Nel caso Italgomme pneumatici s.r.l. e altri contro Italia, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha evidenziato che in tema di accesso, ispezioni e verifiche fiscali il quadro normativo interno viola l’articolo 8 della CEDU, avendo conferito alle autorità nazionali un margine di discrezionalità illimitato, senza fornire, di contro, adeguate garanzie procedurali, giurisdizionali o giustiziali al contribuente.
La sentenza è dirompente non solo per i principi espressi, ma per le modalità in cui questi sono resi. Spogliandosi della veste di giudice delle controversie individuali, la Corte di Strasburgo esprime un chiaro monito al legislatore nazionale, indicando la strada da perseguire nella riformulazione della legge. Si tenterà di evidenziare che, in attesa di una idonea novella legislativa, il rimedio può essere fornito sin da subito in sede giurisdizionale, interpretando la normativa vigente in chiave convenzionalmente orientata.
Sommario: 1. Premessa – 2. L’articolo 8 della Convenzione EDU e l’interpretazione della Corte di Strasburgo – 3. Il monito della Corte Edu al legislatore italiano e gli strumenti a disposizione del giudice nazionale.
1. Premessa
Con la sentenza Italgomme pneumatici s.r.l. e altri contro Italia la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha evidenziato la contrarietà all’articolo 8 della CEDU dell’intero impianto di disciplina degli accessi, ispezioni e verifiche fiscali previsto dalla disciplina interna.
Muovendo dalla nozione di diritto rilevante sul piano convenzionale, da intendersi in senso sostanziale non solo quale legge in senso formale, ma comprensiva degli atti normativi di rango inferiore, degli atti interpretativi e della relativa giurisprudenza, la Corte di Strasburgo evidenzia che in tema di verifiche fiscali eseguite nei locali destinati ad attività commerciale né la legge in senso formale, né la prassi amministrativa né tanto meno l’interpretazione giurisprudenziale sono state in grado di individuare chiaramente i limiti al potere intrusivo attribuito all’autorità pubblica.
Ne risulta un rapporto totalmente asimmetrico, in cui il contribuente attinto da una verifica fiscale appare propriamente in balia di un potere autoritativo discrezionale e illimitato, privo di strumenti idonei a garantirgli un’adeguata tutela, né in fase procedimentale, né in fase successiva.
Il contesto normativo relativo agli aspetti procedurali dell’attività di controllo ai fini dell’Imposta del valore aggiunto e delle Imposte dirette è costruito dal combinato disposto degli articoli 33 del D.P.R. 600/1973 e 52 del D.P.R. 633/72.
L’articolo 33 del D.P.R. 600/73 prevede i controlli ai fini delle imposte dirette con espresso rinvio all’articolo 52 del D.P.R. 633/72 che regolamenta gli aspetti procedurali per l’esecuzione di accessi, ispezioni e verifiche ai fini dell’imposta del valore aggiunto, così disciplinando i poteri degli uffici.
Rubricata “Accessi, ispezioni e verifiche”, la norma prevede che gli uffici possono disporre l’accesso di impiegati dell’Amministrazione finanziaria per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni, ricerche e ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e la repressione dell’evasione.
Nel dettaglio, è previsto che “Gli uffici possono disporre l'accesso di impiegati dell'Amministrazione finanziaria nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, nonché in quelli utilizzati dagli enti non commerciali e da quelli che godono dei benefici di cui al decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l'accertamento dell'imposta e per la repressione dell'evasione e delle altre violazioni. Gli impiegati che eseguono l'accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell'ufficio da cui dipendono. Tuttavia, per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione è necessaria anche l'autorizzazione del procuratore della Repubblica. In ogni caso, l'accesso nei locali destinati all'esercizio di arti e professioni dovrà essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato.
L'accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma può essere eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni.
È in ogni caso necessaria l'autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell'autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l'accesso a perquisizioni personali e all'apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l'esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all'articolo 103 del codice di procedura penale”.
Le disposizioni richiamate sono da leggere in combinato disposto con l’articolo 12 della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (d’ora in avanti “Statuto del Contribuente”) che, significativamente rubricato “diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali”, al primo periodo del primo comma dispone che “tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo”.
Il comma 2 dello stesso articolo 12, per quanto qui di interesse, prosegue statuendo che “quando viene iniziata la verifica, il contribuente ha diritto informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda”.
Se allora è vero che l’articolo 52 del D.P.R. 633/72 pare distinguere l’accesso ai locali adibiti (esclusivamente o anche) ad abitazione privata rispetto ai locali adibiti alle attività commerciali genericamente intese, richiedendo solo nel primo caso che alla necessaria autorizzazione del capo ufficio si aggiunga l’autorizzazione del procuratore della Repubblica, è pur vero che i diritti e le garanzie del contribuente vanno individuate altrove.
L’articolo 12 dello Statuto del contribuente non distingue le attività ispettive in base al luogo in cui si realizza l’accesso, richiedendo, al comma 1, in ogni caso che le attività ispettive siano “effettuate sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo” e delineando, al comma 2, il diritto del contribuente ad essere ad essere informato, ad inizio dell’attività di verifica, delle ragioni che abbiano giustificato la verifica e dell’oggetto della stessa.
È evidente che il diritto ad essere informati delle ragioni che giustificano l’attività di verifica, anche in relazione al comma 1 dell’articolo 12, richiede che tali ragioni siano espresse e portate a conoscenza del contribuente, in conformità con la ratio della disposizione normativa che è prevista a tutela di quest’ultimo.
In assenza di una espressa sanzione prevista per la violazione del dovere di cui sopra, puntum dolens è stato comprendere la valenza delle prescrizioni contenute nello Statuto e quali siano gli effetti della eventuale inosservanza degli obblighi previsti a carico dell’amministrazione finanziaria.
In questo senso, sembra che le garanzie e i diritti riconosciuti all’articolo 12 dello Statuto non abbiano trovato adeguata declinazione nei chiarimenti interpretativi, né in sede di documenti di prassi, né in sede giurisprudenziale.
Dalla apparente minor tutela riconosciuta all’articolo 52 all’accesso in locali commerciali, rispetto all’accesso ai locali adibiti al domicilio si è fatta erroneamente discendere una minore tutela anche in punto di garanzie e diritti del contribuente attinto dalle misure.
La giurisprudenza nazionale[1] ha affermato che non è necessario motivare l’autorizzazione che consenta l’accesso ai locali commerciali e ai locali adibiti ad attività professionali che non siano residenze private, ritenendo l’autorizzazione “mero requisito procedurale”, mentre si è ritenuta necessaria la motivazione dell’autorizzazione rilasciata dal pubblico ministero per l’accesso alle abitazioni private.
La Corte di Cassazione[2] ha inoltre affermato che gli agenti della Guardia di Finanza, in qualità di appartenenti alle forze dell’ordine, avevano facoltà di accedere ai locali commerciali e ai locali adibiti ad attività professionale senza autorizzazione scritta.
Si è così delineato un doppio statuto delle garanzie del contribuente, orientato dalla natura del locale adibito all’accesso, già evidentemente in contrasto con l’articolo 12 dello Statuto.
In queste considerazioni si pone in senso dirompente la sentenza Italgomme pneumatici s.r.l. e altri contro Italia, del 6 febbraio 2025, con cui la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha nettamente tracciato la strada da seguire non solo al legislatore, ma anche all’autorità amministrativa e ai giudici nazionali.
2. L’articolo 8 della Convenzione EDU e l’interpretazione della Corte di Strasburgo
Ai sensi dell’articolo 8 della CEDU “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”.
Il paragrafo 2 dello stesso articolo chiarisce che “non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha precisato che “sebbene l’articolo 8 della Convenzione non contenga requisiti procedurali espliciti, il processo decisionale che conduce alle misure di ingerenza deve essere equo e tale da rispettare gli interessi tutelati al singolo dall'articolo 8 (v. M.S. v. Ucraina, n. 2091/13, § 70, 11 luglio 2017, e Veres v. Spagna, n. 57906/18, § 53, 8 novembre 2022).
La premessa da cui muove la sentenza della Corte di Strasburgo è la conferma del principio già espresso in casi precedenti secondo cui anche in caso di perquisizione di locali commerciali vi è un'interferenza con "il diritto al rispetto del domicilio" e alla "corrispondenza" (cfr. Bernh Larsen Holding AS e altri c. Norvegia, n. 24117/08, § 105, 14 marzo 2013 e ulteriori riferimenti ivi contenuti).
In sintesi, ai sensi dell’articolo 8 CEDU non vi è alcuna distinzione in punto di “domicilio” del contribuente tra abitazione o sede dell’attività lavorativa[3].
Più chiaramente, è ribadito che l’articolo 8 deve essere interpretato nel senso che include il diritto al rispetto della sede legale, delle succursali o di altri locali commerciali di una società, nonché il diritto al rispetto dei locali adibiti all'attività professionale.
Muovendo da questi presupposti i giudici di Strasburgo si occupano di valutare se, nel caso sottoposto, l’ingerenza nel domicilio (inteso come sopra) trovi fondamento in una legge, come richiesto dal paragrafo 2 dell’articolo 8.
Al tal fine, è ribadito il principio ormai consolidato per cui la conformità a legge è rispettata ove vi sia una base legale nel diritto interno che sia accessibile all’interessato e le cui conseguenze derivanti dalla violazione siano prevedibili[4].
La legge è da intendersi, come detto, in senso sostanziale, comprensiva non solo della legge formale (i.e. legge scritta), ma anche degli gli atti normativi di rango inferiore e della relativa giurisprudenza.
Pertanto, nel valutare la liceità dell’ingerenza e, in particolare, la prevedibilità del diritto interno, si tiene conto sia del testo della legge sia del modo in cui esso è applicato e interpretato dalle autorità nazionali.
Per rispettare l’accessibilità, la prevedibilità e la prevenibilità, la Corte Edu chiarisce che è necessario che la norma interna offra una protezione giuridica contro le interferenze arbitrarie delle autorità pubbliche con i diritti garantiti dalla Convenzione. A tal fine, la legge deve indicare con sufficiente chiarezza la portata di tale potere discrezionale conferito alle autorità competenti e le modalità del suo esercizio.
Significativamente, si afferma che, sebbene gli Stati possano ritenere necessario ricorrere a tali misure al fine di ottenere prove pertinenti, i poteri relativamente ampi nelle fasi iniziali dei procedimenti fiscali non possono essere interpretati nel senso di conferire all'amministrazione finanziaria un potere discrezionale illimitato.
È necessario che il diritto interno offra garanzie procedurali idonee a proteggere i soggetti passivi delle verifiche fiscali da qualsiasi abuso o arbitrarietà, anche considerando se eventuali carenze procedimentali possano essere compensate da altri strumenti idonei, ex post, a garantire adeguata tutela.
Tirando le fila, muovendo dalla nozione di domicilio inteso in senso ampio, comprensivo dei locali commerciali, la Corte Edu evidenzia che, affinché sia rispettato il paragrafo 2 dell’articolo 8 della Convenzione, è necessario che la norma interna sia in grado di delimitare il potere di ingerenza conferito all’Amministrazione offrendo idonei strumenti di garanzia in fase procedimentale (i.e. ex ante) o comunque in sede giurisdizionale (i.e. ex post), dovendosi ritenere violativo dell’articolo 8 CEDU il conferimento di un potere discrezionale e illimitato.
Tanto chiarito, la Corte di Strasburgo esamina la compatibilità del diritto interno sia con riguardo alla presenza di garanzie in fase procedimentale, sia con riguardo alla presenza di eventuali strumenti di garanzia successivi.
Individuata la base legale nel diritto interno, quanto alla fase procedimentale la Corte ritiene che la base giuridica nel diritto interno non sia idonea a delimitare la portata del potere discrezionale conferito alle autorità nazionali.
Considerata la legge in senso sostanziale, la Corte Europea dei diritti dell’uomo evidenzia, infatti, che le disposizioni nazionali, anche integrate dagli orientamenti amministrativi pertinenti, non impongono alle autorità di giustificare l'esercizio dei loro poteri.
In tal senso, ai sensi dell'articolo 35 della legge n. 4/1929, gli agenti e gli agenti della Guardia di Finanza sono autorizzati ad accedere "in qualsiasi momento" ai locali adibiti a scopi commerciali e industriali per lo svolgimento di "verifiche" e "indagini" al loro interno. Lo stesso potere è attribuito ai funzionari dell'Agenzia delle Entrate dagli articoli 51 e 52 del decreto n. 633/1972, in modo che possano "accedere [ai locali]" ed effettuare "ispezioni". Ai sensi di queste ultime disposizioni, l'autorizzazione all'amministrazione finanziaria per l'accesso ai locali commerciali e commerciali può essere rilasciata ai fini di "un accertamento fiscale e per combattere l'evasione fiscale e altre violazioni fiscali".
Tra i documenti di indirizzo finalizzati a finalità di politica fiscale pubblicati dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, il comma 2 degli Orientamenti 2016-2018, del 22 dicembre 2015, prevedeva che, nell'ambito delle attività volte a contrastare l'evasione e l'elusione fiscali, l'amministrazione finanziaria dovesse "ridurre i controlli intrusivi" attraverso "l'ulteriore sviluppo dell'analisi dei rischi rilevanti", anche attraverso l'utilizzo di strumenti automatizzati, quali le banche dati.
La lettera f) dei criteri generali degli orientamenti 2018-2020, del 5 dicembre 2017, fissava il seguente obiettivo: l'ulteriore implementazione di sistemi informatizzati e automatizzati che migliorassero l'efficacia dei controlli attraverso l'uso efficiente di banche dati la cui capacità di funzionare efficacemente con altri sistemi sarebbe migliorata.
Nondimeno, la Corte rileva che non è possibile alcun controllo sulla base dei soli criteri di selezione sopra menzionati e in assenza di informazioni pubbliche trasparenti su quali locali commerciali sono ispezionati nel tempo e quali no, e non si può escludere la possibilità che gli agenti fiscali esercitino un margine di discrezionalità illimitato dietro l'apparente rispetto di tali criteri.
Nello stesso senso, come sopra anticipato, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione non è necessario motivare l'autorizzazione rilasciata da un responsabile dell'Agenzia delle Entrate o da un pubblico ministero che consenta l'accesso ai locali commerciali e ai locali adibiti ad attività professionali che non siano residenze private, in quanto le disposizioni di legge in materia non richiedono condizioni specifiche per il rilascio di tale autorizzazione, e pertanto l'autorizzazione è un "mero requisito procedurale".
Inoltre, nei casi di cui sopra, se l'autorizzazione è illegittima per motivi formali o sostanziali, si è ritenuto che ciò non pregiudichi la validità dell'avviso di accertamento definitivo o l'utilizzo di documenti e prove acquisiti con i provvedimenti impugnati con il consenso del contribuente (cfr. Corte di cassazione, sentenze n. 8344 del 19 giugno 2001, n. 27149 del 16 dicembre 2011, n. 4066 del 27 febbraio 2015 e n. 8547 del 29 aprile 2016).
Tirando le fila, né la legge formale di disciplina delle misure, né i documenti di prassi amministrativa, né le sentenze della Corte di Cassazione (i.e. legge in senso sostanziale) appaiono idonee ad offrire al contribuente sufficienti strumenti di garanzia in sede procedimentale. In tal senso, la Corte ritiene che la base giuridica delle misure impugnate non sia in grado di delimitare in modo sufficiente l'ambito di discrezionalità conferito alle autorità nazionali e, di conseguenza, non soddisfi il requisito di "qualità del diritto" di cui all'articolo 8 della Convenzione.
Così concluso, la Corte di Strasburgo si preoccupa poi di verificare se ex post vi siano strumenti idonei a colmare il deficit di tutela evidenziato in fase procedimentale.
Quanto alla possibilità del contribuente di agire con reclamo al tribunale tributario, ai sensi dell'articolo 19, comma 2 del D.Lgs. n. 546/1992, le autorizzazioni di accesso non sono atti autonomamente impugnabili dinanzi al giudice tributario.
La giurisprudenza interna, ritenendo l’autorizzazione atto endoprocedimentale non autonomamente impugnabile, ha ritenuto che ove le verifiche sfocino in un avviso di accertamento, il contribuente sia legittimato a contestare anche l’autorizzazione, unitamente all’avviso.
Nondimeno, la Corte di Strasburgo considera tale possibilità inidonea ad offrire un adeguato strumento di controllo dell’autorizzazione in sede giurisdizionale, tenuto conto che per la giurisprudenza interna la liceità dell'autorizzazione non pregiudica la validità dell'avviso di accertamento definitivo né la possibilità di utilizzare come prova e l’impossibilità di ritenere il rimedio della doppia impugnazione sufficientemente tempestivo.
Quanto alla prospettazione di un ricorso dinanzi ai giudici civili, secondo la Corte Edu l’affermazione giurisprudenziale per cui il contribuente, in assenza di un avviso di accertamento, possa ricorrere dinanzi al giudice civile, competente in materia di accesso illecito, è astratta e di difficile attuazione considerando che, in assenza di disposizioni che richiedano espressamente una condizione o motivazione prima dell'attuazione delle misure impugnate, il giudice civile difficilmente potrebbe esercitare un controllo significativo di tali misure.
Infine, quanto allo strumento del reclamo al Garante del Contribuente, ai sensi dell'articolo 13 della Legge n. 212/2000 la Corte rileva che tale autorità non emette decisioni vincolanti, ma semplici raccomandazioni all'amministrazione tributaria non idonee, quindi, ad essere considerate un rimedio effettivo ai fini delle garanzie contro l'arbitrarietà richieste dall'articolo 8 della Convenzione.
Tirando le fila, non si rivengono idonei strumenti di garanzia del contribuente, capaci di evitare un potere arbitrario e illimitato dell’autorità amministrativa, né in sede procedimentale né in sede giurisdizionale o comunque ex post.
3. Il monito della Corte Edu al legislatore italiano e gli strumenti a disposizione del giudice nazionale
A questo punto, la Corte Europea dei diritti dell’uomo sembra abbandonare la propria natura di giudice delle petizioni individuali spingendosi di fatto - contrariamente a quanto da essa stessa affermato al paragrafo 102 della sentenza in esame[5] - a valutare la compatibilità della disciplina normativa interna con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, fornendo indicazioni al legislatore italiano.
La Corte ritiene fondamentale che lo Stato convenuto adotti le misure generali appropriate al fine di allineare la sua legislazione e la sua prassi alle conclusioni tutte sopra esposte.
La sentenza individua le questioni che dovranno essere chiaramente disciplinate nel quadro giuridico interno.
Preliminarmente, si evidenzia la bontà degli articoli 12 e 13 della legge n. 212/2000, considerati idonei a garantire la maggior parte delle misure necessarie.
Ancora, sul piano delle legge intesa in senso sostanziale, la Corte ritiene che, anche mediante indicazioni di prassi amministrativa, la normativa dovrebbe indicare chiaramente le circostanze e le condizioni in cui le autorità nazionali sono autorizzate ad accedere ai locali e a effettuare verifiche in loco e controlli fiscali sui locali commerciali e sui locali adibiti ad attività professionali, pur tenendo conto che, nell'ambito fiscale, considerazioni di efficienza potrebbero giustificare poteri relativamente ampi nelle fasi iniziali dei procedimenti tributari.
A detta della Corte di Strasburgo, la normativa interna dovrebbe imporre alle autorità nazionali l'obbligo di fornire una motivazione e di giustificare di conseguenza la misura in questione alla luce di tali criteri, dovendosi stabilire garanzie per evitare l'accesso indiscriminato o almeno la conservazione e l'uso di documenti e oggetti non connessi con l'obiettivo della misura in questione, fatto salvo l'esercizio del potere delle autorità di avviare procedimenti amministrativi separati o, se del caso, procedimenti penali.
In secondo luogo, il quadro giuridico interno dovrebbe garantire un controllo giurisdizionale effettivo, considerando l’attività di verifica immediatamente lesiva. In sintesi, è necessario garantire al contribuente che ritenga il controllo non conforme a legge uno strumento idoneo di tutela intermedio, da utilizzare prima che il controllo sia realizzato.
Il monito al legislatore italiano reso dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, seppur non usuale, si ritiene possa avere ricadute rilevanti ed immediate nell’ordinamento interno, anche sui giudizi in corso.
Lo scollamento dalla posizione individuale delle parti attribuisce alla decisione sicuramente un’ampia portata, le cui conclusioni sono di fatto comunque già supportate dall’articolo 12 dello Statuto del contribuente che, al primo comma, richiede che tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine che, evidentemente, devono risultare espresse nell’atto che le autorizza.
In tal senso, un’autorizzazione priva di adeguata motivazione appare già in violazione di legge, in quanto contraria all’articolo 12 citato.
È allora il caso di evidenziare che, in sede di recente riforma fiscale, il legislatore delegato ha introdotto nello Statuo del contribuente l’articolo 7-quinquies che, riprendendo il divieto d’uso delle acquisizioni probatorie effettuate senza il rispetto delle previsioni normati, già noto al processo penale (il riferimento è all’articolo 191 c.p.p. di discussa applicazione al procedimento tributario), per quanto qui di interesse, precisa che non sono utilizzabili ai fini dell'accertamento amministrativo o giudiziale del tributo gli elementi di prova acquisiti in violazione di legge.
A rafforzamento della rilevanza della novella, si evidenzia che la volontà del legislatore è ancor più chiara ad un confronto con il citato articolo 191 c.p.p. secondo cui “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”. Se la norma processual-penalistica statuisce l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazioni di divieti normativi, l’articolo 7-quinquies dello Statuto del contribuente, in conformità alla ratio dello Statuto stesso, ha invece previsto un rimedio generalizzato, applicabile a tutte le acquisizioni probatorie realizzate in violazione di una legge.
Per tutto quanto evidenziato, nell’attesa di un intervento legislativo risolutore, è auspicabile che la giurisprudenza sin da ora, prendendo atto del monito della Corte di Strasburgo, provveda ad interpretare le norme interne appena richiamate in senso conforme alla Convenzione.
[1] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 16424 del 21 novembre 2002; cfr. anche Corte di Cassazione, sentenze n. 26829 del 18 dicembre 2014, e n. 28563 del 6 novembre 2019.
[2] Corte di Cassazione, sentenze n. 16017 dell'8 luglio 2009, 10137 del 28 aprile 2010, 17525 e 17526 del 28 giugno 2019.
[3] G. Melis, “Manuale di diritto tributario”, Giappichelli, 2024, pag. 333
[4] Cfr. De Tommaso v. Italia [CG], n. 43395/09, § 107, 23 febbraio 2017
[5] Testualmente “102. La Corte ribadisce che, nei casi derivanti da petizioni individuali, il suo compito non è solitamente quello di riesaminare la legislazione pertinente o una pratica contestata in astratto. Al contrario, essa deve limitarsi, per quanto possibile, senza perdere di vista il contesto generale, ad esaminare le questioni sollevate dalla controversia di cui è investito (v. Naumenko e SIA Rix Shipping, sopra citata, § 57). Pertanto, in questo caso, il compito della Corte non è quello di controllare, in abstracto, la compatibilità con la Convenzione della normativa nazionale che disciplina l'accesso ai locali commerciali e commerciali e i locali adibiti ad attività professionali e il loro controllo nella versione vigente all'epoca dei fatti, ma per determinare, in concreto, l'effetto dell'ingerenza nei diritti dei richiedenti ai sensi dell'articolo 8 della convenzione.”
La decisione commentata si può consultare qui.