ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La riforma Cartabia ha aggiunto, a innovazioni normative esplicitamente dirette a decongestionare il dibattimento monocratico, una nuova regola che, in modo assai netto ed energico, indica ai magistrati inquirenti i presupposti per l’esercizio dell’azione penale (art. 408 c.p.p.): il pubblico ministero potrà procedere solo quando gli esiti delle indagini preliminari consentano di formulare “una ragionevole previsione di condanna”. Una mossa forse inaspettata, ma più che opportuna: l’esperienza degli operatori ed i dati statistici sugli esiti dei giudizi monocratici segnalano che uno degli snodi per razionalizzare e contenere i flussi in arrivo è quello di sorvegliare la ‘qualità’ dell’esercizio dell’azione penale. I numeri dicono infatti che, da più lustri, sono in aumento le assoluzioni nel merito nei procedimenti instaurati a seguito di citazione diretta e di opposizione a decreto penale e che, parallelamente, diminuiscono le richieste di archiviazione: si tratta anomalie statistiche che è bene analizzare. Il problema trova principalmente origine nelle strutture interne per lo “smaltimento degli affari semplici”, e quindi in scelte organizzative fatte per gestire la quantità di lavoro; non è ovviamente realistico ipotizzare uno smantellamento di tale sistema, ma occorre acquisire consapevolezza della questione ed approntare accorgimenti per evitare gli attuali sprechi di risorse dibattimentali. Il cambiamento necessario interpella non soltanto le Procure presso i Tribunali, ma anche il Consiglio Superiore e tutto il sistema di vigilanza sul ‘corretto esercizio dell’azione penale’ (Procure generali della Cassazione e dei distretti): tutti dovranno fare la loro parte, le norme primarie e secondarie necessarie già esistono.
Sommario: 1. La riforma Cartabia ed il nuovo art. 408 c.p.p.: un monito per le Procure? - 2. La qualità delle azioni penali promosse tramite decreto di citazione diretta a giudizio e decreto penale - 3. Gli esiti delle diverse tipologie di giudizio: un tema che non interessa a nessuno - 4. Conoscere i dati per migliorare. Il ruolo del DGSIA, del CSM e delle Procure Generali - 5. L’utilità delle interlocuzioni tra uffici requirenti e giudicanti - 6. Organizzazione del lavoro delle Procure e monitoraggio della qualità.
1. La riforma Cartabia ed il nuovo art. 408 c.p.p.: un monito per le Procure?
La c.d. riforma Cartabia indica, tra i suoi obiettivi, quello di accelerare i tempi di durata del processo penale, mediante la diminuzione delle pendenze degli uffici giudicanti. I dati statistici segnalano un progressivo aumento delle pendenze in particolare nei Tribunali monocratici: secondo una rilevazione del Ministero dell’agosto 2023 sono passate da 334.649 nel 2003 a 522.286 nel 2013 a 624.461 nel 2021, per poi attestarsi a 597.080 nel 2022: numeri che evidenziano un ‘eccesso’ di produzione da parte delle Procure a fronte di una limitata potenzialità di smaltimento di quegli uffici.
È noto che gli uffici di Procura hanno visto nel passato una forte diminuzione delle loro sopravvenienze, grazie a ripetute depenalizzazioni[1] e che, negli ultimi anni, possono contare su un trend di iscrizioni al registro mod. 21 sostanzialmente stabile o talora in lieve diminuzione[2]. È altresì rilevabile che questi uffici, anche in virtù di una efficiente organizzazione, hanno da tempo aumentato la loro capacità di definizione delle indagini preliminari, raggiungendo un buon equilibrio tra ‘entrate’ ed ‘uscite’: da dati del Ministero risulta a livello nazionale, nel 2009, un sopravvenuto pari a 1.603.600 ed un definito pari a 1.609.362 (dati di dettaglio segnalano, per esempio, che la Procura della Repubblica di Genova già nel 2005 riceveva 56.121 segnalazioni e ne definiva 59.628): sostanzialmente un bilancio che si mantiene costante nel tempo e che – fatte salve criticità specifiche, dovute in alcuni casi a pesanti scoperture di organici o alla pendenza di indagini preliminari particolarmente impegnative – consente di considerare gli uffici inquirenti, nel loro complesso, sufficientemente efficienti dal punto di vista della gestione dei flussi di lavoro. Ma questa prima valutazione positiva, e limitata al piano di una analisi puramente quantitativa, va approfondita.
Se si apre il confronto a livello europeo, si nota per esempio un dato suggestivo, che concerne il rapporto tra sopravvenienze degli uffici inquirenti e definizioni in termini di esercizio dell’azione penale: rispetto alle consorelle europee le Procure italiane ricevono meno segnalazioni di reato, ma trasmettono più procedimenti a giudizio. Dal data base CEPEJ emerge che nel 2018 in Italia sono pervenute ai pubblici ministeri 4,2 notizie di reato ogni 100 abitanti, cifra assai inferiore rispetto ad esempio a quella francese (6,12 ogni 100 abitanti) e tedesca (5,99 ogni 100 abitanti); mentre nel 2018 ai giudici dibattimentali italiani sono sopraggiunti 1.332 processi a testa, a fronte di una media europea di 398[3].
C’è un ulteriore dato (nazionale, e quindi più significativo) che induce ad approfondire le modalità di definizione ad opera delle nostre Procure: almeno dal 2007 la percentuale di richieste di archiviazione “noti” è in diminuzione: nel 2019 è stata del 37%, mentre nel 2005 era del 39,80 e nel 2001 addirittura del 59,52%[4]. Insomma, può essere utile affrontare il tema delle ‘eccessive’ pendenze davanti ai Tribunali anche ponendo una attenzione critica alla qualità delle azioni penali esercitate dagli uffici inquirenti.
Tanto più utile risulta questa prospettiva, se si pone attenzione che, accanto ai molteplici strumenti deflattivi messi in campo dalla riforma Cartabia (ampiamento del numero dei reati punibili a querela, allargamento delle ipotesi di messa alla prova, potenziamento dell’archiviazione per tenuità del fatto), compare un tassello forse inaspettato: la ridefinizione dei presupposti necessari per l’esercizio dell’azione penale; è significativo notare che, prima della modifica, non si era discusso specificatamente sulla necessità di intervenire sul tema.
Ci riferiamo al nuovo art. 408 cpp e alla soppressione dell’art. 125 disp. att. cpp: un duplice intervento che chiarisce, sottolinea ed enfatizza la soglia, in termini di risultati dell’attività investigativa, che deve presidiare la scelta dell’azione penale; la nuova norma impone la richiesta di archiviazione, quando gli elementi probatori acquisiti “non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca”. Viene quindi eliminata la preesistente duplicazione della regola per la scelta tra azione ed archiviazione (la generica ed ambigua “infondatezza della notizia di reato” dell’art. 408 cpp e la “inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio” dell’art. 125 disp. att. cpp), con una formulazione perentoria: il pubblico ministero potrà esercitare l’azione penale solo se l’esito delle indagini preliminari gli consente di formulare una ragionevole prognosi di condanna.
In realtà, il nuovo art. 408 cpp, pur distinguendosi per la chiarezza e la forza della formulazione, a nostro parere non ‘rivoluziona’ la definizione del criterio selettivo (tra azione ed archiviazione) previsto per il magistrato inquirente: essendo ragionevole pensare che la necessaria “idoneità degli elementi probatori raccolti per sostenere l’accusa al dibattimento” sia molto vicina alla (e comunque non possa essere troppo distante dalla) ragionevole previsione della condanna; sicché il passaggio dall’uno all’altro criterio dovrebbe, astrattamente, ‘spostare pochi numeri’. Astrattamente, scriviamo, perché la decisione di intervenire con questa inusuale nettezza (“ragionevole previsione di condanna”: una formula scelta per farsi ben capire) a nostro parere è motivata dalla necessità di indicare alle Procure, una volta per tutte, il criterio da seguire: ‘l’azione penale si esercita solo in questi casi’.
Non è nostra intenzione approfondire in questa sede l’interpretazione del nuovo art. 408 cpp, o disegnarne i confini con il previgente art. 125 disp. att. cpp: ci pare importante però sottolineare che la prescrizione attiene al “corretto esercizio dell’azione penale” da parte dei Procuratori della Repubblica (art. 1 d.lgs. n. 106 del 2006) ed è affidato alla vigilanza dei Procuratori Generali, essendo diretta ad evitare azioni penali superflue, gravose per i cittadini e per tutta l’organizzazione giudiziaria; e che, sul piano della ‘politica del diritto’, richiedendo al pubblico ministero una prognosi sulla valutazione che il giudice farà del compendio probatorio, presuppone una attitudine che motiva fortemente l’ appartenenza dell’inquirente, insieme ai giudici, ad un unico ordine.
L’analisi che interessa proporre è quella che collega questa scelta normativa con l’obiettivo primario della riforma Cartabia, e quindi con l’intento di ridurre i tempi dei dibattimenti penali: non a caso la modifica normativa accompagna il potenziamento di istituti a valenza deflattiva, il che consente di ipotizzare ragionevolmente che il nuovo art. 408 cpp intenda (anche) intervenire sui numeri di procedimenti che le Procure riversano sui Tribunali.
2. La qualità delle azioni penali promosse tramite decreto di citazione diretta a giudizio e decreto penale.
È sufficiente esaminare i dati statistici sulle assoluzioni nel merito, nei procedimenti trasmessi dagli uffici inquirenti ai Tribunali monocratici per rilevare un problema: sono dati, infatti, che devono destare allarme (e che risultano in sostanziale costante crescita: dal 23% nel 2012 e 2013, al 39% nel 2019[5]), e speculari alla contestuale flessione delle percentuali di richiesta di archiviazione: occorre chiedersi se sia ormai ineludibile procedere ad una realistica valutazione della qualità della ‘produzione’ di azioni penali, soprattutto ex art. 550 c.p.p., ad opera delle Procure, e se il legislatore abbia inteso fare un ultimo sforzo per indicare ai pubblici ministeri la regola da rispettare[6].
È doverosa una premessa, e cioè che si sta ragionando sul piano di macro-dati, e che l’anomalia statistica che stiamo approfondendo concerne non il singolo magistrato, ma in generale l’organizzazione del lavoro nelle Procure: questa, infatti, compare solo negli esiti dei procedimenti a competenza monocratica, e non collegiale: il confronto ci pare percorribile, stante la marginalità delle declaratorie di non doversi procedere in udienza preliminare; e la modifica dell’art. 425 c.p.p., coerente con quella dell’art. 408 c.p.p., appare più che opportuna.
Occorre essere schietti e ragionare, nel commentare la portata della nuova norma, sulle troppo elevate percentuali delle assoluzioni nel merito nei procedimenti segnalati: un dato di fatto che pone domande e sollecita un approfondimento; un dato, si ripete, che non trova una convincente spiegazione in una ipotetica insufficienza della previgente disciplina: considerato che, come si è detto, già l’art. 125 disp. att. cpp imponeva comunque una valutazione razionale circa la sufficienza del materiale accusatorio per motivare una richiesta di condanna.
È esperienza diffusa tra i magistrati giudicanti che un numero significativo di procedimenti mandati al giudizio monocratico è sprovvisto di qualsiasi indagine; ne è prova l’applicazione massiccia (diremmo anomala) dell’art 507 c.p.p., norma che dovrebbe avere un impiego eccezionale e che troppo spesso il giudicante si è trovato costretto a utilizzare al fine di colmare lacune dell’impianto accusatorio: tra le più gravi e ricorrenti, la mancata indicazione di testimoni chiave e la mancata produzione di documenti essenziali, la cui esistenza era nota all’inquirente[7].
Anche dati statistici scorporati confermano ciò. Un’analisi dettagliata delle sentenze assolutorie, effettuata presso il Tribunale di Genova negli anni 2020 e 2021 con l’ausilio indispensabile di alcuni addetti all’Ufficio per il processo e di tirocinanti (è infatti impossibile estrarli direttamente tramite SICP), ha fatto emergere come oltre il 50% del totale delle assoluzioni fosse motivato da ragioni di merito[8]: tutte per carenza di prove, numerosissime quelle conseguenti ad opposizione a decreti penali (che sovente vengono emessi senza alcun vaglio preventivo); molte relative a reati formali, laddove una semplice più attenta analisi dei documenti avrebbe evitato il dibattimento[9]: in definitiva, una quota del lavoro della Procura che si è risolta in gravi disagi per gli imputati assolti ed in un evidente spreco di tempo e di risorse; si pensi ai costi di difesa, all’immenso lavoro delle cancellerie per le notifiche e gli scarichi sui registri, al numero delle udienze dibattimentali, alle liquidazioni per patrocini a spese dello Stato; e, paradossalmente, a fronte del massiccio numero di assoluzioni, le impugnazioni da parte della Procura sono praticamente inesistenti, a conferma del totale disinteresse per la sorte di questi procedimenti. Ma allora, perché non cambiare la rotta?
La descrizione che abbiamo appena proposto può sembrare impietosa: ma consideriamo che lo stesso legislatore, con la recente introduzione dell’art. 544-bis c.p.p. e con la previsione, nei giudizi a citazione diretta, di un’udienza predibattimentale all’esito della quale il giudice dovrà pronunziare sentenza di non doversi procedere quando “gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”, ha preso atto della gravità del problema e ne ha valutato così necessario il ridimensionamento da prevedere un meccanismo specifico per eliminare dal carico del dibattimento i procedimenti impropriamente proposti dagli uffici inquirenti: un rimedio oneroso, in termini organizzativi (soprattutto per i Tribunali medio-piccoli) ed in termini per così dire ‘culturali’, perché comporta la necessità di uno specifico ‘giudice predibattimentale’ che si ‘contamini’ con la lettura integrale del fascicolo del pubblico ministero, al fine di eliminare una ‘zavorra’ evidentemente ritenuta non più tollerabile.
3. Gli esiti delle diverse tipologie di giudizio: un tema che non interessa a nessuno
La scarsa qualità delle azioni penali di cui si tratta costituisce un problema diffuso, risalente nel tempo e noto agli operatori del settore; ma, nonostante questo, praticamente nessuno discute o scrive su questo tema. I progetti organizzativi dei Procuratori della Repubblica si confrontano con i flussi in entrata, le pendenze e le definizioni dei loro uffici, ma mai con gli esiti dei procedimenti.
Neppure il Consiglio Superiore ritiene rilevante, per valutare sia i progetti dei Procuratori, sia le proposte organizzative formulate dai candidati ai posti direttivi, il tema dei risultati: nella relazione riassuntiva degli esiti di una approfondita verifica esperita dal Consiglio sui progetti di tutte le Procure italiane per il triennio 2020/2022 (la si legge nel “L’albero dei progetti”, pubblicato sul sito Cosmag) non compare neppure un accenno al tema: dalla lettura delle 190 pagine di dettagliatissime osservazioni risulta, da un lato, che nessun progetto organizzativo riferisce, seppure sommariamente, degli esiti dei procedimenti; e, d’altro canto, che il Consiglio non dedica neppure una riga all’omissione; viene rilevato, tra i molteplici appunti critici, che nel progetto manca una analisi sullo stato delle pendenze, che non vengono indicati i flussi dei singoli gruppi di lavoro, che è carente il dettaglio dei flussi del triennio precedente ed altro: ma non una parola sulla questione dei risultati.
Eppure, proprio il Consiglio, già nella sua circolare sulle Procure del 16 novembre 2017 (confermata sul punto nella riedizione del 16 giugno 2022), aveva previsto (art. 3, co. 1) che “allo scopo di garantire la ragionevole durata dei processi, il Procuratore della Repubblica assicura un’attenta e particolareggiata analisi dei flussi e delle pendenze dei procedimenti ed il loro costante monitoraggio, anche avvalendosi della Commissione Flussi(…), nonché dei dati acquisiti dai Presidenti dei Tribunali sul ricorso ai riti speciali e sugli esiti delle diverse tipologie di giudizio”. Una previsione, questa, che richiedeva una ricerca di dati e una valutazione dei risultati delle azioni penali promosse, distinte per rito: nessun procuratore, a quanto risulta, vi ha provveduto e nessun componente del CSM se ne è lamentato.
La reticenza è stupefacente, quasi l’argomento fosse un tabu, come dimostra il fatto che statistiche affidabili sugli esiti neppure esistono: le molteplici tabelle elaborate dal Ministero o utilizzate dal Consiglio espongono soltanto dati spuri, inidonei ad evidenziare le assoluzioni nel merito (l’unico indicatore significativo – a livello statistico di ‘grandi numeri’ – per valutare la qualità del lavoro delle Procure): sono disponibili soltanto dati comprensivi talora delle improcedibilità per motivi processuali, talaltra dell’estinzione del reato per esito favorevole della messa alla prova o altro. Ma forse è ingenuo stupirsi di questo: è ovvio che nessuno si dolga per la mancanza di un dato che non interessa a nessuno.
Quali le ragioni di un così evidente ‘strabismo’?
In realtà, le origini di questa ‘finalizzazione’ delle Procure a produrre numeri sono evidenti: l’organizzazione degli uffici inquirenti da molti anni (almeno dalla soppressione delle Procure presso le Preture) è stata centrata sulla necessità di gestire più agilmente la quantità, al fine di evitare prescrizioni nel corso delle indagini preliminari, e di consentire lo svolgimento di attività di indagini complesse ad opera di gruppi di lavoro specializzati, alleggeriti dal carico della gestione di molteplici procedimenti semplici, ripetitivi e di minore rilievo. Un obiettivo benemerito, che oggi si può considerare grosso modo raggiunto: ora è il momento di prendere atto del problema che stiamo segnalando, innanzitutto acquisendo i dati necessari per esserne consapevoli.
L’obiettivo della gestione delle quantità è stato realizzato attraverso la creazione di strutture interne dedicate alla trattazione di “affari semplici”; ciò non raramente ha dato vita ad una sorta di sub-appalto permanente ad ufficiali di polizia giudiziaria e a vice Procuratori onorari, forniti di moduli per la produzione in serie di decreti di citazione a giudizio e di decreti penali, poi firmati da un magistrato, il quale, oberato da altri gravosi impegni, non è in grado di controllare le enormi quantità di atti prodotti; queste strutture ‘di smaltimento’ sono state non di rado affidate a collaboratori non specificamente preparati ad affrontare il nuovo ruolo, e motivati (i magistrati onorari talvolta anche sulla base dei criteri retributivi applicati dalle Procure) soprattutto a proporre azioni penali in massa.
A ciò si aggiunga, come si è detto, che normalmente solo i p.m. onorari gestiscono in udienza (con turni che prescindono dall’avere trattato l’uno o l’altro fascicolo) questi processi e che nessun pubblico ministero togato si informa dell’esito dei decreti di citazione sottoscritti: insomma, nessuno ‘ci mette la faccia’, e quindi nessuno si sente responsabile.
È poi da sottolineare un ulteriore importante profilo negativo: questa organizzazione produce non solo scarsa qualità, ma anche una costante, massiccia e parrebbe inconsapevole violazione dei criteri di priorità: anche nel caso in cui il Procuratore abbia indicato nel proprio progetto organizzativo criteri di priorità coerenti con quelli previsti dall’art. 132 disp. att. cpp, ne abbia proficuamente discusso col Presidente del Tribunale e ne abbia infine preteso il rispetto da parte dei sostituti, questi gruppi di lavoro ‘a smaltimento rapido’ continueranno a sfornare, sotto forma di decreti di citazione a giudizio e di decreti penali (massicciamente opposti), azioni penali ‘a prescindere’ da qualsiasi razionalità, che andranno a impattare su calendari di udienza già fittissimi e che dovrebbero lasciare spazio alle priorità indicate dal legislatore.
4. Conoscere i dati per migliorare. Il ruolo del DGSIA, del CSM e delle Procure Generali
Le nostre osservazioni non intendono proporre un ‘ritorno al passato’ né uno smantellamento di alcune scelte organizzative che hanno dimostrato efficienza: vogliono però suggerire la necessità di una maggiore consapevolezza dei problemi che possono derivare (ed oggi derivano) da alcune soluzioni organizzative adottate in passato, ed i cui effetti non sono mai stati monitorati.
È ormai necessario un cambiamento di prospettiva: primariamente nel Consiglio Superiore, che deve utilizzare in tutta la loro potenzialità gli strumenti che pure si è già dato con il riferimento agli ‘esiti dei procedimenti’ contenuto nelle circolari sulle Procure; poi nel sistema di vigilanza delle Procure Generali; e infine nelle Procure presso i Tribunali: l’orizzonte organizzativo del sistema degli uffici inquirenti e requirenti pare oggi fermarsi allo smaltimento ai numeri ‘in uscita’ dall’ufficio, e non valuta i suoi risultati avendo di mira l’intero procedimento e i suoi effetti, in termini di giustizia e riparazione; la cultura della giurisdizione (cui il P.M. ‘non separato’ vuole continuare ad appartenere) impone un profondo mutamento.
Ma è difficile porre rimedio a un problema, se non lo si vuole conoscere: il primo passo indispensabile è quindi quello di voler, finalmente, acquisire, elaborare e conoscere i dati sugli esiti: ragionarci sopra sarà poi inevitabile.
Spetterà al Consiglio Superiore, prima di tutto, pretendere dalle elefantiache strutture ministeriali a ciò deputate (v. DGSIA) applicativi che permettano di estrarre tutti i dati necessari. È infatti indispensabile che sia gli inquirenti che i giudicanti abbiano a disposizione strumenti informatici e statistici snelli e veloci, che permettano di scorporare e incrociare i dati per materie, per fasi, per tipologie di reati, di riti, di formule assolutorie, senza essere costretti ad elaborarli “manualmente”[10].
Senza queste conoscenze nessun proficuo colloquio tra inquirenti e giudicanti può aver luogo.
Il C.S.M. dovrà poi valutare i progetti organizzativi dei Procuratori richiedendo una adeguata analisi degli esiti (si noti al proposito che la riforma Cartabia, nel modificare sul punto il d.lgs. 106 del 2006, ha indubbiamente messo a disposizione dell’organo di governo autonomo poteri ben più incisivi rispetto al passato); dovrà inserire tra i parametri, in base ai quali valutare i dirigenti in sede di conferma o scegliere i futuri dirigenti, quelli idonei a premiare l’attenzione per la qualità delle azioni penali, e non solo per le quantità.
Il ruolo del Consiglio Superiore, rispetto al tema di cui stiamo discutendo, è essenziale: è banale ricordare che i valori che si affermano in una organizzazione sono (anche) quelli che risultano significativi ai fini della ‘valutazione professionale’ dei suoi componenti, e per converso che valori magari fortemente proclamati, ma di fatto insignificanti nella vita lavorativa degli operatori, restano totalmente marginali.
Anche il complessivo ‘sistema’ di vigilanza affidato alle Procure Generali nei distretti e coordinato dalla Procura Generale della Cassazione dovrà fare la sua parte; l’art. 6 del d. l.gs. 106 cit. affida al Procuratore Generale presso la Corte di appello la verifica del “corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale” e gli attribuisce a tal fine il potere di richiedere “dati e notizie” ai Procuratori della Repubblica, relazionandone al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione: e correttezza ed uniformità non possono che consistere nel rispetto del ‘nuovo’ art. 408 c.p.p., che detta la regola fondamentale per l’esercizio dell’azione punitiva. Anche in questo caso ha senso una agevole previsione: se il Procuratore Generale chiederà ai Procuratori della Repubblica, tra mille tabelle e statistiche, anche i numeri sugli esiti dei procedimenti, se studierà questi dati, se ne discuterà con i dirigenti delle Procure, l’attenzione dei dirigenti di costoro per i risultati dei giudizi non mancherà.
Ma saranno in particolare le Procure che potranno attivare strumenti utili per migliorare i risultati della loro attuale organizzazione.
Sul punto è da ribadire che occorre, prima di tutto, conoscere il problema: gli uffici inquirenti sono già in grado, con un limitato impegno aggiuntivo, di acquisire e fornire ai magistrati togati e onorari coinvolti i dati sui risultati delle azioni promosse; e siamo certe che questa consapevolezza costituirà una motivazione forte per intervenire al fine di limitare sprechi di risorse preziose ed irrazionalità.
5. L’utilità delle interlocuzioni tra uffici requirenti e giudicanti
L’esperienza di qualche ufficio giudiziario ha dimostrato che già la sola conoscenza del problema può portare ad una razionalizzazione delle prassi e ad un miglioramento.
Numerose sono state negli anni le circolari consiliari sui rapporti tra uffici requirenti e giudicanti, soprattutto in materia di criteri di priorità (delibere del 9.7.2014, del 11.5.2016 ed altre); eppure le interlocuzioni tra gli uffici sono rimaste per lo più a livello formale: la Procura esprime un parere preventivo sulle tabelle del Tribunale, spesso senza approfondirle. Dove invece questi confronti sono stati reali e costanti, hanno dimostrato la loro massima utilità; un’esperienza in tal senso è stata sperimentata in Liguria negli anni 2016-2020 presso il Tribunale di Imperia.
Qui, supportati dalle circolari del CSM e a fronte dell’abnorme pendenza che in quel momento il Tribunale si trovava a gestire sul versante monocratico (concausa l’accorpamento del Tribunale di Sanremo a quello di Imperia), dopo un’attenta analisi dei tempi medi di definizione e una valutazione degli esiti dei procedimenti da citazione diretta, Tribunale e Procura concordarono alcuni passaggi:
Nell’arco di neppure un anno i tempi medi di definizione per reati prioritari (ad esempio da c.d. codice rosso, colpe professionali e infortuni sul lavoro) si dimezzarono, fino a raggiungere, negli anni successivi, un tempo di definizione di circa un anno, a fronte dei quattro o cinque anni precedenti.
I risultati positivi si concretizzarono, in sostanza, in una maggiore efficienza e celerità nei processi per i reati monocratici più importanti, che ebbe come effetto benefico anche l’aumento di riti alternativi per quella stessa tipologia di reati presso l’ufficio GIP- GUP (non potendo più l’imputato sperare nella prescrizione) e quindi una deflazione dibattimentale.
Un secondo risultato positivo fu l’abbattimento delle assoluzioni nel merito, grazie, in parte, alla presenza del p.m. togato alle udienze prioritarie e in parte a una selezione più accurata sugli ‘affari semplici’ da parte della Procura, consapevole che, più era elevato il numero degli invii a dibattimento e più sarebbe stata elevata la probabilità di prescrizione.
Questi risultati portarono il CSM ad inserire il progetto nelle ‘best practices’.
6. Organizzazione del lavoro delle Procure e monitoraggio della qualità
Non si propone, ovviamente, di rinunziare alla ormai consolidata scelta organizzativa di costituire gruppi di lavoro per la trattazione in serie dei fascicoli meno complessi e più ripetitivi; ma è necessario accompagnare questa opzione con una serie di cautele che ne minimizzino le controindicazioni: tutti accorgimenti che andranno misurati sulle dimensioni e sulle risorse disponibili nei singoli uffici, e che -seppur (non molto) impegnativi per la singola Procura- produrranno risparmi per il sistema complessivo: d’altra parte, non appare razionale che l’organizzazione che si dà l’ufficio inquirente penalizzi l’intero sistema della giurisdizione.
Sono possibili correttivi molteplici.
Negli uffici più strutturati potrebbero prevedersi più magistrati togati a coordinare le diverse équipes di smaltimento, a seconda del settore loro assegnato (es.: furti in supermercato, violazioni del codice della strada, violazioni dell’art. 650 c.p. ed altro), in modo da contenere il numero dei fascicoli seriali su cui dover mantenere, per così dire, un ‘controllo’. In ogni caso, il magistrato incaricato di sopraintendere al gruppo di lavoro dovrà dare vita a prassi o a protocolli adeguati; dovrà conoscere i dati sugli esiti dei procedimenti e la giurisprudenza del Tribunale nelle singole materie; dovrà monitorare le udienze predibattimentali che, ai sensi del nuovo art. 544-bis c.p.p., pronunzieranno sentenze di non doversi procedere quando “gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”. Questa verifica, in particolare, sarà utile per conoscere le diverse valutazioni del Tribunale in ordine alla quantificazione di determinate ‘soglie’ rilevanti ai fini della punibilità (per esempio nel caso di irrilevanza del fatto), in modo da risolvere la diversità di valutazione (di cui sovente la Procura non si cura) o con una impugnazione o con un motivato adeguamento alla giurisprudenza del giudicante.
È poi possibile un’attività di formazione specifica degli addetti alla trattazione di questi ‘affari semplici’: la Scuola Superiore della Magistratura e in particolare la formazione decentrata a livello distrettuale hanno strutture apposite dedicate ai magistrati onorari; e gli uffici di Procura sono da sempre disponibili a partecipare ad azioni formative dedicate alla polizia giudiziaria: in queste ipotesi sarà utile privilegiare il metodo casistico, per dare concretezza alle iniziative. Ovviamente, anche il corrispettivo (in termini di modalità di calcolo dei compensi per i vice Procuratori onorari, e di valutazioni professionali per gli operatori di polizia giudiziaria) dovrà valorizzare il ‘lavoro ben fatto’, e non la scelta dell’azione penale ‘a prescindere’: è evidente che una richiesta di archiviazione in linea con ‘nuovo’ art. 408 c.p.p. merita assai più di una richiesta di decreto penale o di una citazione diretta a giudizio non adeguatamente vagliate.
Ma soprattutto: presupposto essenziale di ogni miglioramento è la disponibilità delle Procure a conoscere e valutare, anche confrontandosi con i colleghi giudicanti, i dati sugli esiti delle azioni penali promosse; è augurabile che ogni ufficio, anche prima di avere a disposizione statistiche ministeriali affidabili (che è presumibile si faranno attendere), voglia dedicare una qualche attenzione ai risultati del proprio lavoro. Non sarà facile superare questa antica reticenza: ma, se il Consiglio Superiore e le Procure Generali della Cassazione e dei distretti daranno il dovuto rilievo al tema, questo cambiamento di prospettiva diventerà meno difficile, meno urticante, e si diffonderà.
[1] Da fonti ISTAT e del Ministero della Giustizia risulta che si è passati da 4.770.653 sopravvenienze totali (noti ed ignoti) del 1990 a 2.620.542 (noti ed ignoti) nel 2019.
[2] Per esempio, da dati del Ministero della Giustizia risultano 1.603.600 iscrizioni nel 2009 e 1.588.379 nel 2012.
[3] Dato estratto da “Giustizia per nessuno” di M. Gialuz e J. Della Torre, Giappichelli 2022 p. 57.
[4] Dato estratto da “Giustizia per nessuno” di M. Gialuz e J. Della Torre, Giappichelli 2022 p. 94.
[5] Dato estratto da “Giustizia per nessuno”, cit., p. 149.
[6] La Procura di Genova da molti anni ormai provvede ad una analisi molto dettagliata delle modalità di definizione dell’ufficio e degli esiti, consapevole della insufficienza delle tabelle ministeriali e della non immediata confrontabilità tra le statistiche elaborate dai diversi uffici giudiziari: un lavoro ponderoso, che potrebbe costituire un’utile base di discussione non solo all’interno dell’ufficio, ma anche con i magistrati che operano nel settore penale del Tribunale. Sulla base dei dati contenuti in tale analisi, da noi rielaborati, risultano, tra gli altri, i seguenti dati: percentuali di richieste di archiviazione sul totale delle definizioni della Procura: 40% per gli anni 2013 e 2014, 39% nel 2019, 46% nel 2020 e 45% nel 2021; esiti dei procedimenti collegiali 2021: assoluzioni 20%; ndr e prescrizioni 4%; condanne totali o parziali: 76%; percentuale di assoluzioni nei giudizi monocratici (comprendendo tra le ‘assoluzioni’ anche le sentenze conseguenti all’esito favorevole della messa alla prova e tra il ‘totale delle sentenze’ quelle di condanna, di assoluzione, di abbreviato e di patteggiamento, di ndp e di prescrizione): nel 2017 assoluzioni pari al 35,3% delle sentenze totali; nel 2019: 37,62%; nel 2021: 38,81%.
[7] Cfr. Cass. 26/6/2014, n. 27879, in cui si parlò di “deriva applicativa” dell’art 507 c.p.p.
[8] Nel primo semestre del 2021 si sono avute 739 assoluzioni nel merito su 1.461 totali e nel primo semestre 2020 486 assoluzioni nel merito su 828.
[9] Quali: mancate analisi di sanatorie urbanistiche già concesse, di documenti che avrebbero attestato che la violazioni alla autorizzazioni amministrative contestata era inesistente, in quanto la stessa era stata rettificata e ampliata prima dell’accertamento; di documenti contabili prodotti dall’indagato già in sede di memoria ex art 415-bis c.p.p.
[10] Si noti inoltre che la mancanza di elaborazioni attendibili di dati impedisce una corretta valutazione dell’effetto di riforme importanti: ricordiamo come, a seguito di ogni modifica normativa, lo stesso Ministero e spesso il Parlamento sollecitino report semestrali sugli esiti, chiedendo dati che SICP non permette di estrarre e che pure sono contenuti nelle sentenze; ad esempio quando, a seguito della riforma sui reati da c.d. codice rosso, sono state sollecitate informazioni sull’età delle vittime, sulla maturazione o meno della violenza in ambito familiare, sulla presenza di minori: insomma, ricerche che con l’inserimento di parole chiave, in presenza di strumenti informatici minimamente adeguati, si potrebbero estrarre in un lampo, mentre è necessario chiedere uno sforzo “manuale” enorme alle cancellerie già oberate da mille impegni e stremate dalle carenze di organico. Nel 2023 questo è inaccettabile!
(Immagine via Smithsonian Institution)
Ernesto Aghina, con Carlo Citterio, ha fondato questa rivista nell'ottobre del 2009.
Il titolo “Giustizia Insieme” è creazione del suo ingegno, plastica descrizione dell’originale obiettivo: diffondere il modello di magistrato non autoreferenziale, ma capace di ascoltare e confrontarsi con la società e che, nella rivista cartacea, trovava massima espressione comunicativa nella “doppia voce” del togato a confronto, sul medesimo tema, con il non togato.
«La giustizia è una questione troppo importante perché se ne occupino solo i giudici», questa la considerazione scritta nella prefazione del primo numero, che offre l’idea dell’importanza del confronto e del dialogo che caratterizza anche il modo di essere di Ernesto.
Capacità di ascolto e confronto che ha declinato nella sua attività professionale, nell’attività associativa come movimentista - il più giovane firmatario del documento verde fondativo del Movimento - nella formazione sin dalle sue origini, al Consiglio superiore della Magistratura, presso la Scuola superiore, nell’esercizio della giurisdizione e nella dirigenza.
Non solo perché è stato il primo Direttore della Rivista, ma anche perché ciascuno di noi, in qualche misura, si è formato con lui, non potevamo esimerci da auguri corali per questo compleanno importante.
La Redazione
Sono certo che nessuno, nel nostro vasto ambiente professionale, abbia la sapienza e la saggezza di Ernesto in tema di formazione (e selezione) dei magistrati ordinari ed onorari: della sua scienza avremo tutti ancora bisogno. Il suo percorso in magistratura, al di là dei prestigiosi ed onerosi incarichi giudiziari con generale apprezzamento ricoperti, si è infatti sempre caratterizzato per la tensione e l’impegno verso la crescita e diffusione del sapere giuridico, insieme alla sensibilità verso la cultura della deontologia, per la costruzione di una figura di magistrato che trovi la sua legittimazione a jus dicere nella indiscussa professionalità e nella consapevolezza vissuta della funzione di arbitro terzo ed imparziale. Con lui ho condiviso varie esperienze e sono testimone diretto, anche e soprattutto per gli anni passati insieme alla Scuola superiore, del suo costante, riservato ma oltremodo coinvolgente dinamismo intellettuale: peccato sia astemio e milanista, ma oggi lo perdono. (Giacomo Fumu)
Per i colleghi, per gli avvocati, per le parti private una garanzia di competenza, di correttezza e di umanità; per la scienza processualpenalistica, un autore intelligente, documentato e costruttivo; per il dibattito culturale, una voce elegante, equilibrata e di grande onestà intellettuale; per gli amici, quorum ego, una persona sincera, arguta e dal profondo sentire; per i pescatori un competitor accanito; per i pesci, una iattura. (Glauco Giostra)
Caro Ernesto, non so immaginarti triste perché il tempo ti costringe a lasciare. Non solo perché non avresti motivo per non essere ampiamente soddisfatto di quello che hai fatto e dato, e neppure perché hai Daniela, Giulia e la pesca, ma perché la tristezza sarebbe…banale. E la banalità t’è sempre stata, grazie al cielo, del tutto estranea. Non ti renderei dunque giustizia se di te ricordassi intelligenza, capacità e dedizione. Sarei anzi, appunto, insopportabilmente banale a fronte di chi è stato sempre, invece, magnificamente originale: nel pensiero, nell’organizzazione, nella capacità di aggregazione.
Tu sei stato un leader ed un esempio, senza la presunzione di esserlo. Ti abbraccio. (Alfonso Amatucci)
«Uomo libero, amerai sempre il mare.» Sta in questo verso di Baudelaire la prima, fulminea e decisiva associazione mentale che Ernesto evoca in me. Nella sterminata galleria fotografica custodita nel mio smartphone conservo una sua foto. Vi campeggia Ernesto, marinaio e pescatore, che esibisce, con malcelato orgoglio, il frutto di una battuta di pesca subacquea: una grossa murena, saraghi, dentici. Magari pescati a Diafani, finis terrae dell’isola di Karpatos, sotto il monte Olympos, nella quale si recava spesso e che io, viaggiatore inquieto, avevo raggiunto in un’estate di vagabondaggio per isole greche. Tutto il resto di lui è noto ed è perfino vero: è un eccellente magistrato, un uomo intellettualmente curioso, che ha inventato parecchie cose negli uffici e nella Scuola della magistratura. Sempre senza spocchia, con una ironia che non sconfina mai nel sarcasmo. Perfetto per la libertà che lo attende. (Nello Rossi)
Qualcosa meno di una decina d’anni fa, ricevetti l’invito a svolgere, per i m.o.t. impegnati presso la scuola di Castelpulci, una riflessione sull’esercizio dell’azione civile nel processo penale. Si trattava di un invito (rivolto con un garbo raramente sperimentato in altre occasioni) da cui trapelava una tale passione per l’organizzazione del lavoro dei colleghi più giovani (e dunque un entusiasmo così contagioso) da rendere impossibile (non si dice un rifiuto, bensì) qualsivoglia forma di titubanza. Arrivai a Firenze con un po’ di anticipo, rispetto all’ora dell’incontro, e fui condotto dal mio ‘garbato’ interlocutore a visitare la “nostra casa”, la casa dei magistrati, alle cui cure il ‘garbato’ stava dedicando tutto il proprio tempo, la sua vita (fino ad allora pigramente affacciata sul golfo di Napoli), il senso del proprio impegno. Ne ricavai una lezione, che ancora stento a dimenticare: il valore di tutto ciò che impariamo si misura solo con la ricchezza che trasmettiamo (tanto siamo di passaggio) a coloro che seguiranno. So che il ‘garbato’ è tornato, negli anni, a riaffacciarsi al suo golfo e a trarne frutti carnosi da condividere ancora. Cercare e donare è dunque il senso ultimo e l’importante pregio del mio ‘garbato’. È l’importanza, infatti, di chiamarsi Ernesto. (Marco Dell’Utri)
Ernesto Aghina è stato per me, come per tanti giovani che erano appena entrati in magistratura, un punto di riferimento irrinunciabile ed insostituibile. Sono stato suo uditore quando era pretore a Napoli e si occupava dei reati ambientali e da quel momento si è creato un rapporto che non è mai cambiato, anzi si è rafforzato. Grazie a lui mi sono avvicinato all’attività associativa e grazie a lui ho aderito al Movimento per la Giustizia, impegnandomi anche in prima persona. A lui sempre ho fatto capo nei tanti momenti di difficoltà lavorativi e ho sempre trovato un “porto sicuro”. Anche da pensionato, sono certo che, accanto all’impegno di padre, non smetterà di occuparsi della sua amata magistratura e per tanti come me resterà sempre disponibile quando ne avremo bisogno. (Raffaele Cantone)
Divertirsi, dal latino divértere, volgere altrove. Il segreto che mi ha regalato Ernesto è che il modo più efficace di dirigere un ufficio, di partecipare alla vita della comunità in cui si lavora, di organizzare la formazione dei nuovi magistrati è sapere “tenere lo sguardo altrove”. Lo spirito con cui ha danzato tra queste responsabilità, tenendovi testa con un'efficacia che nessuno può dimenticare, è stato quello di sapersi “divertire”. È stato una guida, perché ha saputo sempre guardare fuori dal suo perimetro, mantenere il ruolo senza farsene imprigionare, esserci gustando ogni passaggio. (Gabriella Ambrosino)
Ho conosciuto Ernesto 20 anni fa, e l'ho sempre ammirato per il suo entusiasmo, l'enorme professionalità, la rara capacità di vedere in prospettiva le dinamiche giurisdizionali e associative. Mi sembra assurdo che la magistratura debba privarsi del suo apporto, ma purtroppo Kronos non ammette patti in deroga. Anche per chi 70 anni proprio non li dimostra. (Mino Castaldo)
Caro Ernesto, 70 anni e stai iniziando una nuova vita. Avrai tanto da fare, ne sono sicuro. Forse trascurerai in parte i tuoi impegni marinari e le tue pesche miracolose (che i maligni spesso dubitano siano frutto delle tue abilità); ma sono certo - e sicuramente lo spero - che continuerai a non farci mancare, in quest’epoca così travagliata e problematica, la tua passione e il tuo modo mai corporativo di intendere la nostra professione. (Mario Suriano)
Lo vidi per la prima volta quand’ero poco più che uditrice. Paola Filippi mi disse di lui ciò che lo avrebbe identificato poi per sempre: è Ernesto Aghina, magistrato napoletano, intelligentissimo ed elegante, dal quale puoi imparare il mestiere del magistrato. Fu così negli anni. Poche parole, le sue, spesso taglienti ed ironiche, talvolta definitive, erano capaci di rappresentare fenomeni complessi, con la puntuale ed unica capacità tipica di quelli che osservano e poi dicono. Negli occhi veloci e sinceri la sua consuetudine a dire il vero. Uomo della formazione, proteso verso i giovani colleghi. Ha creduto nella nascente Scuola, avvolta di polemiche e mistificanti teorie, con quella passione unica che lo ha portato ovunque, a spiegarne l’essenza ed il rinnovato progetto. Fantastici i suoi aforismi giuridici e le immagini (vere?) dei suoi bottini di pesca. (Anna Rita Mantini)
Ho conosciuto Ernesto quando era pretore, è stato il mio affidatario, ed era il riferimento di un numero esorbitante di uditori giudiziari e soprattutto giudici di prima nomina, che lo chiamavano dalle camere di consiglio di tutt’Italia per le questioni più disparate. Praticamente gestiva una decina di udienze in contemporanea. Devo a lui la conoscenza del Movimento, è stato il primo che me lo ha nominato, fiero di farne parte e di avere contribuito a costruirlo. Lui che la battuta salace non l’ha risparmiata a nessuno, quando parlava del Movimento invece si illuminava, ti faceva venire la voglia di esserci e di fare la tua parte. Insomma, me ne ha fatto innamorare. (Maria Teresa Orlando, Molly)
Conobbi Ernesto tanti, tanti anni fa, in occasione delle esperienze associative di fine millennio (l’epoca delle riforme del Governo Prodi, in quella parentesi di un certo ventennio …) e di quelle degli Osservatori sulla Giustizia civile. Si dimostrò un amico e, nei tempi associativi e professionali meno sereni, un conforto. Ma fu pure un esempio: di come, con arguzia ed umanità rimaste ineguagliate, si potesse coniugare rigore e sensibilità, empatia e tensione agli ideali di una giustizia rispettosa dei nostri condivisi valori ed al servizio dei cittadini. (Franco De Stefano)
La passione lucida e controllata di Ernesto per il nostro lavoro si traduce in un modo pensare del quale nel corso di un’amicizia ormai pluriennale, ho sempre apprezzato l’esattezza. Ernesto sa pescare i termini giusti per comporre i suoi ragionamenti in un modo che sembrerebbe non lasciare alternative, le quali, invece, proprio così intanto svela. La sua conoscenza dell’ambiente giudiziario mi ha aperto finestre, gliene sono grato. (Angelo Costanzo)
Ernesto Aghina ha rappresentato, nella fervida immaginazione creativa di Mario Almerighi, la “faccia giovane” del Movimento, il ponte attrattivo che si voleva creare con le ultime leve della magistratura. Egli ha costituito, poi, il principale asset nel difficilissimo (ma centrale) distretto di Napoli, dove è stato il motore di un gruppetto di coraggiosi, che è passato – nei perigliosi anni delle “truppe cammellate” di Umberto Marconi – da una trentina di aderenti alla capacità di esprimere in poco tempo una serie di Consiglieri superiori napoletani (a partire, nel 1994, dal più giovane Gerardo Arcese rispetto a Saverio Mannino). Ernesto, infine, è stato il principale artefice di un antico “sogno” del Movimento, quello di avere un organo stabile di riflessione scientifica con cui fare conoscere ed approfondire, nel confronto con la società civile, le nostre idee (chi non ricorda le tematiche “a due voci”?). Per tutto questo, e per molto altro ancora, un sentito grazie, caro “moderno” Presidente! (Gioacchino Natoli)
Ernesto Aghina è uno degli esempi più significativi di quella che io chiamavo “la capacità socratica di Mario Almerighi”. Mario scopriva e avvicinava giovanissimi colleghi (e colleghe), che poi affascinava e riusciva a tenere in collegamento con le varie forme associative che trovava, o inventava, nella sua fatica tutoriale. Basti ricordare, oltre ad Ernesto, anche Ippolito Parziale e Mario Fresa per capire subito quello che voglio dire. Ernesto in particolare, il “pretorino” di S.Angelo dei Lombardi al tempo del terremoto del 1980, è cresciuto bene e in fretta, senza mai perdere i suoi stretti legami politici ed associativi con la tribù almerighiana. E via via crescendo ha fatto il cammino umano e professionale al CSM e nell’ANM, testimone eccellente di che cosa sia stata capace di “inventarsi” una magistratura attenta, per svolgere un ruolo spesso trainante e mai autoreferenziale, nelle varie epoche vissute dalla società italiana. Ciao, Ernesto, nell'abbracciare te mi sento anche come se stessi abbracciando il “nostro” Mario. (Vito D’Ambrosio)
Sono passati più o meno vent’anni ma quell’espressione di Virginio Rognoni resta per me indelebile. Ti vorrei presentare mio figlio – gli aveva chiesto Ernesto sporgendo il capo alla porta della più importante stanza del C.S.M..
Tuo figlio? ma hai un figlio? - avrà pensato il Vice presidente con espressione di divertita incredulità: quante sorprese questo giovane e brillante consigliere, un napoletano milanista che portava, in consiglio, le sfogliatelle ed in plenum arguzia, simpatia ed un eloquio forbito e graffiante!
Entra, entra pure caro Aghina, con vero piacere – e si alza, mentre il suo sguardo si apre ad un ampio sorriso di sorpresa, senza scomporsi però, nel vedere Murat, sorridente anche lui, il golden retriever di Ernesto, quella settimana in trasferta a Roma con il suo padrone.
Con Ernesto i miei quattro anni al Consiglio, anni penosi, sono stati meno penosi; un amico, un sostegno, spesso uno spasso.
Ero a casa sua a Napoli il 18 giugno 2002 – eravamo in piena campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio – ed alla tv abbiamo assistito all’eliminazione dell’Italia dai mondiali in Corea: conosco allora il frasario di un napoletano colto, in quell’occasione riservato al signor Moreno, arbitro disonesto.
Di arbitri disonesti ne ho, poi, conosciuti tantissimi in quei quattro anni di consiliatura ed Ernesto è stato molto più bravo di me ad incassare i colpi ed a replicare con eleganza diplomatica.
È stata sua l’idea di intitolare “Non ci posso credere!” (ricordate Aldo, di Aldo Giovanni e Giacomo?) una nostra rubrica telematica settimanale, con la quale raccontavamo le vicende di plenum, che andavano oltre il tollerabile e che contribuivano a picconare la credibilità del Consiglio e dell’intera magistratura.
Ed era una rubrica temuta, molto temuta mi piace immaginare, che ci è costata parecchio in quegli anni e credo anche negli anni a venire. Una volta eravamo stati piuttosto pesanti e la settimana successiva un roboante consigliere laico di centro destra aveva il piacere, ad ogni passaggio dietro le nostre porte, di gridare (con tono divertito, piuttosto scherzoso, devo ammettere) “Fici, Aghina, Arbasino, fate schifo”, più volte, scandendo i nomi e la sua opinione sul nostro conto a voce alta, perché in tanti sentissero. C’era anche Ernesto, infine, in quegli ultimi giorni di un quadriennio di delusioni, nella buvette del Consiglio il 5 luglio 2006 ed al secondo gola dell’Italia alla Germania (Cannavaro, Cannavaro, Totti, Gilardino, Del Piero, Del Piero, goal, goal, andiamo a Berlino) mentre io abbracciavo Rognoni, Ernesto stringeva un consigliere dell’opposizione di centro destra; confermando che per lui, tifoso del Milan di Silvio Berlusconi, il tifo calcistico cancellava ogni passione politica. (Giuseppe Fici)
Webinar, incontri a distanza, Teams, meet: termini che sono entrati nel nostro patrimonio linguistico quotidiano, e seguire un corso di aggiornamento da casa è diventata la normalità. Se incontrarsi in presenza, con scambio di sguardi unito alla percezione del tono delle parole del relatore continuano a essere elementi imprescindibili, però l’utilità di questi nuovi strumenti è ormai innegabile. Se ne erano resi conto un gruppo di pionieri della formazione diversi lustri fa, quando nel 2006 (se non ricordo male) il Consiglio Superiore della Magistratura con l’apposita commissione guidata da Ernesto Aghina, in quell’occasione visionario determinato e convinto della necessità di dare nuova linfa alla formazione dei magistrati, diede il via alla sperimentazione dei corsi denominati “e-learning”. Mediante un software, che oggi pare preistorico, si consentiva di interloquire in forma scritta a distanza tra un gruppo di persone. Ernesto ci mise estrema professionalità e soprattutto tanta passione, coinvolgendo diversi colleghi e non solo. Con un incontro in presenza finale che, fondendo i due metodi, consentiva di offrire un prodotto formativo nuovo senza stravolgimenti: esempio di quella lungimiranza tratto tipico di Ernesto Agnina, a cui oggi va il nostro saluto con un sincero ringraziamento. (Giuseppe De Gregorio)
Leggo sulla chat del Movimento che Ernesto va in pensione e mi rendo conto che, pur conoscendolo ormai da una trentina di anni ed avendolo incontrato in tantissime occasioni, non l’ho mai visto in toga fare il giudice. Mi sono però sempre fidato di quelli che lo indicavano come tale ed, effettivamente, qualche anno addietro, in un incontro pubblico a Torre Annunziata, tutti lo chiamavano “presidente”. Per quattro anni so che ha anche bazzicato dalle parti di Piazza Indipendenza. Io però l’ho visto molte volte in muta e con un fucile subacqueo in mano, spesso attorniato da quantità esagerate di pesci (morti). Ma se la pesca è stata finora soltanto un passatempo, mi chiedo - per deformazione professionale - quale incidenza sull’equilibrio dell’ecosistema marino determinerà la maggiore quantità di tempo a sua disposizione... (Luca Ramacci)
Fatico molto a pensare alla Magistratura istituzionale e associata senza Ernesto Aghina. Per me un esempio ammirato, sempre. A conoscenza pre-tempestiva di ciò che avveniva, stava avvenendo, sarebbe avvenuto, nella nostra istituzione, nelle associazioni, al ministero (e probabilmente prima degli interessati...), sempre sul pezzo, è, è stato, maestro di equilibrio, saggezza, azione, idee, senza mai approfittarsene, sempre con il pensiero orientato al bene della Magistratura, all'agire correttamente, al dire con nettezza ma elegante contenimento quel che pensava. Il suo eloquio una meraviglia, esempio del perché un partenopeo colto preparato e con generoso senso del dovere ti sarà sempre qualche passo (se ti va bene) avanti. Un magistrato, un Uomo delle Istituzioni che non ha predicato bene, richiamando astri e firmamenti europei e mondiali, per poi giungere all'interesse contingente personale. Un servitore dello Stato. Un Uomo di mondo (anche marino), oltre le sue qualità professionali. Per me, un riferimento che ho sempre sentito interlocutore necessario consultare per chiarirmi le idee o trovare conferme. Generoso nel sostentamento dei partecipanti alle varie riunioni romane, dove alla fine le sue pastarelle napoletane erano molto attese. Raramente arrabbiato (ma sempre con moderazione), ospite signorile nella sua bellissima abitazione napoletana. Ecco, penso a Ernesto e trovo conferma della saggezza della scelta che ha fatto il Movimento art.3: ora, fuori dall'agone della politica associativa inevitabilmente di parte, dalle esigenze di strategie e compromessi, ora, lo spero davvero, con Ernesto (a me manca poco), Dino e le altre e gli altri, spero in una strada nuova, bellissima: promuovere il senso della funzione giurisdizionale nella società, aprendosi alla società civile e in particolare ai giovani, confutando le stupidaggini e le ipocrisie, parlando con competenza ma, soprattutto, con tanta tanta tanta libertà.
Anche per continuare a camminare insieme, in modo diverso.
Sono certo che il momento particolare e straordinario che vivi nella tua Famiglia non farà che darti ulteriori stimoli, anche di intenso impegno civile. D'altra parte, vogliamo davvero lasciare il peggio dell'oggi ai figli? (Carlo Citterio)
Praticamente ci siamo conosciuti litigando. Durante un pranzo a Villa Adriana a Frascati, dove all'epoca si tenevano gli incontri di formazione. Non ricordo ora bene qual era la questione: uno di quei temi che all'epoca accaloravano il dibattito tra PM della procurina, quale io ero, e Gip presso la Pretura. Ricordo bene però che nonostante ti fossi messo d'impegno non riuscisti a sembrarmi antipatico quanto si diceva tu fossi. C'era quell'arguzia e quell'ironia nel portare i tuoi argomenti che mi era rimasta persino simpatica.
Ci siamo ritrovati al CSM, tu il consigliere della rubrica “Non ci posso credere”, che già imperversava sulle mailing list, io magistrato segretario appena arrivato e catapultato in Nona Commissione.
Era il periodo delle prime convergenze tra i nostri gruppi associativi. Convergenze nate sulla condivisione di alcuni temi politici e cresciute, a mio parere, soprattutto grazie alle convergenze umane, così importanti per rimuovere pregiudizi ed iniziali diffidenze.
Era il periodo nel quale il Consiglio era governato da una maggioranza bloccata (mi ricorda qualcosa...), Unicost, MI (all'epoca erano solo in due) e laici della destra Berlusconiana. Quella delle leggi ad personam e contra personam (per esempio al fine di sbarrare la strada di Giancarlo Caselli verso la direzione della DNA). Una stagione di battaglie combattute con gli argomenti politici ma anche con quella tua velenosa ironia che era più tagliente di tanti ragionamenti e che mi è rimasta dentro e nel tempo ho provato ad imitare e fare mia.
Ma non solo di politica e di ordinamento si viveva in quegli anni nei quali è nata la nostra amicizia, fatta di ospitate nella tua casa di Napoli tra i soldatini di piombo e le pescate con il gommone (tra l'altro l'unica volta che ho tirato su qualcosa è stato venendo a pesca con te), passeggiate alla scoperta di Napoli sotterranea e delle statuine per il presepe a San Gregorio Armeno.
Poi è venuta la stagione pioneristica della Scuola di Scandicci, della tua Presidenza, del mio impegno in ANM e poi in AreaDG, degli scambi di opinioni, dei commenti salaci sulle notizie della rassegna stampa, delle immancabili fotografie delle due pescate.
Ora sono soltanto curioso di vedere quale sarà la prossima stagione, ma già l'attendo con il sorriso a fior di labbra pregustando le piccole, gustose cattiverie che ne trarrai. (Eugenio Albamonte)
Caro Ernesto, inutile che ci provi: se…tanta strada abbiamo fatto insieme, non la possiamo certo lasciare ora. Ti/Ci aspettano ancora magistrature, togate e onorarie, riflessioni di vita, calcio (sicuro sempre il Milan? bah, questo è l’unico dato stonato) e …pesca; occasioni di incontro e rinnovato impegno da vivere insieme. Con la lucidità, la forza e l’ironia che ci hai sempre dimostrato. Un abbraccio di affetto vero. (Carlo Sabatini)
E ci siamo. Già mi sento più sola, un senso di vuoto alle mie spalle tipico di quando si allontana chi ti ha seguito nel tuo percorso, ti ha consigliato anche nei momenti difficili, ti ha ispirato nelle decisioni. Però Ernesto che uomo fortunato sei, poteva essere un momento complicato, per un super professionista come te, che è stato la magistratura progressista, che è stato la Scuola della magistratura, chi è stato il Movimento, che è un riferimento di noi tutti sempre e invece lo hai saputo riempire di gioia...di Giulia. E allora l'altra parte della vita ti sarà lieve e ne siamo felici. (Alessandra Camassa)
E dunque anche Ernesto Aghina va in pensione…anzi viene “collocato a riposo per raggiunti limiti di età”, definizione più lunga ma meno malinconica! Sono certo che sarà tra coloro che, arrivati a quel punto della vita, saranno ancora impegnati in mille cose, tra cui almeno 999 cariche di leggerezza calviniana!
I 70 anni, secondo molti, rischiano di dar luogo ad una fase di mera passività, che invece deve essere una fase di trasmissione delle esperienze vissute, dei successi ma anche degli errori del tempo passato.
Io, ad esempio, mi rimprovero ancora un errore imperdonabile: in un mio libro, pubblicato nel 2010, nel narrare la storia del Movimento per la Giustizia, ne elencai i fondatori storici omettendo il nome di Ernesto Aghina. Tentai di rimediare nell’ottobre del 2002 in un articolo pubblicato su Giustizia Insieme, ma il “peccato rimane”! Come ho potuto non citare quella firma nel nostro manifesto fondativo approvato il 17.4.1988? Era la firma di uno dei più giovani sottoscrittori, di un giovane napoletano che già in quei tempi – come poi nel corso dei difficili decenni successivi e fino ad oggi - mostrava classe, senza lasciarci tentare dalla supponenza o anche soltanto dalla presunzione di avere ragione, offrendo tanto alla magistratura, alla sua organizzazione ed al Movimento per la Giustizia. Quando penso a Napoli, con passione incessante nonostante tutto, Ernesto mi viene subito in mente, non con la toga, ma sulla sua barca, mentre pesca, o mentre approda al molo.
Ecco caro Ernesto, continua pure, ma ora mi auguro che approdi anche al prezioso molo dell’Essepierre (“S.P.R.”), cioè “Settore Pensionati Rompipalle”! Non perdiamoci di vista! (Armando Spataro)
La Sapienza partenopea; cioè la capacità di coniugare intelligenza emotiva, spessore culturale e spirito pratico. Questa è la cifra di Ernesto. Insieme a una straordinaria umanità. Non potrò mai dimenticare una telefonata in un momento drammatico della mia vita. Con leggerezza e ironia mi confortò. Gli devo molto e molto gli deve la magistratura. Sono sicuro che non farà mancare nel futuro a noi tutti il suo sostegno e la sua sapienza. (Roberto Rossi)
Caro Ernesto è impossibile per me immaginarti fuori dalla magistratura. Eppure è stato un viaggio affascinante, accidentato, bellissimo. È stato incredibile essere sempre dalla stessa parte pur stando comunque in luoghi diversi. Abbiamo combattuto le stesse battaglie perdendo e vincendo sempre dallo stesso lato. Mi mancherà il collega/amico con il quale sfogarmi, ma anche quello al quale chiedere un confronto o un consiglio. Quello con il quale meravigliarsi delle assurdità che vivevamo o vedevamo. Tutto bello dunque nel rapporto con te? No, sei rimasto ... milanista, ma ti perdono.(Pierluigi Picardi)
Ernesto rientra nella ristretta cerchia di magistrati che non andranno in pensione mai. Perché ne è tale l’impronta culturale, che a loro si guarderà sempre.
Ernesto era “grande” da giovanissimo e giovanissimo ora che scavalla i settanta: stessa geometria nel ragionamento, stessa finezza politica, stessa conoscenza unica dei temi più cari, stessa voce aristocratica e ferma. Del Movimento è stato colonna e coscienza critica, portatore di storia e costruttore di novità. A molti tra noi è bastato seguirlo. I personalmente continuerò a farlo. (Marcello Basilio)
Essere grande vuol dire avere la capacità di occuparsi di tutte le cose, le grandi e le piccole, con la stessa passione, la stessa competenza, lo stesso amore. È una delle cose che ammiro da sempre in Ernesto: la sua capacità di riuscire ad accendersi per le questioni di diritto e delle aiuole da piantare intorno alla villa di Scandicci in quella Scuola della Magistratura che lui come nessuno ha contribuito a creare dal nulla come “casa” dei magistrati; il sorriso e la garbata ironia che riserva ai colleghi blasonati come ai suoi amati MOT e ai magistrati onorari; la capacità di non far pesare la propria grandezza e l’amore per le cose (apparentemente) piccole sono i suoi insostituibili lasciti. (Costantino De Robbio)
Ho conosciuto Ernesto alla fine degli anni ‘90, quando venne a Pescara per un’iniziativa dal titolo I giudici nella rete, insieme a Luca Ramacci e Federico Mazza. Girava per i Tribunali d’Italia a insegnare a navigare (no, non per pescare … che avete capito?), a navigare in internet. Faceva omaggio di floppy disk che contenevano l’elenco cliccabile di link utili. Da allora non ci siamo più persi di vista. Estroso, generoso, talentuoso, sin da piccolo - lo raccontava la mamma -, ha mostrato una spiccata attitudine alla formazione (e pure all’addestramento dei golden retriever). Ha idee, capacità progettuali e visioni che se non fosse stato un giurista – categoria notoriamente refrattaria alle invenzioni - avrebbe ideato, già alla fine del ‘900, un AI in formato microchip. Rara la sua capacità di ascoltare, la sua sensibilità, la sua ironia e la sua ospitalità. Per non sforare - avevamo assegnato massimo cinque righe - mi consento solo un’ultima osservazione -personale - è una fortuna rara avere Ernesto come amico. (Paola Filippi)
Ernesto Aghina va in pensione:
che ne sarà della giurisdizione?
Il “dottor sottile”, un po’ sornione,
era preparato su ogni questione.
Una ragione ce ne facciamo
e per quanto ha fatto lo ringraziamo.
Via dal Tribunale, ora di altro si occuperà,
godendo delle gioie che Giulia gli darà.
(Antonella Magaraggia)
Angelo Costanzo: Questa Rivista ha ripubblicato di recente un articolo di qualche anno fa sulle motivazioni dei test psicoattitudinali ai magistrati. In questi giorni la questione è stata riproposta con diverse posizioni (alcune dai toni polemici). Fra gli altri, è stato pubblicato un articolo sui test che potrebbero essere usati per i magistrati, con riferimento specifico al test MMPI. Nella sua qualità di docente di psicometria e di past-president della Associazione Italiana di Psicologia, che ne pensa?
Santo Di Nuovo: Cominciamo col precisare che il test MMPI di cui tanto si parla non è un test psicoattitudinale (come detto fin dal titolo dell’articolo citato), ma appartiene alla categoria dei test di personalità.
Attitudinali sono i test che valutano specifiche capacità in settori delle competenze cognitive, potenzialità che favoriscono gli apprendimenti in quei settori. Le attitudini riguardano capacità verbali (di comprensione e uso del linguaggio), di applicare la logica induttiva o deduttiva, di ragionare usando calcoli numerici o immagini, di rispondere accuratamente agli stimoli presentati, ecc.
Invece il test MMPI riguarda caratteristiche di personalità, dunque emotive, motivazionali, con riferimento a potenziali patologie psichiche. Le scale di base misurano tendenze a deviazioni patologiche quali ad esempio ipocondria, depressione, paranoia, spunti psicotici, introversione sociale. Oltre il profilo di base, con le scale di patologia e quelle di controllo dell’attendibilità delle risposte, la versione più recente contiene altri due differenti profili (non citati nell’articolo) che quantificano diverse condizioni e disagi psichici, come ansia, debolezza dell’Io, ostilità latente, responsabilità sociale, incertezza nei ruoli sessuali, stress post-traumatico, tossicodipendenza, disagio sociale, difficoltà familiari e lavorativi, e tanto altro.
Nell’articolo precedente ho discusso gli aspetti tecnici e i presupposti teorici di questo tipo di valutazione psicometrica, e i limiti che gli esperti in queste tecniche da tempo hanno ribadito: l’inquadramento diagnostico dei “tratti” di personalità su base auto-valutativa (come avviene nel test) è una condizione necessaria ma non sufficiente, e va integrato con altri criteri e strumenti diversi di analisi miranti a “comprendere” globalmente e in modo dinamico il funzionamento della persona, che può essere predittivo del comportamento in ambito lavorativo. Questi strumenti psicodiagnostici implicano modalità di uso molto più complesse e articolate rispetto ad un questionario con domande a risposte prefissate e valutate con scoring algoritmico (la formulazione dei profili MMPI-2 e di altri test di personalità avviene adesso in modo completamente automatizzato).
Inoltre, il fatto che - come dice l’articolo - “in rete ci sono tanti siti che forniscono consigli per come effettuare il test” non gioca certo a favore della attendibilità dello strumento per un uso generalizzato finalizzato a scopi selettivi, favorendo i tentativi di falsificazione delle risposte a scopo “difensivo”.
Non sta a me ovviamente valutare se la diagnosi della personalità sia opportuna o no per selezionare i magistrati. Ricordo che le caratteristiche della personalità non vengono esaminate di norma nella selezione del personale, mentre si usano i test psicoattitudinali.
In generale, la legislazione italiana, per quanto riguarda gli adulti, è molto cauta sulla valutazione della personalità.
Come è noto, l’art. 220 del c.p.p. esclude che si possano valutare “il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”: è proprio al fine di valutare le potenziali componenti di patologia psichica che – come dice l’articolo citato - vengono utilizzati test come il MMPI. Ma si tratta di fattispecie comparabile con la valutazione delle persone aspiranti a diventare magistrati, o di accedere a qualunque altra categoria di lavoratori?
L’art. 473-bis.25 del codice procedura civile, recentemente modificato dalla legge Cartabia, circa la CTU sui genitori precisa che “nella consulenza psicologica le indagini e le valutazioni su caratteristiche e profili di personalità delle parti sono consentite nei limiti in cui hanno ad oggetto aspetti tali da incidere direttamente sulle capacità genitoriali”. Però, mentre la psicologia e la pedagogia hanno chiarito quali caratteristiche influiscono sulle capacità di essere buoni genitori, non è stato definito esattamente dalla letteratura scientifica quali aspetti emotivi e di personalità incidono direttamente sull’esercizio della professione di un magistrato (mentre è stato fatto per le competenze cognitive attinenti al ragionamento giuridico).
Dunque, prima di discutere se la valutazione della personalità è opportuna o no per l’immissione in una certa categoria professionale, bisognerebbe ragionare su quale personalità è la più adatta per esercitare quella professione. A meno di non voler limitare la valutazione all’accertamento che nell’aspirante professionista non ci siano componenti patologiche attuali o potenziali: ma questa logica andrebbe allora estesa ad altre professioni altrettanto delicate per le conseguenze sugli utenti, come quelle di insegnamento, educative e sanitarie (e, perché no, gli stessi psichiatri e psicologi…). Questa logica di ispezione generalizzata sulla salute mentale di chi sostiene dei concorsi è sostenibile sul piano dei diritti delle persone, giuridicamente garantiti? Peraltro, nel lungo periodo, nulla garantisce che, cambiando le condizioni di vita e del contesto ambientale del lavoratore, la diagnosi iniziale su certe caratteristiche di personalità non possa cambiare, in positivo o in negativo, escludendo a priori chi attraversa un periodo – magari transitorio – di disagio e includendo invece chi poi si rivelerà più fragile rispetto a quanto inizialmente prognosticato.
Angelo Costanzo: Nei paesi dell’Unione Europea vi sono posizioni e soluzioni diversificate (che sarebbe utile approfondire e valutare senza pregiudizi) su questo tema. Fra le pratiche basate sulla somministrazione di test, o su colloqui con psicologi, o sulla partecipazione di questi professionisti a commissioni miste (composte prevalentemente da magistrati), per le valutazioni attitudinali degli aspiranti magistrati, quali reputa metodologicamente corrette e scientificamente attendibili?
Santo Di Nuovo: Prescindendo dal problema se l’esame psicologico debba riguardare anche la personalità, e limitandoci all’esame strettamente psicoattitudinale per l’immissione nella carriera – dunque in fase “selettiva” per diventare magistrati – la pratica psicodiagnostica deve considerare la validità degli strumenti tecnici, intendendo per validità la capacità dello strumento di raggiungere lo scopo per cui viene usato. Gli esempi olandesi e francesi spesso citati mostrano esiti diversi rispetto all’efficacia (fortemente contestata nel caso francese).
È sul piano tecnico che dunque il problema va spostato, a partire dalla chiara e univoca definizione di test psicoattitudinali di cui ho detto in precedenza. Ammesso che le attitudini possono essere legittimamente valutate per l’accesso ad una professione, resta da stabilire accuratamente quali “attitudini” psichiche servono per fare il magistrato.
Definire delle attitudini necessarie è più facile per professioni tecniche (attenzione, memoria, prontezza di riflessi, ecc.), mentre meno agevole è capire quali competenze cognitive sono specificamente utili per assumere funzioni inquirenti o giudicanti, oltre le conoscenze della materia e le capacità generali di comprensione ed espressione verbale e di ragionamento logico-deduttivo, che peraltro sono elementi utili per far bene tutte le professioni, e che proficuamente possono essere valutate per accedere ad esse.
Esistono strumenti psicometrici adeguati per valutare queste caratteristiche (ben diversi dal test MMPI impropriamente citato al riguardo!) e le società scientifiche di psicologia potrebbero contribuire a definire delle linee-guida al riguardo se si decidesse di inserire test psicoattitudinali nella valutazione concorsuale per l’accesso alle professioni giuridiche. Inoltre si dovrebbe valutare empiricamente – con attendibili studi scientifici longitudinali - l’efficacia a lungo termine di queste modalità di selezione, come proposto in altri Paesi, e come è stato fatto per altri profili professionali.
Angelo Costanzo: Oltre la fase di selezione iniziale, per cui usare i test attitudinali, cosa pensa dell’opportunità di verificare periodicamente la sussistenza di una idoneità psicologica, applicando a chi già esercita le funzioni giurisdizionali verifiche sulla “tenuta psichica”?
Santo Di Nuovo: Valutare la “tenuta psichica” di chi è già magistrato implica sottoporre periodicamente ad esame psicodiagnostico tutto il personale in servizio (non solo chi ha evidenziato rilevanti problemi comportamentali, come attualmente avviene per tutte le professioni, magistrati compresi).
E la valutazione deve avvenire su aspetti non legati al mantenimento delle competenze attitudinali ─ come avviene per piloti di aerei o macchinisti ferroviari, valutati periodicamente ─ ma alla sussistenza di “equilibrio mentale”. Aspetto certamente utile per esercitare bene una (qualunque) professione, ma dai confini talmente labili e indefinibili in generale, da rendere poco valida la valutazione, ai fini di eventuali decisioni pratiche in caso di esito negativo.
Nel caso della selezione ex ante, la conseguenza sarebbe l’esclusione dalla professione. Nel caso di una verifica periodica in servizio, quali sarebbero le sanzioni oltre il discredito dell’immagine personale del magistrato definito “psichicamente poco equilibrato”? Una censura che peserebbe sulla carriera? Il trasferimento ad altri uffici? Un trattamento psicoterapeutico obbligatorio? la sospensione dal servizio in attesa di una “rivedibilità” del giudizio? Ma le sentenze emesse da questo giudice “psichicamente squilibrato” resterebbero valide o potrebbero essere impugnate?
Non è mia competenza valutare la legittimità giuridica di tali valutazioni (e delle loro conseguenze) quando vengono effettuate con un sintetico screening di massa e non per specifici motivi di un disagio già conclamato, come nei casi di stress e “burnout” lavorativo su cui già si interviene. Segnalo però che i controlli generalizzati di “tenuta psichica” sono stati contestati quando si è provato a proporli per altre professioni come insegnanti o personale sanitario; e che pure l’aspetto tecnico è in questo caso molto più problematico.
Come già detto, i tratti di personalità che si dovrebbero valutare non sono statici, ma su di essi incidono dinamiche contestuali, continuamente variabili e in evoluzione. Dinamiche attinenti alla sfera di vita personale del soggetto da valutare, su cui difficilmente si potrebbe indagare ed eventualmente intervenire.
L’uso di test come il MMPI o altri analoghi non assicurano da soli l’affidabilità di una valutazione complessa per l’incidenza di tanti fattori dinamici interni ed esterni alla psiche del valutato, quando l’obiettivo della valutazione non è comprendere i problemi di una persona per eventualmente curarla, ma valutarne l’incidenza sull’efficienza professionale.
Aggiungo una ulteriore considerazione: in questo complesso contesto valutativo molte persone sottoposte a giudizio tenderebbero ad assumere un atteggiamento difensivo che inficerebbe l’esecuzione stessa del test. Esistono dei metodi di controllo della attendibilità delle risposte, ma nel caso in cui questi metodi evidenziassero problematicità, il test dovrebbe essere dichiarato non valido (e con quali alternative, se in uno screening di massa non è possibile prevederne?)
Va ribadito che il test psicometrico dovrebbe sempre essere inserito all’interno di una valutazione collegiale ampia ed articolata, in cui i confini dell’aspetto psicologico vanno definiti più chiaramente di quanto non avvenga nelle dichiarazioni e nei dibattiti che ascoltiamo quotidianamente. E questa definizione andrebbe fatta in base a criteri scientifici più che astrattamente ideologici o, peggio, politici.
(Immagine: Gustave Caillebotte, Ritratto di un uomo che scrive nel suo ufficio, olio su tela, 1885)
Forse per colpa di Aracne e della sua sfida a Minerva, l’immagine della tela di ragno evoca insidia, trappola, rischio di rimanere prigionieri, appesi a un filo. Eppure quel filo è germe di costruzione: la precisa tessitura che un ragno da esso dipana è indicativa di capacità nel costruire legami che abbiano una solidità tale da mantenersi integri fino ad accogliere all’interno della propria rete insetti o altri corpuscoli di dimensione e peso non indifferente. Una costruzione paziente e solida nella sua apparente fragilità.
La tela di ragno dovrebbe essere letta proprio attraverso questa prospettiva di rigore e sapienza nel connettere elementi anche distanti tra loro. La si può così prendere come metafora di una tessitura in grado di far dialogare aspetti e punti di vista differenti, convergenti però nel contribuire alla comune costruzione. Per questo credo che l’immagine vada rivisitata, guardandola attraverso la positività del tessere, del saper resistere, del saper conservare qualcosa al proprio interno. Spingendo la metafora, il qualcosa che viene conservato non è tanto l’insetto che vi rimane racchiuso, bensì la finalità dell’operazione stessa della tessitura, della ri-costituzione unitaria di aspetti slegati, filiformi che in tale connessione acquistano una fisionomia nuova e un valore specifico.
In un sistema democratico, una Istituzione che voglia agire all’interno della complessità e della apparente indecifrabilità del contesto sociale deve avere questa caratteristica di tessuto: duttile e agile come una tela di ragno, solida altrettanto e in grado di mantenere al suo interno, come valore compreso, afferrato e conservato scrupolosamente, la propria ragione istitutiva. In particolare, se la sua ragione risiede nel contribuire alla pienezza dei diritti di persone che, per un variegato insieme di cause, sono più vulnerabili, l’Istituzione deve riconoscersi come soggetto pubblico, dialogante anche con soggetti privati, frutto spesso della ricchezza della partecipazione sociale, ma mantenendo le centralità della propria indipendenza, della propria finalità di contributo all’attuazione piena del disegno costituzionale, della propria capacità di dialogo con le altre Istituzioni. Solo da questo auto-riconoscimento e dalle sue conseguenze operative discende la possibilità di essere artefice di una tessitura.
Con questa immagine si è costruito nei recenti otto anni il lavoro del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Istituzione nuova, anche se preparata da un dibattito che si era sviluppato almeno nei venti anni precedenti il suo avvio, ha fondato il proprio lavoro sulla capacità di connettere punti di vista diversi, ambiti di responsabilità anch’essi diversi, professioni articolate e situazioni di restrizione della libertà apparentemente distanti le une dalle altre, sia per la ragione della restrizione stessa, sia per la sua finalità, accumunate però da quella vulnerabilità accentuata della tutela dei diritti che rende simili le vite di chi non ha possibilità di decidere del proprio tempo, del proprio movimento, del colore della propria quotidianità.
Al termine dell’esperienza del primo Collegio che ha costruito nel concreto il Garante nazionale come riconosciuta Autorità di garanzia, mi è stato da più parti richiesto un bilancio, soprattutto alla luce piuttosto fosca del dibattito attuale circa la capacità e la volontà di riconoscere come proprie anche le parti dolenti del corpo sociale. Il bilancio non è semplice nel frastuono di provvedimenti normativi che continuamente forzano verso il ricorso alla rigidità piuttosto che alla comprensione, al loro valore simbolico piuttosto che alla loro capacità di risolvere conflitti. Soprattutto non è agevole districarsi nella narrazione di un allarme, mai sostenuto dai numeri, che costruisce il crescente consenso sia al ricorso al diritto penale per problemi e conflitti che richiederebbero un’attenzione sociale diversa e non già l’elmetto del rigore punitivo, sia la parallela regressione a quelle logiche di esclusione che vorrebbero tornare a separare le diversità, fino a far percepire come utopica o addirittura erronea la parola inclusione e tutti i valori che essa rappresenta.
Non è, quindi, attraverso la lettura dei dati del presente che è possibile dare significato al bilancio. Occorre invece cogliere l’aspetto positivo dell’avvenuto pieno riconoscimento – a livello istituzionale e di comunicazione – di una Autorità di garanzia, nuova, ancora giovane, chiaramente centrata sull’assicurare sempre maggior effettività ai diritti delle persone che vivono in luoghi spesso opachi o distanti dall’attenzione sociale. Una Istituzione che assicura un costante sguardo pubblico in tali luoghi e che trova la propria forza nelle sue connotazioni d’indipendenza e di intrusività in tutte le situazioni di privazione della libertà de iure, cioè in base a un provvedimento esplicito e come tale ricorribile, o de facto, cioè come risultante di una serie di concause che rendono impossibile alle persone di agire in libertà e autonomia. Ma proprio questa Istituzione deve, al contempo, saper dialogare con tutte le Amministrazioni coinvolte perché il suo fine non è esprimere sanzioni bensì individuare problemi e agire perché vengano risolti, così esplicitando il proprio ruolo preventivo. Così come deve dialogare con la Magistratura a cui è affidato il compito essenzialmente reattivo, di indagine e accertamento delle violazioni denunciate e di trarne le conseguenze sanzionatorie.
Il duplice livello di protezione, preventivo e reattivo, e i fili che legano indissolubilmente queste due dimensioni sono alla base dell’impostazione del lavoro portato avanti in questi anni, in analogia con il dialogo a livello europeo tra la Corte europea per i diritti umani e il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti, organo di natura giurisdizionale il primo, preventivo invece il secondo che non emette sanzioni, ma raccomandazioni. Questi fili sono un lascito che rimarrà come punto di forza per la costruzione di una maggiore fiducia della collettività verso la capacità istituzionale di garantire per le persone private della libertà una tutela che abbia più dimensioni: quella della dignità e dell’integrità fisica e psichica di ogni persona, qualunque sia la ragione della restrizione a cui è sottoposta; quella dei diritti e del riconoscimento valoriale di chi lavora in questi contesti; quella della effettiva rispondenza della vita all’interno di questi luoghi a quella finalità che ha permesso, come misura estrema, la sottrazione del bene altrimenti inviolabile della libertà; quella, infine, della effettiva aderenza dell’azione dell’Amministrazione pubblica ai principi costituzionalmente affermati e agli impegni internazionalmente assunti.
Credo che questo sia l’elemento di positivo bilancio che sintetizza i primi otto anni di vita del Garante nazionale. E credo che questa connotazione debba essere preservata come valore dal nuovo Collegio che da quasi due mesi si è insediato, indipendentemente dalle scelte specifiche che opererà relativamente ai singoli temi da affrontare. Perché in questo aspetto risiede la solidità della tela di ragno che si è andata costruendo. La tela è una struttura solida, ma è fragile se non viene alimentata ogni giorno dall’animaletto con la stessa logica costruttiva. Un ragno che si abbandonasse a contemplare il proprio lavoro, a guardarlo o farsi guardare o che non rinvigorisse con nuove e sempre più solide connessioni i suoi legami con i diversi rami che tengono assieme la rete finirebbe col trasformare la plasticità della rete nella sua debolezza.
Non sarà così e comunque non dovrà esserlo perché la situazione attuale non lo permette. Infatti, il quadro attuale presenta difficoltà crescenti in tutte le aree di privazione della libertà personale. Il numero delle persone detenute in carcere è in aumento, ormai da quasi un anno, di circa quattrocento unità al mese e, superata ormai la soglia delle 61mila presenze – in meno di 48mila posti regolamentari, vale sempre la pena ricordarlo – tende a raggiunge quel valore che, poco più di dieci anni fa, caratterizzò la condanna del nostro paese per violazione dell’inderogabile articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Non solo, ma ì crescenti numeri registrati nei vari istituti, sono sempre più accompagnati dalla prevalenza della chiusura in cella come modalità ordinaria dello svolgersi della giornata per quella maggioranza di persone detenute che non sono classificate di “alta sicurezza”: persone che risentono fortemente della vacuità di un tempo trascorso senza una progettualità definita, per inazione o per impossibilità di spazi, e che proprio per tali assenze restano chiusi negli angusti ambienti impropriamente e pomposamente destinati anche nel nome al “pernottamento” e che invece rappresentano invece il micromondo possibile dello svolgersi delle giornate.
In questo affollato e anonimo contesto, sono impietosi i numeri del disagio sociale, evidenziati dalle migliaia di persone detenute che sono in carcere per pene bassissime e restano là proprio perché prive di una rete di supporto legale, sociale, spesso di semplice tetto ove stare. Così come lo è il numero di coloro che rivolgono contro il proprio possibile residuale ben-essere anche corporeo la frustrazione di un tempo che trascorre inutilmente denso di una previsione ancor peggiore nel ritorno alla società: l’inizio di questo anno ha finora registrato circa un suicidio ogni due giorni. Numeri, chiusura, disattenzione rendono ridicole le foto che vengono fatte dopo rituali visite in carcere da parte di organizzazioni volontarie e volenterose e ancor più inaccettabili quelle di rappresentanti istituzionali che sembrano aver ristretto la propria osservazione di quel mondo, spesso difficile da decodificare, a qualche colloquio con chi dirige, coordina, spiega.
Se questa è la fotografia grave del carcere, certamente non è migliore quella della detenzione amministrativa delle persone migranti, trattenute in Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), per periodi recentemente fortemente allungati, in quel nulla che non è episodico, bensì la dimensione strutturale del trattenimento: il nulla degli ambienti, il nulla del contatto con il mondo esterno, il nulla dello scorrere della giornata, lasciano spazio solo alla disperazione del fallimento del proprio progetto migratorio che la stessa permanenza in tali luoghi nitidamente evidenzia.
Carceri e Cpr sono le punte evidenti di un pensiero reclusorio che affronta le contraddizioni con la segregazione e che rischia di estendersi a tutte le forme di difficoltà, inclusa quella giovanile, spesso di non semplice decodifica e certamente aumentata nel recente periodo dopo l’esperienza di chiusura per la pandemia, ma che è comunque anche espressione di un bisogno che dovrebbe trovare altre risposte. Nel mondo della comunicazione e dei media le difficoltà giovanili non sono lette attraverso la lente dell’incertezza del futuro sul piano lavorativo, dell’impossibile autonomia, dell’opacità delle strutture sociali e il conseguente rischio della prevalenza di logiche neo-censitarie, della frequente inattuabilità della costruzione di un proprio nucleo di affetti, del ritorno della vicinanza delle guerre, bensì relegate in una indecifrabilità, espressa con soltanto con termini di negatività e di ricorso alla categoria indecifrata dell’agire delinquenziale. Anche i numeri di presenza negli Istituti penali per minori sono così in aumento considerevole negli ultimi mesi, dopo anni in cui il sistema penale minorile italiano aveva rappresentato un modello positivo nel contesto internazionale.
Non è un panorama che possa permettere però di attenuare le costruzioni faticosamente realizzate in anni recenti: in particolare, quella della tela di ragno, come richiamo a una costruzione duttile e solida. Occorre continuare a trovare altri rami per la sua continua costruzione e consolidare quelle parti già tessute proprio perché esposte a un vento impetuoso. Ciò vale per il Garante nazionale e anche per le altre strutture intermedie di coesione, riflessione e garanzia costruite in questi anni: non è possibile renderle inerti e non alimentarle. È un compito che coinvolge tutti, a livelli diversi, sulla base di quel dettato di solidarietà che la nostra Carta richiama nel suo secondo articolo e che si esplicita nell’articolo successivo anche nel richiamo al compito della Repubblica – e, quindi, di ogni singolo ‘attore’ del suo impianto ordinamentale – di rimuovere gli ostacoli affinché sia assicurato il pieno sviluppo di ogni persona e la sua attiva partecipazione. Anche di chi ha sbagliato, anche di chi è irregolare, anche di chi esprime disagio e difficoltà nel misurarsi con il mondo circostante.
Proprio la connotazione istituzionale porta con sé, del resto, la necessità e il valore della continuità, intesa come costante capacità di riaffermare il proprio mandato e di agire perché esso sia percepito come contributo alla soluzione delle difficoltà. Questo è il bilancio dell’Istituzione costruita, da me e dalle altre due componenti del Collegio del Garante nazionale, in questi otto anni. Ma questa continuità necessaria rappresenta altresì una indicazione che dovrà essere resa esplicita quanto prima a chi ha assunto ora il compito di proseguire: con attenzione e interesse ho visto il verificarsi di diversi incontri tra il nuovo Collegio e vari attori istituzionali, nonché responsabili di carceri o altre strutture; quasi tutti regolarmente registrati anche attraverso la foto dell’evento. A cinquanta giorni dal suo insediamento, forse è ora tempo che, dopo tutti gli altri, il nuovo Collegio voglia incontrare anche quello uscente, per avere opinioni, momenti di confronto, aspetti di una lunga esperienza. Un incontro che ancora non è mai avvenuto. Per questo una foto di simbolica continuità è tuttora mancante.
(Contributo già apparso qui https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/editoriale/tessere-i-diritti-il-garante-nazionale-dei-diritti-delle-persone-private. Immagine: Tintoretto, Aracne sfida Minerva in una gara di tessitura, olio su tela, circa 1575 - 1585)
La giudice ungherese Anna Madarasi, preziosa autrice di Giustizia Insieme, propone interessanti riflessioni, e il suo punto di vista, sul processo in corso in Ungheria a carico di Ilaria Salis.
I temi sono: giustizia e comunicazione, indipendenza della magistratura ungherese, responsabilità in ordine all’uso di strumenti coercitivi e consenso alla video ripresa.
Con la riflessione in ordine al rapporto tra giustizia e comunicazione pone l’attenzione sull’esigenza della completezza, oltre che di veridicità, della notizia.
La rappresentazione distorta dei fatti oggetto dell’accertamento processuale vulnera sia l’informazione che il processo.
Nel caso di Salis il rapporto processo-informazione si intreccia con la circostanza che i magistrati Ungheresi - a fronte di crescenti critiche provenienti dai parlamentari e dal governo - sono sempre più limitatati nella loro libertà di fornire informazioni utili a rendere edotta l’opinione pubblica su ciò che accade nelle aule di Tribunale.
Nel caso di Ilaria Salis i magistrati ungheresi lamentano di non essere stati messi nelle condizioni di fornire le esatte informazioni in ordine allo stato del processo, alla fase cautelare, nonché al quadro di gravità indiziaria a carico dell’imputata e alle esigenze che hanno indotto il giudice della cautela a emettere la misura in carcere. Registrano poi un’eccessiva enfasi della stampa internazionale sul procedimento cautelare rispetto al processo. L’autrice, per far intendere la gravità dei fatti, prescindendo da osservazioni di natura valutativa, richiama i massimi edittali previsti per i reati contestati.
Un’importante riflessione riguarda l’indipendenza dei giudici ungheresi che se, da un lato, si auspica non siamo condizionati nella decisione dal governo ungherese - come in effetti tranquillizza la giudice - dall’altro nemmeno possono essere influenzati dall’opinione pubblica o dai governi di altri paesi europei. Su questo non possiamo che condividere le sue riflessioni.
Con riguardo alle misure coercitive adottate per la traduzione dell’imputata dal carcere all’Aula di Tribunale l’autrice rappresenta che ogni decisione a riguardo spetta al Servizio carcerario, che dipende dall’esecutivo. Nel sistema di giustizia ungherese vi è dunque una criticità evidente che l’autrice segnala “il giudice non ha il potere di rimuovere tutti i mezzi di coercizione”.
Ma il giusto processo passa anche attraverso la partecipazione dell’imputato libero nella persona da vincoli coercitivi, lesivi della presunzione di innocenza e della sua dignità .
Il garante dello svolgimento del giusto processo - lo ricorda l’autrice - è il giudice, il quale - aggiungiamo noi - non deve subire interferenze per effetto di determinazioni di organi estranei alla giurisdizione come, nel caso di specie, il Servizio carcerario che, peraltro, dipende dall’esecutivo.
Il consenso dell’imputata ad essere ripresa, in aula con guinzaglio, ferri ai polsi e alle caviglie, non esime il giudice dal controllo in ordine allo svolgimento di un processo rispettoso della dignità della persona.
Il consenso alla ripresa non evita la lesione, apparsa sotto gli occhi di tutti, al giusto processo.
Attraverso il consenso Ilaria Salis ha, in realtà, esercitato il suo diritto a informare il pubblico che, in Ungheria, stava partecipando al processo a suo carico con guinzaglio in vita e piedi in catene, violata nella sua dignità e come se fosse già stata dichiarata colpevole.
Ha richiamato l’attenzione dei paesi dell’Unione affinché sia tutelato il suo diritto a un processo conforme ai canoni di cui all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la sua è stata una richiesta di aiuto.
Questa è l’altra faccia del rapporto tra giustizia e comunicazione.
Paola Filippi
Quis Custodiet Ipsos Custodes? Note al margine di un processo penale ungherese
di Anna Maderasi
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il processo e l’accusa - 3. La traduzione dell’imputato e l’udienza preliminare.
1. Introduzione
Per molti giorni non si sono arrestate le polemiche sul processo penale iniziato davanti alla Corte Capitale di Budapest il 29 gennaio, per tentativo di lesioni personali gravi con pericolo di vita con l’aggravante di organizzazione criminale[1] a carico di una cittadina italiana e altri.
La stampa italiana ha dato al caso ‘Salis’ un alto profilo politico e mediatico, che dopo l’udienza preliminare ormai è diventato anche un caso umanitario, la vicenda ora sfocia nella tutela dei diritti umani, in Europa come nel mondo. Questo caso dimostra ancora una volta, come abbiamo già visto in casi numerosi, che ’la convivenza tra stampa e processo penale è una convivenza assolutamente necessaria, posto che magistratura e libertà di informazione sono due pilastri dello Stato costituzionale di diritto, ma è al contempo una convivenza molto difficile.’[2] L’opinione pubblica[3] italiana in correlazione con il caso specifico ha messo in dubbio l'indipendenza e l'europeismo dei giudici ungheresi criticando il modo in cui l'imputata è stata trasferita all’udienza preliminare e il modo in cui è stata visualizzata nelle immagini riprese in aula d’udienza. Tuttavia, sembra che tale opinione sia stata formata soltanto sulla base delle informazioni ricevute dalla stampa o dalla difesa dell'interessato, e l’opinione pubblica ha accettato il fatto che i magistrati di uno Stato membro dell'Unione europea sono responsabili per la grave violazione dei valori dell'UE e i diritti umani fondamentali, e ha invocato il rispetto del giusto processo e della presunzione d’innocenza, senza lo stesso rispetto per il principio della mutua fiducia nella affidabilità delle decisioni giudiziarie, che sono principi fondamentali per il funzionamento dell’Unione Europea[4].
Da un lato, in uno stato democratico i mezzi di comunicazione riferiscono ciò che la giustizia fa ed è normale, anzi è necessario, che la critichino pure, ma all’altro lato la comunicazione, particolarmente la comunicazione politica, può diventare un mezzo molto efficace per erodere la fiducia del cittadino nel sistema giudiziario. E spesso ’la pubblicazione della notizia deve avvenire tempestivamente, anche a costo di sacrificare la verifica dei dettagli, e quindi la correttezza e completezza dell’informazione’[5]. E forse anche per questo motivo, nel caso specifico sia l’esecutivo italiano, che l’esecutivo ungherese, dopo la pubblicazione delle immagini dell’udienza preliminare si sono riferiti all’indipendenza della magistratura e di tale riferimento non ha dubitato nessuno, anche se, per quanto riguarda le condizioni carcerarie e la traduzione del detenuto, il giudice ungherese non è ‘in gioco’, perché non ha un potere decisionale. Soltanto il sistema penitenziario è il titolare del potere di decidere sull’uso delle misure coercitive, il quale è sotto il controllo dell’esecutivo.
Negli ultimi anni è anche vero che l’amministrazione del sistema giudiziario ungherese non sente la necessità di fornire al pubblico informazioni chiare e puntuali sul funzionamento della giustizia, in particolare quando questa viene messa in discussione. Nel caso di qualsiasi critica politica, il sistema giudiziario ungherese è in silenzio. I singoli giudici non hanno nessun mezzo per difendersi né contro gli attacchi politici, né davanti al ‘tribunale della pubblica opinione’[6], particolarmente per quanto riguarda un processo in corso. La libertà di espressione dei giudici è molto limitata e in Ungheria negli ultimi anni ci sono i tentativi di limitarla ancora di più, e nel frattempo le decisioni giudiziarie di tutti i livelli (dalle corti distrettuali alla Corte Suprema) spesso sono fortemente criticate dai parlamentari o direttamente dai componenti del governo, quindi dal potere esecutivo. Nel caso specifico in mancanza di comunicazioni da parte della Corte Capitale o dell’organo amministrativo centrale del sistema giudiziario ungherese, che avrebbe potuto fornire informazioni puntuali, le notizie e le reazioni del pubblico mostrano che il racconto della vicenda giudiziaria attraverso i media può essere uno specchio che riflette un’immagine molto parziale della realtà. E in questo modo la politica, trasmettendo i suoi messaggi al pubblico, riesce a minare la fiducia pubblica ─ sia italiana che europea ─ nei giudici ungheresi diventando una manovra molto pericolosa contro lo Stato di diritto che può comparire ovunque, anche nelle vecchie democrazie.
Poi viene notato che anche in questo caso le notizie italiane e le trasmissioni sul processo rinforzano la teoria[7]secondo quale nei media esiste una svalutazione di quello che è il processo vero e proprio, il dibattimento, ed una ipervalutazione delle misure cautelari, presentata agli spettatori come il vero processo. Questo articolo rispettando il fatto che il processo è in corso, non formula alcuna valutazione, ma cerca solo di presentare vari aspetti del caso specifico e di fornire il massimo di informazioni puntuali, con il massimo della chiarezza.
2. Il processo e l’accusa
Il processo di primo grado è iniziato con l’udienza preliminare il 29 gennaio. Dei tre imputati due sono in detenzione e uno è agli arresti domiciliari. All’inizio dell’indagine il g.i.p. ha disposto con un’ordinanza motivata la custodia cautelare in carcere di due degli imputati e, durante l’indagine, ha prorogato tre volte i termini di custodia cautelare dopo aver valutato le esigenze cautelari, gli indizi, la documentazione dell’indagine, e aver sentito il pubblico ministero, il difensore e l’imputato. Per quanto riguarda la terza persona, il g.i.p. ha disposto gli arresti domiciliari.
Nella sua prima ordinanza[8] il g.i.p. ha preso in considerazione le circostanze personali degli indagati, la natura, le caratteristiche e la gravità dei fatti, e ha affermato che vi fossero ragionevoli motivi per ritenere che senza la applicazione delle misure coercitive gli imputati durante le indagini si sarebbero allontanati in un luogo sconosciuto, e sarebbero stati irraggiungibili per l'autorità. La maggior parte dei partecipanti agli attacchi non è stata identificata, ma, sulla base delle informazioni acquisite con l’indagine, il gruppo era composto da persone in qualche modo collegate tra loro. Dopo aver preso in considerazione anche l'interesse dell'indagine, la natura organizzata del reato, la modalità dell’azione e le caratteristiche personali degli indagati, ha ritenuto che non ci si possa aspettare che collaborino con le autorità su una base volontaria. Il g.i.p. ha ritenuto importante sottolineare che gli imputati avevano una vita sostanzialmente ordinata, ma erano sospettati di aveve commesso reati palesemente brutali contro vittime sconosciute, senza alcun precedente contatto, in un modo senza scrupoli; tre imputati sono fuori dal loro paese d'origine. Le condizioni esaminate indirizzavano verso arresto e la Corte ha ritenuto che i rischi presi in considerazione fossero così grandi da rendere assolutamente necessario applicare la misura di coercizione più severa. La Corte ha concluso il ragionamento alla base della decisione osservando «che nessun motivo ideologico merita considerazione in presenza di un reato violento contro una persona. La violenza non ha colore. Il fatto che il caso specifico è diventato mediatico non ha alcun impatto sulla decisione. Le norme penali e procedurali devono essere applicate a prescindere dall'ideologia, come ha fatto la corte nel caso presente».
Il giudice di primo grado, precedentemente alla prima udienza, ha prorogato con un’ordinanza motivata i termini delle misure cautelari per tutti gli imputati. Per l’Ungheria questo è considerato un processo veloce, perché entro un anno dall’inizio della detenzione, la Corte Capitale ha già tenuto l’udienza preliminare.
Il dettaglio meno conosciuto del processo dal pubblico italiano sembra essere l’accusa, che la stampa ungherese[9]nella sua cronaca giudiziaria ha spiegato in modo dettagliato. Le aggressioni riscontrate dalle autorità riguardano persone, che presumibilmente avevano partecipato ai festeggiamenti del Giorno dell’Onore[10] a Budapest. Secondo l’accusa, gli imputati fanno parte di un'organizzazione di estrema sinistra e sono stati addestrati a compiere attacchi rapidi che possono causare danni fisici con pericolo di vita; durante le indagini non è stato stabilito se le vittime fossero realmente partecipanti alla manifestazione neonazista.
All’udienza preliminare il procuratore ha descritto la coreografia degli attacchi come segue: dopo il comando ‘go go’ del controllore, il gruppo ha aggredito persone, che dal loro vestito sembravano estremisti di destra, e le ha picchiate per 30 secondi pesantemente, senza fare rumore, coprendosi il viso e le mani per non farsi riconoscere. Quando è trascorso il tempo, il controllore, che non partecipava all'attacco, ha dato il segnale ‘stop’ e il gruppo è fuggito. Prima di fuggire, il controllore ha sempre spruzzato lo spray al peperoncino sulla vittima. I componenti del gruppo erano vestiti a strati per potersi cambiare durante la fuga.
Secondo questo scenario il gruppo è riuscito a compiere 5 attacchi contro 8 persone tra il 9 e l’11 di febbraio a Budapest, in diversi luoghi e con varie composizioni del gruppo. Secondo l’accusa, il gruppo ha usato manganelli telescopici, mazze di gomma, un'arma a gas da autodifesa e spray al peperoncino e al gas.
All’udienza preliminare uno dei tre imputati, un cittadino tedesco, si è dichiarato colpevole del reato descritto dall’accusa ed è stato condannato alla pena di tre anni di reclusione per partecipazione a un’organizzazione criminale[11], il giudice ha ordinato anche l’espulsione dal territorio dell’Ungheria per cinque anni.
L’imputata italiana è accusata di tre condotte di tentativo di lesioni personali gravi con pericolo di vita e con l’aggravante di organizzazione criminale[12]. Dalle disposizioni del Codice penale ungherese segue che tale reato è punibile con la pena della reclusione da due a otto anni, ma il limite superiore della pena viene aumentata della metà per l’aggravante di organizzazione criminale (2-16 anni), e per i più reati commessi (3 condotte) la pena si cumula, e il limite superiore viene aumentata della metà, cosicché la pena di reclusione si estende da due a 24 anni. Sulla base della Codice penale, nel caso in cui il giudice infligge la pena della reclusione, determina la durata partendo dalla metà della somma delle pene superiori e inferiori[13] e deve tenere conto di circostanze aggravanti e attenuanti.
3. La traduzione dell’imputato e l’udienza preliminare
Il punto più criticato del processo finora è stata la traduzione del detenuto all’udienza, l’opinione pubblica si è riferita subito alla violazione della Direttiva (UE) 2016/343.
Secondo il testo della premessa (20), ’le autorità̀ competenti dovrebbero astenersi dal presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica, quali manette, gabbie di vetro o di altro tipo e ferri alle gambe, a meno che il ricorso a tali misure sia necessario per ragioni legate al caso di specie in relazione alla sicurezza, ad esempio al fine di impedire che indagati o imputati rechino danno a se stessi o agli altri o a beni, o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi, tra cui testimoni o vittime’[14].
Il testo dell’art 5 stabilisce che gli Stati membri adottano le misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica.
Ma il punto 2. dice che il paragrafo 1 non osta a che gli Stati membri applichino misure di coercizione fisica che si rivelino necessarie per ragioni legate al caso di specie, in relazione alla sicurezza o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi.
Mentre il primo paragrafo dell'articolo introduce un divieto generale di utilizzare misure di coercizione fisica, il secondo paragrafo, per ragioni di sicurezza, prevede possibili deroghe alla regola principale. Il regolamento non pone un divieto assoluto, invece stabilisce una previsione elastica per quanto riguarda all’uso di misure coercitive. Sebbene questa disposizione sia semplice nella forma, la sua applicazione pratica non è facile. L'uso delle misure coercitive in aula di udienza in presenza di determinate condizioni può essere necessario, e la valutazione della necessità va fatta caso per caso[15]. Secondo una ricerca di Helsinki Committe è importante osservare che una differenza importante tra gli Stati membri si nota nel modo in cui gli imputati arrivano in aula d’udienza: mentre in Francia e a Malta gli indagati e gli imputati arrivano nella maggior parte dei casi senza alcuna misura di coercizione, in Ungheria, Spagna e Croazia molto spesso arrivano in tribunale e aspettano davanti all'aula di udienza ammanettati. Non vi è dubbio che il modo di presentare la persona accusata davanti al giudice non è un aspetto di scarso rilievo per la tutela della presunzione d’innocenza.
Tornando al caso specifico, bisogna sottolineare che, al contrario alle dichiarazioni politiche pubblicate sulla stampa italiana e ungherese, la decisione sull'uso delle misure coercitive durante il trasferimento dell'imputato non è una decisione giudiziaria. Dopo aver ordinato la traduzione del detenuto, il giudice non ha il potere di decidere il modo in cui la traduzione viene effettivamente eseguita. Tale potere è in parte regolato dal Decreto n. 16/2014 del Ministro della Giustizia e in parte dalle decisioni interne del sistema penitenziario, che è sotto la direzione dell'esecutivo. Il comandante del carcere è il titolare della decisione circa le specifiche disposizioni di sicurezza per la detenzione, il trasporto e la traduzione del detenuto[16].
Ai sensi dell’art. 29 del decreto ministeriale, la struttura penitenziaria classifica i detenuti secondo un suo Sistema di Analisi e Gestione dei Rischi. Nel processo di classificazione vengono valutati vari elementi, come per esempio il pericolo di fuga e tentativi di fuga, comportamenti suicidi, pericolo di autolesione, violenza o tentativi di violenza contro altre persone, attività nel mondo criminale o carceraria, abuso di sostanze stupefacenti. La vita del detenuto in carcere è soprattutto determinata dalla sua classificazione. Il decreto disciplina anche i mezzi di coercizione che alla struttura penitenziaria è consentito utilizzare. Ai sensi dell'art. 54, l'uso dei mezzi di coercizione è deciso sulla base dei dati e delle informazioni relative al detenuto e sulla classificazione del rischio di sicurezza, ma nell'applicazione di un mezzo di coercizione si deve rispettare la legge e la dignità umana. In caso di traduzione del detenuto solo al comandante della struttura penitenziaria è consentito autorizzare la rimozione del mezzo di coercizione. Il decreto ministeriale nell’art. 54 (4) prescrive che il giudice è consentito ad ordinare la rimozione delle manette ai polsi, ma il decreto stabilisce che la disposizione non si applica alla rimozione di altri mezzi di coercizione.
Da tutto questo deriva in pratica che, il giudice non ha il pieno potere del controllo sulle esigenze di sicurezza in aula per quanto riguarda la traduzione del detenuto, anche se il Codice di procedura penale, stabilisce che, durante lo svolgimento dell'udienza, il giudice è il titolare del potere di garantire (i) il rispetto delle leggi e (ii) il corretto esercizio dei diritti delle parti. Evidentemente qui si trova il conflitto tra il decreto ministeriale e il Codice di procedura penale ungherese e, sulla base della Direttiva, la legislazione interna dovrebbe affidare al giudice il controllo sulle esigenze di sicurezza nell’aula di udienza con facoltà di rimuovere tutti i mezzi di coercizione.
Non conosciamo casi contro l'Ungheria davanti alla Corte di Strasburgo, in cui la Corte ha affermato la violazione dei diritti fondamentali, come in casi contro altri paesi[17], ma nella sua ricerca Helsinki Committe ha affermato che in Ungheria le manette spesso vengono utilizzate non nel modo giusto dalla polizia e nella maggior parte dei palazzi in cui si trovano i tribunali non esiste un percorso separato, dove la persona scortata non sia vista in pubblico durante la traduzione in aula di udienza [18].
In relazione ad un caso altro caso di rilevanza mediatico, il Garante ungherese ha affermato che l'uso di tre tipi di misure coercitive «contro una donna esile era sproporzionato, anche se l'istituto penitenziario aveva solo pochi giorni per effettuare una valutazione dei rischi prima di dover effettuare il trasporto[19].
Non è una fonte di diritto, ma è un aspetto notevole dell’opinione pubblica ungherese per quanto riguarda al caso specifico quello che è stato scritto in un articolo di un portale dell’opposizione ungherese che si riferisce ad un caso, esaminato anche da Helsinki Committe nella sua ricerca: «Il trasporto sicuro dei detenuti è responsabilità del servizio carcerario. L'uso di manette e catene è diventato comune dopo la fuga di un detenuto dalla Corte Capitale nel 2019. Durante il processo del suo caso penale, l'uomo ha preso l'arma della guardia, che lo accompagnava, ha preso ostaggi ed è fuggito. È stato catturato solo dopo che la polizia gli ha sparato. Dopo l'incidente, le guardie del sistema penitenziarie tendono a proteggersi eccessivamente. Quindi l'idea che l’imputata sia stata "incatenata" perché è un antifascista o perché è stato reso un avvertimento per qualche motivo, non è vera. Altra questione è se tale severità abbia un senso…»[20]
Da tutto ciò deriva una domanda evidente: perché non sono i detenuti ascoltati tramite una videochiamata? In Ungheria, come nella maggior parte dei paesi europei, si usano spesso i sistemi di telecomunicazione a circuito chiuso nei processi penali, soprattutto nei casi in cui sono coinvolte persone detenute. Sulla base del Codice di procedura penale durante il processo penale, in linea con i diritti umani fondamentali, la presenza fisica degli imputati è la regola principale, rispettando particolarmente il principio d’immediatezza, e le udienze da remoto sono l'eccezione. Ai sensi dell'art. 121 del Codice di Procedura Penale, al giudice è consentito, ex officio o su richiesta dell’imputato, di ordinare l'uso di mezzi di telecomunicazione e di tenere l’udienza da remoto, anche nel caso dell'udienza preliminare, ma solo con il consenso dell'imputato. In genere i giudici ungheresi tengono l'udienza preliminare con la presenza fisica degli imputati, se non è richiesta l’udienza da remoto dall’imputato, anche se successivamente passano all'uso di mezzi di telecomunicazione.
L’altro punto criticato del processo era la ripresa dell’immagine dell’imputata. Il Codice di procedura penale ungherese, in linea generale, garantisce la pubblicità dei processi, e riconosce il diritto del pubblico di essere informati attraverso la stampa[21], per tal fine i rappresentanti della stampa sono presenti in aula. Ma per tutelare i diritti personali degli imputati, le sue immagini possono essere riprese solo con il loro consenso e permesso[22]. Se l'immagine dell'imputata era visibile nella stampa, presumibilmente lei ha dato il suo consenso, quando è stato chiesto dal giudice all’inizio dell’udienza preliminare.
Infine, per dare un esempio di un punto di vista diverso da quello della stampa italiana, si cita un articolo della stampa ungherese, in cui il portale dell’opposizione scrive che «la differenza nel modo in cui gli italiani giudicano le azioni degli antifascisti rispetto agli ungheresi è principalmente culturale. In Italia, l'opinione pubblica è apparentemente molto più tollerante nei confronti dell'estrema sinistra, e in particolare degli antifascisti. E in effetti, alcuni articoli della stampa italiana considerano l’imputata, arrivata in tribunale sorridente, quasi un eroe. Ai loro occhi, è un cittadino italiano trattato in modo disumano dalle autorità ungheresi. Ma la verità è che i gruppi di estrema sinistra e di estrema destra sono trattati come organizzazioni pericolose dalle autorità, anche nelle democrazie.»[23]
Negli ultimi anni l’indipendenza del sistema giudiziario ungherese è un oggetto molto importante del dialogo in corso relativo allo Stato di diritto tra la Commissione Europea e il governo ungherese. Da un lato i problemi derivano dal sistema organizzativo ‘ibrido’, caratterizzato dalla coesistenza tra un organo di nomina parlamentare e un rappresentante della magistratura[24]. Anche dopo una riforma molto importante dell’anno scorso, che ha rafforzato lo status e il funzionamento del Consiglio, e ha anche rafforzato la posizione dei suoi componenti, sui vertici dell’amministrazione del sistema giudiziario esistono ancora problemi sistematici. Ma, anche se recentemente i giudici ungheresi hanno affrontato diversi tipi di difficoltà, l’esame degli aspetti sinora emersi probabilmente porta alla conclusione che nelle loro decisioni non sono assoggettati al potere esecutivo.
[1] Secondo il Codice penale ungherese é un aggravante senza finalitá specifiche
[2] N.Triggiani: Informazione e Gustizia Penale-Dalla cronaca giudiziaria al "processo mediatico” p.1.
[3] Per esempio: https://ilmanifesto.it/da-orban-un-avvertimento-ai-governi-europei, https://www.areadg.it/comunicato/in-solidarieta-di-ilaria-salis, https://www.magistraturademocratica.it/articolo/magistratura-democratica-sulla-vicenda-di-ilaria-salis
[4] https://resiudicata.hu/en/english-answers-to-critics-from-italy/
[5] N.Triggiani: Informazione e Gustizia Penale-Dalla cronaca giudiziaria al "processo mediatico”, p.27.
[6] Glauco Giostra: Processo penale e mass media, Criminalia 2007.
[7] N. Triggiani: Informazione e Gustizia Penale-Dalla cronaca giudiziaria al "processo mediatico”
[8] https://fovarositorvenyszek.birosag.hu/sajtokozlemeny/20230221/az-eroszaknak-nincs-szine-kenyszerintezkedesekrol-dontott-birosag-az
[9] https://hvg.hu/itthon/20240129_antifaper_elokeszito_ules_budapest, https://telex.hu/belfold/2024/01/29/harom-ev-fegyhazra-iteltek-a-budapesti-antifa-tamadas-egyik-vadlottjat
[10] Il ’Giorno dell’onore’ non è una ricorrenza ufficiale, un anniversario simbolico relativo ad alcuni fatti della Seconda guerra mondiale. Si tiene intorno all’11 febbraio per ricordare i soldati ungheresi e tedeschi uccisi durante l’assedio di Budapest (tra l’ottobre del 1944 e il febbraio del 1945). Il ’Giorno dell’onore’ è legato a movimenti di neonazisti e neofascisti europei.
[11] Art. 321 comma (1) del Codice penale
[12] Art. 164 comma (1) e (8), art. 459 comma (1)
[13] Art. 80. del Codice penale
[14] DIRETTIVA (UE) 2016/343 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali
[15] https://helsinki.hu/wp-content/uploads/Legal-Comparative-Report-FINAL-Designed_2019_06_27-2.pdf
[16] Legge nr. CCXL del 2013 sull'esecuzione delle pene, dei provvedimenti, delle misure coercitive, e delle carcerazioni per contravvenzioni, Decreto del Ministro della Giustizia nr. 16 del 2014 (XII. 19.) sulle modalità di esecuzione della pena, Legge nr CVII del 1995 sull'organizzazione del sistema penitenziario
[17] Erdogan Yagiz contro la Turchia, no.27473/02, il 6 marzo 2007., Gorodnitchev contro la Russia, no.52058/99, il 3 marzo 2005
[18] https://helsinki.hu/wp-content/uploads/Legal-Comparative-Report-FINAL-Designed_2019_06_27-2.pdf
[19] Relazione no. AJB-6796/2010.
[20]https://m.hvg.hu/360/20240201_olasz_anarchista_no_Ilaria_Salis_antifa_bunugy_szelsobaloldal_szelsojobboldal_Giorgia_Meloni_Orban_Viktor
[21] Art. 108 comma (1) del Codice di Procedura Penale
[22] Ibid comma (2)
[23]https://m.hvg.hu/360/20240201_olasz_anarchista_no_Ilaria_Salis_antifa_bunugy_szelsobaloldal_szelsojobboldal_Giorgia_Meloni_Orban_Viktor
[24] https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/138-diritti-stranieri/2756-percorsi-di-accesso-alla-magistratura-in-ungheria-di-anna-madarasi?hitcount=0
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