La riforma della giustizia pone la giustizia consensuale, la mediazione, come la novità del nostro tempo. Le nuove linee e le prospettive indicate dal legislatore riguardano sia gli ambiti di applicazione sia la nuova ratio.
Nel suo complesso, apre alla soluzione delle controversie non più solo a partire dal diritto, dall’applicazione della legge, ma anche degli aspetti soggettivi e relazionali che le hanno determinate. In questo senso le riconosce, finalmente, il ruolo che le appartiene in una logica divergente rispetto al decreto n. 28/2010. Eppure cristallizza la mediazione secondo una differenziazione di cui non si riesce a giustificare Il senso. Ci sono norme e regolamentazioni diverse se si tratta di mediazione familiare o di giustizia riparativa in ambito penale o di mediazione civile/commerciale.
In particolare quest’ultima non è stata liberata da asfittiche logiche negoziali ed è stata proceduralizzata a tal punto da limitare la modalità di attuazione. A renderla più rigida e formale e meno flessibile e personalizzata. A farla assomigliare più ad una corazza piuttosto che ad un vestito su misura e seconda della taglia della persona che lo indossa. Fuori da metafora, adattata cioè all’unicità ed originalità di ogni situazione.
Intanto ha ampliato le materie soggette a condizione di procedibilità (mediazione obbligatoria), aggiungendo le controversie in tema di contratti di associazione in partecipazione, contratti di consorzio, contratti di franchising, contratti d'opera, contratti di rete, contratti di somministrazione, contratti di subfornitura, società di persone (art. 5); ha recepito gli approdi delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19596/2020 in riferimento al funzionamento della condizione di procedibilità nel processo di opposizione a decreto ingiuntivo (art. 5 bis); ha autorizzato l'amministratore di condominio ad attivare una procedura di mediazione, aderirvi e parteciparvi, senza dover ottenere una delega/autorizzazione dall'assemblea dei condomini con sottoposizione dell’eventuale bozza di accordo o proposta di conciliazione eventualmente formulata dal mediatore all'approvazione dell'assemblea (art. 5-ter); ha innovato in tema di mediazione demandata dal giudice (art. 5-quater) e in tema di mediazione su clausola contrattuale o statutaria (art. 5-sexies).
Certamente si può ritenere che sia una legislazione ancora in progress e che presenti criticità che attendono di essere sanate.
Di fatto però, a me così piace pensare, fonda il valore riparativo della mediazione in qualsiasi ambito essa venga applicata.
Qui ci soffermeremo sulla rivoluzione culturale che avvia. Infatti, accanto alle questioni procedurali che questo Istituto comporta per i giuristi, perché abbia un senso pieno, deve essere esplorato con attenzione per il cambio di paradigma che pone. Che è nuovo e chiede di mutare la mentalità. Che, definito il disvalore del fatto oggetto della contesa secondo la legge, lo incarna nella realtà dei protagonisti.
Sento per questo necessario e urgente riflettere sul senso profondo su cui si basa. Sono convinta che lo si trovi nell’incontro tra scienze diverse che convergono nel dare punti di vista utili alla costruzione dello statuto epistemologico della mediazione. Indico come privilegiato il pensiero filosofico, quello giuridico, l’antropologia e la sapienza spirituale. Ed è interessante vedere come da presupposti diversi si trovino radici comuni e trasversali che collocano la mediazione in un orizzonte che è interessante ricercare e perseguire. Il pensiero che ne risulta concorda nel presentarla come un volano di cambiamento migliorativo della risposta al bisogno di giustizia della persona. Mi piace citare tra i tanti che sarebbe doveroso ricordare, Salvatore Natoli, filosofo non credente, che riferendosi al Vangelo di Matteo, mette in luce la crucialità della riconciliazione quando scrive che neppure Dio può perdonare se prima non vi sia stato un atto di riconciliazione tra chi ha subito un torto e chi lo ha perpetrato: “se ti ricordi … che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23).; e Pietro Bovati, gesuita biblista, che insegna come la giustizia divina non coincida con la condanna del colpevole, presentando il “non giudizio di Dio nei testi biblici”.
Senza la dovuta attenzione a questi presupposti, la mediazione potrebbe divenire per la società un servizio povero, orientato solo al “fare" e cioè alla ricerca di una chiusura del contenzioso, frettolosa e senza le garanzie processuali. Un istituto solo apparentemente innovativo ma piegato a logiche meramente deflattive, o a motivi di risparmio economico per le spese di giustizia.
In tal caso un procedimento, nato per consentire un confronto libero tra i protagonisti delle vicende conflittuali, condizione che permette quel sostanziale riavvicinamento che un procedimento formalizzato impedisce può ridursi ad una prassi di seconda categoria. Diverrebbe così una opportunità persa.
Parlare di mediazione, qualunque sia il contesto in cui si applica, a mio parere invece significa per ogni cittadino entrare nella storia del contenzioso, vedere le sue radici nel vissuto personale, lambire le responsabilità individuali rispetto alle azioni compiute e agli effetti che hanno generato, sostare nell’umanesimo e, soprattutto, elaborare una cultura del vivere colto e coltivato. Significa ancora far emergere un nuovo modo di intendere la giustizia per superare i contenziosi che la vita di tutti presenta; infatti, un diverso rapporto con il prossimo è l’incipit di ogni possibile relazione, evidenziando ciò che unisce piuttosto che ciò che divide a partire dai pensieri differenti, dalle personali credenze e valutazioni, dal proprio sistema di valori. In questo senso, quindi significa abitare ed incarnare una nuova modalità dell’essere.
L’istituto della mediazione ha origine antichissima dove la parola, che diventa dialogo, prende il posto della violenza, per la costruzione di un percorso comune, non più dettato dall’individualismo. Questo il senso del suo essere giustizia riparativa in senso lato, non solo in ambito penale. È riparativa delle violenze fisiche e morali connesse sempre ad ogni conflitto interpersonale, ad ogni sopruso, ad ogni reato. Indipendentemente dagli ambiti in cui si applica, civile, commerciale, amministrativo, penale, familiare, sociale, scolastico, ecc.
Non ci sono infatti contenziosi dove non interviene, più o meno in modo prevalente, la dimensione dei vissuti personali che ha determinato il groviglio, l’irrigidimento, la fissazione nelle proprie posizioni contrapposte all’altro: considerata non semplice controparte ma un nemico da distruggere. Per questo, sempre, la mediazione deve assumere come suo scopo precipuo la trasformazione delle relazioni che hanno generato il contrasto, mutando in ciascuno dei confliggenti la percezione del punto di vista dell’altro e chiarendo, al contempo, il proprio, precisando gli obiettivi reali e le motivazioni che spingono a trovare vie d’uscita soddisfacenti per tutti. Questo è il vincolo di ogni mediazione se si vuole mantenerne il valore. Se il mediatore sceglie, per non assumersene il peso e l’onere, di piegarla e snaturarla al livello di mero accordo, questo sarà “di carta”, durerà lo spazio di un momento e lascerà tutti insoddisfatti.
Da qui la sfida di un diritto che da “retributivo” diventa anche “riparativo” attraverso la mediazione che fa evolvere e trasforma il contenzioso in un’occasione di riappacificazione e di crescita personale.
La mediazione, intesa secondo il modello umanistico-filosofico, pone davanti ad una grande svolta che, perché davvero diventi efficace, ha bisogno di essere sostenuta e difesa; in particolare prevedendo anche la riformulazione della formazione dei mediatori. E’ necessario infatti che abbiano, oltre che la padronanza della metodologia operativa, soprattutto una formazione di base sul significato umano del conflitto, sul mistero degli eventi della vita, sull’empatia. Queste competenze consentono di riuscire a trasformare i limiti oggettivi della lite in occasioni di crescita e di maturazione. Questo percorso di formazione rende i mediatori capaci di guidare le parti verso la soluzione non solo degli aspetti esteriori, oggettivi, cioè dei motivi per cui si litiga, ma dei motivi soggettivi che sono le vere radici del conflitto.
In questo senso è una rivoluzione culturale coraggiosa. Rischiosa. Giovane e vantaggiosa.
Porta verso una giustizia differente da quella che conosciamo e dispensiamo ma è in linea con il bisogno profondo di giustizia del cittadino: bisogno unanime seppure non uniforme.
Cosa vorrebbe la persona quando in un contenzioso personale si ritiene di vittima di una ingiustizia?
E quando è autore di ingiustizia? Sarebbe opportuno che si rispondesse schiettamente a queste domande.
Ci fermiamo per ora alla prima ipotesi, la più facile. Quando si ritiene di subire un torto quale giustizia si invoca? Quella dei Tribunali? Sembra di no, infatti la società civile spesso così risponde: “in queste evenienze ho bisogno di parlare del conflitto che mi oppone e mi opprime; di capire meglio ciò che mi risulta un inaccettabile sopruso; di un ascolto empatico che mi faccia sentire accolto e sostenuto; ho un legittimo desiderio di trovare qualcuno che mi dia ragione”.
Il tribunale non è il luogo dell’ascolto. Non è in tribunale che la persona che ha subito un trauma può essere aiutata a elaborarlo; non è neppure il luogo dove il colpevole di un reato può vedere quali sono gli effetti sulla vittima di ciò che ha fatto.
Il dono che invece può dare la giustizia consensuale è di guarire le ferite e instaurare il dialogo, di dare alle parti in lite la possibilità di esternare il loro dolore e, dall’altra parte, far sentire responsabili quelli che la giustizia ordinaria si limita a giudicare soccombenti o vincitori. In una parola, una giustizia dove al centro dell’interesse ci siano le persone, con la loro storia e le loro emozioni. Dove le procedure non sono rigide e standardizzate.
In questa accezione la riforma attuale è coraggiosa.
Infatti ciò che non si esprime si imprime e primo o poi esplode senza regole né limiti. Palare del conflitto, che sta dietro e dentro il contenzioso, quindi è già, in qualche modo, curativo e catartico: la via per risolverlo, per trovare la forza di immaginare soluzioni creative, riparative, generative.
Radicali le differenze con le vie giudiziarie. Diverso è il valore attribuito al dissidio. Il danno conseguente non viene visto solo come oggettivo ma prevalentemente come soggettivo.
Non dipende dal tipo di conflitto, così come da fattispecie giuridica, ma dal significato che ha per chi lo vive. Una rapina può essere un evento di poco conto o può cambiare la vita di una persona.
Inoltre il giudizio è rigido, gli accordi di mediazione invece sono plurali flessibili e creativi.
Questo è possibile se l’accompagnamento è di alto profilo professionale, se quindi il mediatore sa curare il percorso che porta all’incontro e al dialogo, cioè oltre il monologo “tra sordi” che caratterizza normalmente il parlare di chi litiga. Se il mediatore sa condurre, senza maschere, ipocrisie e infingimenti alla ricerca delle radici profonde che hanno determinato l’evento.
Per questo deve essere lui stesso persona capace di non giudicare, di non consigliare, di mettersi in gioco senza ruoli né toghe, ma in autenticità e verità, con creatività e stupore verso l’originalità e la diversità del singolo essere umano, degna sempre del massimo rispetto.
Sono queste solo alcune caratteristiche di struttura personale dell’essere mediatore, che devono essere allenate nel percorso di formazione, a cui si aggiungono le successive specializzazioni nell’ambito in cui si opera e le procedure metodologiche.
Certamente non si può pensare di lanciare una forma della giustizia, così radicale come questa, senza considerare che le vicende umane sono sempre complesse. Né si può sostituire, o meglio affiancare, il paradigma giudiziario che conta su figure lungamente preparate, con nuovi professionisti senza che questi abbiano, in altro modo, la stessa sostanza formativa.
Occorre contare su professionisti che devono saper considerare il fatto oggettivo che contrappone i confliggenti come l’espressione finale di un groviglio che sta tutto nella sfera intima, personale, affettiva e relazionale e dargli centralità: infatti tutto ciò che nel processo non si manifesta, potremmo dire non ha diritto di esserci, nella mediazione diventa il centro dell’attenzione.
Questa nuova logica è ancora, e forse lo sarà sempre, un orizzonte di senso mai pienamente compiuto ma a cui avvicinarci nel modo corretto e completo.
Tante le raccomandazioni che sento la responsabilità di segnalare oggi che una nuova partenza richiede la migliore attenzione da parte di tutti: cittadini, accademia, operatori della giustizia.
Vale la pena ribadire che se si è consapevoli che la nuova mediazione è altro da quella che si è avviata in questi anni passati, urge attivare uno studio, non solo statistico ma anche e soprattutto qualitativo e sistemico, per cogliere le criticità che la precedente ha comportato e ad approntare i giusti interventi. Così evitiamo che le attuali prassi si fissino e permangano anche in presenza di un fare di altra natura richiesto dalla Riforma della Giustizia.
L’aver fatto esperienza concreta, come mediatore e come formatore, con modalità riflessiva, da tempo mi ha consentito di superare il diffuso stile enfatico buonista, perdonista, o tantomeno ieratico e consolatorio che troppo spesso viene espresso da chi considera solo la portata ideale di questa nuova linea culturale.
Per questo ritengo che la visione di mediazione ora introdotta richieda un intervento su vari piani, difficile e complesso, in questo senso è rischiosa perché ancora non se ne intravvedono le giuste condizioni, in particolare mi riferisco al debole dibattito sulla formazione della nuova figura professionale.
Ho visto le parti in seduta di mediazione avere comportamenti manipolatori ed in malafede che mi hanno confermato che l’animo umano è fatto anche di egoismi, arrivismi, sopraffazioni, menzogne. Mai ho registrato forme di ravvedimento iniziali, nessuna delle parti ha mostrato di aver avuto l’illuminazione sulla via di Damasco iniziando il percorso di mediazione, di aver dismesso l’atteggiamento, in coscienza o pretestuosamente, conflittuale.
Questo ravvedimento può essere solo frutto di un percorso. Quale avviare? Quello, secondo me, della mediazione profonda. Io lo intravvedo nel modello umanistico-filosofico che ho sperimentato.
In questa modalità, il mediatore non è una figura ingenua con una visione angelicata del mondo e delle relazioni conflittuali, anzi deve ben contemplare che l’essere umano ha zone d’ombra e di luce. Deve sopportare, nel senso di saper tollerare, questo dato di realtà e sostenere le parti a fare lo stesso: a lui spetta il compito di saper valorizzare le zone di luce, cioè le tensioni al benessere, e valorizzarle; così lasciando ai margini quelle di ombra.
Qui sta la nobiltà e la capacità del mediatore che, come un buon chirurgo, non opera un paziente sano ma la sua bravura si vede sapendo intervenire sul paziente malato. Nel nostro caso sui confliggenti, entrambi, pur se in modo diverso, vittime di relazioni compromesse.
Ora noi ci troviamo nel mezzo di un paradosso. Da un lato abbiamo un popolo di mediatori benemeriti che sulla base di buoni propositi e del fascino dell’idealità, pur con scarsi riscontri economici, si sono lanciati in questa sfida. Sono anche temerari perché come dei vigili del fuoco si buttano nel fuoco del conflitto senza spesso avere le tute ignifughe, cioè la giusta preparazione.
Dall’altro abbiamo una legge che dà ampia diffusione a questo istituto, ma non si dedica abbastanza, a mio parere, a creare le condizioni per dare effettività a questa nuova risposta al bisogno di giustizia e almeno le stesse garanzie del processo, pur differenti nella loro natura.
Questa riforma indica una svolta affascinante e improrogabile. Infatti che la persona sia un mistero è vero: non è né facile né possibile conoscerla, relazionarvisi, farla evolvere, aiutarla a rinascere a se stessa. Ma questo non ci autorizza a ridurla solo alle sue azioni, e utilizzare soltanto un diritto che mette al centro i fatti.
Pur col rispetto dovuto al limite umano di non poter infrangere il mistero dell’uomo, deve restare ferma la convinzione che al centro del nuovo modo di rendere giustizia deve essere la persona, che nel vivere reale possa accadere di fare sbagli ma questi non autorizzano nessuno a considerarli definitivi.
Chi ha compiuto un fallo non può essere condannato al fallimento, così come chi è responsabile di un illecito mantiene la sua dignità di persona pur se la sua azione deve con chiarezza e certezza essere definita nel suo disvalore. La persona attende sempre, dopo essere stata vittima delle sue zone d’ombra, di essere aiutata a riscoprire e vitalizzare quelle di luce. Un percorso serio e profondo come la giustizia consensuale e fiduciaria lo può assicurare.
Lo pensiamo tutti davvero? Sarebbe bene scandagliare i pensieri reconditi che abbiamo a riguardo: se pensiamo che nessun cambiamento potrà esserci, allora abbandoniamo perfino l’idea del valore rieducativo della pena, valore spesso disatteso nelle prassi e pura dichiarazione di intenti.
Se siamo fermamente convinti dell’antropologia che si fonda sulla fiducia nell’essere umano e nella possibilità sempre e comunque di un cambiamento, allora possiamo intraprendere la via della mediazione, perfino con una visione unitaria delle prassi nei vari tipi di contenzioso, senza perfino graduatorie di peso e valore.
Tutti i professionisti titolati potrebbero quindi, potenzialmente ed in linea di principio, condurre sia mediazioni penali che civili, familiari, sociali, scolastiche.
In questa logica la giustizia consensuale non è altra giustizia dalla riparativa: sono differenti solo apparentemente, nominalmente.
(Immagine: Il Giudizio di Salomone, olio su tela, secolo XVII, Galleria Borghese, Roma)