ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Requisitoria di Federico Sorrentino Procuratore generale - Udienza Sezioni Unite del 15 gennaio 2019
Intervista di Enrico De Santis a Elisabetta Pierazzi
Cosa si deve aspettare chi ha deciso di partecipare al concorso in Magistratura? Domande e risposte tra chi è nel pieno dello studio e chi il concorso lo ha fatto due volte, da candidata e da componente della Commissione di esame.
1. Dott.ssa Pierazzi, lei è stata componente della Commissione d'esame del Concorso in Magistratura nel 2010: sulla base della sua pregressa esperienza, quali sono stati i criteri che hanno guidato voi commissari nella scelta delle tracce?
Prima di pensare a delle tracce abbiamo ragionato insieme per capire quale fosse il nostro obiettivo. Certamente avevamo la necessità di individuare argomenti che ci aiutassero a "fare una selezione" tra i candidati, dato che gli iscritti erano circa 6000, ma volevamo anche che si trattasse di tracce che ci consentissero di valutare la conoscenza degli istituti e la capacità di ragionare in un'ottica ordinamentale complessiva. Abbiamo anche deciso di escludere gli argomenti sui quali i commissari avevano scritto di recente, per evitare tracce eccessivamente prevedibili e premiare un approccio “furbo” all’esame.
Ci siamo dati questi criteri di massima, e poi ognuno ha indicato, anonimamente, una traccia, in competa libertà. Tra queste sono state votate le tre per ciascuna materia tra le quali, come per legge, è stata pubblicamente estratta quella sottoposta ai candidati.
2. Scorrendo sul sito del Ministero della Giustizia l’elenco delle tracce assegnate, le commissioni di concorso sembrano orientate, almeno negli ultimi anni, nel prediligere temi di stretta attualità giurisprudenziale. Nell’ultimo concorso - forse anche a seguito delle note polemiche sui corsi privati di preparazione al concorso - sono state formulate tracce di diverso respiro, quasi dottrinale. L’esito del primo approccio potrebbe essere quello di premiare una conoscenza, e quindi una preparazione, molto puntuale e casistica. L’esito del secondo potrebbe essere invece l’opposto, oltre a favorire un’estensione della discrezionalità delle commissioni in sede di valutazione. Quale è la sua opinione a riguardo?
Credo che si debba partire dalla consapevolezza che il concorso in magistratura non mira a selezionare teorici del diritto ma operatori pratici, sostenuti da una solida preparazione teorica, che devono avere una conoscenza e prima ancora un sincero interesse per i casi concreti e le ricadute che le scelte giurisprudenziali hanno nel mondo reale.
Come in parte ho detto rispondendo alla prima domanda, l'esigenza di selezionare non indicando tracce eccessivamente generaliste, con questi numeri, c'è; ma c'è anche l'esigenza di allontanarsi dal modello di conoscenza prevalentemente teorica dell'Università e delle scuole di specializzazione, premiando anche, indubbiamente, uno studio meno scolastico e più critico e l'approfondimento sui temi più attuali.
Per quanto mi riguarda credo che la scelta delle tracce debba sempre tenere insieme questi due aspetti.
3. E’ di certo importante scrivere un elaborato concorsuale che sia di qualità nei contenuti, tuttavia quanto rilievo viene dato alla forma dell'elaborato in sede di correzione? E quali sono gli elementi che la commissione tende ad apprezzare?
Può sembrare scontato, ma la correttezza della forma è il primo requisito, anzi il prerequisito per la valutazione di sufficienza di un elaborato. Purtroppo durante la correzione ci siamo imbattuti in errori grammaticali e sintattici che francamente non ci aspettavamo da candidati di un concorso di secondo grado. Data per presupposta comunque la necessità della mancanza di carenze di questo tipo, la chiarezza della forma e la capacità di organizzare un discorso strutturato per punti logicamente interconnessi è certamente apprezzata.
Quanto agli stili individuali, ognuno ha il suo e questo non è certamente un problema; per conto mio, mi sento di sconsigliare il ricorso al "latinorum", che tra l'altro è spesso fonte di tremendi scivoloni... difficili da dimenticare.
4. Quale peso viene dato alla conoscenza delle opinioni dottrinali e le pronunce giurisprudenziali più recenti?
E' un elemento che può fare la differenza in termini di voto, ma solo se dalla lettura della traccia emerge anche una solida conoscenza e direi confidenza con gli istituti di base. Se, viceversa, le pronunce non sono citate, ma il candidato dimostra di sapere sviluppare un ragionamento coerente per rispondere alle questioni poste dalla traccia, non sarà l'assenza di queste citazioni a rendere l'elaborato insufficiente.
5. Il concorso si compone anche di una prova orale nella quale è richiesta la conoscenza di diverse e numerose materie. Qual è, secondo lei, un buon modo di prepararsi al meglio al colloquio orale? C'è un approccio valutativo diverso tra prove scritte ed orali di cui bisogna tenere conto?
Tutti i magistrati che compongono le commissioni di concorso ricordano come fosse ieri il loro esame orale... quindi l'approccio è generalmente rassicurante, perché mettere a proprio agio il candidato è il primo passo per il buon esito dell'esame. Le materie sono veramente moltissime; anche in questo caso, non ci sono trucchi. La preparazione non si improvvisa, occorre uno studio costante che renda possibile studiare e ripassare in contemporanea le materie affrontate da più tempo. Tieni conto comunque che la maggiore selezione è fatta agli scritti, quindi la prova va affrontata con serietà ma anche con fiducia: la capacità di non perdersi d'animo se non si conosce la risposta alla domanda fatta dal commissario, e proseguire l'esame senza andare nel pallone è un elemento valutato molto positivamente. Diciamo che è un buon test predittivo della tenuta di fronte alle molte situazioni stressanti che ci si troverà ad affrontare nel lavoro!
6. Quale consiglio si sente di dare a tutti coloro che si stanno preparando per il concorso appena bandito?
Non so se è un consiglio, ma certamente è una informazione importante: la preparazione al concorso in magistratura è una maratona, e non una gara di velocità! E' normale che ci siano momenti di stanchezza e di scoraggiamento, che ognuno supera a suo modo, ad esempio studiando o ripetendo in gruppo o in coppia, o concedendosi un piccolo stacco, ma l’unico consiglio che mi sento di dare è di non mollare perché il nostro è un lavoro bellissimo per il quale vale la pena impegnarsi... Vi aspettiamo!
L’autrice presenta il documento di studio e di proposta dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza in tema di mediazione penale e giustizia riparativa nel procedimento penale minorile. Offre così al lettore una panoramica circa la genesi, le finalità e i contenuti del documento dell’Autorità garante, con utili spunti di riflessioni circa il particolare valore che esso riveste in questo momento storico, a seguito della mancata approvazione del decreto sulla giustizia riparativa che avrebbe dovuto dare attuazione alla legge delega 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, co. 85, lett. f.
Richiama infine l’attenzione in ordine all’importanza di promuovere processi di consapevolezza e di ricercare alleanze tra giudici, pubblici ministeri, avvocati, operatori dei servizi minorili, mediatori, studiosi, con l’obiettivo di far prevalere, ove è possibile, la giustizia dell’ago e del filo rispetto alla giustizia della bilancia e della spada.
Sommario: 1.Un decreto mancato. - 2 La necessità di una cornice. – 3 Le raccomandazioni
1. Un decreto mancato.
Di giustizia riparativa si sente parlare sempre di più. Se fino a qualche anno fa in Italia si trattava di un approccio noto a pochi – appassionati – addetti ai lavori e perlopiù in ambito minorile, oggi non di rado vi si sente fare riferimento anche in contesti molto diversificati.
L’evocatività del nome – ancor più nella locuzione originale inglese, restorative justice –, la curiosità per qualcosa che si propone come innovativo, l’urgenza di individuare soluzioni inedite per deflazionare il carico processuale, l’esigenza di offrire un giusto spazio e una giusta considerazione alle vittime di reato, come richiesto dalla direttiva 2012/29/UE, sono solo alcuni dei fattori che hanno portato all’emersione del discorso sulla giustizia riparativa al di fuori dai canali specializzati, sino a farle fare timidamente capolino nel dibattito pubblico e finanche parlamentare.
In cosa consti la giustizia riparativa – al di fuori dell’uso talvolta distorto, talvolta errato che di questo termine si fa – il legislatore italiano aveva infatti provato a chiarirlo: la legge delega 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. riforma Orlando), al comma 85, lett. f, dell’art. 1, prevedeva tra i principi e i criteri direttivi la «previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale (…)». Tuttavia il decreto legislativo che avrebbe dovuto darvi attuazione (Atto del Governo sottoposto a parere parlamentare n. 29, Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di giustizia riparativa e mediazione reo-vittima), a seguito del parere negativo pur non vincolante nell’attuale legislatura delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, non è stato approvato.
Ne rimane bensì traccia nel d.lgs. 2 ottobre 2018 n. 121, introduttivo del nuovo ordinamento penitenziario minorile: l’art. 1, rubricato ‘Regole e finalità dell’esecuzione’, statuisce al secondo comma che «l’esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità deve favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato». E però a tale espresso riferimento non fa seguito alcuno sviluppo o esplicazione, mancando il decreto con cui si sarebbe dovuto coordinare e che gli avrebbe dato significato e operatività.
Ne consegue che a tutt’oggi, a dispetto della spinte che da più parti si registrano a livello internazionale (per tutti, tra ben più numerosi documenti, ONU, Consiglio Economico e Sociale, Risoluzione n. 12/2002, Principi base sul ricorso alla giustizia riparativa in ambito penale; Consiglio d’Europa, Raccomandazione CM/Rec(2018)8 sulla giustizia riparativa in materia penale), l’Italia rimane priva di un fondamento normativo che dia piena legittimazione e fornisca i chiarimenti necessari per l’ingresso nel sistema penale degli strumenti afferenti alla restorative justice.
2. La necessità di una cornice.
Eppure la giustizia riparativa – e la mediazione penale in particolare, che ne rappresenta l’espressione più nota e importante – è praticata da tempo nel nostro Paese, a partire dalla giustizia minorile che ne ha costituito e tutt’ora ne costituisce il primo ambito di sperimentazione e applicazione. Essa vanta in tale particolare contesto un’esperienza oramai pluridecennale, e tuttavia deve scontrarsi con l’assenza di una disciplina specifica, ciò che impone agli operatori ‘l’invenzione’ – nel senso etimologico del termine – di strade praticabili per l’incontro tra diversi modi di rispondere a un fatto-reato commesso da una persona minorenne.
La necessità di uno strumento che faciliti una condivisione sui significati inerenti la giustizia riparativa – in attesa che a tale fondamentale compito ottemperi una norma di legge – unitamente all’importanza di sostenere e diffondere le buone prassi che, pur in assenza di una cornice normativa esplicita, si sono oramai consolidate in buona parte del Paese, hanno indotto l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza a produrre sul tema un documento di studio e di proposta (AGIA, La mediazione penale e altri percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale minorile, 2018, reperibile on line sul sito dell’Autorità garante: https://www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/mediazione-penale-giustizia-riparativa-minori.pdf).
Sulla base della legge istitutiva in Italia dell’Autorità nazionale di garanzia dei diritti delle persone minorenni (legge 12 luglio 2011, n. 112), che all’art. 3, comma 1, lett. o, le assegna quale compito precipuo quello di «favori[re] lo sviluppo della cultura della mediazione e di ogni istituto atto a prevenire o risolvere con accordi conflitti che coinvolgano persone di minore età, stimolando la formazione degli operatori del settore», l’Autorità garante ha preliminarmente svolto un monitoraggio sul territorio nazionale, attraverso un ciclo di audizioni che ha visto il coinvolgimento di magistrati, avvocati, mediatori, assistenti sociali e studiosi. A tal fine ha istituito una apposita commissione, della quale chi scrive ha avuto l’onore di far parte, avente il compito di raccogliere le esperienze, le buone prassi e le criticità emerse nel tempo dalla voce degli operatori impegnati nel sistema della giustizia minorile.
Particolare attenzione è stata riservata al delicato rapporto tra giustizia riparativa e procedimento penale, focus del lavoro complessivo. A partire da un chiarimento circa la natura e i principi fondamentali su cui la restorative justice si fonda, l’analisi contenuta nel documento conclusivo si concentra sull’esame delle soluzioni giurisprudenziali ad oggi individuate per l’ingresso della mediazione penale e di percorsi analoghi nel rito minorile e sui diritti che vengono in gioco là dove si propone tale connubio, garanzie processuali in primis.
3. Le raccomandazioni.
Il documento, oltre ai citati approfondimenti tematici e agli esiti del monitoraggio rappresentati dalle ‘fotografie d’Italia’ fornite in alcune cartine geografiche, contiene infine le raccomandazioni che l’Autorità garante rivolge agli attori istituzionali competenti. Gli ambiti tematici entro cui si articolano tali raccomandazioni sono cinque:
1. Disponibilità e accesso alla mediazione penale e in generale alla giustizia riparativa
2. Disciplina normativa (de iure condendo)
3. Modalità d’innesto dei percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale a normativa invariata
4. Reti per la giustizia riparativa
5. Sensibilizzazione, formazione e informazione
Esse hanno quali destinatari il Parlamento, il Governo, alcuni ministeri (Giustizia, Interno, Difesa, Istruzione, Economia e Finanze), le regioni, i comuni, il Consiglio superiore della magistratura, la Scuola superiore della magistratura, le autorità giudiziarie, il Consiglio nazionale forense, gli ordini degli avvocati, nonché gli uffici e i centri di mediazione penale e di giustizia riparativa variamente dislocati sul territorio nazionale.
Si tratta di indicazioni che ambiscono ad un duplice scopo: da un lato incoraggiare il legislatore a dotare di veste normativa esperienze ormai consolidatesi su larga parte del territorio nazionale e che tuttavia continuano a dipendere, in assenza di una legge, dalla sensibilità dei singoli operatori giuridici. Dall’altra offrire una guida agli operatori del settore, per valorizzare le buone prassi e le soluzioni consolidatesi che meglio garantiscono l’attuazione dei diritti delle persone minorenni coinvolte, favorendo l’innesto della mediazione penale e di altri percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale minorile già oggi, a normativa invariata.
Il documento riporta inoltre la traduzione in italiano, ad opera dell’ufficio dell’Autorità garante, della Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec(2018)8 sulla giustizia riparativa in materia penale, del 3 ottobre 2018. Essa segue e integra la Raccomandazione del 1999 in tema di mediazione penale (Raccomandazione R (99)19) e intende fornire un ulteriore supporto allo sviluppo nei diversi Paesi europei di simili strumenti.
È anche sulla scia di tale spinta che si inscrivono le raccomandazioni dell’Autorità garante. La sfida cui esse intendono dare impulso è, in definitiva, la ricerca di alleanze possibili. Si tratta cioè, nelle parole della Garante, «di facilitare il raffronto tra la giustizia della bilancia e della spada e quella dell’ago e del filo, in modo da promuovere processi di consapevolezza e ricercare alleanze, con giudici, pubblici ministeri, avvocati, operatori dei servizi minorili, mediatori, studiosi, soprattutto con chi è indisponibile a contaminazioni invasive e non sufficientemente ragionate» (AGIA, La mediazione penale e altri percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale minorile cit., p. 7).
PROCURA GENERALE della CORTE di CASSAZIONE
Note del Sostituto Procuratore Generale Roberto Aniello per l’udienza delle Sezioni Unite penali del 21 dicembre 2018.
Questione controversa: “Se la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico costituisca o meno prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale, se decisiva, il giudice d’appello avrebbe la necessità di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa”.
Ritiene questo Ufficio che alla questione controversa sopra indicata codeste On.me Sezioni Unite penali debbano fornire soluzione positiva, alla stregua dei principi di diritto e delle argomentazioni che seguono.
La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite dalla 2^ sezione penale è la seguente: “Se la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico costituisca o meno prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale, se decisiva, il giudice d’appello avrebbe la necessità di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa”.
1. E’ opportuno richiamare brevemente, prima di formulare le necessarie osservazioni critiche, le argomentazioni dei due orientamenti contrapposti, peraltro delineati con chiarezza dall’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, che ha inoltre aggiunto le proprie riflessioni sul tema.
1.1. Secondo la tesi prevalente sussiste l’obbligo di risentire periti e consulenti, così come per i testimoni, dato che la natura della prova è analoga.
Al riguardo, la sentenza di Sez. 2^ n. 34843/2015, Sagone, ha infatti osservato che l’acquisizione dei risultati di perizia e consulenze avviene mediante l'esame in dibattimento secondo le disposizioni sull'esame dei testimoni, a norma dell’art. 501 c.p.p., cosicché la rivalutazione (in peius) della prova deve essere preceduta dal riascolto dei dichiaranti.
Non offre autonome argomentazioni la sentenza di Sez. 4^ n. 6366/2017, Maggi, che si limita a richiamare la sentenza delle Sezioni Unite n. 27620/2016, Dasgupta, nella parte in cui afferma che la necessità di rinnovazione dibattimentale non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante.
La sentenza di Sez. 4^ n. 9400/2017, Gashi, non prende una netta posizione sulla questione, in quanto muove dalla necessità di riascoltare un testimone, la cui attendibilità era stata differentemente valutata dai giudici di merito e, di conseguenza, anche il perito, che aveva espresso le proprie valutazioni proprio sulla base di quella deposizione dibattimentale.
Le successiva pronunce di Sez. 4^ n. 14649/2018, Lumaca, e n. 14654/2018, D’Angelo, richiamano adesivamente le sentenze Sagone e Maggi, senza aggiungere ulteriori considerazioni.
La sentenza di Sez. 4^ n. 36736/2018, Anello, ha invece considerato che la sentenza Dasgupta non aveva indicato, tra i dichiaranti dei quali è obbligatoria la nuova audizione, periti e consulenti, ma ha sostenuto che “si tratta di un principio che deve essere esteso anche alle dichiarazioni rese dai consulenti tecnici e dai periti in sede di esame, allorquando si attribuisca alle affermazioni dei medesimi, anche di contenuto scientifico, ma ancor più descrittivo, un senso diverso da quello loro assegnato dalla decisione impugnata”.
1.2. L’opposto orientamento è rappresentato da due decisioni, la prima delle quali è quella di Sez. 5^ n. 1691/2017, Abbruzzo. Al fine di sorreggere le proprie conclusioni, la motivazione richiama anzitutto i principi elaborati dalla giurisprudenza per la valutazione di periti e consulenti, in particolare citando due precedenti: Sez. 4^ n. 8527/2015: ”In tema di prova, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito, pur in assenza di una perizia d'ufficio, può scegliere tra le diverse tesi prospettate dai consulenti delle parti, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto, con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni della scelta nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti e, ove tale valutazione sia effettuata in modo congruo, è inibito al giudice di legittimità procedere ad una differente valutazione, trattandosi di accertamento di fatto, come tale insindacabile in sede di legittimità”; Sez. 5^ n. 6754/2015: ”In tema di prova scientifica, la Cassazione non deve stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica; essa, infatti, non è giudice del sapere scientifico ed è solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell'approccio del giudice di merito al sapere tecnico- scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all'affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto. Ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti di una consulenza, trattandosi di un accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato”.
La sentenza in esame ha quindi concluso che “pur se il perito ed i consulenti tecnici sentiti in dibattimento hanno la veste di testimoni, la loro relazione forma parte integrante della deposizione ed inoltre essi sono chiamati a formulare un parere tecnico rispetto al quale il giudice può discostarsi purché argomenti congruamente la propria diversa opinione.
La loro posizione non è, quindi, totalmente assimilabile al concetto di "prova dichiarativa" espresso nella sentenza Dasgupta, tanto è vero che nella motivazione delle Sezioni Unite, laddove si elencano i casi in cui è necessaria la rinnovazione della prova dichiarativa, non si menzionano periti e consulenti”.
La sentenza di Sez. 3^ n. 57863/2017, Colleoni, ha sinteticamente ribadito le medesime osservazioni.
2. Una prima considerazione di carattere metodologico: il punto fermo da cui muove la discussione è costituito dall’obbligo di risentire in appello i testimoni per i quali si prospetti una diversa valutazione contra reum. Pertanto, è certamente necessario verificare se perizia e consulenza tecnica rientrino nel genus della prova dichiarativa, ma, una volta data risposta positiva a questo primo quesito, occorrerà anche valutare se siano riscontrabili peculiarità tali da legittimare una diversa soluzione.
Questa verifica, inoltre, andrà fatta in relazione alle ragioni che, secondo la giurisprudenza di legittimità (rilevano in particolare, ma non solo, le sentenze delle Sezioni Unite n. 27620/2016, Dasgupta e n. 18620/2017, Patalano), impongono la rinnovazione istruttoria in grado d’appello, peraltro anche rivisitando l’impostazione adottata dalle Sezioni Unite.
Una seconda considerazione, che è opportuno svolgere preliminarmente perché attiene ad un preteso dictum della sentenza Dasgupta, riguarda l’omessa menzione, in tale pronuncia, di periti e consulenti tra i soggetti per i quali è necessaria la rinnovazione della prova dichiarativa.
In realtà, si tratta di un’omissione che non può assumere un significato escludente, sia perché le Sezioni Unite non affrontano espressamente la questione, sia perché sembra che si siano preoccupate di estendere l’obbligo di rinnovare la prova dichiarativa a soggetti che non rivestono la qualifica di testimoni “puri”, cioè il testimone assistito, il coimputato nello stesso procedimento, l’imputato in procedimento connesso. Si tratta di dichiaranti per i quali vigono regole particolari che li differenziano dai normali testimoni e per i quali era dunque opportuno fornire una precisa indicazione, laddove per i periti e consulenti è prevista l’applicabilità delle norme sull’esame dei testimoni, sia pure con modalità peculiari, che però non incidono sulla veste processuale.
Invero, la norma del codice di rito che regola l’assunzione della perizia e della consulenza in dibattimento è l’art. 501 c.p.p., ove è previsto che per l’esame di periti e consulenti si osservino le norme sull’esame dei testimoni, in quanto applicabili.
Dunque, un’assimilazione della forma di acquisizione della prova che implica – di questo occorre dare atto - una natura parzialmente diversa della prova stessa, sia perché altrimenti la norma non sarebbe stata neppure necessaria, sia perché le norme sull’esame dei testimoni si applicano a periti e consulenti solo “in quanto applicabili”[1].
Sono però fondamentali gli artt. 508 e 511 comma 3, che completano la disciplina dell’assunzione della perizia in dibattimento, prevedendo come forma tipica quella orale, dato che il perito, immediatamente citato a comparire, deve esporre il suo parere nello stesso dibattimento e, in caso di sospensione del dibattimento, nella nuova udienza il perito risponde ai quesiti ed è esaminato a norma dell’art. 501 (art. 508 comma 3); la lettura della relazione peritale è disposta solo dopo l’esame del perito (art. 511 comma 3).
La violazione di quest’ultima disposizione, secondo consolidata giurisprudenza, dà luogo ad una nullità di ordine generale non assoluta - come tale soggetta ai limiti di deducibilità di cui all'art. 182 ed alle sanatorie di cui all'art. 183 del codice di rito - per violazione del diritto di difesa, poiché non si assicura al difensore la possibilità di rivolgere domande al perito (Sez. 5^ n. 38413/2003, Alvaro; conformi, Sez. 4^ n. 1288/2004, Castelli, e Sez. 5^ n. 16384/2011, Carrino, in tema di perizia disposta nel giudizio abbreviato; Sez. 5^ n. 32902/2011, Cifelli; Sez. 6^ n. 25807/2014, Rizzo, con specifico riferimento alla consulenza tecnica di parte; Sez. 3^ n. 35497/2016, L.M.).
Caratteristiche del tutto analoghe ha la perizia assunta in incidente probatorio, stante la norma di rinvio contenuta nell’art. 401 comma 5 c.p.p.; e proprio in relazione ad una perizia in questa fase si è affermato che “costituiscono momenti indefettibili del procedimento di formazione della prova l'esposizione orale del parere del perito in udienza e il successivo eventuale esame del perito ad opera delle parti” (Sez. 4^ n. 36613/2006, De Rossi)
Si può dunque pervenire, sulla scorta di queste considerazioni, ad una prima conclusione in ordine al carattere centrale della oralità nell’assunzione della perizia; oralità ovviamente finalizzata a garantire il contraddittorio.
Ciò peraltro ancora non significa una completa equiparazione alla prova dichiarativa testimoniale. Invero, le obiezioni più pregnanti al riguardo attengono all’oggetto della deposizione di periti e consulenti, i quali - come evidenziato dalle pronunce citate in precedenza - formulano pareri tecnici, rispetto ai quali il giudice di merito può scegliere, tra le diverse tesi prospettate, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto, con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni della scelta nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti.
In altri termini, poiché periti e consulenti esprimono considerazioni tecniche attinenti l’accertamento da loro eseguito, non si tratterebbe di dichiarazioni assimilabili a quelle del testimone e non sarebbe quindi necessario procedere ad una nuova audizione nel caso si voglia procedere ad una diversa interpretazione e valutazione delle stesse.
Ora, benché le dichiarazioni di periti e consulenti non siano perfettamente assimilabili a quelle dei testimoni, la tesi non appare condivisibile.
Va anzitutto rammentata la distinzione tra prova e mezzo di prova: non occorre richiamare Carnelutti e Cordero per affermare che una cosa è la prova scientifica, ovvero l’accertamento tecnico eseguito dal perito, altra cosa è l’introduzione della prova in dibattimento, che avviene a mezzo dell’esame orale – essenziale, come si è visto - e dell’acquisizione della relazione.
Quanto al contenuto della deposizione di periti e consulenti, si deve in primo luogo notare che essi riferiscono anche circostanze di fatto relative agli accertamenti eseguiti, e per questa parte la loro posizione non è affatto diversa da quella dei testimoni. Si tratta di quell’attività che l’ordinanza di rimessione definisce, in aderenza alla giurisprudenza civile, “percipiente”. Invero, quando i fatti da accertare necessitano di specifiche conoscenze tecniche, il giudice può affidare al consulente non solo l'incarico di valutare i fatti accertati (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente); in tale ultimo caso la consulenza costituisce essa stessa fonte oggettiva di prova ed è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l'accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (Sez. 3^ civile n. 4792/2013). Del resto, tali attività corrispondono a quelle indicate nell’art. 220 c.p.p., ove l’oggetto della perizia è definito in relazione alla necessità di “svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche”.
In relazione all’attività percipiente, le dichiarazioni del perito e del consulente non appaiono dissimili da quelle del testimone, dovendo essi riferire sulla svolgimento delle indagini eseguiti e dei dati oggettivi acquisiti.
Quanto all’attività valutativa, ci sono diversi aspetti da considerare.
Anzitutto, non può certo essere escluso che anche per periti e consulenti si pongano questioni di attendibilità soggettiva ovvero di veridicità del dichiarato. Costituiscono infatti reato sia la falsa perizia, a norma dell’art. 373 c.p.[2], sia la falsa consulenza, che - quanto meno per il consulente del P.M. - può risultare punibile ai sensi degli artt. 371 bis o 372 c.p., secondo quanto affermato da S.U. n. 51824/2014, Guidi. Quest’ultima pronuncia ha osservato in motivazione che “anche in relazione ai giudizi di natura squisitamente tecnico-scientifica può essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità” e che pertanto ”il consulente tecnico del pubblico ministero va equiparato al testimone anche quando formula giudizi tecnico-scientifici”.
Questa condivisibile puntualizzazione, relativa alla falsità delle dichiarazioni rese dal consulente, apre la strada alla soluzione della questione anche per quanto riguarda gli aspetti più strettamente valutativi delle deposizioni di periti e consulenti.
E’ certamente esatto affermare che compito del giudice è quello di verificare la logica del ragionamento seguito da periti e consulenti e posto a fondamento delle loro conclusioni e, in caso di contrasto, di valutare criticamente le opposte argomentazioni in modo da giustificare congruamente la scelta finale di una tesi piuttosto che dell’altra.
La valutazione del giudice presuppone comunque una corretta interpretazione delle osservazioni formulate da periti e consulenti; ciò in particolare quando gli accertamenti eseguiti e le conseguenti conclusioni degli esperti non siano connotate da certezze rigorosamente oggettive sotto il profilo scientifico.
Si pensi, ad esempio, alle perizie psichiatriche o alle ricostruzioni della dinamica di incidenti stradali o di infortuni sul lavoro, alle perizie sulla colpa medica, per indicare alcune delle più frequenti evenienze: le variabili sono molteplici, i metodi e gli strumenti tecnici utilizzati non necessariamente uniformi e le conclusioni non riconducibili a formule incontrovertibili.
E’ pertanto indispensabile in primo luogo un puntuale recepimento delle tesi degli esperti, che sono spesso fondate su argomenti specialistici, a volte di particolare tecnicismo e complessità.
Soltanto avendo ben chiare le argomentazioni di periti e consulenti si può passare alla fase valutativa, tenendo conto delle opinioni contrapposte e ponendole a confronto, per poi trarne le conseguenze in tema di scelta della conclusione che appaia al giudice maggiormente logica e plausibile.
Nel caso in cui quest’opera di interpretazione e valutazione porti il giudice di primo grado al convincimento della insufficienza delle conclusioni tecniche che dovrebbero supportare la tesi accusatoria, l’appello avverso la sentenza assolutoria contesterà la valenza che il giudice di primo grado ha attribuito alle perizie o consulenze di segno favorevole all’accusa, sottoponendo a critica l’interpretazione e/o la valutazione dell’esito di perizie e consulenze.
La situazione è quindi assolutamente parallela a quella che impone la rinnovazione istruttoria per i testimoni: anche in tal caso, risultano prospettabili due differenti apprezzamenti delle osservazioni e argomentazioni dei soggetti che hanno riferito in dibattimento, e ciò sia sul piano della perfetta comprensione del loro significato intrinseco, sia su quello della valutazione della effettiva pregnanza delle stesse sul piano probatorio.
Dunque, sembra innegabile che l’imputato abbia il diritto di far risentire periti e consulenti al fine di confutare la tesi accusatoria sostenuta dall’appellante e far emergere, mediante il nuovo esame, l’esattezza dell’impostazione in suo favore.
E’ chiaro, peraltro, che l’obbligo così configurato riguarda soltanto l’audizione di periti e consulenti; l’accertamento tecnico rimane intatto nel suo valore probatorio, che deve soltanto essere oggetto di nuove deposizioni, e - tranne che risulti necessario qualora si riscontrino lacune di qualche tipo - non andrà pertanto rinnovato.
3.1. Questa prima conclusione è stata raggiunta sulla base del raffronto tra i caratteri salienti della testimonianza e quelli di perizia e consulenza. Tuttavia, prima di giungere alle conclusioni finali, è il caso di formulare qualche osservazione in ordine alle ragioni sottese alla necessità di rinnovazione istruttoria, alla stregua dell’inquadramento della questione che è stato dato dalle sentenze delle Sezioni Unite Dasgupta e Patalano.
La questione, com’è noto, nasce nel 2011 a seguito della sentenza della CEDU Dan c. Moldavia.
In precedenza, la giurisprudenza si era posta il problema della riforma di una sentenza di primo grado che aveva assolto l’imputato.
Si era allora affermato, peraltro anche in relazione a una sentenza d’appello assolutoria che abbia ribaltato la condanna in primo grado, che la totale riforma “impone la dimostrazione dell'incompletezza o della non correttezza ovvero dell'incoerenza delle relative argomentazioni con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente dimostrazione che, sovrapponendosi "in toto" a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati” (Sez. 2^, n. 15756/2003 del 12.12.2002, Contrada).
La giurisprudenza in tal senso si era consolidata, giungendo ad affermare la illegittimità della condanna in secondo grado fondata su una interpretazione alternativa e non maggiormente persuasiva dello stesso compendio probatorio che aveva condotta all’assoluzione in primo grado.
E’ chiaro pertanto che la nostra giurisprudenza individuava la condizione di legittimità del ribaltamento della sentenza di primo grado nell’adeguata motivazione della opposta valutazione effettuata dal giudice d’appello.
La sentenza Dan c. Moldavia sposta l’obiettivo dalla motivazione alle modalità con le quali si perviene a una differente valutazione. La Corte europea ritiene infatti che i giudici “dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità. La valutazione dell’ attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate”[3].
La giurisprudenza italiana si adegua (sono numerose anche le successive decisioni conformi della CEDU: Manolachi c. Romania del 5 marzo 2013; Flueras c. Romania del 9 aprile 2013; Hanu c. Romania del 4 giugno 2013 e, di recente, Lorefice c. Italia del 29.6.2017)e perviene quindi alle note pronunce delle Sezioni Unite n. 27620/2016, Dasgupta, che risolve in senso positivo la questione controversa della rilevabilità d’ufficio della omessa rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa, e la successiva sentenza n. 18620/2017, Patalano, che estende l’obbligo della nuova audizione dei testimoni anche al processo celebrato con rito abbreviato. Parallelamente, le Sezioni Unite (sent. Troise) escludono che tale obbligo sussista nel caso che il giudice d’appello riformi in senso assolutorio la condanna pronunciata in primo grado, fermo restando l’obbligo di una motivazione che confuti puntualmente le argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado.
3.2. Occorre fare una considerazione sulla sentenza Dan c. Moldavia e sulle altre conformi pronunce della CEDU: la Corte europea pone l’accento essenzialmente sulla complessità della valutazione dell’attendibilità del teste, che non può fondarsi sulla mera lettura delle sue dichiarazioni, in quanto è necessario prendere diretta cognizione dell’atteggiamento del dichiarante, assumendo rilevanza anche la comunicazione extraverbale.
Limitandosi a considerare questa prima argomentazione, alcune decisioni della Corte di Cassazione hanno ritenuto che la rinnovazione dell’audizione dei testimoni sia obbligatoria soltanto qualora la nuova valutazione della prova dichiarativa differisca da quella effettuata in primo grado in ordine alla sola attendibilità intrinseca, sul presupposto che questa è l'unica a dipendere (anche) dalla valutazione del contegno del teste e dai dati comunicativi extraverbali (Sez. 6^ n. 16566/2013, Caboni; Sez. 3^ n. 45453/2014; Sez. 2^ n. 41736/2015, Di Trapani; Sez. 5^ n. 45847/2016, Colombo; Sez. 6^ n. 47722/2015, Arcone).
In realtà, non è questa, e non può essere questa, la sola ragione per la quale si rende necessaria la rinnovazione istruttoria in grado d’appello, anzi, a ben vedere, questa è l’argomentazione più debole della Corte Europea, essendo frutto di un approccio empirico che nel nostro sistema processuale non dovrebbe avere grande spazio applicativo.
Certamente i principi di oralità e immediatezza nell’assunzione delle prove sono importanti, ma il contegno del testimone mentre rende la sua deposizione è sicuramente valutabile con difficoltà e ancor più difficilmente motivabile. E nel nostro ordinamento la motivazione è imprescindibile.
La ragione fondamentale che impone la nuova audizione dei testimoni in appello è un’altra, e la sua radice è nell’art. 6 comma 3 lett. d) della Convenzione Europea, che specifica i diritti dell’accusato nell’ambito di un processo equo, nonché nell’art. 111 comma 3 della Costituzione: il diritto di interrogare e fare interrogare i testimoni che rendono dichiarazioni a suo carico: il diritto al contraddittorio.
E’ un diritto che non si esaurisce nel dibattimento di primo grado, quando vi sia stata assoluzione.
Lo precisa giustamente la sentenza Dasgupta, quando sottolinea che il giudice d’appello non ha un’autorevolezza maggiore dei quello di primo grado, ma solo una differente funzione, e allora può essere legittimato a ribaltare un esito assolutorio solo dopo aver ripercorso le medesime cadenze di acquisizione delle prove dichiarative assunte in primo grado.
Ma soprattutto, nota la sentenza Dasgupta (par. 8.1 - p. 12) che “dal lato dell'imputato assolto in primo grado, la mancata rinnovazione della prova dichiarativa precedentemente assunta sacrifica una efficace confutazione delle argomentazioni svolte nell'appello del p.m. che possa trarre argomenti dall'interlocuzione diretta con la fonte le cui affermazioni siano state poste a sostegno della tesi di accusa”.
In altri termini, la situazione che si presenta, in seguito all’appello del P.M. o della parte civile è la seguente: il giudice di primo grado ha interpretato e valutato le prove dichiarative in un senso che ha condotto all’assoluzione dell’imputato (sono due fasi distinte ancorché connesse, l’interpretazione del contenuto della dichiarazione e la sua valutazione); l’appellante prospetta una differente interpretazione e/o valutazione, sostenendo che il giudice di primo grado è pervenuto a conclusioni erronee.
Si può forse pensare, avendo come parametri di riferimento i principi della Convenzione europea e della Costituzione sopra richiamati, che l’imputato non abbia il diritto di far risentire i soggetti che rendono dichiarazioni per difendersi da quella che è un’accusa a suo carico, evidentemente la stessa sostenuta in primo grado, ma che ora è protesa a confutare le conclusioni assolutorie cui è pervenuto il giudice di primo grado?
Richiamando ancora la sentenza Dasgupta, da un lato vi è la posizione del giudice, che può pervenire ad una decisione di condanna solo superando il ragionevole dubbio e confutando le argomentazioni poste a sostegno della sentenza impugnata; e per far questo deve porsi nelle stesse condizioni del primo giudice, replicando l’assunzione diretta delle prove (decisive) da valutare diversamente.
Dall’altro lato, ma ancor più consistente, vi è il diritto dell’imputato a contrastare le ragioni dell’appellante, non solo condividendo le motivazioni della sentenza di primo grado, ma anche esponendo ulteriori argomenti a proprio favore; e certamente la miglior difesa passa per la nuova audizione di quei testimoni le cui dichiarazioni hanno un’opposta valenza nell’ottica dell’accusa e in quella della difesa.
A questo punto, però, non si può fare a meno di esprimere perplessità sulla riconducibilità della mancata rinnovazione istruttoria al vizio di motivazione ex art. 606 lett. e) c.p.p.; la sentenza Dasgupta ricollega espressamente il vizio di motivazione al mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio” di cui all'art. 533 comma 1 c.p.p.; precisa inoltre che, per valutare se la sentenza di appello sia viziata occorre “apprezzarne il contenuto, dal quale dovrà desumersi: a) se sia stata espressa nella motivazione della sentenza una valutazione contra reum delle fonti dichiarative; b) se tale diversa valutazione sia in contrasto con quella resa dal giudice di primo grado; c) se essa sia stata decisiva, nel senso sopra precisato, ai fini dell'affermazione della responsabilità; d) se essa sia stata assunta senza procedere a una rinnovazione dell'esame delle fonti dichiarative”.
Ora, queste ultime scansioni della fase valutativa sulla sussistenza del vizio di motivazione sono meramente riepilogative e, quanto al canone del ragionevole dubbio, la pronuncia delle Sezioni Unite non spiega compiutamente per quale ragione esso non possa essere rispettato con una motivazione che, pur senza la rinnovata audizione del dichiarante diversamente valutato, confuti in modo puntuale e convincente ogni argomentazione del giudice di primo grado, secondo i criteri enunciati dalla giurisprudenza sulla motivazione cosiddetta rafforzata.
Invero, nella motivazione della sentenza Dasgupta, si fa in primo luogo riferimento, come si è notato, alla posizione non sovraordinata del giudice d’appello ed alla necessità di una diretta percezione orale.
Ma da questo punto di vista, se l’esame dibattimentale in primo grado è stato completo e non presenti punti oscuri in relazione al significato oggettivo delle dichiarazioni, la divergenza potrà concernere soltanto la valutazione a fini probatori del contenuto delle stesse. Si tratterebbe, pertanto, esclusivamente di una questione di standard argomentativo, che non dipende necessariamente dalla rinnovazione della prova in appello.
L’aggancio tra mancata rinnovazione e standard del ragionevole dubbio non è nella legge né nel diritto vivente convenzionale.
La sentenza Dasgupta introduce una c.d. prova legale negativa: senza quella prova (la prova dichiarativa rinnovata) non si può condannare, in sua presenza si può condannare o assolvere.
Per collegare la mancata rinnovazione al vizio di motivazione e al ragionevole dubbio la Dasgupta introduce, nel silenzio della legge, una prova legale che contrasta col principio del libero convincimento del giudice.
Inoltre, il vizio di motivazione va accertato caso per caso, scendendo nella concretezza dei singoli ragionamenti probatori, mentre qui avremmo un vizio di motivazione precostituito per legge.
La rinnovazione della prova attiene alla fase dell’istruzione probatoria (ed infatti correttamente il comma 3 bis del nuovo art. 603 la pone in tale fase), il ragionevole dubbio attiene allo stato della valutazione finale sulle prove e sulle ipotesi.
Ed infatti l’art. 603 comma 3 bis c.p.p. smentisce la Dasgupta perché:
a) inserisce la rinnovazione della prova dichiarativa (e solo nel caso di diversa valutazione, non di omissione) nella rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, non nella fase della decisione, come sarebbe stato coerente con la Dasgupta;
b) non prevede alcun vizio di motivazione di ufficio.
Quindi, la ratio del novum legislativo non è il corretto giudizio (che è tutelato dal libero convincimento del giudice, dal metodo legale di ragionamento e dal vizio di motivazione eccepibile dalle parti).
La ratio è garantire la genuinità e completezza dell’evidenza probatoria disponibile.
Ma c’è un secondo aspetto preso in considerazione dalla sentenza Dasgupta, e cioè il diritto dell’imputato assolto in primo grado di far risentire i soggetti che l’appellante assume aver rilasciato dichiarazioni che, rettamente interpretate e valutate, sarebbero a suo carico, ha un legame diretto con le citate norme di cui all’art. 6 comma 3 lett. d) della Convenzione EDU e all’art. 111 comma 3 della Costituzione.
Si tratta di disposizioni che enunciano il medesimo principio e, se la norma convenzionale non ha una diretta efficacia precettiva nel nostro ordinamento, la norma costituzionale quanto meno impone una interpretazione che non contraddica il principio in essa contenuto.
Sembra pertanto che possa ravvisarsi, più che un vizio di motivazione, una inosservanza di norme, così come del resto dovrà essere per i procedimenti cui si applicherà il nuovo art. 603 comma 3 bis c.p.p., che prevede la rinnovazione dell’istruttoria nel caso di appello del P.M. avverso una sentenza di proscioglimento “per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”.
La nuova norma codifica un principio già affermato dalla Convenzione, dalla Costituzione e dalla giurisprudenza, ma - così come la sentenza Dasgupta - va vista in sintonia con l’art. 507 cpp.; anche il giudice di primo grado, infatti ha il potere-dovere di garantire la completezza di informazioni probatorie affidabili e la violazione di questo dovere-potere è presidiato dal motivo di ricorso per vizio di motivazione.
La differenza tra l’art. 603 comma 3 bis e l’art. 507 cpp sta in questo:
nell’art. 507 cpp l’ordinamento attribuisce al giudice un potere discrezionale di valutazione circa la indispensabilità della prova da assumere; nell’art. 603 comma 3 bis c.p.p. invece l’ordinamento compie una valutazione legale tipica: non è il giudice che decide se - in caso di motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa - la prova va riassunta, è la legge che lo impone.
La questione è quale vizio risulti configurabile in seguito alla mancata riassunzione della prova in grado d’appello.
Non è espressamente prevista una sanzione di nullità, ma si tratta indubbiamente dell’omessa acquisizione di una prova decisiva - tale ritenuta non dal giudice, ma dalla legge - che dà luogo ad una violazione del diritto di difesa e configura quindi non un error in iudicando, ma un error in procedendo.
Dunque, la nullità per violazione dell’art. 603 comma 3 bis c.p.p. va inquadrata tra le nullità generali non assolute, ai sensi dell’art. 178 c.p.p.
Le conseguenze sono che tale nullità (omessa rinnovazione della prova dichiarativa) è sanata se la parte interessata non la eccepisce prima che inizi la fase deliberativa.
Ma è ancor prima indeducibile (art. 182 c.p.p.) se la difesa non ha chiesto la rinnovazione della prova perché in questo modo la difesa ha concorso a dar causa alla nullità[4].
Risulta pertanto corretto far riferimento alla previsione dell’art. 606 lett. d) c.p.p., che contempla la mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso dell'istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall'articolo 495, comma 2.
La sentenza Dasgupta ha escluso che ricorra questa ipotesi ed ha altresì ritenuto che il concetto di decisività non è lo stesso che viene in considerazione nell’ambito della rinnovazione delle prove dichiarative. In questo caso, infatti, “il giudice di appello deve prendere in considerazione non prove "negate" ma prove "da riassumere", il cui contenuto rappresentativo si era già completamente dispiegato in primo grado, e ha dunque già formato oggetto della decisione impugnata, che proprio su esso ha fondato l'esito assolutorio”.
Si ritiene che questa posizione debba essere rivista, perché affermare che il contenuto rappresentativo della prova dichiarativa si è già completamente dispiegato in primo grado significa negare la ratio stessa della rinnovazione istruttoria, riducendolo ad un mero obbligo di natura formale: obbligo che deve invece essere sorretto dalla necessità, almeno potenziale, che il rinnovato esame consenta di approfondire e chiarire gli aspetti che formano oggetto di contrasto tra la prospettazione dell’appellante e la tesi della sentenza assolutoria del primo giudice. Se invece il contenuto rappresentativo fosse insuscettibile di modifiche, aggiunte, chiarimenti, pur potendo essere oggetto di differenti valutazioni, queste potrebbero essere soltanto cartolari, senza alcuna necessità di una nuova audizione, che diventerebbe un passaggio rituale privo di significato.
Inoltre, ricondurre la situazione in esame alla previsione dell’art. 606 lett. d), da un lato non trova ostacoli nei limiti posti dalla stessa norma, dall’altro consente di introdurre un argine ad una indiscriminata applicazione della rinnovazione istruttoria, che – non si può ignorare – può avere riflessi negativi su un altro valore costituzionalmente tutelato, la ragionevole durata del processo.
L’art. 606 lett. d) limita, infatti, la rilevanza della mancata assunzione di prova decisiva al caso in cui la parte ne abbia fatto richiesta anche nel corso dell'istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall'articolo 495 comma 2.
La sentenza Dasgupta osserva al riguardo che questo richiamo riconduce la previsione ad un contesto in cui il dibattimento di primo grado è alle battute iniziali.
Ma in realtà la norma richiama l’art. 495 comma 2 soltanto per introdurre un limite alla estensione operata nel testo immediatamente prima, ove afferma che il presupposto costituito dalla richiesta di una parte è integrato quando la richiesta è formulata “anche nel corso dell’istruzione dibattimentale”; e ciò, tuttavia, nei soli casi previsti dall’art. 495 comma 2, cioè nel caso di prova contraria.
Ora, nel momento in cui l’appellante indica come prova a carico quella che è stata valutata dal giudice di primo grado come prova a discarico – e deve farlo con argomentazioni specifiche volte a confutare le ragioni poste a base della sentenza assolutoria – sorge l’esigenza di dedurre a prova contraria lo stesso mezzo istruttorio. E allora, da un lato risulta indebita la limitazione al solo dibattimento di primo grado, potendo la richiesta essere formulata anche per il dibattimento d’appello; dall’altro, in assenza di una norma come l’attuale comma 3 bis dell’art. 603, vi deve essere una richiesta di parte, e quindi spetterà all’imputato appellato attivare il contraddittorio con una propria richiesta.
Anche su questo punto, dunque, si perviene a conclusioni diverse da quelle delle sentenze Dasgupta e Patalano, che hanno ritenuto rilevabile d’ufficio la omessa rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa e obbligatoria la rinnovazione anche nel processo celebrato con rito abbreviato.
Ma., così come la rilevabilità d’ufficio di un vizio di motivazione non specificamente dedotto nel ricorso[5], appare scarsamente convincente anche l’obbligo di rinnovare una prova dichiarativa che non è stata assunta in primo grado, e dunque andrebbe assunta per la prima volta, a seguito di rinuncia dell’interessato. Anzi, l’interessato che ha scelto di essere giudicato allo stato degli atti e in tale contesto è stato assolto, potrebbe essere addirittura danneggiato dalla assunzione in appello della prova dichiarativa, cosicché un istituto elaborato a garanzia dell’imputato potrebbe avere un effetto contrario.
D’altra parte, la Corte EDU, con alcune sentenze più recenti, ha deciso in difformità rispetto agli orientamenti espressi dalle Sezioni Unite.
In particolare, con la sentenza Kashlev c. Estonia si è ritenuto che non fosse violato l’art. 6 della Convenzione perché l’imputato non aveva chiesto l’esame dei testimoni in appello.
Con la pronuncia nel caso Fornataro c. Italia, il ricorso è stato dichiarato irricevibile perché l’imputato aveva scelto di essere giudicato col rito abbreviato.
Si tratta, peraltro, di questioni che, pur rientrando nell’ambito di una rivisitazione dell’istituto, non si ritiene necessario approfondire in questa sede, ove non hanno diretta rilevanza, e comunque meritavano un accenno.
4. Il requisito della decisività della prova resta comunque fermo qualunque sia l’inquadramento alla questione in esame; esso infatti discende dalle stesse sentenze della CEDU ed è stato ben delineato dalle sentenze Dasgupta e Patalano.
La prima ha precisato che devono ritenersi decisive quelle prove che, “sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato o anche soltanto contribuito a determinare un esito liberatorio, e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso del materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee a incidere sull'esito del giudizio di appello, nell'alternativa "proscioglimento-condanna". Appaiono parimenti "decisive" quelle prove dichiarative che, ritenute di scarso o nullo valore probatorio dal primo giudice, siano, nella prospettiva dell'appellante, rilevanti, da sole o insieme ad altri elementi di prova, ai fini dell'esito di condanna”.
Per converso, ha escluso il carattere di decisività nel caso di “un apporto dichiarativo il cui valore probatorio, che in sé considerato non possa formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado, si combini con fonti di prova di diversa natura non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o addirittura pretermesse dal primo giudice, ricevendo soltanto da queste, nella valutazione del giudice di appello, un significato risolutivo ai fini dell'affermazione della responsabilità”
La sentenza Patalano ha ulteriormente puntualizzato che la regola della rinnovazione istruttoria è valida “nei casi in cui di differente valutazione del significato della prova dichiarativa si possa effettivamente parlare: non perciò quando il documento che tale prova riporta risulti semplicemente travisato, quando cioè emerga che la lettura della prova sia affetta da errore revocatorio, per omissione, invenzione o falsificazione. In questi casi, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato) e, perciò, non può sorgere alcuna esigenza di rivalutazione di tale contenuto attraverso una nuova audizione del dichiarante”.
Questi concetti sono stati ribaditi dalla successiva giurisprudenza, che ha escluso l’obbligo di rinnovare la prova dichiarativa decisiva qualora emerga che la lettura della prova compiuta dal primo giudice sia stata travisata per omissione, invenzione o falsificazione (Sez. 4^, n. 49159/17, Ferrara; Sez. 6^, n. 16501/18, Portaro) o, in altri termini, che sia inficiata non da un errore di valutazione, ma soltanto da un errore di percezione, che ricorre nel caso in cui si afferma l'inesistenza di un dato che in realtà esiste (Sez. 1^, n. 26390/2018, Amato).
Si può aggiungere che il concetto di decisività della prova va configurato sulla base della concreta incidenza nel contesto probatorio, risultando decisiva la prova che, coeteribus paribus, cambia la decisione, in un senso o nell’altro.
Così, esemplificando in riferimento alla prova scientifica, una perizia che si esprima in termini di compatibilità (dell’arma sequestrata con l’arma del delitto, della fisionomia dell’imputato con l’autore del reato) non è prova decisiva.
E’ prova decisiva quella che conclude in termini di certezza (sulla identificazione dell’arma o dell’imputato, per restare agli esempi fatti).
Inoltre, la prova dichiarativa è in realtà un mezzo di prova che introduce nel processo informazioni probatorie, cioè informazioni fattuali. La struttura della prova dichiarativa è data da un dichiarante che veicola nel processo una dichiarazione.
E’ evidente che per prova decisiva si intende l’informazione probatoria decisiva.
Il che significa che la rinnovazione del mezzo di prova (testimonianza dell’esperto) deve riguardare non l’intera perizia (a meno che non venga in discussione l’intero metodo scientifico applicato), ma la specifica informazione probatoria, cosicché per la rinnovazione della prova peritale sarà sufficiente l’esame orale del perito, a meno che la necessità della relazione scritta sorga durante l’esame stesso.
Inoltre, l’indicazione delle informazioni probatorie controverse e decisive rientra nell’inderogabile onere di specificità del pubblico ministero appellante; a tale onere corrisponde l’onere della difesa di chiedere la rinnovazione specificando i punti su cui si chiede la rinnovazione.
5.1. Applicando al caso di specie i principi illustrati, si deve ritenere che non ricorressero i presupposti per la rinnovazione dell’esame del consulente tecnico.
Il giudice di primo grado, infatti, ha svalutato le prove a carico del PAVAN con argomentazioni non solo trancianti e inconsistenti, ma anche del tutto incomplete rispetto alle risultanze sottoposte al suo esame.
Egli, infatti, si è limitato ad affermare, per quanto riguarda il consulente tecnico del P.M., che questi ha creduto di veder ritratto, nel filmato estratto dalle videocamere della banca, proprio l’imputato, e che il perito è giunto invece alla conclusione che le somiglianze, pur esistenti, “attengono a caratteri generali che non consentono di pervenire ad un giudizio di identificazione, in quanto gli stessi possono essere riscontrati anche in più soggetti”.
Nella sentenza di primo grado sono inoltre totalmente svalutati, in modo pressoché immotivato, gli ulteriori elementi desunti dalla localizzazione del cellulare dell’imputato.
Nella sentenza d’appello si è invece evidenziato, mediante un approfondito esame delle relazioni sia del consulente del P.M. che del perito (acquisite sull’accordo delle parti) che il consulente del P.M. ha proceduto ad un’accurata comparazione delle immagini ed è pervenuto ad un giudizio di elevata probabilità di identificazione tra l’autore della rapina e l’imputato.
Il perito, d’altro canto, si è effettivamente espresso nei termini riportati, ma ciò dopo aver premesso che “l’identità di un soggetto nel suo significato etimologico esprime un giudizio connesso a un confronto tra due o più termini che si considerano perfettamente uguali”; in assenza di tale perfetta uguaglianza, si spiega il giudizio conclusivo del perito, il cui significato va dunque rapportato - secondo il corretto ragionamento seguito dalla Corte d’Appello - alla premessa, che è stata totalmente ignorata dal giudice di primo grado.
Si verifica pertanto il caso di omissione di valutazione che legittima il diverso apprezzamento da parte del giudice di primo grado senza procedere a nuova audizione dei dichiaranti.
Non solo: sempre con riferimento alla individuazione del PAVAN desumibile dalle immagini, il collegio d’appello ha proceduto alla visione diretta delle immagini ed ha riscontrato una somiglianza “fortissima ed evidentissima” tra il rapinatore e l’imputato.
Sulla legittimità di tale valutazione, si deve richiamare la pronuncia di Cass. Sez. 6^ n. 25383/2010, Galluzzi, con la quale si è osservato che, “in tema di valutazione della prova, occorre distinguere tra la scienza privata del giudice, che non rientra fra le prove ritualmente acquisibili al processo e, come tale, non può essere posta a fondamento del giudizio, e le percezioni che il giudice trae direttamente dal processo e dai suoi atti, trattandosi di dati ed elementi che ritualmente entrano a far parte della sfera di cognizione del giudice e ben possono essere oggetto di valutazione e confronto con le ulteriori acquisizioni probatorie. (Fattispecie in cui il collegio giudicante ha fatto ricorso al proprio convincimento in merito alla conformità della identità dell'imputato, presente al dibattimento, rispetto alle immagini di una persona ripresa da una videoregistrazione)”.
Ma ancora, quanto agli elementi di prova valutati a carico del PAVAN, la sentenza impugnata ha motivato in modo assolutamente congruo e logico in ordine alla valenza delle risultanze dei tabulati telefonici dell’utenza cellulare intestata all’imputato, evidenziando i seguenti dati di fatto:
Si tratta quindi di elementi che, superficialmente svalutati dal giudice di primo grado, sono stati esattamente ritenuti di assoluto rilievo dalla Corte territoriale e valutati congiuntamente a quello costituito dalla identificazione del PAVAN mediante le immagini delle videocamere, nell’ambito di un giudizio globale e non parcellizzato del quadro probatorio emerso nel processo.
Pertanto, non solo non era necessaria l’audizione di periti e consulenti in grado d’appello, ma la sentenza impugnata ha altresì adempiuto all’onere di motivazione cosiddetta rafforzata, confutando in modo approfondito e puntuale le opposte argomentazioni, peraltro evanescenti, della sentenza assolutoria.
5.2. In relazione all’ultimo motivo di ricorso, non può che osservarsi come il trattamento sanzionatorio sia stato adeguatamente motivato sotto tutti i profili.
per questi motivi
chiede il rigetto del ricorso.
Il sost. Proc.
Roberto Aniello
Roma, 21 dicembre 2018
[1] Una delle differenze è chiaramente espressa dal comma 2 dello stesso art. 501, che consente direttamente a periti e consulenti di consultare documenti, note scritte e pubblicazioni, diversamente dai testimoni, che, per consultare documenti - ma solo redatti dagli stessi - devono essere autorizzati dal Presidente (art. 499 comma 5 c.p.p.). Le peculiarità attengono comunque alle sole modalità dell’esame.
[2] Il reato risulta integrato quando la valutazione contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e sia fondata su premesse contenenti false attestazioni (Sez. 5^ n. 7067/2011, Sabolo, che richiama Sez. 5^ n. 15773/2017, Marigliano) e vi sia divergenza tra il convincimento reale e quello manifestato dal perito (Sez. 6^ n. 36654/2015, Tonnarelli; Sez. 6^, n. 38307/2015 (Panciera).
[3] In realtà, già molti anni addietro la CEDU si era espressa negli stessi termini, ma non sembra che la decisione del 18.5.2004 nel caso Destrehem c. Francia abbia avuto risonanza, pur avendo affermato l’identico principio.
[4] Ovviamente la sanatoria del vizio formale non preclude alla parte di ricorrere per vizio di motivazione, ponendosi su piani distinti la violazione del diritto di difesa e il vizio logico.
[5] Si devono oltretutto considerare le conseguenze della rilevabilità d’ufficio: se il giudice di appello condanna perché ignora completamente una prova a difesa valorizzata dal giudice di primo grado, il vizio di motivazione può essere eccepito solo dalla parte con il ricorso; se invece il giudice di appello condanna dando una diversa valutazione della prova decisiva rispetto al giudice di primo grado, il vizio di motivazione sarebbe rilevabile di ufficio.
La gestione della crisi d’impresa è diventata punto focale dell’attività legislativa degli ultimi anni. Gli accordi di ristrutturazione, in particolare, sono al centro di un dibattito giurisprudenziale afferente la natura giuridica. Da ultimo la Corte di Cassazione annovera gli accordi di ristrutturazione tra le procedure concorsuali, con tutto quanto da questa definizione deriva.
Sommario: 1. Uno sguardo d’insieme alla composizione delle crisi d’impresa.- 2. Rapporti tra i diversi istituti deputati alla composizione della crisi. - 3. La discussa natura degli accordi di ristrutturazione.- 4. I recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità.
1.Uno sguardo d’insieme alla composizione delle crisi d’impresa
La riforma del diritto fallimentare ha introdotto negli ultimi anni significative novità nella disciplina dell’insolvenza ed ha istituito numerosi strumenti giuridici finalizzati alla soluzione negoziale della crisi di impresa .
Tali procedure sono orientate alla regolarizzazione delle situazioni di dissesto aziendale che hanno natura reversibile e che non hanno ancora raggiunto lo stato di insolvenza evidente.
A tale scopo, oltre al requisito dell’insolvenza, il legislatore ha introdotto proprio il requisito della crisi, per cui la procedura può avviarsi non solo in contesti patologici, ma anche in fasi ancora “risolvibili” , privilegiando la continuazione dell’impresa.
Gli strumenti che la normativa offre sono:
- i piani di risanamento (art. 67 L.F.)
- il concordato preventivo (art. 160 e ss. L.F.)
- gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis L.F).
Elemento comune delle procedure richiamate si rinviene nella presenza di un piano gestionale ed economico che disciplina di interventi da attuare per il risanamento dell’impresa e che si basa sull’accordo diretto tra imprenditore e creditori.
Grande rilevanza assumono sono gli accordi di ristrutturazione di debiti, introdotti dal d.l. 14.3.2005 n. 35 ( cd. decreto competitività) all’art. 2.
L’accordo, disciplinato dall’art. 182 bis L.F. , si atteggia come istituto di natura stragiudiziale che permette, al debitore in stato di crisi, di effettuare accordi con i creditori al fine di garantire la continuità aziendale.
Si tratta del primo riconoscimento di rilievo giuridico ad un accordo stragiudiziale, strumento, di natura flessibile e disciplinato dalla legge come mezzo di risanamento a cui può ricorrere l’impresa in crisi per ridurre la propria esposizione debitoria e provare un risanamento. L’art. 182 bis L.F., nello specifico, prevede che “l’imprenditore in stato di crisi può domandare, depositando la documentazione di cui all’art. 161, l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentati almeno il 60% dei crediti”
Per poter ricorrere all’accordo di ristrutturazione la legge richiede la sussistenza di due presupposti:
i) un presupposto di natura oggettiva: lo stato di crisi del soggetto che vi fa ricorso, intendendosi per crisi sia la situazione di difficoltà economica e finanziaria, sia lo stato di insolvenza del debitore;
ii) un presupposto di natura soggettiva : il debitore, cioè, per poter ricorrere a questo istituto, deve rientrare in una delle categorie espressamente indicate dalla legge. In particolare, può trattarsi di un soggetto fallibile secondo le previsioni dell’art. 1 L.F. (che prevede la fallibilità dei soli imprenditori commerciali); di un imprenditore agricolo, ammesso all’accordo di cui all’art. 182 bis L.F. dall’art. 23 co.43 D.L. 98/2011; di un imprenditore in possesso dei requisiti per ricorrere alla procedura di amministrazione straordinaria o di liquidazione coatta amministrativa.
La dottrina ha chiarito, poi, che anche l’imprenditore in stato d’insolvenza può richiedere l’omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti sulla base dell’art. 160 L.F. il quale previsa che lo stato di crisi comprende lo stato di insolvenza. Finalità primaria dell’istituto è il superamento della crisi d’impresa al fine di tutelare il valore economico del complesso industriale, garantendo la prosecuzione dell’attività aziendale.
Per poter omologare l’accordo, ai sensi dell’art. 182 bis L.F., l’imprenditore deve raggiungere un’intesa con i creditori che rappresentino almeno il 60 % delle passività. I creditori estranei all’accordo, invece, devono essere integralmente soddisfatti. Attraverso il ricorso agli accordi, il creditore, per le operazioni realizzate in rispetto degli accordi e con la finalità di giungere al risanamento dell’impresa, è posto al riparo da azione revocatorie.
2. Rapporti tra i diversi istituti deputati alla composizione della crisi
Al fine di definire la natura giuridica, è bene chiarire i rapporti con istituti “simili” o comunque deputati alla composizione della crisi.
In particolare, diversamente dal piano di risanamento aziendale di cui all’art. 67 L.F., gli accordi di ristrutturazione dei debiti possono essere utilizzati anche in un processo di natura liquidatoria. Inoltre, i piani di risanamento non richiedono il consenso e l’adesione dei creditori, non pubblicizzando la crisi d’impresa. I piani di risanamento non prevedono poi controlli e autorizzazioni da parte dell’autorità giudiziaria durante la fase esecutiva.
Per quanto qui di maggiore interesse, in un’ottica comparativa con il concordato preventivo, si assiste ad una graduazione del controllo esercitato dal Tribunale, del tutto assente nei piani di risanamento di cui all’art. 67 L.F. e non particolarmente incisivo negli accordi di cui all’art. 182 bis L.F. Tuttavia, gli effetti obbligatori per i creditori dissenzienti in un concordato omologato, rendono più semplice il raggiungimento di un accordo in sede concorsuale. Come detto, infatti, l’accordo non è vincolante per i creditori dissenzienti e per avere validità deve intervenire con almeno il 60% dei creditori stessi. Sovente, però, soprattutto nei casi di imprese con un alto numero di creditori, l’ottenimento della maggioranza richiesta dall’art. 182 bis L.F. risulta molto difficile e la necessità di disporre delle liquidità necessarie a liquidare interamente i creditori dissenzienti, impone spesso quale unica soluzione alla crisi la proposizione della domanda di concordato preventivo.
Gli accordi, quindi, sono presi con la maggioranza e non a maggioranza e costituiscono il presupposto stesso dell’intervento del Giudice.
3. La discussa natura degli accordi di ristrutturazione.
In dottrina ed in giurisprudenza si discute sulla natura degli accordi. Come noto, sul punto sono emersi tre filoni interpretativi:
- gli accordi di ristrutturazione sono da assimilare al concordato preventivo;
- gli accordi di ristrutturazione divergono dal concordato, ma restano procedure concorsuali;
- gli accordi di ristrutturazione hanno natura negoziale e sono espressione di autonomia privata.
La lettera della norma, infatti, pone dei dubbi in merito alla considerazione degli accordi di ristrutturazione come modalità di realizzazione del concordato preventivo o come istituto a sé stante.
Si discute, poi, se l’istituto in esame possa annoverarsi tra le procedure concorsuali o se, piuttosto, non vada considerato come un istituto di natura privatistica – negoziale.
Una prima impostazione, invero minoritaria, ripercorrendo la relazione illustrativa al d.l. 35/2005 che afferma che “il concordato diviene uno strumento attraverso cui la crisi di impresa può essere risolta anche con accordi stragiudiziali che abbiano ad oggetto la ristrutturazione di impresa..” qualifica l’accordo di ristrutturazione come species del concordato preventivo
Dottrina maggioritaria ha, però escluso la sovrapposizione tra concordato e accordi di ristrutturazione, anche in forza della collocazione sistematica dell’istituto in esame e delle indicazioni del legislatore che titola il capo V distinguendo specificamente i due istituti (“Dell’omologazione e dell’esecuzione del concordato preventivo. Degli accordi di ristrutturazione di debiti”).
La legge 134/2012 ha poi previsto la possibilità di sottoscrivere un accordo di ristrutturazione del debito anche successivamente ad una richiesta di ammissione al concordato preventivo.
Esclusa, quindi, la sovrapposizione tra accordi e concordato, si discute se gli accordi di ristrutturazione abbiano natura concorsuale.
La dottrina maggioritaria, aderendo alla tesi privatistica, ha tradizionalmente escluso la natura concorsuale degli accordi di ristrutturazione dei debiti affermando che:
- non vi è un procedimento ed un provvedimento di apertura;
- non vi è la nomina di organi appositi (giudice delegato, commissario, comitato dei creditori);
- il dissesto non è regolato concorsualmente (non tutti i creditori sono coinvolti e gli accordi non sono obbligatori per i creditori dissenzienti) ;
- i creditori non sono organizzati come collettività con interessi omogenei ; - il debitore non è privato della gestione dell’impresa;
- gli atti del debitore non sono soggetti né a controlli né a vincoli.
In particolare, i creditori non perdono la loro individualità, mentre nelle procedure concorsuali l’interesse della classe si sostituisce a quello del singolo cossiché le decisioni prese a maggioranza sono vincolanti anche per i creditori dissenzienti. Diversamente, negli accordi di ristrutturazione dei debiti i creditori non perdono la loro individualità, coloro che non vogliono prendere parte all’accordo conservano il diritto ad essere interamente soddisfatti e la loro titolarità ad esperire azioni individuali per la soddisfazione del loro credito poiché gli accordi non producono effetto nei confronti dei terzi.
Unico limite all’autonomia dei singoli è rappresentato dal blocco delle azioni esecutive per un periodo limitato, controbilanciato però dall’impegno preso dal debitore di garantire il regolare pagamento dei loro crediti.
In forza di tali premesse, giurisprudenza di merito ha statuito che “gli accordi di ristrutturazione dei debiti non costituiscono una forma di concordato preventivo semplificato, ma integrano un autonomo istituto giuridico assimilabile ad un pactum de non petendo e, per la pluralità di parti, ad un negozio di diritto privato qualificabile come contratto bilaterale plurisoggettivo a causa unitaria..” (Tribunale di Milano 2007).
Altra parte della dottrina, invece, pur considerando gli accordi di ristrutturazione dei debiti diversi ed autonomi dal concordato preventivo, li annoverano tra le procedure concorsuali. In tal senso richiamano:
- la modalità di formazione dell’accordo che richiama quella del concordato preventivo ;
- la competenza del tribunale fallimentare per l’omologazione;
- il blocco delle azioni esecutive e cautelari - la previsione dell’esenzione da revocatoria fallimentare degli atti posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato.
4. I recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità.
Di recente, anche la Corte di Cassazione ha imposto un deciso cambio di rotta per quanto attiene alla qualificazione giuridica della natura degli accordi di ristrutturazione del debito (Cass. 1182/2018; Cass. 9087/2018; Cass. 163472018).
Secondo la Suprema Corte, in particolare, gli accordi in esame sono procedure concorsuali e non uno strumento privatistico, in quanto regolati da precisi meccanismi che li contraddistinguono e tutti riportati sopra. Nel dettaglio, la Corte di Cassazione, con sentenza 12.4.2018, n. 9087 definisce il sistema fallimentare chiarendo che “la sfera della concorsualità può essere oggi ipostaticamente rappresentata come una serie di cerchi concentrici, caratterizzati dal progressivo aumento dell’autonomia delle parti man mano che ci si allontana dal nucleo (la procedura fallimentare) fino all’ordita più esterna ( gli accordi di ristrutturazione dei debiti), passando attraverso le altre procedure di livello intermedio, quali la liquidazione degli imprenditori non fallibili, le amministrazioni straordinarie, le liquidazioni coattive amministrative, il concordato fallimentare, il concordato preventivo, gli accordi di composizione della crisi da sovraindebitamento degli imprenditori non fallibili, gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e le convenzioni di moratoria. Restando all’esterno di questo perimetro immaginario solo gli atti interni di autonomia riorganizzazione dell’impresa, come i piani attestati di risanamento e gli accordi di natura esclusivamente stragiudiziale che non richiedono nemmeno un intervento giudiziale di tipo omologatorio”.
Invero, un’analisi attenta delle motivazioni adottate dalla giurisprudenza di legittimità induce, quanto meno, a nutrire dei dubbi sulla qualifica concorsuale dell’accordo.
In tal senso, l’esenzione dall’azione revocatoria non può intendersi come elemento indicativo di una procedura concorsuale vera e propria posto che costituisce l’effetto naturale anche del piano di risanamento, che la stessa Corte ha, anche di recente, escluso dal novero delle procedure concorsuali (Cass. 1895/2018).
Allo stesso modo, non pare indicativa la pubblicità derivante dall’iscrizione nel registro delle imprese, richiesta anche per tutte le operazioni straordinarie.
L’intervento del Tribunale nell’omologa dell’accordo di ristrutturazione, inoltre, appare molto limitato rispetto alle verifiche di fattibilità giuridica ed economica a cui è sottoposto il concordato preventivo.
L’unico vero punto in contatto con la disciplina del concordato preventivo, allora, si individua nelle misure che inibiscono temporaneamente l’iniziativa individuale del creditore. Tuttavia, anche queste misure, più che caratteristiche del concordato preventivo, inteso come procedura concorsuale, appaiono più che altro necessarie a garantire una corretta gestione della crisi di impresa.
Sul punto, non è dirimente nemmeno la riforma della disciplina di crisi e insolvenza (nuovo codice della crisi di impresa), anche se questa prevede che a talune condizioni, precisamente individuate, gli effetti del concordato preventivo possano travalicare la dimensione puramente negoziale ed estendersi ai dissenzienti. Sembra, allora, che la giurisprudenza stia cercando già una sintonia con la riforma della disciplina di crisi varata con lo schema di decreto attuativo approvato dal Consiglio dei ministri l’8 novembre 2018, in attuazione della legge n.155 del 2017 (“Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza” in GU Serie Generale n. 254 del 30/10/2017).
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