Sommario: 1. Introduzione. 2. L’indipendenza esterna dell’Istituto: la nomina del Presidente della Corte dei conti e i consiglieri di nomina governativa. 3. L’indipendenza interna dei magistrati. 4. Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti tra organo di autogoverno e organo di amministrazione della magistratura contabile. 4.1. Status dei componenti togati. 4.2. Organizzazione interna. 4.3. Autogoverno tra cambiamento e restaurazione. 5. L’assegnazione ai posti di funzione. 6. L’assegnazione degli affari giudiziari. 7. Gli incarichi extraistituzionali. 8. Il regime disciplinare.
1. Introduzione
Già agli albori del secolo scorso, F. Cammeo così scriveva: “Evidentemente l’indipendenza del giudice amministrativo è completa quando ad esso sia concessa una posizione che per metodo di nomina e stabilità nell’ufficio sia eguale a quella dei giudici ordinari “e alle sue considerazioni si associavano illustri studiosi del tempo (Calamandrei, Salandra, Scialoja e D’Amelio).
“Là dove non è garantita l’indipendenza del giusdicente, non c’è giudice di sorta, né ordinario, né speciale, né sezione specializzata di organo giudiziario ordinario “, scriveva, inoltre, Andrioli pochi anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione e proprio in relazione alla problematica dell’indipendenza dei giudici speciali.
In merito all’assetto della magistratura, quale risulta dalla Carta costituzionale, è stato detto da autorevole dottrina che la distinzione tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa (nella quale si ricomprende quella contabile) non deve in alcun modo riflettersi sulle garanzie di indipendenza, che devono essere eguali e che la Costituzione italiana riconosce e prevede una serie di giurisdizioni distinte tra loro per struttura, poteri e competenze, ma ammette un solo tipo di magistrato.
Siamo, cioè, di fronte ad un concetto univoco di “magistrato”, affermato con coerenza e sicurezza sul piano costituzionale. Sicchè - si è aggiunto - l’esistenza di una pluralità di giudici diversamente regolati quanto a status, garanzie esterne ed interne di indipendenza e posizione nell’ordinamento si pone in netto contrasto con la Costituzione.
L’indipendenza dei giudici, di tutti i giudici, non è un fine ma un mezzo posto a garanzia di un bene: la retta applicazione della legge, bene insostituibile per l’intera comunità statale. Anche il solo sospetto della mancanza di indipendenza è in grado di far venire meno la fiducia del cittadino negli organi giudiziari inducendogli il sospetto che la legge potrebbe non venire rettamente applicata da quel giudice.
Indipendenza della magistratura vuol dire, invero, tutela del libero convincimento, libertà di indagine, serenità di giudizio. In una parola, libertà di coscienza, nella quale risiede, come affermava Calamandrei, la più alta ed indiscutibile garanzia dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; e, sotto il profilo che ci interessa, non sono indifferenti i meccanismi predisposti in via legislativa per attuarlo.
Come rilevato da attenta dottrina,[1]scarsa eco, tuttavia, ha avuto il tema della indipendenza del magistrato contabile, che si interseca con quello della indipendenza della magistratura contabile unitariamente considerata nell’esercizio delle funzioni di controllo e della giurisdizione.
Ed invero, l’indipendenza affermata dall’art. 100/3 Cost., a differenza di quella espressamente prevista dall’art. 108 Cost. che opera nei confronti dei giudici speciali, nella cui categoria rientra in posizione di primo piano il giudice contabile, fa riferimento non solo all’Istituto, ma anche ai suoi “componenti”, nell’ambito della funzione di controllo. Nella sua versione finale, il compito di “assicurare” l’indipendenza dell’Istituto e dei suoi componenti di fronte al Governo è rimesso al legislatore.
Completa il quadro rappresentato, per la Corte dei conti, dagli artt. 100/3 e 108 Cost., l’art. 101 Cost., che riguarda la funzione giurisdizionale in sé considerata con la espressa previsione della garanzia della soggezione “soltanto” alla legge di tutti i giudici.
Eppure, nonostante l’autorevole monito del giudice delle leggi,[2]l’indipendenza, in primo luogo, di tipo “istituzionale”, che riguarda il profilo “esterno” della relazione della Corte dei conti con il Governo, e “interna”, che attiene propriamente all’esercizio delle funzioni di controllo e giurisdizionali, non ha trovato completa attuazione sul piano legislativo, caratterizzato dai soliti interventi disorganici e frammentarii.
Della indipendenza “esterna” e della indipendenza “interna” si tratterà separatamente senza dimenticare, però, che l’indipendenza di tipo “istituzionale” non è sufficiente, da sola, ad assicurare l’indipendenza “funzionale”,[3]che richiede, in particolare, per essere attuata, un autentico sistema di autogoverno e la definizione, per via legislativa, dello status del magistrato contabile.
2. L’indipendenza esterna dell’Istituto: la nomina del Presidente della Corte dei conti e i consiglieri di nomina governativa
Come è noto, l’articolo 1 della legge 202/2000 – che sostituisce l’art. 7 comma 2 R.d. 12 luglio 1934, n. 1214 - stabilisce che il Presidente della Corte dei conti è nominato, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio di Presidenza.
Orbene, per come è formulata, la norma contrasta, in primo luogo, con il principio di indipendenza della funzione giurisdizionale (art. 101 cost.).
Il potere di proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, inoltre, mina alla radice l’indipendenza della Corte dei conti nei confronti del Governo ai sensi dell’art. 100/3 Cost.
L’ordinamento interno della giurisdizione contabile soffre, infatti, ancora vistose eccezioni al principio di indipendenza, affermato per le magistrature amministrative e in modo specifico nei confronti del Governo (art. 100/3), nel suo significato di completa sottrazione al potere esecutivo della nomina degli organi di vertice dell’Istituto.
La resistenza al cambiamento può trovare spiegazione soltanto con l’idea che la “contiguità” funzionale della magistratura contabile all’azione del potere esecutivo implichi necessariamente una qualche forma di legame organico con il medesimo, ma si tratta di atteggiamento che non ha più possibilità di avere diritto di cittadinanza alla luce del nuovo quadro istituzionale.
Garantire l’indipendenza dell’Istituto costituisce, dunque, una operazione “costituzionalmente necessitata “in forza dell’art. 100/3 cost.
Né a confutare quanto sin qui osservato può valere l’argomento che fa leva sul parere del Consiglio di Presidenza, che deve essere sentito, per la semplice ragione che tale parere, pur obbligatorio, non è non vincolante per il Governo, il quale potrebbe, dunque, non dar corso ad una nomina ritenuta sgradita[4].
Il semplice pericolo che ciò possa avvenire in forza della norma di cui all’art. 1 della legge 202/2000 rende lecito dubitare della legittimità costituzionale della stessa.
Il fatto, poi, che il Presidente della Corte dei conti sia anche il “vertice” dell’organo di autogoverno potrebbe riflettersi come ulteriore elemento di influenza, sia pure indiretta, del potere esecutivo sulla piena autonomia dell’ordine[5].
La nomina governativa si pone, quindi, come una anomalia da correggere e da eliminare, valorizzando il ruolo decisionale esclusivo del Consiglio di Presidenza.
Il Governo dispone di una aliquota di consiglieri da nominare ai sensi dell ‘art.7 del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, tuttora vigente, e del d.p.r. n. 385/1977.
Sono ampiamente noti gli orientamenti e le conclusioni della Corte costituzionale[6] sulla questione delle nomine governative dei consiglieri di Stato e della Corte dei conti, che mirano a spostare il problema dell’indipendenza dal momento della formazione dell’organo giudicante a quello delle garanzie successive (essenzialmente l’inamovibilità), quasi che l’indipendenza esista a prescindere dai meccanismi concreti di realizzazione.
In sintesi, secondo la Corte costituzionale non è compromessa l’indipendenza se essa viene garantita nel momento successivo alla investitura dell’ufficio.
Bisogna qui mettere in rilievo, peraltro, che le norme costituzionali sulla giurisdizione non costituiscono un mero “programma” da attuarsi a cura del legislatore, con ampia discrezionalità, ma si presentano alla stregua di un corpo coerente di principi e criteri immediatamente validi ed applicabili e, tra questi, il principio di indipendenza non consente che i giudici possano essere “scelti“ dal potere esecutivo, giacché in tal guisa si spezzerebbe quel rapporto esclusivo che il legislatore costituente ha voluto istituire tra il giudice e la legge, il quale non ammette in alcun modo la interferenza di altri poteri dello Stato, tra cui quello esecutivo.
Ed invero, di recente, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 136 del 15 aprile 2011, ha salvato dalla dichiarazione di incostituzionalità l’art. 2, commi 1 e 2, della legge 14 marzo 2005, n. 41, i quali attribuiscono espressamente al Ministro della giustizia il potere di nomina del membro nazionale presso l’Eurojust, che deve essere un magistrato, soltanto perchè le funzioni del membro nazionale presso l’Eurojust non sono riconducibili a quelle giudiziarie (v. punto 5 dei Considerato in diritto) e non perché deve essere comunque scelto nell’ambito di una rosa di candidati formata dal Csm.
3. L’indipendenza interna dei magistrati
Si è detto efficacemente in dottrina[7][8] che l’indipendenza interna si realizza attraverso lo status del magistrato. È, quindi, la disciplina dei diritti e dei doveri il test di verifica della indipendenza.
E allora, se si confronta lo status del magistrato contabile con quello del magistrato ordinario si può constatare il peso preponderante della produzione consiliare, rappresentata dalla attività deliberativa avente natura amministrativa per quanto riguarda il primo ed il ruolo residuale riservato alla legge, a differenza del secondo pure in presenza della attività paranormativa del CSM.
Senza ombra di smentita si può dire, infatti, che l’unico testo normativo di riferimento per i magistrati contabili è rappresentato dal testo unico degli impiegati civili dello Stato (D.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3) e, per quanto riguarda il settore disciplinare, dalla legge sulle guarentigie (R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511).
Lo status del magistrato contabile è, quindi, disciplinato in massima parte dalle deliberazioni del Consiglio di Presidenza, in violazione della riserva di legge di cui all’art. 108 Cost.
4. Il Consiglio di Presidenza tra organo di autogoverno e organo di amministrazione della magistratura contabile.
Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti è stato riformato dalla legge 13 aprile 1988, n.117, recante disposizioni in materia di “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati “.
Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, previsto dall’art. 38 del regolamento dell’Istituto, deliberato dalle Sezioni Riunite il 2 luglio 1913, risultava composto: dal Presidente della Corte, cui era attribuita la presidenza dell’organo; dal Procuratore generale; da tutti i presidenti di sezione, esclusi quelli fuori ruolo; dal segretario generale, con funzioni di segretario.
La legge 20 dicembre 1961, n. 1345 aveva lasciato sostanzialmente immutata la configurazione di tale organo quale organo di vertice della Corte dei conti, limitandosi ad introdurre un’articolazione interna in sezioni.
Di queste, la prima - composta dal Presidente della Corte, chiamato a presiederla, dal Procuratore generale, dai primi nove presidenti di sezione per ordine di ruolo e dal segretario-, esprimeva il giudizio di promovibilità per le promozioni oltre la qualifica di primo referendario. La seconda - composta, oltre che dai predetti magistrati, anche dai primi due consiglieri rispettivamente della sezione di controllo e delle sezioni giurisdizionali, per ordine di ruolo, dal primo vice procuratore generale, anche qui per ordine di ruolo, dal segretario generale e dal primo referendario del segretario generale, secondo l’ordine di ruolo, con funzioni di segretario - era chiamata ad esprimere i pareri di promovibilità alla qualifica di primo referendario.
Ciò rendeva i magistrati della Corte sostanzialmente privi di garanzie d’indipendenza sia interna che esterna.
La stessa Corte costituzionale, d’altronde, con la sentenza 17 giugno 1987, n. 230, aveva riconosciuto che attraverso l’organo in esame non fosse “sotto alcun aspetto garantita l’indipendenza dei magistrati della Corte dei conti “, attribuendo peraltro a tale affermazione il valore di mera denuncia, poiché si limitava a dichiarare l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata innanzi ad essa.
Contestualmente, invece, il giudice amministrativo si spingeva più in là, ove non aveva osato spingersi il giudice delle leggi. Il TAR Lazio, infatti, con la sentenza n. 1148 del 10 giugno 1987 dichiarava l’illegittimità dell’art. 38 del regolamento del 1913 della Corte, nel rilievo della manifesta inadeguatezza del Consiglio di Presidenza, nella composizione dell’epoca (limitata alle sole qualifiche di vertice), alla tutela dell’indipendenza interna dei magistrati della Corte dei conti.
Senonché, tale sentenza anziché sortire l’effetto sperato di una rafforzata tutela dell’indipendenza della magistratura contabile, considerata come corpo professionale di magistrati, produsse il risultato opposto: e cioè, una deminutio sul piano delle garanzie di indipendenza, in quanto proprio in esecuzione della sentenza del TAR Lazio, il Presidente della Corte dei conti aveva iniziato ad assumere i provvedimenti relativi ai magistrati prescindendo dal parere del Consiglio. E soltanto la sospensione della esecuzione della menzionata sentenza da parte del Consiglio di Stato evitò che il governo del personale di magistratura piombasse in una situazione di incostituzionalità ancora più grave della precedente.
Evidentemente, però, la situazione di emergenza determinatasi obiettivamente a sèguito della sentenza del TAR Lazio richiedeva un intervento urgente sul piano legislativo.
Della urgenza di legiferare in materia erano del resto ben consapevoli i parlamentari che si resero promotori, all’inizio della X legislatura, di diversi progetti e disegni di legge (A.C. nn. 678, 679, 680 e 735; A.S. nn. 563 e 564).
La riforma del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti venne, dunque, approvata sotto la pressione degli avvenimenti. Ciò è messo bene in evidenza dal primo periodo del primo comma dell’art. 10 della legge n. 117/88 (“1.Fino all’entrata in vigore della legge di riforma della Corte dei conti“).
Questo organo, nella sua composizione originaria, prevedeva 17 componenti, di cui : 3 componenti di diritto (Presidente della Corte dei conti, Procuratore Generale e Presidente di sezione più anziano secondo l’ordine di ruolo); 4 componenti laici, scelti, all’epoca, d’intesa dai Presidenti delle due Camere e 10 componenti togati eletti dai magistrati della Corte dei conti, ripartiti tra le qualifiche di Presidente di sezione, consigliere o vice procuratore generale, primo referendario e referendario in proporzione alla rispettiva effettiva consistenza numerica del ruolo.
L’attuale composizione del Consiglio di Presidenza è frutto della riforma “Brunetta” (Art. 11, L. 4 marzo 2009, n. 15).
In disparte quanto si dirà a proposito degli incarichi extraistituzionali (infra n. 7), una assoluta novità, ma si potrebbe dire che sia “frutto di scarsa meditazione”[9] , è quella che legittima a partecipare al Consiglio di Presidenza – senza, però, diritto di voto - il “capo di gabinetto” del Presidente della Corte dei conti.
È stata, invece, confermata la c.d. componente di diritto[10] e la c.d. componente laica[11], mentre quella togata ha subìto un netto ridimensionamento, passando da 10 a soli 4 membri, e senza più le riserve di qualifica previste dalla precedente normativa.
A proposito della nuova composizione numerica, si è rilevato in dottrina[12] il peso maggiore della gerarchia”, in quanto di 7 membri togati ben 3 – più del 40%- sono membri di diritto e, inoltre, il rapporto fra le due componenti elettive (togata e laica) è di assoluta parità (4 contro 4), mentre nel Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa è, invece, di due e mezzo a uno.
Il regime giuridico di tale organo va ricostruito, quindi, sulla base del rinvio, contenuto nell’art. 10, ultimo comma, della legge n.117/88, alle norme della legge 27 aprile 1982, n. 186 concernenti il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa (artt. 7, primo, quarto, quinto e settimo comma; 8; 9, quarto e quinto comma; 10; 11; 12; 13, primo comma, numeri 1), 2), 3), e secondo comma, numeri 1), 2), 3), 4), 8), 9)) e, per ultimo, dell’art. 11, commi 7-8.
Il rinvio, sia pure parziale, alla normativa riguardante le attribuzioni del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa tradisce l’intenzione del legislatore della riforma di fare del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti un organo di autogoverno sostanzialmente omologo al primo. Hanno pesato sul convincimento del legislatore, molto probabilmente, le ragioni della tradizionale appartenenza della magistratura contabile al comune genus della magistratura amministrativa. Ma ciò non basta e non è sufficiente a spiegare perchè nel momento in cui si poneva mano, in sede legislativa, ad una profonda riforma della composizione del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, caratterizzato dalla introduzione della c.d. componente laica, il modello a cui riferirsi non fosse il Consiglio superiore della magistratura, anche in considerazione delle ragioni che stavano alla base della riforma.
Una battuta d’arresto sulla strada della attuazione di un autogoverno che sia presidio delle garanzie di indipendenza della magistratura è stata segnata dalla riforma “ Brunetta”, in quanto il comma 7 dell’art. 11 della L. n.15/2009 definisce il Presidente della Corte dei conti quale “organo di governo” dell’Istituto, che “esercita ogni altra funzione non espressamente attribuita da norme di legge ad altri organi collegiali o monocratici della Corte” mentre il comma 8 definisce il Consiglio di Presidenza quale “organo di amministrazione del personale di magistratura”[13], attribuendogli competenze limitate a quelle espressamente attribuite da norme di legge, una sorta di interpositio legislatoris!
Ne esce quindi stravolta la governance della magistratura contabile, che sino al 2009 si imperniava sul Consiglio di Presidenza, per effetto del rafforzamento della figura del Presidente della Corte dei conti e a discapito dell’organo di autogoverno, con i conseguenti dubbi in ordine alla costituzionalità del sistema introdotto sotto il profilo della violazione dell’art. 104 Cost. e degli altri parametri rappresentati dagli artt. 100/3 e 108 Cost.
La esperienza oramai trentacinquennale del Consiglio di Presidenza, insediatosi il 27 luglio 1988, peraltro, induce a ritenere che siano ormai maturi i tempi per un ritorno non al passato, ma per una riforma legislativa che, in primo luogo, riconduca entro il recinto della Costituzione il rapporto tra Presidente e Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, operando un rinvio alle attribuzioni del Consiglio superiore della magistratura. per definire le competenze di un organo autenticamente di autogoverno.
Questa è, del resto, la strada che è stata seguita dal legislatore ordinario con riferimento al Consiglio della magistratura militare: l’art. 1, comma 3, della legge 30 dicembre 1988, n. 561, istitutiva del predetto organo, stabilisce, infatti, che “ il Consiglio ha per i magistrati militari le stesse attribuzioni previste per il Consiglio superiore della magistratura “ e l’art. 7 del regolamento di attuazione della legge n. 561/88, emanato con d.p.r. 24 marzo 1989, n. 158, dispone che “ per tutto ciò che non è diversamente regolato dal presente decreto, si osservano, in quanto applicabili, le norme previste per il Consiglio superiore della magistratura “.
Nell’ambito delle magistrature speciali - e la giurisdizione militare, si badi bene, è contemplata nella stessa disposizione costituzionale (art. 103) che si occupa della giurisdizione contabile - si è dunque infranto un tabù, in quanto il legislatore ha già valutato favorevolmente la compatibilità del modello di autogoverno realizzato dal Consiglio superiore della magistratura con le esigenze di autogoverno del personale di magistratura appartenente ad una delle magistrature speciali previste dalla Costituzione.
Con ciò non si vuole dire che il CSM rappresenti il punto di riferimento per eccellenza nel campo degli organi di autogoverno, ma che esso è allo stato attuale dell’esperienza degli organi di autogoverno delle varie magistrature il modello che meglio di ogni altro - vuoi per l’esperienza ultracinquantennale vuoi per meriti conquistati sul campo - ha dato ampia dimostrazione di tutelare efficacemente il prestigio e l’indipendenza della magistratura, sapendola difendere dalle insidie delle facili lusinghe del potere politico.
Il rinvio alla normativa applicabile al Consiglio superiore della magistratura, nei limiti della compatibilità con l’ordinamento della magistratura contabile, avrebbe, inoltre, nell’immediato, il vantaggio di colmare il vuoto legislativo in materia di disciplina dello status del magistrato contabile, rimessa oggi quasi esclusivamente all’autoregolamentazione del Consiglio di Presidenza, al quale è lasciata una libertà di azione caratterizzata da eccessiva discrezionalità, con risultati non sempre soddisfacenti.
4.1. Status dei componenti togati.
A differenza dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura, ed analogamente ai membri del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, i componenti togati del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti non sono collocati fuori ruolo, continuando ad esercitare contemporaneamente le rispettive funzioni d’istituto, nell’area del controllo o della giurisdizione.
Non si rinviene, infatti, nella legge 13 aprile 1988, n. 117 alcuna disposizione normativa che consenta il fuori ruolo, siccome previsto per i membri togati del CSM (v. art. 30 d.p.r. 16 settembre 1958 n. 916, nel testo modificato dall’art. 8 legge 3 gennaio 1981 n. 1 e dall’art. 14 legge 12 aprile 1990 n. 74).
La soluzione adottata della permanenza in attività di servizio dei componenti togati, nelle funzioni magistratuali rivestite al momento delle elezioni, si presta a più di una critica.
In primo luogo, è inevitabile che le sollecitazioni e le pressioni sui componenti togati provenienti dall’ambiente di lavoro in cui essi sono inseriti influenzino le loro posizioni in seno al Consiglio di Presidenza. Il pericolo di un condizionamento, anche ab interno, della attività dell’organo di autogoverno è, inoltre, possibile nel caso eventuale dell’appartenenza al medesimo ufficio di due o più componenti togati.
In secondo luogo, la possibilità per i componenti togati di concorrere alle procedure concorsuali a domanda indette per il conferimento di incarichi o per la copertura di posti di funzione, specialmente se direttivi (presidente dii sezione giurisdizionale e procuratore regionale) o semi-direttivi (consigliere delegato o capo dii delegazione), e di conseguire, in ipotesi, la designazione o la nomina agli stessi può suscitare il sospetto di favoritismi praticati dal Consiglio nei confronti dei propri membri, gettando un’ombra di discredito sulle delibere adottate dall’organo di autogoverno.
In terzo luogo, l’esercizio contemporaneo dei compiti d’istituto danneggia i componenti residenti fuori Roma in misura maggiore dei componenti che prestano servizio in uno degli innumerevoli uffici centrali della Corte dei conti, con sede a Roma, in quanto non consente loro di seguire con profitto i lavori del Consiglio di Presidenza, i quali non si riducono alla semplice presenza fisica alle adunanze e alle sedute delle Commissioni, ricomprendendo in misura altrettanto rilevante tutta l’attività preliminare alle riunioni dell’organismo collegiale (studio, approfondimento ed esame della documentazione e delle questioni poste all’ordine del giorno).
I problemi si sono aggravati con la riduzione del numero (da 10 a 4) dei componenti togali giacchè per far fronte ai lavori delle commissioni consiliari la regola è far parte di più di una commissione.
4.2. Organizzazione interna del Consiglio di Presidenza.
Il Consiglio di Presidenza, insediatosi il 27 luglio 1988, ha provveduto ad approvare, sin da subito, il proprio regolamento interno per il funzionamento, che, nella versione attuale, risulta dalla deliberazione n. 52/CP/2019 del 14 febbraio 2019 (e s.m.i.)
Le principali norme riguardano l’ordinamento (artt. 1-10) ed il funzionamento (artt. 11-32) dell’organo.
Le commissioni permanenti sono previste nel numero di cinque e si distinguono in base alla competenza per materia (v. artt. 25-30).[14][15]
Una norma, in particolare, che desta perplessità è quella che fissa il termine di appena quattro giorni prima di ogni seduta del Consiglio di Presidenza, per la distribuzione a tutti i componenti dei “documenti necessari per la trattazione degli argomenti“ (art. 14, comma 5).
Un’ultima considerazione merita il regime di pubblicità delle sedute.
L’art. 20 afferma, in apertura, che le sedute del Consiglio sono pubbliche, introducendo al comma 3 una serie di eccezioni che vanificano la portata della affermazione di principio.
Esse sono le seguenti:
- deliberazione sulla nomina del Presidente della Corte dei conti;
- nomina del Presidente aggiunto, del Procuratore generale, del Procuratore generale aggiunto e del Segretario generale;
- procedimenti disciplinari e sospensioni cautelari dal servizio;
- trasferimenti d’ufficio per ragioni d’incompatibilità ambientale;
- eventuali audizioni di candidati e le relative valutazioni svolte dal Consiglio.
Inoltre, ai sensi del comma 4, si procede in seduta non pubblica su richiesta del Presidente della Corte dei conti (o di chi ne fa le veci), del Procuratore generale o di almeno tre componenti, ma solo “per specificati motivi di riservatezza”.
Ciò fa si che frequentemente numerosi argomenti inseriti all’ordine del giorno delle adunanze del Consiglio di Presidenza siano riservati alla “seduta non pubblica” anche quando non se ne vede la ragione.
La pubblicità delle sedute è esclusa, quindi, in un gran numero di casi che non trovano corrispondenza in quanto previsto per le sedute del CSM dall’art. 27 del Regolamento interno in vigore. La pubblicità, infatti, è esclusa “Quando ricorrono motivi di sicurezza, ovvero quando sulle esigenze di pubblicità prevalgono ragioni di salvaguardia del segreto della indagine penale o di tutela della riservatezza della vita privata del magistrato o di terzi, in particolare nel caso di trattamento di dati sensibili, l’esclusione della pubblicità è adottata in assenza di pubblico […]”.
La maggioranza richiesta per l’approvazione della delibera che esclude la pubblicità, poi, è di due terzi dei voti validamente espressi.
Se anche in questa consiliatura il trend dovesse trovare conferma c’è da aspettarsi che la maggior parte degli argomenti saranno trattati in “seduta non pubblica” e ai più non resterà che affidarsi alle voci di corridoio per conoscere le posizioni emerse nella discussione svoltasi in plenum.
A questo deficit di pubblicità, come è ovvio, non si può rimediare con la consultazione dei verbali, che recheranno degli omissis nella parte “secretata”, in quanto il comma 3 dell’art. 21 riporta: “ Delle sedute non pubbliche il verbale riporta esclusivamente l’indicazione dettagliata delle procedure seguite, la descrizione sintetica e oggettiva degli argomenti discussi, l’elenco nominativo degli interventi e la motivazione collegiale delle deliberazioni adottate. In caso di votazioni mediante appello nominale, il verbale riporta altresì le singole espressioni di volto”.
4.3. Autogoverno tra cambiamento e restaurazione.
Questo breve excursus sui principali caratteri dell’organizzazione interna dell’organo di autogoverno della magistratura contabile era necessario, in quanto credo metta bene in evidenza l’alternativa di fronte al quale si trova oggi il Consiglio di Presidenza nel corso della sua attività: cambiamento vs restaurazione, con quest’ultima espressione intendendosi un ritorno ai metodi del passato, quando la gestione del personale di magistratura era affidata sostanzialmente nelle mani del Presidente della Corte dei conti, di un ristretto Comitato di saggi (il vecchio Consiglio di Presidenza) e del Segretario generale, longa manus del Presidente della Corte.
Quest’ultimo era il modello che si presentava al legislatore nel 1988, all’epoca della riforma del Consiglio di Presidenza, il cui volto fu profondamente innovato, con la introduzione della rappresentanza laica, da un lato, e della rappresentanza elettiva, dall’altro.
Il giudizio del legislatore della riforma non potè, dunque, che essere negativo, se anzichè apportare lievi ritocchi all’organo di autogoverno scelse la strada più impegnativa, ed innovativa, di riformare radicalmente la composizione e le funzioni dello stesso.
E tuttavia, nonostante la chiara opzione legislativa per un autentico modello di organo di autogoverno, riemergono ogni tanto, nella concreta attività del Consiglio di Presidenza, sotto mentite spoglie, i segni di un passato che stenta a morire.
Volgendo lo sguardo al presente è nell’attuale consiliatura che si paventa il pericolo di una restaurazione - più che di un cambiamento - dei vecchi metodi di governo degli affari riguardanti lo status dei magistrati.
Segnali preoccupanti di tale modus procedendi instauratosi nella prassi consiliare, a partire dagli anni 2000, provengono dal massiccio uso nelle nomine ai posti direttivi del potere discrezionale mal motivato, trovando tale prassi l’avallo del giudice amministrativo.
E sebbene il caso limite sia rappresentato dalla ipotesi nella quale il punteggio discrezionale venga espresso in favore di un solo candidato, sì da alterare il funzionamento degli altri concorrenti criteri (anzianità e professionalità), l’esperienza concreta di tutti i Consigli di Presidenza succedutisi nel tempo (non escluso l’attuale) dimostra che accordi tra le correnti, che rappresentano la maggioranza all’interno del Consiglio, possono determinare inammissibili scavalcamenti nel ruolo di anzianità. Non è la prima volta che ciò accade nell’attuale consiliatura, ripresentandosi negli stessi termini la situazione da anni, con l’inevitabile seguito sul piano del contenzioso che ne scaturisce innanzi al giudice amministrativo (TAR e CdS).
È l’anzianità, invece, a ben vedere, la migliore garanzia della professionalità e dell’impegno nell’attività d’istituto dei singoli magistrati, non esistendo allo stato dei sistemi di rilevamento del rendimento in servizio dei magistrati contabili che siano fondati su indici oggettivi.
Al tempo stesso il principio della equa ripartizione degli incarichi, proclamato dall’art. 2, comma 4, del D.p.r. n. 388/95 (ma già dall’art. 13 della legge n. 186/82, reso applicabile alla magistratura contabile in virtù del rinvio contenuto nell’art. 10 della legge n. 117/88) ha fatto un passo indietro : con buona pace del legislatore delegato del 1995, nelle cui intenzioni non rientrava certamente l’attribuzione degli incarichi secondo criteri incontrollabili e latamente discrezionali, in violazione del chiaro disposto dell’art. 2, comma 3, secondo cui i criteri devono essere oggettivi e predeterminati
5. L’assegnazione ai posti di funzione.
La materia è regolamentata dalla deliberazione del Consiglio di Presidenza n. 231/CP/2019 del 5 novembre 2019 (e s.m.i.).
L’assegnazione dei magistrati contabili ai posti di funzione si fonda su un sistema che abbina anzianità a valutazione discrezionale, con una accentuazione della seconda rispetto alla prima, in considerazione del peso riconosciuto, ai fini della graduatoria definitiva, al voto messo a disposizione di ciascun consigliere.
L’art. 6 dispone, infatti, che le domande di assegnazione ai posti di funzione di magistrati con qualifica inferiore a quella di consigliere sono scrutinate sulla base dei seguenti elementi:
“[…] anzianità di servizio: in misura di 1 punto per ogni anno di servizio o frazione di anno superiore a sei mesi, a prescindere dalla qualifica, sino ad un massimo di venti anni e in misura di 0,50 di punto per ogni anno di servizio successivo […]
[…] Valutazione discrezionale: mediante personale attribuzione, con giudizio motivato, per il posto o per ciascuno dei posti da assegnare, da parte di ciascun componente del Consiglio, di un punteggio pari a 0,50. La somma dei punti in tal modo attribuiti viene aggiunta al punteggio conseguito sulla base degli elementi di cui ai precedenti punti.
Il punteggio discrezionale viene attribuito sulla base della professionalità acquisita nelle funzioni da assegnare, nelle assegnazioni aggiuntive svolte e nella partecipazione ai collegi delle Sezioni Riunite in qualità di estensore e di una valutazione di prevalenza della particolare attitudine alle funzioni da assegnare, desumibile dall’insieme delle doti culturali e dalla natura e varietà delle attività svolte e delle funzioni esercitate e degli incarichi ricoperti, le une e gli altri come risultanti dal fascicolo personale d’ufficio, dall’audizione dei candidati, ove prevista nel bando, dal documentato curriculum prodotto dall’interessato, che dovrà contenere tutti gli elementi necessari per le valutazioni del Consiglio ed al quale vengono allegati tre provvedimenti ritenuti significativi dal candidato in ordine alla qualità del lavoro svolto, dalle autorelazioni e dai dati di monitoraggio acquisiti dalla competente Commissione consiliare. La valutazione tiene anche conto dei criteri di
capacità, laboriosità e diligenza fissati nella delibera n. 74/CP/2014 con particolare riferimento all’ultimo quinquennio. […]
Non si discosta molto l’art. 32 relativo alla assegnazione ai posti di funzione di presidente di sezione, secondo cui:
“a) l’anzianità nella qualifica di Presidente di sezione viene computata attribuendo 1 punto per ogni anno e tanti dodicesimi di punto per quanti sono i mesi eccedenti un anno intero;
b) il punteggio discrezionale, da attribuire con giudizio motivato, è stabilito in punti 1,00 per ciascun componente del Consiglio di presidenza. Il punteggio discrezionale viene attribuito sulla base di una valutazione di prevalenza della particolare attitudine alle funzioni da assegnare, desumibile dall’insieme delle doti culturali e dalla natura e varietà delle attività svolte, delle funzioni analoghe esercitate e degli incarichi ricoperti, nonché delle assegnazioni aggiuntive svolte e della partecipazione ai collegi delle Sezioni Riunite in qualità di estensore, le une e gli altri come risultanti dal fascicolo personale d’ufficio, dall’audizione dei candidati, ove prevista nel bando, dal documentato curriculum prodotto dall’interessato, che dovrà contenere tutti gli elementi necessari per le valutazioni del Consiglio ed al quale vengono allegati tre provvedimenti ritenuti significativi dal candidato sulla qualità del lavoro svolto, dalle autorelazioni e dai dati di monitoraggio acquisiti dalla competente Commissione consiliare. La valutazione tiene anche conto dei criteri di capacità, laboriosità e diligenza fissati nella delibera n. 74/CP/2014, con particolare riferimento all’ultimo quinquennio. In particolare, si tiene conto, nell’attribuzione del punteggio discrezionale dei seguenti criteri di giudizio:
b1) capacità organizzative dimostrate nell’esercizio delle funzioni direttive, con particolare rilievo alla validità dei metodi operativi e di gestione degli affari e dei servizi di cui il candidato abbia dato prova nelle precedenti assegnazioni da Presidente di sezione o nell’esercizio di altre funzioni monocratiche e/o direttive;
b2) capacità professionale nelle materie di competenza della Sezione di cui si tratta, acquisita in tutta l’attività di magistrato della Corte dei conti, da accertare mediante valutazione dell’attività svolta nel settore e della completezza dell’esperienza professionale acquisita attraverso la partecipazione in senso ampio alle attività del settore stesso.
Anzi, se si vuole, l’anzianità, che è uno dei criteri previsti per le assegnazioni dei presidenti di sezione, è vieppiù svalutata, in quanto non viene presa in considerazione l’anzianità maturata nelle qualifiche inferiori (referendario, primo referendario, consigliere). Con la promozione alla qualifica di presidente di sezione, infatti, l’anzianità pregressa viene azzerata e, quindi, si ricomincia da capo; di talché il punteggio discrezionale assume importanza determinante ai fini della graduatoria definitiva, in considerazione dei tempi medi di permanenza in tale qualifica, che rappresenta il traguardo finale della carriera di un magistrato contabile.
Come faccia uso il Consiglio di Presidenza della valutazione discrezionale è attestato dal notevole contenzioso innanzi al giudice amministrativo, che inevitabilmente si innesca in occasione degli scavalcamenti nel ruolo di anzianità.
Vi è da dire, peraltro, che il giudice amministrativo non è di manica propriamente larga nell’accoglimento dei ricorsi proposti dai magistrati contabili.
In primo luogo, deve richiamarsi il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui i provvedimenti di nomina dei magistrati in sede di procedura comparativa non necessitano di una motivazione particolarmente estesa, in cui vengono analiticamente raffrontati i curricula professionali dei candidati, dovendo il giudizio di comparazione essere complessivo ed evidenziare i profili di prevalenza presi in considerazione in relazione all’obiettivo funzionale perseguito.[16]
La giurisprudenza amministrativa ha ulteriormente chiarito, a tale riguardo, che risulta sufficiente una motivazione che si limiti essenzialmente a “ rendere ostensibili in positivo i titoli attitudinali del candidato ritenuto prevalente”, mentre la comparazione tra i candidati in competizione ben “ può risolversi in un giudizio complessivo unitario, frutto della valutazione integrata dei requisiti sopra indicati, con la conseguenza che, ove risulti documentalmente la presa in esame, per ciascun candidato, dei tratti essenziali e qualificanti dei rispettivi curricula professionali, nonché la valutazione ponderata degli stessi in rapporto allo specifico oggetto di conferimento, ben può ritenersi adeguatamente soddisfatto l’onere di comparazione”,[17] trincerandosi dietro alla insindacabilità nel merito della valutazione compiuta dal Consiglio di Presidenza.
Peccato che in un recente caso giurisprudenziale, ad essere preferito al ricorrente, che era il più anziano in ruolo, sia stato un magistrato che aveva trascorso un periodo considerevole di oltre nove anni fuori ruolo!
6. L’assegnazione degli affari giudiziari.
Si è sostenuto in dottrina[18] che, con l’entrata in vigore del codice di giustizia contabile,[19]il legislatore ha perso una ulteriore occasione per declinare in ambito processuale il principio di indipendenza.
Soltanto, infatti, la assegnazione dei procedimenti istruttori ai pubblici ministeri contabili deve seguire “criteri oggettivi e predeterminati”, secondo quanto previsto dall’art. 54, primo comma, ma non anche i giudizi di responsabilità, per la cui assegnazione si procede da parte del presidente della sezione giurisdizionale senza dover rispettare alcun criterio oggettivo e predeterminato.
È palese la violazione, in primo luogo, del principio di indipendenza interna del giudice, che risulta strettamente connesso alla garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, la quale viene richiamata ad escludere l’attività discrezionale all’interno della magistratura da parte dei capi degli uffici giudiziari.
Non pare più discutibile dopo la sentenza della Corte costituzionale 17 luglio 1998, n. 272 che la garanzia del giudice naturale precostituito per legge si riferisca anche alla persona fisica del giudice, nel senso che la legge deve prevedere i meccanismi attraverso i quali, all’interno di un medesimo ufficio giudiziario, spetta ad un giudice, anziché ad un altro, pronunciare su una certa controversia.
In questa prospettiva non si può peraltro non sottolineare la centralità e la rilevanza del c.d. sistema tabellare, che riveste un ruolo essenziale per la indipendenza interna del giudice, in quanto costituisce il cardine della struttura organizzativa degli uffici, con la precisazione che le tabelle delineano l’organigramma dell’ufficio, la sua ripartizione in sezioni, l’assegnazione alle stesse dei singoli magistrati ed i criteri di assegnazione degli affari giudiziari.
Sicché non sono più ammissibili criteri equitativi o che dipendano nella loro attuazione dalla discrezionalità del dirigente dell’ufficio giudiziario.
In definitiva, è decisamente tramontata la prassi che consentiva al capo dell’ufficio di assegnare i fascicoli ad personam in base al criterio, peraltro ragionevole secondo l’uomo della strada e presumibilmente onesto, che “quel tal giudice è più bravo”, ovvero “più esperto della materia “, “più solerte, “più equilibrato, “meno carico di lavoro “.
Come è noto, la sentenza n. 272 del 1998 ha dichiarato non fondata “nei sensi in motivazione” la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19.
La sentenza in esame ha espressamente escluso che “ i poteri organizzativi dei capi degli uffici possano essere svolti in modo assolutamente libero o addirittura arbitrario”, affermando, comunque, che “ l'esplicitazione di criteri per l'assegnazione degli affari, in quanto espressivi di un'esigenza costituzionale, che opera in tutti i settori della giurisdizione, possa aver luogo proprio nell'ambito di detti poteri discrezionali, quale manifestazione ed esercizio dei medesimi, senza necessità né di una specifica previsione legislativa né, tantomeno, di un intervento additivo di questa Corte “ e concludendo nel senso che possa “ pervenirsi già ora, nell'ordinamento vigente per la Corte dei conti, alla formulazione di criteri per l’assegnazione degli affari attraverso l'esercizio dei poteri spettanti ai capi degli uffici, secondo modalità che non spetta a questa Corte indicare, se non nel senso che esse siano tali da garantire, comunque, la verifica ex post della loro osservanza”.
Con queste parole termina la motivazione della sentenza, che condivide con quelle di indirizzo o interpretative di rigetto, l’invito a risolvere una situazione di disagio dal punto di vista dell’attuazione dei valori costituzionali, ma l’analogia si ferma qui, in quanto il destinatario dell’invito non è, come avviene sempre, il legislatore, ma la stessa Corte dei conti.
Nel commentare la sentenza n. 272/1998 autorevole dottrina si era chiesta quanto sarebbe durata l’attesa per l’attuazione del principio del giudice naturale precostituito per legge all’interno del processo contabile.
Ebbene, a distanza di oltre un quarto di secolo, il principio del giudice naturale precostituito per legge aspetta ancora di trovare attuazione nel processo contabile.
Ciò che preme rimarcare in questa sede, però, è che l’assenza di criteri oggettivi e predeterminati per l’assegnazione degli affari, a causa di una carenza strutturale del sistema, rende in concreto impossibile la verifica ex post della loro osservanza.
Vi è, infatti, un problema di “effettività” della garanzia del giudice naturale precostituito per legge, intesa come reale possibilità di far valere le eventuali violazioni dei criteri per l’assegnazione degli affari. È del tutto evidente, difatti, che il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge si può ottenere soltanto se un controllo sulla osservanza dei criteri sia possibile, purché a monte vi sia stata la posizione degli stessi criteri in via generale.
D’altronde, nella sentenza n. 419/1998, che viene richiamata dalla Corte costituzionale, non si esclude che “la violazione dei criteri di assegnazione degli affari sia priva di rilievo e che non vi siano, o che non debbano essere prefigurati, appropriati rimedi dei quali le parti possano avvalersi“.
Di nuovo intervenuta, nel 2017, la Corte costituzionale,[20] pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate a distanza di oltre 20 anni dalla prima, avendo rilevato che il giudice a quo sarebbe incorso in un errore nella individuazione della disposizione censurata, come ha evidenziato attenta dottrina, “ ha fatto emergere il problema, esclusivo dell’assetto ordinamentale della giurisdizione contabile, dell’assenza di una base legale, che consenta al Consiglio di Presidenza di fissare criteri oggettivi e predeterminati”,[21] alla luce del nuovo assetto frutto della legge n. 15 del 2009 e, in particolare, della limitazione delle competenze del Consiglio di Presidenza alle sole espressamente previste dalla legge, non potendosi più ritenere che “ il Consiglio di presidenza della Corte dei conti disponga attualmente – come avviene invece per gli organi di autogoverno delle altre magistrature – del potere di dettare i criteri di massima per la ripartizione degli affari e la composizione dei collegi”.[22]
Nulla impedisce, dunque, e anzi pare di leggere tra le righe che questo sia l’auspicio del giudice delle leggi, che la questione di legittimità costituzionale venga rimessa di nuovo alla Corte costituzionale, in presenza di una chiara situazione di inattuazione del dettato costituzionale, piuttosto che aspettare a tempo indefinito l’intervento del legislatore, al fine di realizzare appieno nel processo contabile la garanzia costituzionale del giudice naturale.
Ciò, del resto, consentirebbe di colmare un vulnus divenuto intollerabile se si pone a confronto la disciplina della assegnazione dei giudizi pensionistici, in quanto l’art. 154, comma 4, c.g.c. prevede che i ricorsi sono assegnati dai presidenti delle sezioni giurisdizionali regionali ai giudici unici delle pensioni, secondo criteri oggettivi e predeterminati.
7. Gli incarichi extraistituzionali.
Gli incarichi extraistituzionali, ossia lo svolgimento di attività estranee a quelle proprie del magistrato, possono andare ad incidere sulla sua indipendenza, che può confliggere con la ricerca ed acquisizione da parte dei magistrati di gratificazioni ad personam che provengono da organismi o persone estranee all’amministrazione della giustizia o conseguenti al conferimento di incarichi da esercitare nell’ambito dei poteri esecutivo e legislativo.
La disciplina vigente in materia è in parte legislativa ed in parte di emanazione del Consiglio di Presidenza.
Le regole fissate per gli incarichi extraistituzionali si rinvengono, innanzitutto, nel D.p.r. 27 luglio 1995, n. 388, emanato in attuazione dell’art. 58, comma 3, D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29.
La regola fondamentale sancita dall’art. 2 del D.p.r. n. 388/1995 cit. è che i magistrati della Corte dei conti non possono svolgere incarichi “non compresi nei compiti e nei doveri d’ufficio” se non nei casi espressamente previsti da leggi dello Stato o dal presente regolamento.
Segue, quindi, all’art. 3, l’elenco degli incarichi consentiti e degli incarichi vietati.
Il legislatore, nel formulare tali limitazioni della sfera di esercizio delle libertà personali dei magistrati contabili, ha inteso garantire il buon funzionamento della giustizia, in primo luogo, e a preservare l’indipendenza del magistrato, attraverso un esame di compatibilità che è chiamato a svolgere il Consiglio di Presidenza.
Sulla falsariga del D.p.r. n. 388/1995 cit., si muove la deliberazione del Consiglio di Presidenza n. 115/CP/2021 (e s.m.i.) in materia di attribuzione di incarichi ai magistrati della Corte dei conti, che specifica e sviluppa le previsioni regolamentari. Ad esempio, l’art. 8 della deliberazione è dedicato agli incarichi di insegnamento che, in sede regolamentare, non sono espressamente disciplinati.[23]In materia, peraltro, è sufficiente la presa d’atto dell’organo di autogoverno allorquando l’impegno richiesto sia inferiore a 40 giornate annue non frazionabili o all’importo di 35.000 euro.[24]
Assumono, inoltre, particolare rilevanza le “circostanze ostative” (v. art. 5) alla autorizzazione e al conferimento degli incarichi soprattutto per quanto concerne le incompatibilità funzionali (lett. b) e territoriali (lett. c).
Ma è senza dubbio il settore delle autorizzazioni quello in cui più è a rischio l’indipendenza del magistrato e ciò spiega perché il legislatore delegato richieda che in caso di “ indicazione nominativa dell’amministrazione richiedente “ l’incarico sia attribuito “ in base a motivate ragioni”, escludendo la chiamata nominativa comunque per gli incarichi di presidenza di collegi arbitrali e per gli incarichi in commissioni di concorso, commissioni di disciplina, e similari (v. art. 3, comma 4).
Vi è da dire, peraltro, che l’art. 11, comma 7, L. n. 15/2019 ha attribuito al Presidente della Corte dei conti il potere di autorizzare e revocare gli incarichi extraistituzionali, in luogo del Consiglio di Presidenza, che rilascia soltanto un parere.
8. Il regime disciplinare.
I magistrati contabili sono sanzionabili disciplinarmente sulla base di regole formulate in termini molto vaghi, a differenza dei loro colleghi ordinari, per i quali vale il sistema di tipizzazione delle fattispecie disciplinari, cristallizzate nel D.Lgs 23 febbraio 2006, n. 109.
Ai magistrati contabili si applica, invero, la vecchia disciplina rappresentata dall’art. 18 della legge sulle guarentigie (R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511) in virtù della clausola di salvezza di cui all’art. 30 del D.Lgs. n. 109/2006 cit., secondo cui “Il presente decreto non si applica ai magistrati amministrativi e contabili”.
L’illecito disciplinare dei magistrati contabili, quindi, si presenta come illecito atipico, suscettibile di ricomprendere la miriade di comportamenti idonei a ledere l’immagine ed il prestigio della giustizia, cioè della stessa legittimazione della funzione giudiziaria.
La discrezionalità dell’organo disciplinare nell’applicare una norma a contenuto vago quella rappresentata dall’art. 18 della legge sulle guarentigie può essere una minaccia per l’indipendenza, poiché può essere utilizzata in modo scorretto, al fine, cioè, di sanzionare i magistrati per i loro orientamenti giurisprudenziali non del tutto ortodossi.[25]
Si evidenzia, in particolare, che “la genericità della formula utilizzata finiva, di fatto, per riconoscere un potere interpretativo enorme alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Quali fossero in concreto le fattispecie di illecito disciplinare venivano individuate, di volta in volta, dalla giurisprudenza della sezione, che pure veniva così a determinare una qualche forma di diritto vivente in materia disciplinare”[26]
In un sistema disciplinare così congegnato assumerebbe importanza, dunque, il monitoraggio sui procedimenti e sulle sanzioni disciplinari, utile anche per acquisire informazioni sull’insorgere di aspetti critici del comportamento soprattutto giudiziario che richiederebbero una regolamentazione.[27]
Quanto più i giudici sono consapevoli di quelle regole e ad esse conformano i propri comportamenti, tanto più le regole di etica giudiziaria saranno efficaci e conseguiranno il loro scopo primario che è “essenzialmente promozionale e non punitivo”, in quanto “l’obiettivo principale è quello di prevenire eventi che possano interferire con il corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia”. [28]
Ricerche sviluppate all’estero in ambito giudiziario dimostrano, infatti, che laddove l’applicazione delle regole disciplinari è stata monitorata con continuità, le violazioni sono generalmente involontarie e che tra le cause più frequenti vi sono la “mancanza di conoscenza, la mancanza di attenzione e, non da ultimo, la l’eccesso di fiducia in se stessi”[29]
Di qui l’importanza della formazione di un “archivio disciplinare”, sull’esempio di quello riguardante la Sezione disciplinare del CSM, che contenga le decisioni emesse in sede disciplinare dal Consiglio di Presidenza e le sentenze pronunciate in materia dai TAR e dal Consiglio di Stato.
Soltanto di recente, ma senza che venisse data pubblicità all’interno della categoria, è stata pubblicata una raccolta delle massime relative alle decisioni dell’organo di disciplina, a cura dell’Ufficio studi e documentazione, in attuazione di quanto previsto dall’art. 14, comma 5, della deliberazione del Consiglio di Presidenza n. 3/CP/2021 del 7 gennaio 2021.
Si tratta di una iniziativa che colma un vuoto durato oltre 35 anni anche se le massime pubblicate sono prive di riferimenti temporali, impedendo così la ricerca del testo della motivazione della decisione cui la massima si riferisce.
Per quanto riguarda la natura del procedimento disciplinare, si tratta di un procedimento amministrativo[30], come da ultimo autorevolmente affermato dalla Corte costituzionale, con la sentenza 27 marzo 2009, n. 87, sicché i provvedimenti resi dal Consiglio di Presidenza in sede disciplinare sono atti amministrativi e non giurisdizionali.
La natura amministrativa del procedimento disciplinare non ha, però, impedito al giudice delle leggi di dichiarare incostituzionali le norme[31] che impedivano ai magistrati contabili – estendendo ovviamente gli effetti della incostituzionalità anche ai magistrati amministrativi – di potersi far difendere da un avvocato del libero foro. Importante è, in tal senso, l’affermazione di cui al p. 3 del “Considerato in diritto”: “La garanzia dell’indipendenza del magistrato rileva anche in materia di responsabilità disciplinare, perché la prospettiva dell’irrogazione di una sanzione può condizionare il magistrato nello svolgimento delle funzioni che l’ordinamento gli affida.”
Titolare dell’azione disciplinare è il Procuratore generale, ai sensi dell’art.10, comma 9, L. n. 117/1988 e dell’art. 11, comma 8, L. n. 15/2009, che fa salva la titolarità dell’azione disciplinare.
Il regolamento di disciplina in vigore è stato approvato dal Consiglio di Presidenza con deliberazione n. 3/CP/2021 del 7 gennaio 2021.
L’apertura del procedimento è normalmente preceduta dallo svolgimento di indagini preliminari (art. 1, comma 2). Si tratta della c.d. fase predisciplinare, che non risulta disciplinata in dettaglio dalle norme regolamentari.
È in relazione a tale fase che si pone l’interrogativo se il magistrato attinto dalle richieste istruttorie del Procuratore generale ha il diritto di accedere agli atti aventi rilevanza disciplinare.
In senso positivo si è pronunciato, con riguardo alla analoga problematica riguardante i magistrati ordinari, il Tar Lazio, Sez. I, con sentenza n. 3315 del 10 marzo 2021, che è stata ribaltata in appello dal Consiglio di Stato, con sentenza n. 2593 del 2021, sulla base della considerazione che la procedura predisciplinare rappresenta il presupposto logico e giuridico della eventuale incolpazione, a cui segue un iter di carattere giurisdizionale.
È evidente che tale argomento non può valere per la c.d. fase predisciplinare riguardante i magistrati contabili, tenuto conto della natura amministrativa del relativo procedimento disciplinare.
All’esito delle risultanze dell’istruttoria svolta su fatti o atti venuti a conoscenza, il Procuratore generale, se ritiene che non sussistano elementi rilevanti ai fini disciplinari, procede alla archiviazione c.d. predisciplinare, dandone comunicazione al Presidente che informa il Consiglio, il quale, con deliberazione assunta a maggioranza degli aventi diritto, può chiedere al Procuratore generale il riesame del provvedimento di archiviazione e, per non più di una volta, del nuovo provvedimento di archiviazione (art. 2, commi 1 e 2).
In alternativa, il Procuratore generale, qualora ritenga sussistenti i presupposti dell’illecito disciplinare, procede alla contestazione degli addebiti all’incolpato[32]. È l’atto di incolpazione che determina l’apertura del procedimento disciplinare, che non può essere promosso dopo un anno dal giorno in cui il Procuratore generale ha avuto notizia dei fatti di rilievo disciplinare (art. 2, commi 3 e 4).
La fase istruttoria si svolge innanzi al Consiglio di Presidenza ed è caratterizzata dall’affidamento dei necessari accertamenti istruttori ad una apposita Commissione consiliare, composta da tre membri dei quali uno, con funzioni di presidente, scelto tra quelli designati dal Parlamento. È garantito il diritto di difesa dell’incolpato, che può chiedere l’accesso agli atti del fascicolo disciplinare ed estrarre copia degli stessi, presentare le proprie deduzioni, entro il termine perentorio di 30 giorni, e, sebbene non espressamente previsto, chiedere di essere convocato in audizione (art. 3, commi 1-6).
La Commissione, chiusa l’istruttoria, riferisce al Consiglio nella prima adunanza successiva, proponendo il proscioglimento o il passaggio alla trattazione orale (art. 3, comma 7).
Il proscioglimento è deliberato dal Consiglio di Presidenza, se ritiene che non sussistano i presupposti per l’irrogazione di una sanzione disciplinare (art. 4).
Nella ipotesi inversa, è fissata con decreto del Presidente la data della trattazione orale in seduta pubblica (art. 5).[33]
Suscita perplessità il fatto che la normativa regolamentare non preveda expressis verbis gli esiti della udienza disciplinare, lasciando il compito all’interprete di ricostruire l’iter successivo alla trattazione del caso innanzi al plenum, nel senso del proscioglimento o della condanna, e ancora più disappunto la previsione secondo cui la redazione delle deliberazioni in materia disciplinare sia di competenza dell’Ufficio Studi e documentazione del Consiglio di presidenza e non di quest’ultimo organo (art. 14, comma 3)
Le sanzioni disciplinari (ammonimento, censura, perdita dell’anzianità e rimozione) sono previste nel Regolamento, in linea con il richiamo fatto dall’art. 32 della legge n. 186/1982 (a cui rinvia l’art. 10 della legge n. 117/1988) alle “norme previste per i magistrati ordinari in materia di sanzioni disciplinari e del relativo procedimento”.
[1] G. Urbano, Riflessioni sulla indipendenza del magistrato contabile, in federalismi.it, n. 21/2019, 2.
[2] Si veda, da ultimo, C. cost., 7 ottobre 2016, n.215, secondo cui “ Sia l’art. 100, terzo comma, riferibile ai giudici speciali assentiti dalla Costituzione, Consiglio di Stato e Corte dei conti, che l’art. 108, secondo comma, relativo alle ulteriori forme di giurisdizione diverse da quella ordinaria, sono, infatti, norme “ a fattispecie aperta” giacchè dettano solo il principio generale lasciando al legislatore ordinario il compito di specificare il contenuto effettivo della relativa disciplina”
[3] A. Sandulli, La Corte dei conti nella prospettiva costituzionale, in Dir. e Soc., 1979, 33 e ss.
[4] Neppure coglie nel segno l’osservazione di C. Cassarà, La nomina del vertice della giustizia contabile. Commento all’ordinanza di rimessione n. 194 del 2011, (in federalismi.it, n. 24/2011, 8) secondo cui “ In concreto[…]è l’organo di autogoverno della magistratura contabile che provvede alla designazione del presidente della Corte dei conti avendo riguardo sia all’anzianità che alla valutazione sul merito, quindi al possesso da parte del soggetto prescelto di quei parametri preventivamente stabiliti proprio dall’organo di autogoverno medesimo”, per la semplice ragione che tale prassi può essere cambiata a seconda delle contingenze della politica governativa.
[5] Conserva ancora attualità la domanda che si pone A. Orsi Battaglini (“cosa dovrebbe ritenersi di una ipotetica legge che affidasse al Governo la nomina del primo presidente della Corte di cassazione e di un quarto dei suoi componenti?”) in “Alla Ricerca dello Stato di diritto”, Milano, 2005, 83.
[6] Si fa riferimento a Corte cost., 17 gennaio 1967 n. 1. In senso analogo, Corte cost., 19 dicembre 1973, n. 177 con riguardo alla nomina governativa dei consiglieri di Stato
[7] R. Garofoli, Unicità della giurisdizione e indipendenza del giudice: principi costituzionali ed effettivo sviluppo del sistema giurisdizionale, in Dir.proc.Amm., 1998, 138
[8] Idem.
[9] Così, G. D’Auria, La “nuova” Corte dei conti, in astrid.it, 8
[10] Il presidente aggiunto della Corte dei conti (posto di funzione istituito dal D.L. 24 dicembre 2003, n. 354, convertito nella L. 26 febbraio 2004, n. 45) ha sostituito il presidente di sezione più anziano, ai sensi dell’art. 1, comma 1, D.Lgs. 7 febbraio 2006, n. 62
[11] È cambiato solo il meccanismo di designazione, essendo subentrate le due camere ai Presidenti delle stesse.
[12] C. Guarnieri, La differenziazione degli organi di governo delle magistrature: un fenomeno da non trascurare, in federalismi.it, n. 3/2010, 3
[13] V.Mormando, nel suo intervento intitolato “Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti: organo di autogoverno o organo di amministrazione del personale di magistratura?” al convegno di studi “Giustizia al servizio del paese” (Palermo, 12-13 ottobre 2023) si chiede “come può un organo che possiede il sigillo della rilevanza costituzionale essere de-mansionato al ruolo di organo che amministra”
[14] Corte cost., 13 gennaio 2011, n. 16
[15] Suscita perplessità la denominazione di “referenti” solo della prima e seconda commissione, che hanno le maggiori competenze, rispetto alle altre: Commissione Bilancio, Commissione in materia disciplinare e di incompatibilità ambientale, Commissione per il Regolamento e gli atti normativi, Commissione per il monitoraggio. Le perplessità nascono dal fatto che tutte le Commissioni hanno funzioni “referenti” nei confronti del plenum, nel senso di “riferire” a questo sulle tematiche afferenti alle loro competenze.
[16] Cfr. Tar Lazio, Roma, sez. I, n. 5068/2017; CdS, sez. IV, 3 marzo 2016, n. 875; Id., 6 agosto 2014; Id., 28 maggio 2012, n. 3157; Id., Tar Lazio, Roma, sez. I quater, 3 ottobre 2016, n. 10017)
[17] Cfr. Tar Lazio, sez. I, n. 6599/2088, che richiama Cons. Stato, sez. IV, 16 ottobre 2006, n. 6181 e Id., sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2289.
[18] G. Urbano, op. cit., 4
[19] Approvato con D.Lgs. 26 agosto 20166, n. 174.
[20] Si tratta della sentenza n. 257 del 16 dicembre 2017
[21] P. Villaschi, Il principio del giudice naturale precostituito nella giurisdizione contabile, in gruppodipisa.it
[22] Così Corte cost., sent. n. 257 del 2017 (punto 4.3. del “Considerato in diritto”)
[23] La libertà di insegnamento può essere fatta rifluire, tuttavia, tra “le attività che costituiscono espressione delle libertà e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione” che sono sempre consentite (v. art. 1, comma 1, D.p.r. n. 388/1993.
[24] Osserva L. Busico, Dipendenti pubblici. Incompatibilità e attività extraistituzionali, Milano, 2021, 73, che “sussiste più di un dubbio sulla legittimità di fissare obblighi di comunicazione per attività liberalizzate e sembra coerente con le previsioni della normativa primaria ritenere che la mancata comunicazione, a differenza di quanto espressamente previsto dall’art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165/01 per l’ipotesi di mancata autorizzazione, non possa, comunque, comportare conseguenze sul piano disciplinare”
[25] Secondo Tenore, Sulla necessità di una riforma del regime disciplinare nelle magistrature speciali, in Riv. C. conti, n. 4/2022, 25, “ Occorre difatti una maggiore tipizzazione delle fattispecie disciplinari per prevenire occasionali arbitri degli organi di autogoverno delle magistrature speciali e garantire diritti difensivi basici dell’incolpato (pur lasciando, assai opportunamente, delle clausole aperte o delle formulazioni di più ampio respiro, che consentono un costante adattamento sia all’evoluzione etico-sociale delle multiformi condotte ed alla loro percezione in termini di disvalore, sia alla straordinaria fantasia italica nel commettere illeciti anche attraverso nuove forme comunicative[…]”. In mancanza di dati più precisi sui casi decisi, non è possibile accedere all’opinione dell’A.
[26] Così, R.Romboli, La responsabilità disciplinare del magistrato nel quadro dei principi e dei valori costituzionali”, in “ Il procedimento disciplinare dei magistrati”, Quaderno n. 8, SSM, Roma, 2022, 18
[27] Nella premessa alla prima edizione della Guide to Judicial Conduct of England and Wales del 2004, l’allora Lord Chief Justice, Harry Kenneth Woolf, riconosce il bisogno di una continua attività di monitoraggio
[28] Citazioni tratte dal commento alla regola 1, che individua l’obiettivo del Judicial Conduct and Disability Act for US Federal Judges del 1980
[29] J.S. Cooke, Judicial Ethics Education in the Federal Courts, in The Justice System Journal, n. 3, 200
[30] Ex multis, Cass. civ., SS.UU., 10 aprile 2002, n. 5126
[31] Art. 34, secondo comma, della legge 27 aprile 1982, n. 186 (Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali) e art. 10, comma 9, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), dichiarati incostituzionali nella parte in cui escludono che il magistrato amministrativo o contabile, sottoposto a procedimento disciplinare, possa farsi assistere da un avvocato.
[32] Prima del Regolamento di disciplina n. 14/2013, la contestazione degli addebiti era compito del Consiglio di Presidenza, su richiesta del Procuratore generale.
[33] Deve osservarsi che mentre l’art. 5 del Regolamento di discipline stabilisce la seduta pubblica per la trattazione orale, l’art. 20 del Regolamento interno prevede al comma 3 la esclusione della pubblicità delle sedute che riguardano procedimenti disciplinari e sospensioni cautelari dal servizio (lett. c).