ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il curatore è legittimato ad impugnare il decreto di sequestro penale avente ad oggetto beni dell’imprenditore commerciale “fallito” di Paola Filippi
Sommario: 1. L’articolo 320 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. - 2. La sentenza delle Sezioni Unite penali Uniland in tema di legittimazione del curatore. -3. Le sentenze della II Sezione del 2003, PM proc. Sajeva, e delle Sezioni Unite del 2004, proc. Focarelli. - 4. La giurisprudenza di legittimità dopo le Sezioni unite Uniland.- 5. Genesi della norma, vigenza e natura interpretativa. - 6. La legittimazione del curatore in materia di misure di prevenzione e in materia di responsabilità degli enti.
1. L’articolo 320 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
Il curatore può proporre richiesta di riesame e appello contro il decreto di sequestro e contro le ordinanze in materia di sequestro, e è altresì legittimato a proporre ricorso per Cassazione, tanto prevede espressamente l’articolo 320 del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, rubricato appunto “La legittimazione del curatore”, d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, emesso in attuazione della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155, (pubblicato nella Gazz. Uff. 14 febbraio 2019, n. 38, S.O), che entrerà in vigore il 15 agosto 2020.
L’espressa enunciazione del potere del curatore di agire in giudizio contro provvedimenti cautelari, lesivi della garanzia patrimoniale dei creditori corregge, apertis verbis, l’affermazione delle Sezioni Unite penali, sentenza n.11170 del 25.9.2014, Uniland S.p.a, che lo aveva relegato alla figura di “soggetto terzo rispetto al procedimento cautelare”, “soggetto senza titolo rispetto ai beni in sequestro, senza potere di azione e di rappresentanza dei creditori”.
2. La sentenza delle Sezioni Unite penali Uniland in tema di legittimazione del curatore.
La decisione delle Sezioni Unite penali Uniland in punto di legittimazione del curatore, ha sin da subito destato perplessità (come emerge dagli argomentati distinguo della Terza Sezione penale di cui alle sentenze n. 45574 del 29.5.2018, n. 37439 del 7.3.2017, Fallimento della Europa 2000 s.r.l.; n. 47737 del 24.9.2018, Fallimento Paninvest s.p.a).
I penalisti hanno posto in luce l’assenza di tutela derivante dal diniego di legittimazione del curatore stante il venir meno, in conseguenza del fallimento (dal 2020 liquidazione giudiziale) dell’interesse ad agire dell’indagato.
I fallimentaristi hanno rilevato il contrasto derivante dall’affermata incapacità di agire ai fini recuperatori, in sede penale, dell’organo cui è demandato il compito precipuo di ricostituire l’attivo ovvero dell’organo al quale, in sede civile, è riconosciuta piena capacità di azione a tutela della massa con riguardo ai diritti patrimoniali del debitore, alle azioni di responsabilità e che, ai sensi dell’articolo 240 legge fallimentare ( articolo 347 del codice della crisi), è l’unico soggetto legittimato a costituirsi parte civile nel processo penale.
3. Le sentenze della II Sezione del 2003, PM proc. Sajeva, e delle Sezioni Unite del 2014, proc. Focarelli.
L’affermazione secondo la quale il curatore non è legittimato ad agire contro le misure cautelari reali aventi ad oggetto i beni di cui all’art. 42 della legge fallimentare (ora articolo 142 del Codice della crisi e dell’insolvenza dell’impresa) non ha avuto un seguito unanime tra i giudici di merito, rimasti ancorati all’affermazione secondo cui “contro le ordinanze in materia di sequestro preventivo, legittimato a proporre appello, ai sensi dell'art. 322 bis cod. proc. pen., è anche il curatore del fallimento che, nell'espletamento dei compiti di amministrazione del patrimonio fallimentare, chieda la restituzione delle somme di denaro sequestrate, riferibili alla società fallita, ancorché derivanti da condotte illecite poste in essere dall'imprenditore”, (Sez. 2, sentenza n.24160 del 16.5.2003, PM in proc. Sajeva) e quindi all’affermazione secondo cui “il curatore del fallimento, nell'espletamento dei compiti di amministrazione del patrimonio fallimentare, ha facoltà di proporre sia l'istanza di riesame del provvedimento di sequestro preventivo, sia quella di revoca della misura, ai sensi dell'art. 322 cod. proc. pen., nonché di ricorrere per cassazione ai sensi dell'art. 325 stesso codice avverso le relative ordinanze emesse dal tribunale del riesame”(Sezioni Unite, sentenza n. 29951 del 24.5.2004, proc. Focarelli).
4. La giurisprudenza di legittimità dopo le Sezioni unite Uniland.
In sede di legittimità, dopo le Sezioni Unite Uniland, si sono registrate decisioni ondivaghe. La legittimazione del curatore, è stata ancorata all’anteriorità della procedura concorsuale rispetto al sequestro, così la legittimazione del curatore è stata riconosciuta, nel caso di sequestro successivo all’apertura della procedura esecutiva, in base all’affermazione che “i beni erano stati già assoggettati alla procedura fallimentare” e che la dichiarazione di fallimento aveva comportato “il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, con l’effetto dell’attribuzione al curatore del compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento” (Sez. 3, sentenza n. 45574 del 29.5.2018). In ragione dell’anteriorità del sequestro rispetto all’apertura della procedura esecutiva concorsuale il curatore è stato invece ritenuto non legittimato a proporre l’impugnazione in quanto: “non titolare di alcun diritto sui beni del fallito, né in proprio, né quale rappresentante dei creditori del fallito i quali, prima della conclusione della procedura concorsuale, non hanno alcun diritto restitutorio sui beni”. (Sez. 3, sentenza n. 42469, 12.7.2016 Amista e n. 23388, 1.3.2016 Ivone). L’affermazione di entrambe le decisioni sopra riportate si fonda sull’assunto, in insanabile contraddizione con i principi che regolano la procedura concorsuale, che la legittimazione ad impugnare del curatore consegue alla “effettiva disponibilità del bene, che la dichiarazione di fallimento successiva al sequestro non conferisce alla procedura la disponibilità dei beni del fallito perché questi conserva il diritto di proprietà e che il pregresso vincolo penale assorbe ogni potere fattuale su tali beni, escludendo ogni disponibilità diversa sugli stessi”.
Detto assunto è in palese contrasto con la disciplina di cui agli articoli 64 - 71 della legge fallimentare (articoli 163 - 170 del codice della crisi) in materia di ricostituzione della massa attiva, che rimette al curatore uno specifico compito recuperatorio con riferimento a quanto uscito dal patrimonio dell’imprenditore commerciale, prima dell’apertura della procedura esecutiva concorsuale (ora liquidazione giudiziale); è in palese contrasto altresì con la disposizione di cui all’articolo 43 della legge fallimentare (articolo 143 del codice della crisi) che gli conosce piena capacità processuale con riferimento ai diritti patrimoniali, detto argomento non tiene poi conto della qualità di creditore concorsuale chirografario della persona offesa del reato (si legga in tal senso Sez. 2, sentenza n. 24160 del 16.5.2003, PM in proc. Sajeva)– ivi compreso l’erario seppure creditore concorsuale privilegiato- nè tiene conto della natura di creditore concorsuale dello Stato con riguardo alla sanzione pecuniaria con riferimento alla responsabilità degli enti, ma questo sarà trattato più approfonditamente quando si tratterà il tema dei criteri di prevalenza, rispetto alla gestione concorsuale, delle misure cautelari adottate in sede penale, anteriormente o successivamente alla dichiarazione di fallimento (dal 2020 dalla dichiarazione di insolvenza).
La destinazione del patrimonio dell’imprenditore commerciale quale garanzia dei crediti assunti nell’esercizio dell’impresa e lo specifico compito del curatore di ricostituire la massa attiva da liquidare ai fini del riparto evidenzia l’assoluta irrilevanza ai fini del riconoscimento del potere di agire o ai fini della scelta in ordine alla prevalenza tra sequestro e procedura concorsuale del momento in cui interviene l’apprensione a fini cautelari del bene.
Secondo la giurisprudenza di legittimità più recente, ai fini della verifica della legittimazione del curatore, deve essere considerata non già la diponibilità dei beni al momento del sequestro bensì l’interesse alla restituzione, su questa linea è così iniziata, già prima della pubblicazione del d.lgs. n. 14/2019, la graduale rivisitazione giurisprudenziale dell’affermazione delle Sezioni Unite Uniland.
E’ stato evidenziato, nell’ambito di detto orientamento, che “l'idea secondo la quale l'interessato coincida sempre con l'indagato o con la società fallita è tutta da verificare in concreto, perché, allorquando sui beni siano apposti plurimi vincoli, è ben possibile che l'indagato non abbia alcun interesse, mentre la curatela ne abbia molteplici, sicché negarle seccamente la legittimazione, sulla base di una tralaticia applicazione del principio della sentenza Uniland finisce per negare la tutela all'avente diritto. Per contro, generalizzare la legittimazione del curatore all'impugnativa, negandola all'indagato o al legale rappresentante della società fallita pure conduce ad un diniego di tutela quando la curatela abbia dimostrato disinteresse per quell'azione giudiziale”. E’ stato così affermato il principio secondo cui: “il giudice deve apprezzare nel caso concreto il diritto e l'interesse del curatore fallimentare all'impugnativa delle misure cautelari reali, avuto riguardo alla specialità delle norme fallimentari, da un lato, ed alle specialità delle norme penali dall'altro e formulando di volta in volta un giudizio di bilanciamento dei contrapposti interessi” (Sez. terza, Sez. 3, n. 37439 del 07/03/2017, Fallimento della Europa 2000 s.r. l., sentenza non massimata).
Ulteriori profili di criticità emergono dalla considerazione che dopo l’apertura della procedura concorsuale, se l’indagato non è più legittimato a chiedere il dissequestro, la negazione della legittimazione ad agire del curatore determina il paradosso che nessuno è titolato a far valere in sede giurisdizionale eventuali vizi dell’ordinanza cautelare e ciò (aggiungiamo noi), in danno dei creditori concorsuali che solo con la liquidazione del patrimonio in sequestro potrebbero trovare, quanto meno parziale, soddisfazione dei loro crediti (Sez. 3, n. 47737 del 24/09/ 2018, Fallimento Paninvest s.p.a.)
Anche prima della pubblicazione del decreto legislativo n. 14/2019 la Cassazione sembrava orientarsi verso un ritorno ai principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite Focarelli. Da ultimo, con ordinanza del 16 aprile 2019 nell’ambito del proc. R.G. n. 2208/2019, sul ricorso del Fallimento Mantova Petroli s.r.l., la Terza sezione ha rimesso alle Sezioni unite il quesito “Se il curatore fallimentare sia legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale, quando il vincolo penale sia stata disposto prima della dichiarazione di fallimento”.
5. Genesi della previsione normativa.
E’ stato il diniego della legittimazione del curatore di fonte giurisprudenziale a persuadere la prima Commissione Rordorf -nominata con decreto ministeriale del 18 febbraio 2015 “per elaborare proposte di interventi di riforma, ricognizione e riordino della disciplina delle procedure concorsuali”- dell’opportunità di inserire una disposizione che sancisse espressamente l’esistenza, in capo al curatore del potere di agire, anche in sede cautelare penale, a tutela della massa fallimentare. La previsione di cui all’articolo 320 è stata così inserita tra quelle dirette “a stabilire le condizioni e criteri di prevalenza, rispetto alla gestione concorsuale, delle misure cautelari adottate in sede penale, anteriormente o successivamente alla dichiarazione di insolvenza (direttiva della legge delega 19 ottobre 2017 n. 155 inserita nell’articolo 13 n. 1).
L’entrata in vigore del codice della crisi è differita al 15 agosto 2020, ma il vigore differito non esclude l’applicazione immediata della norma in tema di legittimazione del curatore e ciò in quanto come sopra si è evidenziato la disposizione di cui all’art. 320 non ha portata innovativa bensì, per le ragioni sopra esposte, natura squisitamente interpretativa, costituisce infatti codificazione di un principio immanente alla procedura esecutiva concorsuale, la cui introduzione è stata determinata dalla necessità di fare chiarezza in punto di poteri dell’organo “principe” della procedura esecutiva concorsuale, messi in dubbio dalla sentenza Sezioni Unite Uniland.
A conforto di quanto si è detto si richiama l’attenzione sulla circostanza che la previsione espressa della legittimazione ad agire del curatore non si collega a norme che comportano il riconoscimento di poteri nuovi ma trae fondamento dal principio di immutata cogenza che informa il sistema dell’esecuzione civile, sancito all’articolo 2740 cod. civ. che assegna ai beni del debitore l’inderogabile destinazione di patrimonio a garanzia delle pretese creditorie e così come nel principio che informa l’esecuzione concorsuale della par condicio creditorum, come ribadito all’articolo 151 del codice della crisi e dell’insolvenza, che ripropone il testo dell’articolo 52 della legge fallimentare: “la liquidazione giudiziale apre il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore e dal giorno della dichiarazione di insolvenza e apertura della procedura di liquidazione giudiziale nessuna azione individuale esecutiva o cautelare, può essere iniziata o proseguita”. Sotto il profilo processuale infine la legittimazione del curatore di cui all’articolo 320 codice della crisi altro non è che la declinazione in sede penale del principio della legittimazione in sede civile del curatore con riferimento ai diritti patrimoniali, l’articolo 143 del codice della crisi riporta la previsione contenuta all’articolo 43 della legge fallimentare, rubricato come il precedente rapporti processuali, secondo cui “nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del debitore compresi nella liquidazione giudiziale sta in giudizio il curatore”.
6. La legittimazione del curatore in materia di misure di prevenzione e in materia di responsabilità degli enti.
L’art. 317 rubricato “Principio di prevalenza delle misure cautelari reali e tutela dei terzi” prevede inoltre che “ le condizioni e i criteri di prevalenza rispetto alla gestione concorsuale delle misure cautelari reali sulle cose indicate dall'articolo 142 sono regolate dalle disposizioni del Libro I, titolo IV del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, salvo quanto previsto dagli articoli 318, 319 e 320”, così estendendo la previsione della legittimazione del curatore anche con riguardo alle misure di prevenzione.
Deve così ritenersi risolta, in senso positivo per i creditori concorsuali, la questione della legittimazione in sede cautelare penale del curatore aperta dalle Sezioni unite Uniland, in ragione del carattere estensivo della previsione normativa, da riferirsi anche alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 231/2001 in materia di responsabilità degli enti e ciò in ragione della direttiva di cui all’art. 13 n.2 della legge 19 ottobre 2017, n. 155, in materia di coordinamento della liquidazione giudiziale con la disciplina di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, e in particolare con le misure cautelari previste dalla disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti nel rispetto della prevalenza del regime concorsuale.
L’ESDEBITAZIONE NEL PASSAGGIO DALLA LEGGE FALLIMENTARE AL CODICE DELLA CRISI D’IMPRESA E DELL’INSOLVENZA di Daniele Vattermoli
Il Codice della crisi e dell’insolvenza dedica all’esdebitazione il Capo X del Titolo V (artt. 278-283). La scelta del legislatore delegato è stata quella, per un verso ed in parte, di riprodurre le disposizioni ora contenute nella legge fallimentare e nella l. n. 3/2012 e, per altro verso, di innovare profondamente la disciplina attuale, andando anche al di là dei confini segnati dai principi della legge delega n. 155/2017. L'articolo si propone di illustrare le novità più rilevanti, appunto, introdotte dalla riforma in tema di fresh start del debitore insolvente.
L’esdebitazione – attualmente disciplinata dagli artt. 142-144 l.fall. e dall’art. 14-terdecies l. n. 3/2012 – è l’istituto attraverso il quale il debitore fallito o sovraindebitato, ricorrendo determinate condizioni, viene liberato dall’obbligo di adempimento delle prestazioni ancora dovute ai creditori rimasti insoddisfatti dai riparti endoconcorsuali, in deroga alla regola ricavabile dall’art. 120, comma 3 l.fall.[1]. Quella appena descritta è, più in particolare, l’esdebitazione in senso stretto, che consegue alla chiusura di una procedura concorsuale che prevede la liquidazione dei beni del debitore [fallimento e liquidazione del patrimonio, oggi; liquidazione giudiziale e liquidazione controllata, quando entrerà in vigore il Codice della crisi e dell’insolvenza (CCI)], come tale intervenendo dall’esterno del rapporto obbligatorio, senza alcun coinvolgimento attivo della parte creditrice. Da tale figura si distinguono dunque le ipotesi di liberazione dai debiti che costituiscono un elemento di un accordo più ampio tra debitore e creditori (es., falcidia concordataria), che d’acchito sembrerebbero appartenere – ma in realtà così non è – alla medesima categoria concettuale dell’esdebitazione.
Per quel che concerne la ratio dell’istituto, occorre sottolineare come l’impossibilità di individuare una “controprestazione” diretta all’esdebitazione in senso stretto, possibile invece nell’ambito della falcidia concordataria, abbia imposto ed impone di ricercare la giustificazione della stessa al di fuori del rapporto obbligatorio che ne è investito.
In particolare, si ritiene comunemente cha tale giustificazione consista nell’agevolare il recupero al mercato di un soggetto (a maggior ragione se imprenditore) produttivo di reddito e di lavoro, il cui reinserimento nel tessuto economico verrebbe frustrato dalla permanenza del vincolo impresso dall’art. 2740, comma 1 c.c. sul patrimonio formatosi successivamente alla chiusura della procedura. Reinserimento che produrrebbe effetti benefici non soltanto sul piano personale, bensì anche a livello macroeconomico ed il cui costo viene sopportato dai creditori anteriori alla concessione del beneficio, a tutto vantaggio, a ben vedere, dei creditori futuri. Ciò che consente di cogliere, in una visione di insieme, il precipitato ultimo degli effetti della esdebitazione, rappresentato dallo spostamento di valore da un gruppo di soggetti ad un altro, del quale occorre ovviamente tener conto al momento della valutazione complessiva dell’istituto[2]. Può dirsi, dunque, che la disciplina della esdebitazione si caratterizza (o dovrebbe caratterizzarsi) per la ricerca del più efficiente punto di equilibrio tra le ragioni del debitore e quelle dei creditori concorsuali, nella consapevolezza che all’aumentare della flessibilità e all’allargarsi delle maglie per la concessione del beneficio, maggiore è il rischio per i secondi di subire la perdita totale della parte del credito non soddisfatta all’interno della procedura collettiva e più alto, di conseguenza, è il “premio” per la copertura ex ante dello stesso, che inevitabilmente si traduce in un aumento del costo del danaro.
Su di un piano generale va detto che l’esdebitazione è istituto di fonte legale, l’autorità giudiziaria limitandosi, invero, ad accertare la sussistenza delle condizioni, positive e negative, che le norme pongono per la sua concessione.
Sempre su di un piano generale sembra corretto ritenere che il rapporto obbligatorio non si estingua e che dunque sopravviva all’esdebitazione. Dato che emerge con sufficiente chiarezza dalla lettera degli artt. 14-terdecies, comma 4 l. n. 3/2012 e 143, comma 1, l.fall. nei quali si afferma che il giudice, accertate le condizioni poste dalla legge, «dichiara inesigibili nei confronti del debitore i crediti non soddisfatti integralmente»; norma replicata dal nuovo art. 278, comma 1 CCI, ai sensi del quale l’esdebitazione «comporta l’inesigibilità dal debitore dei crediti rimasti insoddisfatti». Che il rapporto obbligatorio sopravviva all’esdebitazione è poi confermato, seppure indirettamente, dell’art. 142, ult. comma, l.fall. ai sensi del quale «sono salvi i diritti vantati dai creditori nei confronti di coobbligati, dei fideiussori e degli obbligati in via di regresso»; disposizione che trova il proprio corrispondente, applicabile anche alla procedura di liquidazione controllata[3], nell’art. 278, comma 6 CCI.
L’inesigibilità del credito determinata dalla esdebitazione si atteggia come un effetto tendenzialmente definitivo, non essendo soggetto né a tempo né a condizione risolutiva (con l’entrata in vigore del CCI verrà meno anche la possibilità di revoca della concessione del beneficio, oggi prevista, ma solo nell’ambito della procedura di sovraindebitamento, dall’art. 14-terdecies, comma 5 l. n. 3/2012); ed è un effetto innescato, come si è detto, da un intervento esterno rispetto al rapporto obbligatorio che ne è investito. Caratteristiche che consentono di ricondurre l’obbligazione colpita dall’esdebitazione tra quelle naturali, ex art. 2034 c.c., il cui adempimento spontaneo non ammette la ripetizione della prestazione eseguita. Si tratta, più in particolare, di un’ipotesi di obbligazione naturale atipica sopravvenuta, che presenta più di un punto di contatto con il pagamento del debito prescritto (art. 2940 c.c.) [4].
All’esdebitazione la legge delega n. 155/2017 dedica, con riferimento alla liquidazione giudiziale, l’intero art. 8; del beneficio si occupa, inoltre, l’art. 9, contenente i principi direttivi in tema di sovraindebitamento, confermandosi così, anche nel nuovo scenario, il sistema del doppio binario.
Il Codice della crisi e dell’insolvenza dedica all’esdebitazione il Capo X del Titolo V (artt. 278-283). La scelta del legislatore delegato è stata quella, per un verso ed in parte, di riprodurre le disposizioni ora contenute nella legge fallimentare e nella l. n. 3/2012 e, per altro verso, di innovare profondamente la disciplina attuale, andando anche al di là dei confini segnati dai principi di delega.
Dal punto di vista della struttura, il CCI si compone di un gruppo di disposizioni applicabili alla liberazione dai debiti nelle procedure concorsuali che prevedono genericamente la liquidazione dei beni del debitore e, dunque, comuni alla liquidazione giudiziale e a quella controllata (artt. 278-280); e di altri due gruppi, più circoscritti, di disposizioni che trovano applicazione alla prima (art. 281) o alla seconda (art. 282) procedura.
Qui di seguito le novità più rilevanti rispetto alla disciplina vigente.
A. Prendendo spunto dalle indicazioni provenienti dalle istituzioni comunitarie è in primo luogo stabilito che per entrambe le procedure il termine massimo per il conseguimento del beneficio è di tre anni, decorrente dalla data di apertura della liquidazione (art. 279, comma 1 CCI), salvo che la procedura si chiuda prima, nel qual caso si può ottenere con il provvedimento di chiusura.
Il beneficio dell’esdebitazione può peraltro essere ottenuto anche prima (trascorsi due anni dal momento dell’apertura della procedura), qualora il debitore abbia proposto tempestivamente – ossia nei termini stabiliti dall’art. 24 CCI – l’istanza di composizione assistita della crisi (art. 279, comma 2 CCI), dando luogo ad una ulteriore misura premiale che si aggiunge a quelle contemplate dall’art. 25 CCI.
B. In secondo luogo, la liberazione dai debiti, come auspicato nella Raccomandazione UE del 2014 e dalla proposta di Direttiva del 2016, è effetto automatico del trascorrere del tempo, ma solo per il debitore sovraindebitato (art. 282, comma 1 CCI, rubricato “Esdebitazione di diritto”, ma che, più correttamente, andrebbe qualificata come esdebitazione “d’ufficio”). Per gli altri debitori, invece, la liberazione d’ufficio sembrerebbe possibile solo in sede di chiusura della procedura di liquidazione giudiziale: è infatti richiesta l’istanza del debitore qualora siano trascorsi tre anni e la procedura non sia ancora chiusa (art. 281, comma 2 CCI).
C. Sempre nell’ottica di facilitare l’esdebitazione si colloca la novità data dalla riduzione a 5 anni del lasso temporale minimo che deve intercorrere tra una esdebitazione e l’altra [art. 280, comma 1, lett. d) CCI], che l’attuale art. 14-terdecies, comma 1, lett. c), l. n. 3/2012 fissa in 8 anni per il sovraindebitato e l’art. 142, comma 1, n. 4) fissa in 10 anni per gli altri debitori. Per tutte le categorie di debitori è poi introdotto il limite, fin qui sconosciuto, delle due esdebitazioni [“quarta opportunità” non datur: art. 280, comma 1, lett. e) CCI].
D. Degna di segnalazione è la novità contemplata dall’art. 283 CCI che disciplina quella che può definirsi l’esdebitazione totale del sovraindebitato; ossia la liberazione integrale dai debiti del debitore persona fisica che non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, superandosi così il requisito, attualmente esistente, del soddisfacimento almeno parziale dei creditori.
Con riferimento a quest’ultima ipotesi – che, certo, dal punto di vista sistematico ha un impatto di non poco momento, sol che si consideri che in tal modo la procedura concorsuale da strumento di tutela del credito si trasforma, seppure una tantum, in un istituto a beneficio esclusivo del debitore – la legge fa peraltro salvo per il debitore, «l’obbligo di pagamento del debito entro quattro anni, laddove sopravvengano utilità rilevanti che consentano il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore al dieci per cento».
Premesso che il termine di quattro anni sembrerebbe da ricollegare alla durata minima oggi stabilita per la procedura di liquidazione del patrimonio, non può non rilevarsi la bizzarria della disposizione, che disegna quella che, con un ardito parallelo, può definirsi una “esdebitazione modale”, del tutto sconosciuta al nostro ordinamento.
Una esdebitazione, per di più, nella quale il modus può nel caso concreto – quando cioè le utilità sopravvenute siano tali da coprire l’intero debito inizialmente oggetto di esdebitazione – assumere contorni tali da annullare completamente il beneficio iniziale per il debitore. Ciò che comporta un doppio effetto boomerang, ossia: per un verso, che per il soggetto sovraindebitato potrebbe essere più conveniente l’esdebitazione definibile “comune” piuttosto che quella integrale; per altro verso e correlativamente, che la misura si traduce in un potente disincentivo per il debitore a produrre nuova ricchezza (almeno per i primi quattro anni), raggiungendo così un risultato esattamente antitetico a quello che unanimemente si ritiene essere l’obiettivo della discharge.
Inoltre, la particolarità di tale forma di esdebitazione una tantum risiede nel fatto che è svincolata dall’apertura di qualsivoglia procedura, nel senso che il debitore presenta tramite l’OCC la domanda al giudice competente, il quale, valutata la meritevolezza del debitore e verificata l’assenza di atti in frode e la mancanza di dolo o colpa grave nella formazione dell’indebitamento, concede con decreto l’esdebitazione (ferma restando la possibilità per i creditori di proporre opposizione).
E. Strettamente collegata alla novità rappresentata dalla esdebitazione del debitore incapiente v’è poi quella della scomparsa della condizione data dal soddisfacimento, almeno parziale, dei creditori concorrenti [artt. 142, comma 2 l.fall. e 14-terdecies, comma 1, lett. f) l. n. 3/2012]. Peraltro, pur non essendo prevista espressamente come condizione per il riconoscimento del beneficio, l’esistenza stessa della disciplina della liberazione una tantum riservata ai soli debitori persone fisiche sovraindebitati sembrerebbe consentire una interpretazione sistematica in virtù della quale: a) nella liquidazione giudiziale è sempre necessario soddisfare, seppure parzialmente, i creditori concorsuali; b) il debitore sovraindebitato che accede alla procedura di liquidazione controllata deve in ogni caso soddisfare, seppure parzialmente, i creditori concorsuali, salvo sia una persona fisica e salvo che attivi, una tantum appunto, il meccanismo dell’art. 283 CCI (nel qual caso, peraltro, non è neanche necessario accedere alla procedura di liquidazione controllata).
Certo, una norma espressa sul punto, che avesse chiarito anche le modalità di soddisfacimento “minimo” che consentono al debitore di ottenere il beneficio, sarebbe stata tutt’altro che superflua.
F. Sostanzialmente immutate, rispetto alla disciplina attuale, sono invece le altre condizioni poste per l’ottenimento del beneficio, con l’art. 280 che ricalca, grosso modo, l’art. 142, comma 1 l.fall. e, in buona misura, l’art. 14-terdecies, comma 1 l. n. 3/2012.
Così come assai simile si presenta il contenuto dell’art. 278, comma 7 CCI rispetto agli artt. 142, comma 3 l.fall. e 14-terdecies, comma 3 l. n. 3/2012 [anche se di quest’ultima norma non viene replicata la lettera c), relativa ai debiti fiscali accertati successivamente all’apertura della procedura], avuto riguardo ai debiti esclusi dell’esdebitazione.
G. In tema di esdebitazione, però, la novità più rilevante recata dalla legge delega, prima, e dal CCI, poi, è senza dubbio quella che concerne l’esdebitazione delle società.
Rompendo quello che sembrava un vero e proprio dogma è infatti espressamente stabilito che ad essere destinatarie del provvedimento di esdebitazione possano essere non soltanto i debitori persone fisiche, ma anche le società, sia di persone sia di capitali (art. 280, commi 3-5 CCI).
La scelta così operata dal legislatore domestico – che rappresenta un unicum nel panorama internazionale, se si eccettua l’ordinamento cileno – pare senz’altro condivisibile, specialmente qualora si ritenga che la chiusura del fallimento della società non conduca necessariamente ed inesorabilmente all’estinzione della stessa.
Premesso che la verifica dell’esistenza dei presupposti di meritevolezza per l’ottenimento del beneficio deve essere condotta nei confronti dei soci illimitatamente responsabili e dei legali rappresentanti, con riguardo agli ultimi tre anni anteriori alla domanda cui seguita l’apertura di una procedura liquidatoria, non v’è dubbio che la possibilità riconosciuta alle società di ottenere l’esdebitazione abbia una serie di ripercussioni sul piano sistematico.
In particolare, dalla previsione del discharge delle società può ricavarsi che:
a) anche in caso di chiusura per riparto totale dell’attivo l’estinzione della società non è evento ineluttabile e che dunque il curatore non può e non deve procedere con la richiesta di cancellazione dal registro delle imprese, qualora i soci (o gli amministratori) abbiano manifestato l’intenzione di chiedere il beneficio[5];
b) l’ordinamento pacificamente riconosce l’esistenza di un valore intrinseco alla struttura organizzativa delle società, perché altrimenti nessun senso avrebbe l’esdebitazione per un ente con un patrimonio che è pari a zero.
Da questo punto di vista, la norma può essere letta in continuità con la disciplina delle proposte concorrenti nel concordato preventivo, qualora la proposta preveda l’aumento di capitale con esclusione del diritto d’opzione. Le due situazioni sono, ovviamente, molto diverse, ma riflettono in fondo la stessa idea, quella che, al di là ed al di fuori del patrimonio in senso stretto, anche l’assetto organizzativo della società può avere un valore economico;
c) la riforma prospettata impone di ripensare alla ratio dell’esdebitazione, spogliandola di tutti quei profili di solidarietà e di giustizia sociale che fin dalla comparsa dell’istituto avevano costituito la base sulla quale è stata costruita la giustificazione dello spostamento di valore da un gruppo di creditori ad un altro, di cui si è detto all’inizio di questo scritto. Ed anche di ciò, ovviamente, si dovrà tener conto nella valutazione complessiva dell’istituto e nelle scelte di politica legislativa che ne conseguono, ai fini dell’equilibrato contemperamento degli interessi coinvolti;
d) diviene attuale, a questo punto, l’interrogativo in ordine all’applicabilità della disciplina dell’esdebitazione nell’ambito delle procedure di l.c.a. e di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, essendo destinato a venir meno l’unico elemento di ontologica incompatibilità, ad oggi esistente, tra l’istituto de quo e le procedure summenzionate[6].
[1] Cfr. V. Santoro, Commento sub art. 142, in A. Nigro-M. Sandulli-V. Santoro, La legge fallimentare dopo la riforma, II, Torino, 2010, p. 1864; A. Castagnola, L’esdebitazione del fallito, in Giur. comm., 2006, I, p. 448 ss.; L. Panzani, L’esdebitazione, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di A. Jorio-B. Sassani, III, Milano, 2016, p. 660; L. Ghia, L’esdebitazione: evoluzione storica, profili sostanziali, procedurali e comparatistici, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di U. Apice, II, Torino, 2009, p. 653 ss.
[2] Cfr. L. Stanghellini, «Fresh start»: implicazioni di «policy», in Analisi giuridica dell’economia, 2004, p. 442.
[3] Nel sistema attuale, nonostante la mancanza di una norma analoga all’art. 142, ult. comma, l.fall., chi scrive è giunto comunque a ritenere che anche nell’ambito dell’esdebitazione ex art. 14-terdecies l. n. 3/2012, restino comunque salvi i diritti dei creditori concorsuali nei confronti dei soggetti (coobbligati, fideiussori e obbligati in via di regresso) legati al debitore “esdebitato” dal vincolo della solidarietà passiva. Sul punto cfr. D. Vattermoli, La procedura di liquidazione del patrimonio del debitore alla luce del diritto “oggettivamente” concorsuale, in Dir. fall., 2013, I, p. 799.
[4] Conf. V. Santoro, Commento sub art. 143, cit., p. 1875.
[5] Peraltro, non è neanche detto che al termine della procedura la società abbia sicuramente un patrimonio pari a zero. È teoricamente possibile, invero, che la società, sfruttando le nuove potenzialità dell’istituto, abbia chiesto ed ottenuto l’esdebitazione durante il corso della procedura e che nel periodo di tempo intercorrente tra la concessione del beneficio e la chiusura della procedura siano entrati nuovi beni nel patrimonio dell’ente.
[6] D. Vattermoli, L’esdebitazione tra presente e futuro, in Riv. dir. comm., 2018, II, p. 495.
La diffusa – e forse pressoché unanime – convinzione che la repressione delle attività illecite, ancorché significativa, è sicuramente tardiva, sta suggerendo di attivare meccanismi di prevenzione atti ad impedire lo svolgimento di attività illegali, dannose o pericolose.
Lo stesso meccanismo processuale, del resto, tende ad individuare nei suoi percorsi mezzi e strumenti cautelari, motivati da indici prognostici e significativi di pericolosità. Si tratta, spesso, di strumenti operanti in tempi contingentali. Peraltro, oltre ai tempi che gli sviluppi processuali richiedono, stratificatisi nel tempo, devono essere assicurati diritti e garanzie rispettosi delle disposizioni costituzionali e sovrannazionali, che spesso possono rendere non pienamente efficace l’accertamento della responsabilità e la conseguente sanzionabilità dei comportamenti contra legem.
Sotto questa prospettiva, recuperando un armamentario proprio della pubblica sicurezza si sono individuati strumenti di prevenzione articolati intorno alla pericolosità delle persone desunte dai loro comportamenti, atteggiamenti, modi di vita, propensioni che suggerivano l’adozione nei loro confronti di provvedimenti impeditivi, ostativi, restrittivi.
Lo sviluppo dinamico della società e l’esigenza di evitare che la condizione soggettiva, sotto vari profili, possa non arginare adeguatamente le attività illegali, l’esigenza di proteggere la società, le persone, lo sviluppo economico, ha finito per fare degli strumenti di prevenzione una risorsa sempre più usata, considerata la bassa soglia di ingresso, la sua flessibilità, la sua efficacia.
Nella sostanziale unitarietà del suo nucleo essenziale, si è trattato, storicamente, di uno strumento che si è modellato con facilità alle diverse finalità che il potere voleva di volta in volta eseguire: protezione della proprietà, dissenso politico, disordine sociale.
Nel nostro Paese, superato il riferimento alle deviazioni antiregime, il nucleo essenziale ha preso le mosse dalla legislazione antimafia, nella sua dimensione soggettiva, per approdare più recentemente alla dimensione patrimoniale ed economica.
Gli ampliati strumenti di intervento e il dilatato orizzonte dei destinatari ha reso necessario il consolidamento strutturale delle attività espletabili, degli uffici proponenti e degli organismi decisori, consolidando un corpus normativo, nel quale non potevano non innestarsi – seppur ad un livello diversificato – le garanzie proprie di ogni percorso sanzionatorio.
Si è reso opportuno e forse necessario approvare un “Codice” della legislazione antimafia, di prevenzione, che si è venuto progressivamente arricchendo ma soprattutto modificando, in relazione alle esigenze che sono venute maturando in materia, soprattutto per effetto dello spostamento del focus della prevenzione personale e quella patrimoniale, con la necessità di creare organi di gestione dei patrimoni sequestrati e confiscati.
Il modello “antimafia” ha fatto crescere in parallelo altre procedure di prevenzione, diversamente modulate in relazione alla diversità dell’oggetto e della finalità ostativa ed impeditiva perseguita.
Si tratta di un panorama “altro”, diverso, sorretto, tuttavia, dalla medesima finalità e dalla stessa ispirazione.
Di tutto ciò, il Commentario cerca di fornire una lettura teorico-pratica corredata dai riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, anche sovrannazionali, che ne stanno progressivamente arricchendo la ricostruzione.
Il rilievo degli interessi moratori ai fini della verifica dell’usura presunta è oggetto di animato dibattito giurisprudenziale. Il tentativo è quello di individuare una strada percorribile muovendo dall’analisi delle recenti Sezioni Unite che hanno chiarito il rilievo della commissione di massimo scoperto per i rapporti bancari conclusi prima dell’introduzione dell’art. 2 bis nel D.L. n. 185 del 2008 ad opera dalla legge di conversione n. 2 del 2009.
Sommario: 1. Il rilievo degli interessi moratori ai fini del calcolo dell’usura. - 2.Le Sezioni unite civili 16303/2018 sul computo della commissione di massimo scoperto ai fini del calcolo dell’usura.- 3. Il rilievo dei principi espressi dalle Sezioni Unite applicati agli interessi di mora.
1.Il rilievo degli interessi moratori ai fini del calcolo dell’usura
Negli ultimi anni il tema del rapporto tra mora e usura è al centro di un dibattito dottrinale e giurisprudenziale. La questione, più nel dettaglio, afferisce alla possibilità di tener conto degli interessi moratori ai fini della verifica del superamento del tasso soglia e muove dall’inclusione nel T.E.G. (tasso effettivo globale) di voci di costo non contemplate dalla Banca d’Italia e quindi non oggetto di computo ai fini della rilevazione del T.E.G.M. (tasso effettivo globale medio).
Il TEG è un indicatore che rappresenta il costo complessivo del finanziamento nel caso concreto. Ai fini della verifica del rispetto delle soglie di usura il TEG si pone a confronto con il TEGM, stabilito ogni 3 mesi rilevando i tassi praticati sul mercato, contraddistinti per tipo di operazione e per classi di importo e che determina, per l’appunto, le soglie di usura.
Ebbene, la Banca d’Italia nel calcolare il T.E.G.M non tiene conto di talune voci di calcolo come gli interessi moratori e la commissione di massimo scoperto.
Si discute, pertanto, sul se tale assenza sia da intendersi come argomento contrario alla computabilità degli interessi moratori nel campo di applicazione dell’usura.
Ad oggi si fronteggiano due orientamenti.
L’orientamento che nega rilievo agli interessi moratori individua, in primis, argomenti di carattere testuale. L’art. 644 co.1 c.p. riferisce ad interessi “in corrispettivo”. L’interesse moratorio sarebbe allora, escluso da tale riferimento: questo non ha funzione corrispettiva, ma risarcitoria.
Si obietta, però, che l’argomento non è di per sé dirimente perché l’art. 644 co. 4 c.p. d’altra parte fa riferimento alle “remunerazioni a qualsiasi titolo”, non limitando il riferimento ai soli interessi corrispettivi. Ancora, si afferma che la clausola che predetermina l’entità degli interessi moratori ha natura di clausola penale. E’ noto che la clausola penale, ove manifestamente iniqua, è riducibile anche d’ufficio. La disciplina sarebbe, quindi, incompatibile con quella dell’usura.
Si nega, poi, rilievo all’interesse moratorio ai fini del calcolo dell’usura perché, diversamente, si darebbe rilievo a forme di inadempimento maliziose: il debitore sarebbe indotto a non adempiere per ottenere la conversione del mutuo da oneroso a gratuito.
Si afferma, in ultimo, che, in senso negativo, va letto il principio di simmetria che deve sussistere tra TEG e TEGM. Se una voce di calcolo non è computata nel TEGM (in astratto), ma calcolato nel TEG (nel caso concreto) è, chiaramente, più facile il superamento della soglia di usura, poiché nel confronto tra dato reale e dato legale, quest’ultimo sarà più basso.
Se bastasse rilevare la mancata inclusione di una voce di costo nei decreti ministeriali, però, l’autorità amministrativa diverrebbe prevalente anche rispetto alla legge.
Dai veloci dati richiamati si rileva la difficoltà della questione e il rilievo della conclusione raggiunta.
2.Le Sezioni Unite civili 16303/2018 sul computo della commissione di massimo scoperto ai fini del calcolo dell’usura.
Così sintetizzato il problema, le questioni si sono poste tutte simmetricamente anche per il computo della commissione di massimo scoperto.
Più nel dettaglio, ci si è interrogati sul computo della commissione di massimo scoperto ai fini del calcolo dell’usura per il periodo in cui era assente una legge di disciplina.
Le Sezioni Unite, di recente, hanno risolto la questione sul rilievo della commissione di massimo scoperto ai fini del calcolo dell’usura per rapporti bancari svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore all'entrata in vigore (il 1 gennaio 2010) delle disposizioni di cui all'art. 2 bis del D.L. n. 185 del 2008, inserito dalla legge di conversione n. 2 del 2009.
Occorre, pertanto, verificare se da quella sentenza possono trarsi elementi di rilievo per risolvere la questione oggi ancora dibattuta e avente ad oggetto gli interessi di mora.
Le Sezioni Unite, componendo un contrasto interpretativo, chiariscono la natura non interpretativa (e quindi retroattiva) dell’art. 2 bis D.L. n. 185 del 2008.
Il principio espresso - che qui più rileva - è quello per cui computare nel calcolo del TEG in concreto interessi di mora non previsti per il calcolo del TEGM contrasterebbe con il principio di simmetria. Più chiaramente la Corte afferma che “una tale asimmetria contrasterebbe palesemente con il sistema dell'usura presunta come delineato dalla L. n. 108 del 1996, la quale definisce alla stessa maniera sia - all'art. 644 c.p., comma 4, - gli elementi da considerare per la determinazione del tasso in concreto applicato, sia - alla L. n. 108, art. 2, comma 1, cui rinvia l'art. 644 c.p., comma 3, primo periodo, - gli elementi da prendere in considerazione nella rilevazione trimestrale, con appositi decreti ministeriali, del TEGM e, conseguentemente, per la determinazione del tasso soglia con cui va confrontato il tasso applicato in concreto..”.
La Corte sembra, cioè, richiamare quel principio di simmetria fondante l’orientamento di quanti escludono il computo degli interessi di mora e delle commissioni di massimo scoperto applicate ante 2010 per il calcolo dell’usura.
L’affermazione è però subito dopo specificata.
Il Supremo Consesso chiarisce che la mancata inclusione delle C.M.S. nei decreti ministeriali, provvedimenti amministrativi subordinati alla legge, non è, infatti, idonea ad escluderne il rilievo ai fini del calcolo dell’usura.
Si afferma, significativamente, che la mancata inclusione “imporrebbe, semmai, al giudice ordinario di prendere atto della illegittimità dei decreti e di disapplicarli (con conseguenti problemi quanto alla stessa configurabilità dell'usura presunta, basata sulla determinazione del tasso soglia sulla scorta delle rilevazioni dei tassi medi mediante un atto amministrativo di carattere generale)”.
Si specifica, poi, che la commissione di massimo scoperto, quale "corrispettivo pagato dal cliente per compensare l'intermediario dell'onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell'utilizzo dello scoperto del conto... calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento" non può non rientrare tra le "commissioni" o "remunerazioni" del credito menzionate sia dall'art. 644 c.p., comma 4,che dalla L. n. 108 del 1996, art. 2, comma 1, (determinazione del TEGM), attesa la sua dichiarata “natura corrispettiva” rispetto alla prestazione creditizia della banca.
3. Il rilievo dei principi espressi dalle Sezioni Unite applicati agli interessi di mora
E’ il caso di verificare se i principi richiamati possano rilevare anche per la risoluzione dell’attuale questione del computo degli interessi moratori ai fini del calcolo dell’usura.
Si riconosce, da una parte, il rilievo di un generale principio di simmetria che deve sussistere tra elementi computati nel TEGM e valutati ai fini del TEG, ma, dall’altra, si chiarisce che l’eventuale mancata inclusione di un elemento nei decreti ministeriali non è motivo di risoluzione. Il giudice dovrà, anzi, rilevare l’illegittimità del decreto.
Non può, pertanto, escludersi il rilievo degli interessi moratori sulla scorta del mero principio di simmetria delle voci di calcolo del TEG e del TEGM.
Piuttosto, allora, la vera questione riguarda la natura degli interessi moratori e la loro inclusione nel comma 4 dell’art. 644 c.p. che chiarisce “per le determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate al credito”.
Le sezioni Unite, per dare rilievo alla C.M.S., infatti, hanno chiarito che la stessa rientra a pieno titolo tra le “commissioni o remunerazioni” del credito di cui all’art. 644 co.4 c.p., attesa la sua dichiarata natura corrispettiva.
La natura corrispettiva pare, invece, assente negli interessi moratori. Questi ultimi, infatti, non hanno funzione corrispettiva, ma risarcitoria: non rappresentano, quindi, remunerazione del credito, ma una forma di risarcimento del danno da ritardo. Sono, cioè dovuti solo in caso di inadempimento e rappresentano un costo eventuale del credito.
Inoltre, il primo comma dell’art. 644 c.p. fa espresso riferimento ad interessi “in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità”.
Interpretazione conforme al codice penale sembrerebbe, allora, escludere il computo degli interessi moratori dal calcolo dell’usura.
Purtuttavia, occorre rilevare che il legislatore dove voleva escludere il rilievo lo ha fatto (escluse le spese per imposte e tasse) e che l’art. 1, co. 1, d.l. n. 394 del 2000 (convertito nella legge n. 24 del 2001), nell’interpretare autenticamente l’art. 644, ha stabilito che : “ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. (...) si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”. L’intenzione legislativa sembra, quindi, far riferimento ad interessi tanto corrispettivi quanto moratori.
Volendo, allora, ritenere anche gli interessi di mora rilevanti ai fini del calcolo dell’usura è però necessario comprendere gli effetti di tale sconfinamento. Gli interessi moratori, derivanti da un comportamento inadempiente della parte, dipendono esclusivamente dalla condotta del debitore che potrebbe effettivamente essere indotto all’inadempimento al fine di superare la soglia di usura e, quindi, liberarsi anche degli interessi corrispettivi.
Potrebbe, allora, sostenersi che restano dovuti gli interessi corrispettivi, ma vengono meno gli interessi moratori (usurari) ovvero che gli interessi corrispettivi continuano ad essere dovuti e gli interessi moratori restano dovuti, non più al tasso legale, ma al tasso usurario (Cass. 27442/2018).
Così chiarito resterebbe solo da risolvere il problema della soglia da utilizzare per verificare se gli interessi moratori sono usurari.
Ancora una volta è utile richiamare le Sezioni Unite espressesi in materia di commissione di massimo scoperto.
Il Supremo consesso ha affermato che i decreti in realtà danno atto dell'ammontare medio delle CMS, espresso in termini percentuali, sia pure a parte (in calce alla tabella dei TEGM).
La presenza di tale dato nei decreti ministeriali è sufficiente per escludere la difformità degli stessi rispetto alle previsioni di legge.
La circostanza che tale entità sia riportata a parte, e non sia inclusa nel TEGM strettamente inteso, è un dato formale non incidente sulla sostanza e sulla completezza della rilevazione prevista dalla legge.
E’ enunciato allora, il seguente principio di diritto: "Con riferimento ai rapporti svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore all'entrata in vigore delle disposizioni di cui al D.L. n. 185 del 2008, art. 2 bis, inserito dalla legge di conversione n. 2 del 2009, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell'usura presunta come determinato in base alle disposizioni della L. n. 108 del 1996, va effettuata la separata comparazione del tasso effettivo globale d'interesse praticato in concreto e della commissione di massimo scoperto (CMS) eventualmente applicata - intesa quale commissione calcolata in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento - rispettivamente con il tasso soglia e con la "CMS soglia", calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media indicata nei decreti ministeriali emanati ai sensi della predetta L. n. 108, art. 2, comma 1, compensandosi, poi, l'importo della eventuale eccedenza della CMS in concreto praticata, rispetto a quello della CMS rientrante nella soglia, con il "margine" degli interessi eventualmente residuo, pari alla differenza tra l'importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto praticati".
Ebbene, volendo provare a traslare quanto enunciato anche con riferimento agli interessi moratori, (ricordando che taluno ritiene impossibile individuare una soglia agli interessi di mora) può richiamarsi l’orientamento giurisprudenziale che afferma che per evitare il confronto tra tassi disomogenei (il tasso di mora applicato al debitore e i tassi soglia, determinati, senza tenere conto dei tassi moratori), ed ai fini dell'individuazione, comunque, di un parametro di riferimento, occorre tenere conto del fatto che la Banca d’Italia, pur non includendo la media degli interessi moratori ai fini del calcolo del T.E.G.M., ne ha fatto, nel 2009, una rilevazione separata, individuando una maggiorazione media, in caso di mora, di 2,1 punti percentuali. Al tasso-soglia “ufficiale” andrebbe, quindi, aggiunta tale percentuale (Trib. Roma, Sez. XVII, 7 dicembre 2018).
RUOLO DELLA PENA di Giorgio Spangher
1. Innescato da alcune vicende giudiziarie si è da tempo riacceso il confronto di opinioni sul ruolo della pena, nella contrapposizione tra una visione rieducativa della stessa ed una più dichiaratamente retributiva.
Sullo sfondo della insicurezza determinato dalla globalizzazione il dibattito ha finito per coinvolgere inevitabilmente tematiche diverse: determinazione di nuove fattispecie incriminatrici, inasprimento delle pene, regole procedurali, regime penitenziario. Del resto, la presenza di “fenomeni” criminali non consente risposte episodiche, nella misura in cui la metabolizzazione di un singolo episodio delittuoso, non è possibile a fronte d’una sua reiterazione che proprio per questo fatto ne amplifica e ne moltiplica le implicazioni.
In questo contesto si inserisce la legge che esclude l’accesso al rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, con l’intento di evitare che alcuni reati – soprattutto l’omicidio aggravato – con il meccanismo delle attenuanti, combinato con l’effetto premiale del rito contratto possa condurre ad una pena ritenuta inadeguata alla gravità del reato.
Il riferimento all’omicidio aggravato non è casuale ove si considerino in materia la previsione di cui al comma 3 dell’art. 90 c.p.p. ove si prevede che in caso di morte della vittima del reato, i diritti della persona offesa siano esercitati – a sua tutela – dai prossimi congiunti e da persona legata da relazione affettiva o stabilmente convivente, che assumeranno su di sé anche la posizione di danneggiati dal reato, con ricadute significative sul loro atteggiamento processuale. La posizione a “tutela” dell’offeso, vittima di omicidio, finisce per investire questi soggetti di una funzione di “supplenza” sotto vari profili, non escluso quello sanzionatorio.
2. Il comma 1 bis dell’art. 438 c.p.p. inserito dalla riforma prevede, pertanto, che “non è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo”.
Si raccorda a questo dato anche l’abrogazione del secondo e del terzo periodo del comma 2 dell’art. 442 c.p.p. ove si prevedeva che alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta; ed alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nel caso di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo.
Invero, proprio la premialità del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo consente al condannato di collocare la pena nelle soglie che consentono l’accesso ai benefici penitenziari.
La considerazione che nello sviluppo del procedimento l’ipotesi accusatoria formulata dal pubblico ministero con la richiesta di rinvio a giudizio possa modificarsi rendendo possibile l’accesso al rito abbreviato ha suggerito al legislatore che la difesa debba, a tal fine, formulare una richiesta, ancorché inammissibile ovvero da rigettare, nel corso dell’udienza preliminare. La stessa richiesta, se formulata nel corso dell’udienza preliminare, potrà essere reiterata entro i limiti di cui agli artt. 421 e 422 c.p.p.
Ovviamente questa richiesta – inammissibile – non finalizzata ad ottenere dal giudice la verifica delle condizioni di ammissibilità del rito, non determinerà l’operatività di quanto previsto dall’art. 438, comma 4, secondo periodo, c.p.p., in tema di produzione di indagini difensive, e dall’art. 438, comma 6 bis, c.p.p., in tema di sanatoria delle indicate patologie processuali.
Il legislatore non esclude che la formulazione dell’imputazione subisca variazioni lungo il corso del procedimento così da incidere sull’originaria inammissibilità ovvero sull’iniziale possibilità di disporre il giudizio abbreviato.
Si prevede, così, che qualora all’esito dell’udienza preliminare la qualificazione giuridica del fatto consenta il rito abbreviato, il giudice con il decreto che dispone il giudizio debba informare l’imputato che entro quindici giorni potrà chiedere il rito speciale.
Qualora, invece, richiesto e disposto il rito abbreviato il fatto dovesse essere contestato nei termini escludenti il rito, il giudice revocherà il provvedimento e procederà alla prosecuzione dell’udienza preliminare, ovvero disporrà che si proceda con l’udienza preliminare.
Qualora il giudice del dibattimento riconosca che il fatto come da lui qualificato avrebbe consentito il giudizio abbreviato, applicherà con la sentenza la riduzione della pena nei limiti previsti dall’art. 442, comma 2, c.p.p.
Non è chiaro se a questo fine è sufficiente la richiesta inammissibile formulata nell’udienza preliminare, ovvero se sia necessario ripetere la richiesta all’inizio del dibattimento ovvero se la richiesta del rito possa essere formulata per la prima volta nel momento di apertura del giudizio.
3. Il riconoscimento della premialità della pena dovrebbe valere anche per il giudizio d’appello e in cassazione ex art. 620, lett. 1, c.p.p., senza necessità che sia riproposta la domanda del rito abbreviato. Dovrebbe riconoscersi che un eventuale accoglimento dell’appello del p.m. in punto di qualificazione del fatto, ostativa il rito, determinerà l’esclusione della premialità precedentemente riconosciuta. Ci si dovrebbe interrogare se analoga conclusione possa operare per il giudizio di cassazione ovvero se sarà necessario procedere ad annullamento con rinvio.
Nel caso del giudizio immediato troverà applicazione l’art. 458 c.p.p.: l’imputato, per poter godere della premialità della pena all’esito del dibattimento dovrà formulare la richiesta del rito abbreviato ancorché inammissibile ed il giudice richiesto del rito disporrà il giudizio immediato.
4. Memore della decisione Corte Edu sul caso Scoppola, dovendosi escludere, trattandosi di materia attinente alla pena, l’operatività del principio tempus regiti actum, il legislatore ha previsto che la riforma si applichi solo ai reati commessi successivamente all’entrata in vigore della legge.
5. Sotto il profilo sistematico, la riforma determinerà un appesantimento del carico di lavoro delle Corti di assise, senza alleggerire quello dei gip/gup.
Si creeranno problemi per le collaborazioni nei processi di criminalità organizzata, in quanto queste erano spesso incentivate dalla premialità del rito abbreviato.
Si devono escludere, a prima lettura, profili di illegittimità costituzionale, trattandosi di scelta che riguarda tutti i reati, puniti con la pena massima. Va tuttavia fatto notare che la scelta legislativa sacrifica la logica dell’economia processuale che aveva connotato il rito e in parte lo caratterizza ancora per gli altri reati, a fronte dell’esigenza d’una pena maggiormente afflittiva che a giudizio del legislatore appare motivazione prevalente.
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