ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’applicazione pratica del nuovo art. 360, n. 5, c.p.c. conferma che l’ambito del sindacato della Corte di Cassazione sui «fatti» non sia limitato alle sole ipotesi della mancanza formale della motivazione e dell’omesso esame di un dato materiale, garantendosi tuttora un controllo di legittimità sulla coerenza logica e sulla plausibilità delle conclusioni della decisione impugnata.
Sommario: 1. Sindacato di legittimità e motivazione della sentenza di merito – 2. Un controllo solo formale? - 3. La coerenza della sentenza di merito e l’interferenza della Corte di Cassazione - 4. L’omesso esame degli elementi istruttori - 5.Conclusioni.
1.Sindacato di legittimità e motivazione della sentenza di merito - Sono trascorsi già più di sei anni dall’entrata in vigore del nuovo art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., introdotto dal d.l. n. 83 del 2012, convertito dalla l. n. 134 del 2012, e risale ad oltre quattro anni fa la prima interpretazione che di tale norma diede Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053.
La formulazione del vizio di «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» ha, in sostanza, ripristinato nel nostro ordinamento l’originario parametro di censura adottato dal Codice del 1942, fatta salva l’apparente innocua sostituzione della preposizione «circa» alla preposizione «di», niente più di un “solecismo” imputabile al legislatore del 2012, a dire delle Sezioni Unite.
Il testo del 1942 venne spiegato nella stessa relazione al Re del Ministro di Grazia e Giustizia Dino Grandi come un segnale da dare alla pratica giudiziaria, che aveva adattato le disposizioni del codice del 1865 (il quale, di per sé, non contemplava uno specifico motivo di ricorso in cassazione per vizio di motivazione) arrivando a delineare, accanto al vizio formale di motivazione, il cosiddetto «vizio logico» di motivazione, consistente nella mancanza di adeguate argomentazioni idonee a dimostrare che fosse «giusta» la soluzione delle questioni di fatto raggiunta nella sentenza. Poiché i limiti dell’«omesso esame di un fatto» vennero presto agevolmente elusi dai protagonisti del processo censurando la nullità della sentenza mal motivata per violazione degli artt. 132, comma 2, n. 4, e 156 c.p.c., già nel 1950 il legislatore reagì modificando l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. ed adottando il testo «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio», dettato rimasto immutato fino al d.lgs. n. 40 del 2006, allorché il «punto» divenne, piuttosto, «un fatto».
La prima lettura della Riforma del 2012, data dalla pronuncia del 2014 delle Sezioni Unite della Suprema Corte, intese, allora, la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, limitata alle fattispecie nelle quali sia ravvisabile la nullità della sentenza per «mancanza della motivazione», ai sensi dell’art. 132, n. 4, c.p.c.
Ciò fece dubitare parte della dottrina della compatibilità del sistema così delineato con l’obbligo di motivazione imposto dall’art. 111, comma 6, Cost., imputandosi alla Corte di Cassazione di aver ridotto a quattro i numeri dell’art. 360[1]. E’ vero che si richiede al giudice di merito la ricerca e la valutazione dei fatti, mentre “in Cassazione ciò che conta è il diritto”[2], ma sarebbe certamente inesatto pretendere che la Suprema Corte giudichi solo in diritto, dovendo essa comunque rilevare gli “errori di fatto” che abbiano causato errori di giudizio, in quanto l’errore che interessa la definizione della premessa minore dei vari sillogismi in cui si struttura una sentenza è errore che di regola ne inficia anche la conclusione[3].
Il controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza di merito è, allora, l’unico mezzo attraverso il quale è possibile controllare la giustificazione giuridica e razionale della decisione giudiziale.
2. Un controllo solo formale?- Per Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, rimane oggetto del sindacato di legittimità la sola mancanza della motivazione intesa come «contenitore documentale», mancanza perciò percepibile dalla lettura del testo della sentenza impugnata, senza necessità di alcun raffronto con le risultanze processuali. Venivano individuate in tale pronuncia come fattispecie di inesistenza della motivazione, peraltro, anche quelle della «motivazione apparente», del «contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili», e della «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile».
La lettura delle successive decisioni della Suprema Corte conferma, però, come i giudici abbiano data «sostanza» a tale controllo dichiaratamente solo formale della motivazione, attuando, nei fatti, tuttora una verifica di intima coerenza della decisione di merito, e cioè di connessione tra le parti di cui essa si compone.
Si è così ritenuta nulla, per mancanza del requisito dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., la sentenza che motivi l’accoglimento della pretesa sostanziale sulla base della lettura dei motivi esposti nell’atto introduttivo della domanda, dei documenti ad essa allegati e di una consulenza tecnica, senza riprodurre la parte di tali atti giustificativa della valutazione espressa[4]; parimenti nulla per “mancanza della motivazione” è stata dichiarata la sentenza che non consenta di cogliere le ragioni giuridiche della decisione[5].
E’ stata poi definita «apparente» la motivazione che consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento «di talché essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice»[6].
La motivazione è, invece, intrinsecamente contraddittoria quando è strutturata su proposizioni successive che affermano che una stessa circostanza sia e non sia, ovvero su fatti reciprocamente escludentisi[7]. La verifica di non contraddittorietà attiene, allora, innegabilmente alla plausibilità del giudizio finale, ovvero proprio a quell’intima coerenza argomentativa della decisione che, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra.
3. La coerenza della sentenza di merito e l’interferenza della Corte di Cassazione - Pure l’elaborazione di Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, preserva un sindacato della Corte di cassazione sulla «coerenza» della motivazione, sotto il profilo della «plausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze».
D’altro canto, la verifica di non «implausibilità delle conclusioni» difficilmente può spiegarsi come controllo “esterno”, dimostrandosi, piuttosto, il frutto di un’analisi intrinseca dei contenuti della sentenza, a meno di non forzare l’assimilazione tra motivazione strutturalmente mancante nel “documento-sentenza” e “motivazione ineffettiva”.
Per Cass. 5 luglio 2017, n. 16502, ad esempio, senza remora alcuna, il controllo della Corte di cassazione sul procedimento logico inferenziale seguito dal giudice di merito, «pure restando assai limitato, deve persistere, a presidio dell’intima coerenza della conciliabilità delle affermazioni operate quale garanzia di attendibilità del giudizio di fatto a sua volta premessa di quello di diritto, quanto alla verifica della correttezza del percorso logico tra premessa-massima di esperienza-conseguenza, cioè di esattezza della massima di esperienza poi applicata, come pure alla verifica della congruità – o accettabilità o plausibilità o, in senso lato, verità – della premessa in sé considerata; in mancanza di tale congruenza o plausibilità, la motivazione sul punto resterà soltanto apparente».
4. L’omesso esame degli elementi istruttori - Seguendo l’insegnamento di Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, il mancato esame di un mezzo di prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui abbia determinato l’omesso esame circa un fatto storico decisivo della controversia e, segnatamente, quando la prova non esaminata offra la dimostrazione di una circostanza di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento.
Eppure, il riformato art. 360, n. 5, c.p.c., come visto, adopera la preposizione «circa» (un fatto decisivo), invece che «di».
Si fanno allora strada, anche su questo profilo, interpretazioni giurisprudenziali meno restrittive: altresì l’esame incompleto, incoerente o illogico di un mezzo di prova finisce talvolta per equivalere all’omesso esame del fatto che quella prova dovrebbe dimostrare[8].
Un «fatto» non può, del resto, dirsi insindacabilmente esaminato dal giudice di merito sol perché egli abbia esaminato una delle tante risultanze probatorie che di quel fatto dimostrano l’esistenza o l’inesistenza. Se un medesimo fatto è oggetto di più prove, il giudizio su quel fatto non può che essere l’esito di una valutazione combinata che includa tutte le prove che lo riguardano. Tale valutazione va operata considerando e comparando le diverse possibili versioni del fatto, per poi stabilire quale tra queste versioni risulti logicamente confermata da un grado più elevato di attendibilità. Chiedere alla Corte di cassazione di verificare la logicità della motivazione rispetto alle risultanze istruttorie significa, dunque, non implorare da essa una nuova valutazione della ricostruzione della vicenda concreta, quanto invocare un controllo di legalità della decisione in riferimento all’applicazione delle norme di diritto che regolano l’accertamento dei fatti e la formazione del convincimento giudiziale.
In definitiva, l’omessa valutazione di una delle prove che verte sullo stesso fatto può rendere quel fatto non esaminato, agli effetti del vigente art. 360, n. 5, c.p.c.
5.Conclusioni.
La lettura della applicazione pratica che la giurisprudenza sta dando al nuovo art. 360, n. 5, c.p.c., dovrebbe acquietare coloro che avevano manifestato il timore che la Suprema Corte, col concorso del legislatore del 2012, avrebbe cancellato la rilevanza del vizio di motivazione quale oggetto del sindacato di legittimità.
Pur dovendosi riconoscere l’obiettiva maggiore complessità della formulazione del motivo di ricorso per ‹‹omesso esame circa un fatto››, i provvedimenti richiamati dimostrano come la Corte di Cassazione non stia svolgendo una pigra verifica burocratica dell’assolvimento soltanto formale dell’obbligo di motivazione, ed anzi spinga ancora il proprio controllo fino al riscontro che la decisione sia altresì apparentemente ”giusta”, ovvero razionalmente giustificata ed intimamente coerente.
Resta l’ostacolo selettivo della necessaria “decisività” del fatto non esaminato, ove intesa come connotazione di prognosi certa (e non solo possibile o probabile) di un diverso esito della controversia, atteso che la percorribilità di una diversa ricostruzione inferenziale della quaestio facti non appartiene per sua natura alla cognizione propria del giudice di legittimità. Con riguardo all’omesso esame di un fatto secondario, come anche alla mancata ammissione di un’istanza istruttoria, il filtro preliminare di decisività rischia, anzi, di gravare la Corte di Cassazione di un inesigibile riesame di tutto il materiale istruttorio acquisito alla causa e di una riformulazione del giudizio di fatto affidato al giudice del merito, ovvero di un improprio vaglio sull’ingiustizia di fondo della sentenza impugnata.
[1] L. Passanante, Le Sezioni unite riducono al « minimo costituzionale » il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 179 ss..
[2] P. Calamandrei, La Cassazione e i giuristi, in Studi sul processo civile, III, Padova 1934, 274.
[3] F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, IV, Padova 1931, 244 ss.
[4] Cass. 23 marzo 2017, n. 7402.
[5] Cass. 22 giugno 2015, n. 12864.
[6] Cass., sez. un., 3 novembre 2016, n. 22232.
[7] Cfr. Cass. 21 maggio 2018, n. 12527; Cass. 22 febbraio 2018, n. 4367; Cass. 9 novembre 2017, n. 26538.
[8] Cass. 27 luglio 2016, n. 15636, ha equiparato all’omesso esame di un “fatto”, agli effetti dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il giudizio «non radicato in un critico esame della documentazione prodotta»; per Cass. 31 maggio 2018, n. 13770, come per Cass. 29 maggio 2018, n. 13399, il mancato esame delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio integra un vizio che può essere fatto valere ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.; secondo Cass. 12 aprile 2017, n. 9356, l’‹‹errore di percezione››, in cui sia incorso il giudice di merito nell’esaminare il contenuto delle prove offerte dalle parti, è invece censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c. Afferma, infine, Cass. 5 novembre 2018, n. 28174, che il travisamento della prova, e cioè la verifica che un’informazione probatoria utilizzata in sentenza sia contraddetta da uno specifico atto processuale, esclude che possa vertersi in ipotesi di cosiddetta ‹‹doppia conforme››, preclusiva del ricorso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., giusta l'art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c.
Ci sono persone che non vanno mai in pensione. Le schiene dritte, quelle dritte davvero, così rimangono sempre, che abbiano o meno la toga sulle spalle. Armando la toga non la toglierà mai, perché è davvero un tutt’uno col suo essere più profondo: la tutela dei diritti, l’indipendenza e l’autonomia, il rispetto vero per le istituzioni.
Le passioni non vanno mai in pensione. Non è un augurio, ma una certezza, che Armando sarà sempre in prima fila nel difendere le ragioni degli altri, nel parlare con competenza e con l’esempio di diritti e principi, nel ricordare a tutti che non si deve mai smettere di parlarne.
Certo, tanti gli vogliono bene e tanti con lui hanno litigato, e le due categorie si sovrappongono: Armando non litiga con le persone di cui non condivide il modo di essere, queste si limita a colpirle con una frase tagliente, con un commento preciso.
Ha litigato e litiga con quelli come lui, quelli a cui vuole bene e che gli vogliono bene, perché a volte la si può pensare diversamente su strategie politiche, su passaggi correntizi, ma avendo la coscienza di essere dalla stessa parte.
Conosciamo la sua grande passione per la musica, il suo amore viscerale per Bob Dylan. Ci sembra bello dedicargli una strofa di una delle canzoni più belle, per quanto poco conosciute, di Francesco De Gregori, “Sempre e per sempre”:
Pioggia e sole
cambiano la faccia alle persone,
fanno il diavolo a quattro nel cuore
e passano
e tornano
e non la smettono mai.
Sempre e per sempre tu:
ricordati
dovunque sei
se mi cercherai
sempre e per sempre
dalla stessa parte mi troverai.
Caro Armando, dalla stessa parte, sempre e per sempre.
Il Direttivo del Movimento per la Giustizia
Andrea, Angelo, Daniela, Dino, Gianni, Giovanni, Giuseppe, Maria Teresa, Mino, Pier Luigi, Stefano
POLITICA E MAGISTRATURA: FERMATE L’ANDIRIVIENI
(Criticità di una contaminazione da superare)
Se il rispetto della politica per la magistratura può considerarsi un affidabile termometro della salute democratica di un Paese, il nostro non se la passa molto bene. Non si tratta soltanto della tendenza a considerare le inchieste giudiziarie “sacrosante” o “persecutorie” a seconda che riguardino, rispettivamente, gli avversari o i militanti del proprio schieramento. È una tentazione questa, cui pochi nostri rappresentanti hanno saputo resistere. Preoccupante è il manifesto proposito di delegittimare la magistratura: irridendone l’azione, disconoscendole l’autorità di pronunciarsi in nome di un popolo da cui non è stata eletta, dubitando della sua imparzialità per i trascorsi politici di alcuni suoi esponenti, concionando sul fatto che la realtà non può attendere i tempi della giustizia e che quindi è necessario prescinderne.
Andrei ultra crepidam se cercassi di inquadrare il fenomeno nelle sue coordinate storico-culturali, per stabilire in che misura ciò possa dipendere dal vento di un arrogante autoritarismo che sta soffiando gelido a diverse latitudini e longitudini del Pianeta. Posso al più tentare di analizzare se nel nostro Paese ci siano peculiari fattori ordinamentali predisponenti. Risulta assai difficile non rispondere affermativamente. Da un lato, la tutela della funzione politica è da noi degenerata al punto, nelle norme e nella prassi, da assicurare aree di sostanziale impunità o, almeno, di pretesa di impunità; dall’altro, ai magistrati è consentito un inaccettabile pendolarismo dall’ufficio giudiziario ad attività di natura politico-amministrativa, che non può non ripercuotersi sulla credibilità della funzione giurisdizionale svolta.
Sul primo versante. La nostra Costituzione prevedeva originariamente l’istituto dell’autorizzazione a procedere, che doveva servire al Parlamento per preservare la funzione della rappresentanza politica da indebite iniziative giudiziarie volte ad alterarne il fisiologico esercizio. L’indecoroso utilizzo di tale garanzia da parte del Parlamento, che ne ha fatto uno scudo per mettere i suoi componenti al riparo di ogni azione giudiziaria, ha poi indotto alla sua soppressione. Si è pensato di sostituirla con un sindacato della Camera di appartenenza dell’indagato sulla esperibilità di determinati atti investigativi: «senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene nessun membro del Parlamento può essere sottoposto» a perquisizione personale o domiciliare, ad intercettazione di conversazioni o comunicazioni, a sequestro di corrispondenza (art. 68 Cost.). Si tratta all’evidenza di una facezia normativa, che sfregia la credibilità di una fonte così autorevole come la Costituzione. L’autorità giudiziaria, prima di procedere al compimento di atti investigativi che ripongono tutta la loro efficacia nel fattore sorpresa, dovrebbe avvertire –oltre all’indagato- più di trecento e talvolta più di seicento suoi colleghi affinché valutino se la richiesta obbedisca effettivamente a fini investigativi. Ad esempio, il pubblico ministero per intercettare le conversazioni di un parlamentare dovrebbe ottenere prima il disco verde alla Camera di appartenenza; dopodiché, verosimilmente, dovrebbe sperare che non gli venga concesso, ben sapendo quali risultati controproducenti potrebbe sortire una intercettazione con preavviso.
Ma anche là dove la guarentigia costituzionale è in sé ineccepibile, la prassi si è incaricata di trasfigurarla in insopportabile privilegio. La Costituzione giustamente pretende che l’autorità giudiziaria, per poter privare della libertà personale un parlamentare, debba ottenere il nulla osta con cui la Camera di appartenenza esclude l’esistenza di un intento persecutorio vòlto ad alterare il fisiologico atteggiarsi degli equilibri politici. Il Parlamento, invece di avvalersi di questa prerogativa negli eccezionalissimi casi in cui l’iniziativa giudiziaria avesse esondato dall’alveo legale, ha usato il potere di non autorizzare l’arresto come insuperabile riparo ordinario del parlamentare contro l’azione giudiziaria, strumentalmente adducendo – tranne rarissimi casi che si contano sulle dita di una mano rispetto a decine e decine di richieste – l’asserita presenza del fumus persecutionis. Insomma: tanto fumus, poco arresto.
Sul secondo versante. L’attuale sistema consente al magistrato, assolte le sue funzioni, di togliersi la toga e di andare ad indossare i panni di sindaco o di assessore in un comune viciniore rispetto alla circoscrizione nella quale amministra giustizia (o anche ad assumere cariche elettive in una regione diversa). È difficile accettare l’idea che la mera distanza chilometrica consenta al magistrato-sindaco di liberarsi sulla strada di ritorno delle convinzioni politiche che lo hanno indotto ad assumere determinate decisioni amministrative e, indossata nuovamente la toga, di esercitare imparzialmente le funzioni di magistrato. E’ ancor più improbabile che i soggetti da lui giudicati non dubitino della sua serenità di valutazione, specie se la loro attività o la res iudicanda abbia collegamenti più o meno diretti con la politica.
Tuttavia, non vi è soltanto un problema di sostanziale o anche soltanto di apparente perdita di imparzialità, come di solito si sottolinea. Politica e giurisdizione hanno statuti metodologici opposti. Secondo la nota distinzione luhmanniana, infatti, l’agire politico segue un programma di scopo, che si orienta a certi effetti desiderati e cerca i mezzi più idonei per conseguirli; mentre l’attività giurisdizionale deve obbedire ad un programma condizionale, che ha a che fare con dati legati al passato ed opera secondo lo schema «se è accaduto questo… allora…». Il giudice, proprio affinché la sua attività sia sottratta alla critica politica, deve rispondere esclusivamente della corretta applicazione della legge sostanziale e processuale al caso di specie, non essendogli non solo richiesto, ma neppure consentito di farsi carico delle conseguenze della propria decisione. Ebbene. il magistrato che “torna” ad esercitare la giurisdizione dopo essersi impegnato in un’attività politico-amministrativa non può non averne assorbito metodi e finalità: fatalmente avrà un approccio più attento al risultato che alla legalità del procedere e del decidere. Sarebbe quindi estremamente opportuno pretendere che per svolgere tali attività il magistrato debba essere posto fuori ruolo e che, terminato l’impegno politico, non possa tornare a svolgere funzioni giurisdizionali in senso stretto. E un tale divieto dovrebbe riguardare, a più forte ragione, anche il magistrato che abbia svolto un mandato parlamentare o assunto incarichi di natura politica (si pensi ai ruoli apicali nei ministeri).
In sintesi: la promiscuità di funzioni e di abiti mentali talvolta pregiudica metodo e imparzialità dell’azione giudiziaria; più spesso incrina la fiducia della collettività nella giustizia; sempre espone la funzione giudiziaria ad attacchi ed insinuazioni strumentali. Impedire tali contaminazioni tra magistratura e politica forse può frustrare qualche comprensibile aspirazione dei magistrati, ma fa bene all’autorevolezza della funzione svolta e questa, oggi più che mai, fa bene alla democrazia. Nel contesto attuale, infatti, in cui le ragioni si pesano in base ai voti, in cui siamo arrivati ad un tal punto di analfabetismo democratico che un ministro ritiene di poter contestare ad un magistrato l’autorità di giudicarlo perché non eletto, avere una giustizia autorevole e inattaccabile significa offrire alla società forse l’ultimo punto di riferimento condiviso, senza il quale si schiuderebbero orizzonti poco rassicuranti. Screditata ed esautorata la giurisdizione, i cittadini cercherebbero altrove un’autorità che sappia imporre il rispetto delle regole; si rivolgerebbero ad altri poteri (politici, economici, corporativi, se non, talvolta, criminali), ritenuti più forti e affidabili per la soddisfazione delle loro rivendicazioni e per la tutela dei loro interessi. Una china quanto mai democraticamente scivolosa per uno Stivale come il nostro, sempre pronto a calzare il piede dell’uomo della provvidenza.
(da “La lettura”, supplemento del “Corriere della Sera” del 16.12.2018)
Il caso Tobagi, le Brigate Rosse, il sequestro di Abu Omar, la 'ndrangheta al Nord: alcune delle inchieste più scottanti raccontate da un magistrato che le ha dirette in prima persona. È il momento di ripercorrere gli ultimi trent'anni di storia giudiziaria italiana e descrivere la tempesta che, tra ambiguità e silenzi, si sta abbattendo sulla nostra giustizia. «Come è potuto accadere che a due pubblici ministeri, sino a quel momento oggetto di denunce sporte solo da mafiosi e terroristi da loro inquisiti, siano state attribuite condotte costituenti gravi reati dal presidente di un governo di centro-sinistra il cui programma elettorale prevedeva la strenua difesa della legalità? E, soprattutto, come è potuto accadere che due governi di diverso orientamento politico abbiano uno dopo l'altro apposto il segreto di Stato su notizie già universalmente note perché da tempo circolanti sul web? I fatti possono essere finalmente raccontati, in modo rispettoso tanto dei limiti di questo anomalo segreto di Stato, quanto dei diritti degli imputati». Parliamo della vicenda Abu Omar che, grazie all'indipendenza della magistratura italiana e all'obbligatorietà dell'azione penale, volute dai Costituenti e oggi seriamente a rischio, ha portato sul banco degli imputati, caso unico al mondo, appartenenti ai servizi segreti americani e italiani. Armando Spataro, che è stato protagonista dell'inchiesta insieme a Ferdinando Pomarici, la racconta in dettaglio. Come le altre importanti indagini svolte lungo 34 anni di attività professionale, da quelle sui brigatisti rossi e Prima Linea a quelle sulla 'ndrangheta trapiantata in Lombardia, per finire con il terrorismo internazionale. Una storia popolata di ricordi dolorosi e di facce ambigue, ma anche di passione civile e di persone amate.
Vincitore del premio Capalbio 2010 per la sezione Politica e istituzioni
Vincitore del premio Cesare Pavese 2011 per la sezione Saggistica
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