ne celebrano. Ma è sempre uno psicodramma, perché il procedimento disciplinare non è mai stato ben regolato e così si va all’impronta. Non esiste neppure un vero e proprio organo di autogoverno perché quello che c’è si limita a dare le autorizzazioni sugli incarichi esterni e ad assegnare le sedi, senza avere competenze disciplinari. In realtà, il Consiglio di Stato è governato dal suo presidente, che è nominato anch’egli dall’esecutivo. È il presidente colui che dice quali siano le competenze delle sezioni, ripartendole sulla base dell’amministrazione resistente. Con la conseguenza che tutte le cause contro il Ministero delle Infrastrutture sono decise da un’unica sezione e da quegli otto o nove magistrati che la compongono. Il presidente stabilisce anche da quali magistrati siano composte queste sezioni oltre che la sezione più importante, da lui presieduta, che si chiama Plenaria. Su tutte queste cose il consiglio di presidenza si limita a dare un parere. Ma ti faccio osservare che anche questo consiglio è presieduto dal presidente del Consiglio di Stato. Inoltre, se gli garba, il presidente può acciuffare una particolare causa per farla decidere dalla sua Plenaria, invece che dalla sezione a cui è stata assegnata”.
A Arthur venne un senso di vertigine: su Marte le cose funzionavano in modo diverso. Ora, però, lui era qui e bisognava accettare le regole del gioco.
“Adesso, spiegami… concretamente… come si fa a presentare la causa?”.
“Beh, è abbastanza semplice” – rispose Santino – “Per prima cosa, devi notificare un ricorso all’Università e almeno a uno dei controinteressati”.
“Oh, bella! Perché mai a uno solo? A tutti o a nessuno, non ti pare?”.
“Perché se sono di più, poi si dovrà integrare il contraddittorio anche nei confronti degli altri”.
“Ho capito” – rispose Arthur – “ma, se è così, allora tanto vale non notificare il ricorso a nessun controinteressato e poi integrare il contraddittorio verso tutti. Cosa succede se non notifico a quell’unico?”.
“Succede che il giudice ti respinge il ricorso senza nemmeno leggere le carte”.
“Siete davvero bizzarri…” – chiosò il marziano – “Ma, dopo, come si va avanti?”.
“Dopo che hai notificato, devi depositare il ricorso”.
“E poi?”.
“E poi, aspetti”.
“Aspetto? Aspetto cosa?”.
“Aspetti. Aspetti che ti fissino l’udienza in cui la tua causa sarà decisa. Diciamo che puoi aspettare per anni, anche perché ti passeranno davanti altre cause che sono più importanti: appalti, interventi PNRR, opere pubbliche, mi capisci? Così può capitare che tu debba aspettare parecchio tempo. Al punto che, se l’udienza non sarà stata fissata entro cinque anni, tu dovrai dichiarare che vuoi proprio - ma proprio proprio, eh! - che il tuo ricorso venga deciso. Se non lo farai, la causa verrà cancellata”.
“Ma come! Anche questa! Non voglio sembrare scortese, ma su Marte, dopo che è stata presentata la causa, il giudice ha il dovere di deciderla, senza che questo dovere cada in prescrizione. Da noi non esiste che il giudice possa non fare la sua parte perché è rimasto a lungo inadempiente. E, poi, durante tutti questi anni, si farà pur qualcosa! Si ammetteranno delle prove, ad esempio. Io stesso vorrei chiamare a testimoniare il signor Lino, che era presente all’orale del concorso, perché riferisca che né la dottoranda di Kuala Lumpur né il professore di Capo Passero sono riusciti a spiccicare un’acca stracca di marziano e tanto meno conoscono i fondamentali romanzi di Douglas Hactar!”.
Santino sorseggiò la sua birra. La schiuma inzuppò i baffi che da neri divennero bianchi per tutto il tempo che ci volle prima che lui se li pulisse con il palmo della mano. Poi prese una patatina, l’intinse nella ciotola del ketchup e se la portò, meditabondo, alla bocca.
“In realtà, no. In quei cinque anni non si fa proprio niente. Anzi, non c’è nemmeno un momento preciso in cui si decide se una prova debba essere ammessa o no. Si fanno queste cose solo insieme ad altre, quando si valuta la domanda cautelare o si decide il merito. E, la tua testimonianza, forse riuscirai a portarla nel processo, ma non pensare di convocare Lino davanti al collegio, perché Lino potrà rendere solo dichiarazioni scritte”.
“Ma che testimonianza è, se il teste non viene nemmeno ascoltato dal giudice e dalle altre parti!” – sbottò Arthur, sempre più stupefatto - “Però, senti, io vorrei chiedere anche una perizia per dimostrare che chi ha scritto libri di filologia ugrofinnica e articoli sulla fisica dei corpi fluidi non ha le competenze per insegnare lingua e letteratura marziane. Almeno questo, potrò farlo?”.
“Fino a un certo punto, Arthur…” – disse Santino, inghiottendo un’altra patatina - “… intanto il giudice potrebbe dirti che queste verifiche ricadono nella discrezionalità dell’Università su cui lui non può mettere il naso…” – e qui Santino sprofondò il naso nel boccale di birra - “… in secondo luogo, anche se il giudice ti ammettesse la perizia, non ti aspettare che nomini un consulente esterno. Chiamerà, invece, un verificatore da un’altra Università”.
“Ma è pur sempre un’Università! Amici del mio avversario! Siamo sicuri che questo verificatore, come lo chiami tu, sia davvero imparziale?”.
“Eh…!” – Santino non aggiunse altro.
“Fatto sta che io non posso aspettare tutto questo tempo prima di sapere se avrò un lavoro. Ho le bollette da pagare e sulla Terra andate avanti con il combustibile fossile che è carissimo, quando su Marte usiamo il nucleare da almeno dieci millenni. Inoltre, atterrando ho rotto un sospensore dell’astrocar e il carrozziere mi ha chiesto un botto. Ho bisogno di uno stipendio. C’è niente che si possa fare nel frattempo?”.
“Sissì! Puoi provare a chiedere un provvedimento cautelare. Ne fanno anche di molto stravaganti, che la legge neppure prevede. E decidono in fretta, sai? Ma devi dimostrare di avere un danno grave e irreparabile”.
“Ah, beh!” – fece Arthur, finalmente sollevato – “questo è facile. Tiro fuori le bollette e la fattura del carrozziere”.
“Al tempo!” – lo fermò Santino, che era stato caporale istruttore a Udine – “Guarda che il danno grave e irreparabile non è mica solo il tuo. Anche se la legge non lo dice chiaro e tondo, il giudice valuta pure quello che subirebbe l’Università e poi fa una comparazione per stabilire chi dei due abbia il danno grave più grave. Di solito, il giudice dice che quello dell’Università è più grave del tuo, perché è legato a un interesse pubblico, che merita di essere tutelato di più”.
“Anche questa non me la spiego. Mi hai appena detto che il giudice non può fare valutazioni di questo tipo. Come l’hai chiamata? Discrezionalità?”.
“Però quando vuole le fa e fa anche di peggio, perché, se gli comoda, si sostituisce senza troppo discutere all’amministrazione e fa di testa sua. Egli è Giano. Ora fa il giudice, ora, invece, è la più alta di tutte le pubbliche amministrazioni, ora è tutti e due.
In ogni caso, si deve stare attenti a presentare una domanda cautelare, perché il giudice potrebbe ritenere che la causa sia già pronta per essere decisa e così ti fa sentenza subito. In questo modo, però, tu perdi la possibilità di presentare altre memorie e di produrre altri documenti, perché la causa viene definita così com’è”.
“Ma senti questa! Il giudice che mi confisca il diritto di difesa!” – Arthur era sempre più sconsolato – “Potrò pure oppormi o no?”.
“Oh, sì, puoi farlo, ma non servirebbe a nulla, perché è il giudice che decide se ricorrere alla sentenza in forma semplificata. Tu non riusciresti a evitarlo neppure se rinunciassi alla domanda cautelare. Ormai sei lì. Basta che tu passi per la camera di consiglio e… zac… sei preso al laccio”.
Arthur, perturbato e intontito, fissava i graffiti lasciati sul tavolo da precedenti avventori. Un cuore frecciato e una frase: Luana, tu sei la luna dei miei lunedì.
“Ma consolati,” – riprese Santino – “il giudice può cambiare il rito anche in altre occasioni. Ad esempio, se ritiene che la causa possa essere decisa subito, fissa lui, senza che nessuno glielo chieda, la camera di consiglio e questo anche prima che siano scaduti i termini per la costituzione. In questo modo, la causa si chiude in quattro e quattr’otto e magari alcune parti neppure lo sanno”.
“Ma ci sarà un appello!”.
“Ovvio che c’è un appello. E ci diciamo anche che l’appello ha carattere devolutivo perché si dovrebbe riprendere la causa in mano come se si fosse in primo grado. Ma non è mica del tutto vero, sai? Non si possono portare nuove prove, non si possono sollevare nuove eccezioni, quali esse siano, e si intendono rinunciate tutte le domande e tutte le eccezioni che non siano state riproposte con appello incidentale o nei termini di costituzione, se per caso il t.a.r. non le avesse valutate”.
“Funziona così, in Consiglio di Stato?”.
“Sì”.
“E sopra al Consiglio di Stato?”.
“Sopra, c’è la Cassazione. Anche lì capitano cose curiose, ma non serve che te ne parli, perché ci vai solo se è stato sbagliato il giudice e la Cassazione non può dire se il Consiglio di Stato abbia deciso bene o male la tua causa. In passato, poverina, ci ha anche provato, inventandosi un arzigogolo, ma poi l’hanno stoppata”.
“Quindi il Consiglio di Stato fa una giurisprudenza tutta per conto suo?”
“È così”.
“Un’altra cosa, Santino. Se vincessi la causa, poi mi assumerebbero in Università?”.
“Beh, non è scontato. Si dovrebbe rifare il concorso e se tu risultassi il candidato migliore avresti il posto. Del resto, neppure la sentenza è scolpita sulla pietra perché il giudicato, ormai, è a formazione progressiva. Perciò, l’Università potrebbe chiedere chiarimenti al giudice su come la sentenza debba essere eseguita e sai bene come funziona… ogni volta che si spiega qualcosa, inevitabilmente la si interpreta e ogni volta che si interpreta qualcosa, inevitabilmente la si cambia…”.
“Senti” – aggiunse Arthur – “se non ci fosse modo di vincere il concorso, potrei anche lasciar perdere. Ma io ero davvero il candidato migliore. Che almeno mi riconoscano i danni!”.
“I danni… sì, vero, … ma prima devi avere impugnato nei termini gli atti del concorso e il giudice deve averli annullati. Altrimenti, non ti verrà risarcito quasi nulla”.
La birra era diventata acida. Restava solo la domanda più importante.
“Tu cosa faresti al posto mio, Santino?”.
L’avvocato tirò il fiato: “Lascerei stare, Arthur. Rischi seriamente di buttare via tempo e quattrini e intanto ci staresti male. Mettiti, se mai, a fare qualche lavoretto in nero: dà qualche ripetizione, aggiusta gli scarichi dei lavandini... ti conviene…”.
Si salutarono davanti all’ingresso della birreria.
Arthur Dent era triste: caelum non animum mutant qui trans sidera currunt.
Qualche incivile aveva lasciato sul marciapiede una copia della Gazzetta Ufficiale del Pianeta Venere.
Per curiosità, Arthur la prese in mano. Conosceva bene il venusiano, che aveva imparato a scuola.
Vide così che l’Università di Frac aveva bandito un concorso di lingue e letterature marziane.
Arthur sollevò la testa. Di nuovo, aveva preso una decisione.
Montò sull’astrocar, tirò la levetta dell’aria, accese il motore a onde quantiche e partì, verso il secondo pianeta del sistema solare.
[1] Relazione tenuta il 29 febbraio 2024 al Convegno Giudicati e riti del processo amministrativo, svoltosi a Trieste il 29 febbraio 2024 per la cura di Andrea Crismani.
L’intervento trae ispirazione da una suggestione del saggio di Alberto Romano, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la legge n. 205 del 2000 (epitaffio per un sistema), Dir. proc. amm., 2001, 602 s. Esso è, dunque, dedicato al suo Autore, tanto più che gli si è profondamente grati per il suo insegnamento.
Si sente, inoltre, la necessità di riconoscere un certo debito anche nei confronti di Douglas Adams e di Giulio Cesare Croce.
Il breve appunto mira a ripercorrere le soluzioni adottate dalla Sezioni Unite, con informazione provvisoria degli esiti dell’udienza dello scorso 29 febbraio 2024 conforme alle richieste della Procura Generale, in ordine al perimetro di utilizzabilità dei contenuti delle comunicazioni intercorse attraverso i criptofonini dedicati all’utilizzo dell’applicazione Sky ECC.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Le ordinanze di rimessione della Terza e della Sesta sezione penale della corte di Cassazione ed il contenuto dell’informazione provvisoria - 3. Le modalità di acquisizione della prova: Autorità legittimata e strumento processuale applicabile - 4. Rispetto dei principi di necessità, proporzionalità ed equivalenza. La natura delle comunicazioni acquisite attraverso piattaforma “Sky ECC” e l’autonoma competenza del Pubblico Ministero, organo della giurisdizione - 5. L’utilizzabilità delle acquisizioni e la verifica dell’Autorità Giurisdizionale dello Stato di emissione dell’OEI del rispetto dei diritti fondamentali, comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo. - 6. Conclusioni.
1. Introduzione
Negli ultimi mesi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito processual-penalistico la questione relativa all’utilizzabilità dei contenuti comunicativi veicolati attraverso l’applicazione Sky ECC, utilizzabile esclusivamente in criptofonini dedicati, che – quanto meno nella prospettazione dei loro programmatori Sky Global – sarebbero dovuto restare inviolabili, grazie all’uso di plurimi sistemi di cifratura, presenti sia negli apparecchi mobili che nel server centrale, idonei a garantire la segretezza delle comunicazioni e la non conservazione dei contenuti scambiati.
In estrema sintesi, l’applicazione funziona su telefonini elaborati con apposita scheda SIM e sistema operativo dedicato. Le chiamate non si appoggiano alla rete GSM e la messaggistica si avvale di un sistema c.d. “peer to peer” con l’interpolazione di un server fra mittente e destinatario, ove i dati venivano archiviati, prima di transitare al destinatario finale, attraverso vari livelli di cifratura avanzata che rendono non intercettabile il contenuto, a meno che non si conoscano le chiavi di cifratura.
Grazie al “servizio” offerto, i criptofonini Sky ECC sono ben presto diventati uno strumento indispensabile per strutture criminali organizzate, ed in particolare per narcotrafficanti di rango internazionale, capaci di movimentare ingentissimi quantitativi di stupefacente.
A partire dal giugno 2019 l’Autorità Giudiziaria francese, sulla scorta di una cooperazione di polizia fra Francia, Olanda e Belgio, nell’ambito di un’attività di indagini relativa ad un’ipotesi di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, ha iniziato a comprendere il funzionamento del sistema dei criptofonini, adottando provvedimenti di intercettazione e, successivamente, con l’installazione di un programma informatico sul server centrale, riuscendo a cogliere le chiavi di cifratura necessarie per la decrittazione dei dati, per poi giungere, nel marzo 2021, al sequestro dei server OVH su cui Sky ECC conservava copia della cronologia delle conversazioni. Di tali server è stata effettuata copia forense e, grazie anche alla consueta cooperazione veicolata attraverso Eurojust e gli organi di cooperazione di polizia internazionale, ne è stata data informazione dell’esistenza alle autorità giudiziarie potenzialmente interessate sul territorio nazionale.
Sequenzialmente, numerose Procure della Repubblica hanno chiesto copia del “dato statico” acquisito attraverso il menzionato sequestro dei server, ottenendo la disponibilità di un bagaglio di informazioni di unico rilievo probatorio.
La ritenuta inviolabilità del mezzo di comunicazione è risultata, infatti, direttamente proporzionale alla chiarezza delle informazioni trasmesse, prive di contenuti “criptici” e spesso associate a materiale fotografico ritraente l’oggetto delle illecite transazioni.
In contesti dove i tradizionali mezzi di intercettazione telefonica non consentivano di permeare talune dinamiche criminali, il dato conoscitivo di Sky ECC – seppur statico (questione centrale in relazione alla natura delle chat) – ha generato uno tsunami investigativo con sequenziali richieste cautelari per fatti dall’elevato disvalore penale e, sequenzialmente, un proliferare di questioni difensive sollevate in sede di riesame ed approdate in Corte di Cassazione, ove sono sorti contrasti che hanno richiesto la remissione alle Sezioni Unite Penali che, con pronuncia attesissima nell’ambiente, si sono determinate alla scorsa udienza del 29/2/24.
2. Le ordinanze di rimessione della Terza e della Sesta sezione penale della Corte di Cassazione ed il contenuto dell’informazione provvisoria
Le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere due distinti ricorsi: il ricorso N.R.G. 33544 del 2023, ric. GJUZI Ermal (fatti relativi ad ipotesi di narcotraffico internazionale con contestazioni per oltre 5 quintali di stupefacente del tipo eroina, cocaina e derivati della cannabis) ed il ricorso N.R.G. 41618/2023, ric. GIORGI Bruno e GIORGI Sebastiano (fatti relativi a contestazioni di narcotraffico internazionale verso il territorio calabrese addebitabili, in ipotesi investigativa, a tre distinte organizzazioni criminali).
Nel ricorso GJUZI, con ordinanza n. 47798/2023 del 3/11/23, dep. 30/11/23, la Terza sezione della Suprema Corte portava all’attenzione della Sezioni Unite le seguenti questioni controverse:
a) Se il trasferimento all’Autorità giudiziaria italiana, in esecuzione di ordine europeo di indagine, del contenuto di comunicazioni effettuate attraverso criptofonini e già acquisite e decrittate dall’Autorità giudiziaria estera in un proprio procedimento penale, costituisca acquisizione di documenti e di dati informatici ai sensi dell’art. 234-bis cod. proc. pen. o di documenti ex art. 234 cod. proc. pen. ovvero sia riconducibile ad altra disciplina relativa all’acquisizione di prove.
b) Se il trasferimento di cui sopra debba essere oggetto di verifica giurisdizionale preventiva della sua legittimità, nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine.
c) Se l’utilizzabilità degli esiti investigativi di cui al precedente punto a) sia soggetta a vaglio giurisdizionale nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine».
Ai quesiti sopra illustrati, secondo quanto diffuso dall’informazione provvisoria, sono state date le seguenti soluzioni:
primo quesito: il trasferimento di cui sopra rientra nell’acquisizione di atti di un procedimento penale che, a seconda della loro natura, trova alternativamente il suo fondamento negli artt. 78 disp. att. cod. proc. pen., 238, 270 cod, proc. pen. e, in quanto tale, rispetta l’art. 6 della Direttiva 2014/41/UE;
secondo quesito: negativa, rientrando nei poteri del pubblico ministero quello di acquisizione di atti di altro procedimento penale;
terzo quesito: affermativa; l’Autorità giurisdizionale dello Stato di emissione dell'ordine europeo di indagine deve verificare il rispetto dei diritti fondamentali, comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo.
Nel ricorso GIORGI, con ordinanza n. 2329/2024 del 15/1/24, dep. 18/1/24, la Sesta sezione della Suprema Corte dava atto della presenza di un contrasto giurisprudenziale, rimettendo alle Sezioni Unite i seguenti quesiti:
a) Se l’acquisizione, mediante ordine europeo d’indagine, dei risultati di intercettazioni disposte da un’autorità giudiziaria straniera, in un proprio procedimento, su una piattaforma informatica criptata e su criptofonini integri l’ipotesi disciplinata, nell’ordinamento nazionale, dall’art. 270 cod. proc. pen.
b) Se, ai fini dell’emissione dell’ordine europeo di indagine finalizzato al suddetto trasferimento, occorra la preventiva autorizzazione del giudice.
c) Se l’utilizzabilità degli esiti investigativi di cui al precedente punto a) sia soggetta a vaglio giurisdizionale nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine»
Ai quesiti sopra illustrati, secondo quanto diffuso dall’informazione provvisoria, sono state date le seguenti soluzioni:
Primo quesito: affermativa.
Secondo quesito: negativa.
Terzo quesito: affermativa; l’Autorità giurisdizionale dello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine deve verificare il rispetto dei diritti fondamentali, comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo.
3. Le modalità di acquisizione della prova: Autorità legittimata e strumento processuale applicabile
Dei tre quesiti specularmente trattati nei ricorsi, dalla lettura dell’informazione provvisoria, la soluzione al quesito n. 2, ovvero quello relativo alla necessità – o meno – di una preventiva autorizzazione del giudice nazionale per il trasferimento dei contenuti Sky ECC, non lascia alcun dubbio interpretativo.
Ed in particolare, dalla lettura combinata delle due informazioni provvisorie, si evince come sia stato dichiarato legittimo l’operato del Pubblico Ministero che emetta, senza la preventiva autorizzazione del Giudice nazionale, un ordine di indagine europeo finalizzato al trasferimento di risultati di intercettazioni disposte da un’autorità giudiziaria straniera, ovvero funzionale all’acquisizione di atti di altro procedimento penale (sul punto, si rimanda alle considerazioni che seguono in ordine all’individuazione della natura delle chat Sky ECC acquisite).
Ed in particolare, con la premessa che, come statuito dall’art. 1 par. 1 della direttiva OEI 2014/41/UE (attuata nell’ordinamento interno con d.lgs. 108/17), l’ordine di indagine europeo può essere emesso anche “solo” per ottenere prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione, risulta pacifico che in caso di attività di intercettazione ritualmente svolta nell’ambito di un procedimento da parte dell’A.G. straniera, il Pubblico Ministero potrà richiederne il trasferimento delle risultanze ai sensi degli artt. 1 e 10 della citata direttiva, senza una previa autorizzazione del Giudice nazionale, così come potrà richiedere, autonomamente, la trasmissione di atti di un procedimento penale compiuti dall’A.G. straniera.
Di converso, per procedere alla “mera” esecuzione delle operazioni di intercettazione, naturalmente, è necessario un vaglio del giudice dello Stato emittente che le autorizzi (diversa è l’ipotesi in cui nello Stato di esecuzione è pendente altro procedimento per fatti connessi o collegati e ivi si richieda, in forma di coordinamento tra A.G. lo svolgimento di operazioni di intercettazione, previo espletamento della relativa sequela autorizzativa nazionale).
È evidente dunque come, da un lato, ai sensi dell’art. 27 d.lgs. 108/17, il Pubblico Ministero, nella fase delle indagini preliminari, è l’organo legittimato ad emettere un OEI finalizzato ad acquisire una prova già disponibile presso l’Autorità Giudiziaria straniera, trasmettendolo direttamente allo Stato d’esecuzione.
E d’altro canto, sulla scorta della tipologia della prova concretamente richiesta (acquisizione di esiti di intercettazione, ovvero di atti di altro procedimento penale iscritto presso l’Autorità Giudiziaria), risulta altrettanto pacifico come non sia necessario un preventivo vaglio autorizzativo del Giudice nazionale, ben potendo, in entrambi i casi, il Pubblico Ministero provvedere autonomamente.
4. Rispetto dei principi di necessità, proporzionalità ed equivalenza. La natura delle comunicazioni acquisite attraverso piattaforma “Sky ECC” e l’autonoma competenza del Pubblico Ministero, organo della giurisdizione
Il Pubblico Ministero, nella sua collocazione funzionale nel sistema giurisdizionale interno, ai fini dell’emissione dell’OEI (art. 27 d.lgs. 108/17), dovrà valutare la sussistenza dei requisiti di necessità e proporzionalità, nonché della possibilità di disporre dell’atto istruttorio alle stesse condizioni in un caso interno analogo (principio di equivalenza), come precisato all’art. 1 della direttiva 2014/41/UE: “1. L'autorità di emissione può emettere un OEI solamente quando ritiene soddisfatte le seguenti condizioni: a) l'emissione dell'OEI è necessaria e proporzionata ai fini del procedimento di cui all'articolo 4, tenendo conto dei diritti della persona sottoposta a indagini o imputata; e b) l'atto o gli atti di indagine richiesti nell'OEI avrebbero potuto essere emessi alle stesse condizioni in un caso interno analogo.”.
Sul punto, anche ai fini della “decriptazione” della portata contenutistica delle informazioni provvisorie della Suprema Corte, risulta di estremo interesse la lettura della pregevole memoria di udienza depositata dalla Procura Generale, risultando l’esito dell’udienza indicato come conforme alle conclusioni della stessa Procura Generale.
Secondo quanto ricostruito, ed in estrema sintesi, l’attività definita di intercettazione muoveva da un’indagine riguardante soggetti determinati (e non un controllo diffuso come sottolineato da più tesi difensive) e si è sostanziata, inizialmente, nell’installazione di un primo trojan dall’A.G. di Lille (giugno 2019) che ha consentito di apprendere le chiavi di decrittazione del server (e, dunque, non in un’attività di intercettazione riconducibile al paradigma normativo interno di cui all’art. 266 c.p.p. ma, al più, vedi infra, quello di cui all’art. 266 bis c.p.p.); successivamente, l’A.G. di Parigi (dicembre 2020) ha installato un ulteriore trojan nel server che ha consentito di acquisire le chiavi di cifratura dei singoli apparecchi telefonici (anche in questo caso non un’attività di intercettazione ex art. 266 c.p.p.) e, solo successivamente, grazie all’installazione di un ulteriore trojan, è stato possibile prendere contezza dei contenuti delle comunicazioni, con successivo sequestro dei server contenenti la copia della cronologia nel marzo 2021. Soltanto in questo momento della progressione investigativa, acquisite le chiavi di decrittazione del server e dei criptofonini, è stato possibile prendere contezza dei contenuti – sbalorditivi in termine di prova dei reati – delle conversazioni intercorse sulla piattaforma.
In questo modo, è stato acquisito un dato freddo, statico, che, successivamente, grazie alle comunicazioni intercorse, è stato oggetto dei vari OEI emessi da numerosi uffici inquirenti italiani ed esteri.
È bene precisare, a tal proposito, a conferma della proporzionalità dello strumento di indagine utilizzato come, a fronte del sequestro di un server tout court, unico mezzo per garantire la conservazione dei contenuti, l’analisi ha riguardato target specifici, associati ad apparati telefonici collegati a PIN individuati ed attribuiti, con certezza, a singoli autori di reati operanti sul territorio.
La previa contezza della disponibilità di siffatti criptofonini ha garantito la selezione investigativa, in ossequio al principio di proporzionalità, ancora richiamato dall’art. 6 della direttiva OEI.
Sulla verifica della sussistenza del requisito di necessità dovrà farsi riferimento ai singoli casi specifici, pur potendo osservare sin d’ora che, stante la natura illecita delle transazioni in essere, il disvalore delle vicende trattate (i criptofonini erano apparecchi costosi ed il cui mantenimento imponeva un costo mensile), è del tutto ragionevole ritenere come i contenuti delle chat Sky ECC siano risultati non solo necessari, ma senz’altro indispensabili ai fini della prova dei reati oggetto di contestazione, in assenza di comunicazioni intercorse con strumenti “ordinari”.
Ciò detto in punto di necessità e proporzionalità, al fine di verificare il rispetto del principio di equivalenza, la questione centrale sarà quella di individuare quale sia l’istituto processuale che, sulla scorta della lex fori interna, consentirebbe l’acquisizione della prova nel procedimento penale italiano, evitando così l’elusione di eventuali divieti di acquisizione probatoria.
Dalla lettura dell’informazione provvisoria, sembra potersi escludere la riconducibilità della fattispecie all’ipotesi di cui all’art. 234 bis c.p.p. in quanto, da un lato, nell’ottica dello Stato emittente, il dato risulta già essere stato acquisito dall’Autorità Giudiziaria francese e non è stata richiesta l’acquisizione in quanto presente in rete o su un server e, d’altro lato, anche dal punto di vista dello Stato di esecuzione, in quanto quel dato non è stato acquisito con il consenso della società fornitrice ma attraverso attività di intercettazione prima e di sequestro poi, progressione investigativa resasi necessaria alla luce della peculiarità dell’architettura della piattaforma Sky ECC.
Ancora, altra ragione che indurrebbe ad escludere la riconducibilità dell’acquisizione all’ipotesi di cui all’art. 234 bisc.p.p. deriva dalla qualificazione delle chat come forma di corrispondenza anche dopo la ricezione (e, dunque, anche in fase “statica”) e non già come documento o dato informatico, e ciò anche sulla scorta di una recente pronuncia della Consulta, la numero 170/23, emessa nella nota vicenda relativa ad un’ipotesi di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato a seguito dell’acquisizione di plurime comunicazioni del senatore Renzi, disposta nell’ambito di un procedimento penale a carico dello stesso senatore ed altri ed in assenza di una previa autorizzazione da parte del Senato della Repubblica.
Un altro tema è, evidentemente, quello relativo alla legittimazione del Pubblico Ministero a richiederle senza l’autorizzazione del Giudice per le Indagini Preliminari. Sul punto, come già poc’anzi accennato, ed in assenza allo stato di una normativa che imponga che l’acquisizione di dette comunicazioni, allorquando avvenga in un momento successivo a quello in cui sono intercorse, vada preventivamente autorizzata dal GIP, si ritiene rientri fra gli strumenti di indagine che il Pubblico Ministero, organo della giurisdizione, potrà autonomamente esercitare attraverso un motivato decreto di sequestro (emesso ai sensi degli artt. 253-254 c.p.p.).
Dunque, un provvedimento assolutamente legittimo e che, in un caso analogo interno, equivarrebbe ad un sequestro di corrispondenza, con ciò ritenendo rispettato il principio di equivalenza di cui all’art. 6 della Direttiva OEI.
In questi termini parrebbe intendersi il riferimento delle Sezioni Unite alla disciplina dell’art. 78 disp.att. c.p.p., norma che richiama l’art. 238 c.p.p., in relazione all’acquisizione di atti di un procedimento penale compiuti dall’autorità giudiziaria straniera. Il richiamo, infatti, potrebbe intendersi esteso anche al comma terzo dell’art. 238 c.p.p. che, come noto, disciplina l’acquisizione della documentazione di atti irripetibili fra cui, per l’appunto, quelli relativi ad un provvedimento di sequestro, strumento investigativo maggiormente compatibile con la fattispecie in esame, alla luce delle considerazioni sopra esposte.
Stante il rilievo della tematica anche nel diritto interno, si consenta una riflessione ritenendo auspicabile – seppur non prevedibile – il mantenimento di siffatto quadro normativo che consente al Pubblico Ministero di procedere, legittimamente, con un proprio provvedimento autoritativo, al sequestro di corrispondenza e ciò nel presupposto indefettibile della funzione giurisdizionale che anche il Pubblico Ministero esercita e che trova il suo fondamento nell’attuale assetto costituzionale e nelle norme del codice che disciplinano le indagini preliminari.
Ancora, a mente il contenuto dell’informazione provvisoria della Corte, si segnala che, anche qualora volesse attribuirsi all’attività di indagine eseguita dell’A.G. francese la natura di intercettazione in senso codicistico (art. 266 e ss. c.p.p.), quanto meno nella fase antecedente il sequestro dei server del marzo 2021, sarebbe comunque legittima l’utilizzazione nel processo penale interno, ai sensi dell’art. 270 c.p.p. ed in presenza dei presupposti della rilevanza ed indispensabilità per la prova di reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.
In sintesi, dunque, a seconda della natura delle comunicazioni acquisite, verosimilmente da intendersi in base alla fase investigativa in cui l’A.G. francese ne ha avuto la disponibilità, se come dato freddo ovvero captato in tempo reale, l’acquisizione a mezzo OEI risulta legittima in quanto conforme anche al principio di equivalenza di cui all’art. 6 della direttiva 2014/41/UE trovando il suo fondamento, alternativamente, negli artt. 78 disp.att. c.p.p., 238 e 270 c.p.p.
5. L’utilizzabilità delle acquisizioni e la verifica dell’Autorità Giurisdizionale dello Stato di emissione dell’OEI del rispetto dei diritti fondamentali, comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo
La questione trova il suo fondamento normativo all’art. 1 paragrafo 4 della direttiva 2014/41/UE in forza del quale: “La presente direttiva non ha l'effetto di modificare l'obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i principi giuridici sanciti dall'articolo 6 TUE, compresi i diritti di difesa delle persone sottoposte a procedimento penale, e lascia impregiudicati gli obblighi spettanti a tale riguardo alle autorità giudiziarie” ed all’art. 14 paragrafo 7 del medesimo testo che prevede che: “Lo Stato di emissione tiene conto del fatto che il riconoscimento o l'esecuzione di un OEI sono stati impugnati con successo conformemente al proprio diritto nazionale. Fatte salve le norme procedurali nazionali, gli Stati membri assicurano che nei procedimenti penali nello Stato di emissione siano rispettati i diritti della difesa e sia garantito un giusto processo nel valutare le prove acquisite tramite l'OEI”.
Sul punto, in entrambi i ricorsi esaminati dalle Sezioni Unite, le Sezioni remittenti richiedevano alla Corte di valutare anche se l’utilizzabilità degli esiti investigativi (dunque un momento successivo all’attività di acquisizione) fosse soggetta ad un vaglio giurisdizionale nello Stato di emissione dell’ordine di indagine europea. La risposta al quesito è stata affermativa ma, ciò non di meno, allo stato, residuano dubbi interpretativi sulla portata di tale statuizione.
Per provare a tracciare il perimetro dell’assunto della Suprema Corte sarà necessario muovere dalla disamina delle questioni relative alla fase della raccolta della prova nello Stato ricevente.
Come noto, la fase della raccolta della prova (formata o da formarsi) segue la lex loci, fatte salve eventuali formalità operative richieste dallo Stato di esecuzione ai sensi dell’art. 9 dir. OEI e dell’art. 33 d.lgs. 108/17. Tale assunto discende dal principio del mutuo riconoscimento fondante la cooperazione penale europea che implica una presunzione di conformità degli atti al diritto dell’Unione, a sua volta derivante dalla presunzione di sussistenza di un analogo livello di protezione dei diritti individuali.
Dall’informazione provvisoria si evince che, pur partendo da tale presupposto, è previsto un vaglio da parte dell’autorità giurisdizionale dello Stato emittente, ai fini dell’utilizzabilità degli esiti investigativi acquisiti, sul rispetto dei diritti fondamentali, comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo.
Il vero nodo interpretativo da sciogliere è quello sull’ampiezza del contenuto della verifica demandata al giudice nazionale nonché sulla rilevabilità dell’eventuale violazione.
Ed in particolare, volgendo lo sguardo allo specifico caso dell’acquisizione delle chat di Sky ECC, è noto come la vicenda sia stata oggetto di specifiche impugnazioni nello Stato estero ed addirittura di un giudizio costituzionale che ne ha confermato la legittimità (decisione del Conseil constitutionnel francese n. 2022-987 QPC dell’8 aprile 2022), peraltro in forza di un ventaglio di provvedimenti emessi dall’Autorità Giudiziaria francese muniti di un profilo motivazionale particolarmente rafforzato (che, peraltro, in un’ottica di principio di equivalenza, rispetterebbe tutte le previsioni della disciplina interna in punto di intercettazioni).
Si pone quindi la necessità di assicurare un contenuto alla verifica del giudice nazionale che sia compatibile con il principio del mutuo riconoscimento delle decisioni e la fiducia immanente ai rapporti tra gli Stati membri in tema di cooperazione penale.
In assenza di una manifesta – ad oggi – lesione dei principi inderogabili dell’ordinamento interno dello Stato di esecuzione (verifica demandata a quella A.G.), ai fini della necessità di una verifica ulteriore da parte del Giudice nazionale si ritiene non si possa prescindere da un’allegazione difensiva con la quale si eccepisca, in concreto, dove sia avvenuta l’eventuale lesione del diritto di difesa (o delle garanzie di un equo processo) e quali siano gli elementi fattuali che l’attestano. Si pensa ad esempio ad un’alterazione del dato informatico ricavabile dalla lettura del dato trasmesso dall’Autorità Giudiziaria francese che possa far dubitare della correttezza del contenuto trasmesso (magari riscontrabile dagli stessi interessati, sulla scorta del loro patrimonio conoscitivo diretto) che dovesse risultare non intellegibile.
Diversamente, si corre il rischio di introdurre un sindacato sulla legittimità degli strumenti investigativi per la raccolta delle prove dello Stato destinatario di un OEI che mal si concilia con i principi in punto di cooperazione penale.
Tale conclusione, peraltro, trova conferma anche a mente l’iter procedurale in concreto adottato dagli investigatori francesi per giungere all’acquisizione delle chat di Sky ECC, assolutamente legittimo e come tale giudicato dall’Autorità Giudiziaria straniera.
In particolare, anche sul punto, pare cogliere nel segno l’osservazione della Procura Generale che, ricostruendo la complessità del sistema tecnologico indagato, inquadra questa prima fase della progressione investigativa nell’ambito della previsione di cui all’art. 266 bis c.p.p., trattandosi, di fatto, di un’intercettazione di flussi di comunicazioni intercorsi tra sistemi informatici, sub specie dell’algoritmo di decifrazione di un flusso di dati già captato (diversamente opinando, si darebbe infatti ingresso ad uno spazio di immunità, non risultando intercettabile tale dato). In questo caso, pertanto, non sembra necessario un richiamo alla norma confinaria di cui all’art. 189 c.p.p., ovvero inquadrando l’operato degli investigatori francesi quale prova atipica, pur in passato avendo la Suprema Corte adottato tale soluzione in una fattispecie analoga (Sez. 5, Sentenza n. 16556 del 14/10/2009 Ud. (dep. 29/04/2010) Rv. 246954).
Ancora, di fondamentale rilievo al fine di ritenere garantito il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo (sub specie del diritto alla riservatezza delle comunicazioni) è la considerazione per cui l’intercettazione del server è stato soltanto il precedente logico funzionale all’acquisizione delle chiavi di cifratura per procedere ad una successiva intercettazione dei criptofonini di interesse investigativo singolarmente individuati e non già, come da taluno paventato, una forma di intercettazione massiva con target indeterminato.
Il successivo sequestro del server (in ipotesi contenente anche conversazioni non aventi rilievo penale) è assimilabile al sequestro di un insieme di cose, fra cui anche cose pertinenti al reato, inscindibile nella sua unitarietà a pena di disperdere la prova (peraltro di enorme rilievo investigativo) e dal quale, in seguito, sono state effettuate acquisizioni parziali, sulla scorta di una selezione effettuata sulla base di altre evidenze investigative. Ad esempio, allorquando nel corso di indagini nazionali sono stati sequestrati criptofonini, ovvero ne è stata accertata la disponibilità da parte degli indagati a mezzo captazione tradizionale, è stata richiesta la trasmissione, a mezzo OEI, delle relative conversazioni intrattenute, previa indicazione dell’identificativo del PIN di interesse. PIN che poi, se presente nel server sequestrato, è stato oggetto di materiale consegna allo Stato di emissione. Dunque, è stata adottata una procedura di selezione che nulla ha a che vedere con un’indiscriminata violazione del diritto alla riservatezza individuale, da taluno paventata (questione che, al contempo, si intreccia con il positivo vaglio in ordine al prerequisito della proporzionalità dell’emissione dell’OEI).
E se violazione vi dovesse essere stata, sarebbe onere della Difesa dedurla, allegando circostanze concrete a fondamento dell’eccezione. Diversamente, come detto, si corre il rischio di traslare eccezioni processuali su un piano astratto. Ed anche in questo caso, comunque, facendo soltanto riferimento all’iter procedurale assunto dagli investigatori francesi (ed a quello seguito dai Pubblici Ministeri richiedenti), rileverebbero le considerazioni espresse al paragrafo che precede che ne provano la piena legittimità.
In questa prospettiva, pare immune da censure anche la decisione assunta nello Stato di esecuzione che ha apposto il segreto di stato alle chiavi di cifratura della piattaforma. Lo strumento, verosimilmente attivato per la natura di taluno dei contenuti captati, è previsto nell’ordinamento interno ed è stato ritenuto legittimo dal Conseil constitutionnel nella decisione già menzionata dell’aprile 2022. Non si ritiene, pertanto, che possa essere richiesto, a fini difensivi, l’esibizione delle chiavi di cifratura, pena violazione del diritto di difesa.
Diverso è il tema dell’attendibilità della prova, ovvero quanto il contenuto della chat risulti esplicativo del fatto qualora, ad esempio, la ricostruzione dovesse risultare incompleta per carenza parziale dei contenuti del “Pin”, ovvero per assenza dei contenuti del “Pin” interlocutore. Tale profilo non attiene ad un’eventuale elusione del diritto di difesa bensì, al più, alla forza esplicativa della prova acquisita.
6. Conclusioni
La soluzione adottata dalla Suprema Corte, conforme alle conclusioni della Procura Generale, pare certificare la legittimità dell’operato degli uffici requirenti che hanno, autonomamente e senza un preventivo vaglio del Giudice nazionale, disposto l’acquisizione delle chat di Sky ECC attraverso l’emissione di ordini d’indagine europei.
Nelle vicende attenzionate, inoltre, risulta correttamente applicato l’art. 6 della Direttiva 2014/41/UE, in punto di verifica dei presupposti di necessità, proporzionalità ed equivalenza ai fini dell’emissione di un OEI.
Ancora, fatte salve valutazioni nel caso concreto sulla scorta di un onere di allegazione difensiva, presupposto il principio del mutuo riconoscimento fondante la cooperazione penale europea che implica una presunzione di conformità degli atti al diritto dell’Unione, a sua volta derivante dalla presunzione di sussistenza di un analogo livello di protezione dei diritti individuali, si ritiene che non vi sia stata alcuna violazione nel rispetto dei diritti fondamentali (comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo).
Altro sarà valutare, caso per caso, eventuali emergenze che inducano a ritenere come, nella fattispecie esaminata, vi sia stata un’effettiva contrazione dei diritti difensivi ma che dovrà fondarsi, evidentemente, su elementi in concreto che inducano a ritenere come questo possa essere accaduto.
Un’ultima riflessione; progressivamente aumenta la consapevolezza della dinamicità delle organizzazioni criminali che, sfruttando il progresso tecnologico, eludono le investigazioni tradizionali, non consentendo un’adeguata repressione di fenomeni di peculiare gravità. È necessario che gli investigatori seguano il passo, ricevendo risorse e formazione adeguata. E di fronte a tale complessità è compito dell’interprete individuare gli strumenti giuridici che consentono di affrontarla.
Il lavoro ermeneutico cui è stata chiamata la Corte, per l’appunto, involge la complessità della vicenda “Sky ECC” nella sua pluralità di profili, anche di natura tecnico-informatica. Oggi, nel faro del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento interno, l’enorme materiale probatorio acquisito grazie all’acquisizione delle chat di Sky ECC assume una collocazione sistematica che consente di sostenerne la legittima acquisizione e la sua utilizzabilità nel processo, così peraltro attestando la nostra giurisprudenza a quella dei Tribunali di legittimità di altri Stati dell’Unione coinvolti in analoghi giudizi ed in attesa delle ulteriori statuizioni delle corti sovranazionali già investite della vicenda.
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