Valutare la personalità all’interno delle prove di selezione dei magistrati è appropriato? E, sul piano pratico, è possibile? I test psicologici possono – secondo quanto richiesto in certi interventi di politici - verificare la stabilità emotiva, l’empatia e il senso di responsabilità, caratteristiche essenziali della professione del magistrato?
Cercherò di rispondere sul piano tecnico, in base alle mie competenze professionali.
I tentativi di quantificazione delle caratteristiche della mente umana risalgono a tempi lontani: nella pragmatica società statunitense del primo novecento i test psicologici venivano usati per valutare i soldati da inviare in guerra e selezionare i migliori, scegliendo quelli da ammettere ai corsi per ufficiali ed evitando di sprecare risorse per addestrare reclute poco intelligenti. Le aziende e le scuole di tutto il mondo si appropriarono di questi strumenti per misurare attitudini e capacità sia cognitive che di adattamento, spesso con usi impropri e piegati ai fini della committenza. I test servirono ad indirizzare «l’uomo giusto al posto giusto» nelle fabbriche, e relegare in «classi differenziali» gli scolari riconosciuti come ipodotati.
Non mancarono reazioni decise: alla fine degli anni ’60 negli Stati Uniti veniva segnalata la pericolosità dei tanti improvvisati ‘scrutatori di cervelli’ (Brainwatchers era il titolo di un volume pubblicato proprio in quel periodo). Cominciò in quel periodo una seria riflessione sul senso di una misurazione che va oltre gli aspetti psicofisici o neurofisiologici – facilmente studiabili in laboratorio – tentando di indagare funzioni complesse della mente umana come l’intelligenza e i tratti di personalità normale e patologica.
I test sono strumenti rigorosamente standardizzati mediante metodi psicometrici, attendibili cioè ripetibili in tempi e luoghi diversi, e validi in quanto rappresentativi di una certa funzione o area della psiche che si vuole indagare; capaci di codificare le risposte del soggetto indipendentemente dalla soggettività dell'esaminatore, e di confrontarle con le ‘norme’ riferite ad un campione rappresentativo della popolazione da cui è tratto il soggetto sottoposto ad esame. I test che rispondono a queste caratteristiche, adeguatamente costruiti e correttamente applicati, sono strumenti con indubbio fondamento scientifico, e vengono usati proficuamente in ambito scolastico, clinico, lavorativo, giudiziario. Ma il loro uso è spesso subordinato ad alcuni presupposti ideologici più che scientifici.
Il primo presupposto è che la psiche sia una realtà misurabile e quantificabile come altri aspetti del mondo fisico, mediante procedure ritenute analoghe al modello delle scienze biologiche. La mente come unità funzionale sarebbe analizzabile alla pari delle sue componenti neurofisiologiche, sicché il test costituirebbe per le funzioni psicologiche un equivalente di ciò che sono l’elettroencefalogramma o la risonanza magnetica per specifiche modalità di funzionamento organico.
Il secondo presupposto è che la psiche nelle sue diverse componenti sia valutabile in base a criteri ‘oggettivi’: ottica che in termini tecnici viene definita nomotetica, cioè basata su regole generali e valide per tutti gli individui. Le diverse misurazioni dovrebbero poi essere ricomposte – in un’ottica idiografica legata alla specifica persona - per ricavare il ‘profilo’ complessivo che la descrive.
Purtroppo quando si valuta la realtà psichica le cose non sono così semplici. La validità della valutazione dipende, oltre che dalla correttezza delle operazioni metodologiche con le quali lo strumento è stato verificato empiricamente, dalla corrispondenza con il costrutto teorico cui si fa riferimento. Mentre sul primo aspetto la psicometria ha fatto notevoli passi avanti, per cui esistono strumenti validi sul piano ‘tecnico’, rilevanti problemi persistono riguardo al riferimento ai costrutti teorici.
In particolare, la ricerca sulla personalità ha oscillato a lungo fra lo studio dei “tratti” come disposizioni stabili che caratterizzano certi individui piuttosto che altri, e l’analisi delle modificazioni prodotte nelle caratteristiche delle persone dalle interazioni che esse hanno con le situazioni e il contesto. Di conseguenza, le modalità di valutazione risentono dei criteri usati per definire la personalità: ad esempio, i questionari, tra cui il tanto citato Minnesota Multiphasic Personality Inventory (ma altri più moderni ne esistono), tentano di “obiettivare” alcuni aspetti della personalità degli individui, inquadrando le persone in categorie diagnostico-predittive presunte “oggettive”. Ma fino a che punto può essere considerata oggettiva la raccolta di dati che - per quanto provengano da risposte a domande standardizzate, valutate in modo altrettanto rigoroso, e si possa controllare in qualche modo la tendenza alla falsificazione - esprimono pur sempre la valutazione che un soggetto dà riguardo ad aspetti della propria vita psichica? Ai fini della comprensione del funzionamento psichico complessivo della persona esaminata, l’inquadramento diagnostico su basi auto-valutate è condizione necessaria ma non sufficiente, e va integrato con criteri diversi di analisi scientifica, miranti a “comprendere” globalmente il funzionamento della persona.
Non va dimenticato inoltre che il test è uno strumento mai asettico (come una radiografia o una risonanza magnetica) ma sempre inserito all’interno del rapporto tra l’operatore e il soggetto, rapporto collocato a sua volta in un preciso contesto sociale di riferimento. Solo per fare un esempio, un aspirante magistrato con profilo di personalità esente da tratti psicopatologici potrebbe poi risultare poco assertivo e molto influenzabile nelle decisioni giudiziarie: aspetti che il test non può valutare e prevedere in astratto.
In conclusione, sul piano tecnico il test offre utili indizi su aspetti cognitivi e di personalità di un futuro professionista, che sarà poi attuato nello specifico contesto in cui il lavoro viene svolto, per cui la capacità predittiva del comportamento è di tipo probabilistico. Per migliorare questa probabilità occorrono valutazioni concorrenti, come la presentazione di situazioni concrete (seppur ipotetiche) di problemi da risolvere connessi alla futura mansione lavorativa: queste potrebbero essere introdotte nella selezione dei magistrati, e non solo… sempre se possono essere ritenute compatibili con le norme generali sulle procedure concorsuali.
A questo proposito, lascio per ultima una domanda cui le mie conoscenze non mi consentono di rispondere: se è legittimo nella selezione del personale valutare - oltre le attitudini e le competenze specifiche in funzione della mansione - anche la personalità, ed escludere chi presenta certi tratti caratteriali che vengono ritenuti (da chi? e in che misura?) inadatti per una certa professione, accettando solo chi risponde ad un ipotetico profilo ottimale per quella professione (ancora una volta, definito da chi?). E se tutto ciò è legittimo, perché applicare questa valutazione solo al magistrato, e non anche alle altre categorie che prendono decisioni importanti per la vita delle persone: al medico, all’avvocato, all’economista, al dirigente d’azienda, al politico…?
* ripubblicazione dell'articolo uscito su questa rivista il 25 luglio 2019