ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ulteriore approfondimento delle osservazioni sullo stato della fase dibattimentale di primo grado dei Tribunali Ordinari* di Massimo Terzi
* Sequel dell’articolo “Osservazioni sullo stato della fase dibattimentale di primo grado dei Tribunali Ordinari” pubblicato su questa rivista in data 13.2.2019.
Sommario: 1. Analisi ponderale dei flussi dibattimentali; 2. Incidenza della valutazione ponderale sull’analisi dello stato del dibattimento penale dei Tribunali; 3. Valutazioni conseguenti all’analisi ponderale; 4. Abolizione del giudice collegiale; effetti statistici; 5. Conclusione.
1. Analisi ponderale dei flussi dibattimentali
La risoluzione della problematica endemica della durata del processo penale nel primo grado di giudizio necessita di alcuni approfondimenti specifici in ordine alla utilizzazione delle risorse (in primis Magistrati): necessita cioè non solo di una mera analisi numerica, ma anche di un’analisi ponderale dei numeri che consenta di meglio verificare la incidenza sull’assorbimento delle risorse delle tipologie dei procedimenti che pervengono sul settore dibattimentale.
Il peculiare, anzi unico, assetto organizzativo del Tribunale di Torino, che rappresenta comunque un cluster significativo, fornisce in via immediata ed intuitiva il dato più rilevante a questi fini.
Sul Tribunale di Torino, infatti, al fine di razionalizzare e gestire correttamente i criteri di priorità, al contrario di tutti gli altri Tribunale è differenziata la organizzazione in termini di Sezioni dibattimentali tra procedimenti a citazione diretta e procedimenti provenienti da udienza preliminare.
Per gestire questi ultimi in modo “accettabile” è prevista la destinazione esclusiva di n.27 Magistrati togati a fronte di n.10 destinati in via esclusiva alla citazione diretta. In buona sostanza il rapporto ponderale di risorse dedicate è 65% per i procedimenti da udienza preliminare rispetto a 35% sulle citazioni dirette.
Com’ è noto dall’udienza preliminare pervengono, oltre a tutti i procedimenti collegiali anche procedimenti monocratici. Da un punto di vista meramente numerico il rapporto medio di sopravvenienze è del 20% circa di collegiali e dell’80% di monocratici. Nonostante tale sbilanciamento, con percentuale grandemente maggioritaria dei monocratici da preliminare rispetto ai collegiali, l’analisi dell’impegno delle risorse, in questi due anni di peculiare assetto del settore dibattimentale del Tribunale di Torino, evidenzia in modo chiaro risultati significativi di cui è indispensabile tenere conto.
In buona sostanza il 20% rappresentato dai procedimenti collegiali ha comportato l’assorbimento di oltre 2/3 delle risorse dedicate ai procedimenti provenienti da udienza preliminare pari pertanto a 18/19 Magistrati full equivalent time.
Da ciò discende in modo inequivocabile che dei complessivi 37 Magistrati dedicati al settore dibattimentale sul Tribunale di Torino (27+10) esattamente la metà 18,5 in termini di Magistrati full equivalent time sono necessari per la celebrazione dei soli processi collegiali.
2. Incidenza della valutazione ponderale sull’analisi dello stato del dibattimento penale dei Tribunali
Il dato sopra enucleato conferma la drammaticità della situazione a livello nazionale. I numeri delle pendenze richiamati nel precedente elaborato – si rammenta tratti dal sito internet del Ministero di Giustizia- sono di pendenze al 30 giugno 2018 di n.592.902 monocratici e n. 27.749 collegiali.
Per i monocratici, proiettando i dati torinesi, possiamo destinare al più il 50% delle forze lavoro nazionale e cioè circa 750 Magistrati togati (50% dei totali circa 1500 destinati sul territorio nazionale). Anche a volerne considerare n.1000 full equivalent time con l’ausilio della Magistratura onoraria, sulla base di uno standard di produttività di n.1 sentenza a giorno lavorativo, per azzerare le pendenze ci vorrebbero tre anni. Specularmente ciò vuol dire che, se li trattassimo tutti in mero ordine cronologico, la data di fissazione per le sopravvenienze sarebbe a quattro anni cioè già oltre il termine legale di ragionevole durata del processo e mediamente almeno a cinque anni dalla commissione dell’ipotetico reato.
Per i collegiali che, evidentemente sono i reati più gravi, nonostante le apparenze numeriche, la situazione è sostanzialmente omogenea. I 750 Magistrati full time che ci residuano da destinare al collegiale equivalgono a 250 collegi/Giudici. Anche a voler ipotizzare uno standard elevatissimo di 1 sentenza collegiale a settimana lavorativa ci vorrebbero sempre almeno tre anni per smaltire all’arretrato.
3. Valutazioni conseguenti all’analisi ponderale
Quanto sopra rappresentato evidenzia chiaramente che, al di là dei dati assoluti numerici, in termini di assorbimento di risorse del Tribunale e conseguenzialmente di complessiva durata del processo, l’oculato esercizio dell’azione penale e la completezza delle indagini sui processi collegiali, sui quali ovunque vi è una diretta e personale incidenza dei PM titolari delle indagini, può consentire enormi risparmi di sistema in quanto incide in misura paritaria sulle risorse del Tribunale.
Pertanto il tema da me sviluppato nelle osservazioni non può e non deve limitarsi ad una analisi della citazione diretta, ma deve assolutamente essere ben focalizzato anche sulla tipologia dei processi più gravi ove di norma l’Accusa ha elementi incontrovertibili su taluni imputati ed imputazioni, ma con pari frequenza elementi più labili su talune imputazioni e o taluni imputati la cui presenza in sede dibattimentale e quindi nel thema decidendum ha comunque evidenti gravi ripercussioni sulla durata del dibattimento.
4. Abolizione del giudice collegiale; effetti statistici
In sede di analisi si deve avere la oggettività di verificare tutte le ipotesi di riforme organizzative che incidano sulla efficienza del sistema.
Sulla base di quanto sopra rappresentato è evidente che, ove i reati ad oggi di competenza collegiale al dibattimento sui Tribunali Ordinari fossero stati monocratici, per tutte le ipotesi di reato più gravi previste dal nostro ordinamento (escluse quelli di competenza della Corte di Assise) i tempi di smaltimento oggi computati sarebbero stati ipso facto ridotti di 2/3 passando ad 1 anno anziché i tre anni sopra determinati.
Su queste premesse mi ero fatto promotore di una proposta che trasformasse la composizione del Giudice nei Tribunali in monocratici almeno con riferimento alla rilevante parte di tipologie di reato oggi decise dal Tribunale collegiale che, al di là della gravità, non presentassero peculiari difficoltà da un punto di vista tecnico. La proposta ha suscitato molte obiezioni esclusivamente di natura direi culturale/valoriale essendo ovviamente indiscutibili le argomentazioni “numerico/temporali”.
L’esito del dibattito sviluppatosi con la presentazione delle mie “osservazioni sullo stato del Dibattimento nei Tribunali Ordinari” mi induce a rilanciare questa ipotesi anche in modo più draconiano e proporre che sia abolita tout court la collegialità.
Le obiezioni di natura culturale/valoriale non possono, per natura, essere prese in considerazione in modo autonomo perché implicano sempre una comparazione con i valori concorrenti. Il ragionamento che io propongo è volutamente elementare (così prevengo immediatamente tale tipo di obiezioni); non sempre le complessità aiutano ad assumere decisioni corrette. Da un punto di vista tecnico giuridico è indubbio che la ragionevole durata del processo è un valore costituzionalizzato mentre la collegialità del Giudice di primo grado non lo è . E’ altresì indubbio che, allo stato, pur in mancanza di costituzionalizzazione, nessuno, ed io per primo, mette in discussione il giudizio di Appello che è pronunziato da un Giudice collegiale. E’ altresi indubbio che la dinamica processuale deve essere valutata in un unicum e che solo valutando l’unicum possono valutarsi il complesso delle garanzie per le parti. E’ infine indubbio che in termini di effettività giuridica l’impatto di una sentenza di primo grado è limitato solo a quelli per i quali vi sono imputati sottoposti a misura cautelare.
In concreto i valori da comparare da parte della politica e quindi del legislatore, che comunque non dovrebbe poter tralasciare il dato costituzionale da me rappresentato, può così sintetizzarsi nei termini da me posti: è più importante risolvere illico et immediato il problema della ragionevole durata dei processi più gravi o mantenere la collegialità del primo grado (pur mantenendo la collegialità in sede di appello) ovvero garantire la collegialità in primo grado per questi reati?
Tradotto dal punto di vista delle parti processuali (pubblica e privata);preferiscono avere una aspettativa di esito di primo grado nel giro di un anno o di tre/ quattro anni? che ove , come auspico , si abolisse l’udienza preliminare significherebbe due anni dai fatti contro ,mantenendo l’’udienza preliminare e tutto il sistema, gli attuali cinque, sei, sette?
Ed ancora: funziona meglio un processo a dibattimento orale nei tempi da me indicati o in quelli attuali?
Domanda evidentemente retorica.
5. Conclusione
Ritengo che il Governo in primis ed il legislatore in via definiva nel momento in cui decidano di intervenire, com’è indispensabile, sul processo debbano tenere in considerazione non tanto le mie proposte quanto gli elementi di analisi su cui le ho fondate al fine di determinare comunque scelte che rimuovano quelle che, per usare alla fine un termine politically correct, sono le vere criticità del processo.
TRATTAMENTI SANITARI SU MINORI TRA SCIENZA, ETICA E DIRITTO
- A margine di un recente caso sui Testimoni di Geova - di Marco Dell’Utri
Sommario: 1. Il caso – 2. I termini di una questione bioetica – 3. Responsabilità genitoriale, comunità familiare e pluralismo – 4. Potere e sapere: la comunità scientifica tra autorità e servizio – 5. Il giudice e l’autonomia delle culture.
1. Il caso – A seguito del rifiuto opposto dai genitori testimoni di Geova alla trasfusione di sangue ritenuta indispensabile per la tutela della salute della figlia minorenne, su sollecitazione della locale procura, il Tribunale di Catanzaro ha disposto l’apertura di un procedimento per l’accertamento della condizione di abbandono e del conseguente stato di adottabilità della minore.
In seguito, pur avendo escluso il ricorso di un effettivo stato di abbandono della ragazza, il tribunale ha ritenuto di prescrivere l’esecuzione di un monitoraggio sulla vita della famiglia, affinché fosse sottoposto a sorveglianza il rispetto, da parte dei genitori, di un piano predisposto dall’amministrazione sanitaria per il controllo della salute della minore, oltre all’attuazione di un programma del consultorio familiare per il sostegno alla genitorialità e quello psicologico della ragazza.
Chiamata a pronunciarsi sull’impugnazione dei genitori, la Corte d’appello di Catanzaro ha deciso per l’eliminazione di tutte le indicazioni raccomandate dal tribunale.
Muovendo dall’accertata adeguatezza dei genitori - dei quali era emersa, sul piano istruttorio, l’accurata sollecitudine per il benessere della figlia, la piena capacità di occuparsene con dedizione, oltre alla massima collaborazione prestata all’impegno dei sanitari consultati (salvo sulla questione delle emotrasfusioni) – la corte ha sottolineato come la minore avesse riferito di aver sempre avuto un ottimo rapporto con i genitori e gli altri familiari, precisando di non aver condiviso l’operato dei medici che, a suo dire, “avrebbero potuto aspettare” prima di procedere con le emotrasfusioni.
La corte ha evidenziato come il solo rifiuto delle emotrasfusioni per ragioni religiose non potesse giustificare, di per sé, una continua ingerenza dei servizi sociali nella vita della minore e del suo nucleo familiare, non potendo legittimarsi, in difetto di altri elementi di criticità, l’imposizione di un simile trattamento, di fatto gravemente discriminatorio nei confronti delle famiglie dei testimoni di Geova.
I giudici d’appello hanno quindi richiamato l’orientamento della Corte di cassazione che, seppure in un caso diverso da quello in esame, aveva rilevato come la prescrizione ai genitori di sottoporsi a un percorso psicoterapeutico o di sostegno alla genitorialità fosse concretamente lesiva della libertà personale, costituzionalmente garantita, oltre che in contrasto con il principio che vieta l’imposizione di trattamenti sanitari fuori dai casi previsti dalla legge.
Il discorso della corte d’appello si è poi esteso alla considerazione del principio che impone il rispetto della persona nel contesto complessivo dei valori costituzionali, ivi compreso quello riguardante la libertà di coscienza e la libertà di fede garantito dall’art. 19 Cost., nonché del principio che riconosce ai genitori, sul terreno dell’educazione religiosa, la facoltà di avviare i propri figli alle pratiche e alle credenze del culto che non siano di fatto incompatibili con i doveri inerenti alla responsabilità genitoriale. Un discorso confermato dal riconoscimento del diritto del minore di crescere nella propria famiglia naturale, così come sancito dall’art. 1 della legge n. 184/83, oltre che dall’importanza del legame di sangue e della crescita all’interno della comunità familiare di appartenenza, senza ingerenze esterne, come valori non sacrificabili se non nei casi di carenza di cure materiali e morali gravemente pregiudizievoli per lo sviluppo e l’equilibrio psicofisico del minore.
Infine, attraverso il richiamo ai principali documenti del diritto internazionale rilevanti in tema (come la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge n. 77/2003, l’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’art. 8 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo) la corte d’appello ha sottolineato la radicale illegittimità di un monitoraggio giustificato dalla sola circostanza del rifiuto a un trattamento sanitario per motivi religiosi, tale intervento incidendo sugli equilibri e le dinamiche relazionali di un nucleo familiare di fatto mai coinvolto in problematiche di alcun genere, potendo detto monitoraggio, al contrario, rivelarsi in concreto pregiudizievole per la crescita e il benessere psicofisico della minore e dei suoi rapporti con i genitori.
2. I termini di una questione bioetica – I trattamenti sanitari sui minori individuano un punto critico di particolare rilievo tra le questioni etiche in ambito biomedico. L’insistenza sui temi della volontà e sull’autodeterminazione dell’incapace – là dove il discorso indugia e approfondisce la sorte degli incapaci per contingenti motivi di salute – incontra, nella figura del minore, la vicenda e il destino dell’incapace per ‘antonomasia’, se al termine ancora voglia legarsi la scelta, generalizzata e astratta, del legislatore, tradizionalmente incline a dettare in termini assoluti la sottrazione della capacità di agire alle persone che non abbiano raggiunta l’età dei ‘maggiori’.
Con riguardo ai minorenni, la distinzione che suole proporsi, tra incapaci ‘a volontà ricostruibile’ e incapaci ‘a volontà non ricostruibile’, finisce col tradursi nella più sottile ed evanescente dicotomia tra incapaci a volontà considerabile o meno, dove la considerazione della volontà del minore si impone nei termini di un doveroso impegno di rispetto e di ossequio.
Il disegno dell’autonomia del minore consegnatoci da una lunga e antica tradizione si riduce ed esaurisce, nella materia delle scelte sulla salute o sulle terapie da adottare, allo schema della ‘sostituzione’ genitoriale, ossia nella richiesta al genitore (o, in sua mancanza, alla persona che del minore assume le funzioni della tutela) di esprimere in luogo del minore (proprio in ragione della sua presupposta incapacità) la volontà destinata a incontrarsi o a ‘combinarsi’ con le indicazioni del medico.
In tal caso, là dove la decisione genitoriale apparisse al medico in contrasto con le finalità di preservazione dell’integrità fisica (o, più in generale, con l’interesse) del minore, spetterebbe al giudice il compito di sciogliere il dissidio, di regola assumendo l’obiettivo della conservazione della salute di quello (e quindi assecondando la determinazione suggerita dal medico) fino ad arrivare all’adozione di provvedimenti di sospensione, o financo di ablazione della responsabilità genitoriale, nei casi di più ostinata resistenza, con la nomina di un tutore a sua volta chiamato ad esprimere il consenso ai trattamenti segnalati dal medico.
Il lettore vorrà perdonare la semplificazione (o la banalità) di un ragionamento affidato all’esame critico di uno schema; e tuttavia, il richiamo al modello accennato (che l’esperienza concreta delle Corti e il resoconto che ne forniscono le nostre più diffuse riviste di giurisprudenza tendono ad avvalorare) aiuta a sottolineare – accanto alla pregiudiziale sfiducia per le facoltà di autodeterminazione dell’incapace legale (ove già, o ancora, esprimibili) – la sicura preferenza assicurata dalla nostra cultura giuridica tradizionale per l’obiettivo della salvezza dell’integrità e della salute fisica del corpo, in occasione e al cospetto di vicende come quelle legate al conflitto che si insinua e deflagra attorno alle scelte da assumere circa i trattamenti medici da assicurare al minore, e quindi il privilegio accordato alle opzioni offerte dal dibattito scientifico rispetto al rilievo di ogni altra differente considerazione.
Quanto questo modello rispondesse (o ancora risponda) ad un radicato costrutto di indole ideologica, è considerazione che può essere rinviata al successivo discorso; basterà qui intanto rilevare, nell’allontanamento da quello schema, la progressiva acquisizione di un diverso ruolo assunto dalla ‘gestione’ – nei termini dell’uso o dell’impiego - del corpo e della sua stessa integrità sui diversi piani dell’identità e della dignità della persona.
Il discorso che accosta l’esame degli atti di disposizione del corpo ai temi dell’identità o della dignità si avvale di esempi o di esperienze della pratica che trascorrono, dalle più banali esigenze del taglio o del colore dei capelli o dalla lunghezza e la finitura cromatica delle unghie, alle meno futili iniziative legate alle varie forme di piercing o alla pratica dei tatuaggi più o meno estesi ad alcune parti o all’intera superficie del corpo; all’uso stesso della chirurgia, da quella limitata ad interventi di esclusivo rilievo estetico, fino a quella che incontra l’occorrenza di fenomeni che si accostano o si risolvono in autentici atti di autolesionismo come strumento di fedeltà ad un’appartenenza confessionale, di affermazione di un’identità o di un soggettivo sentimento della dignità personale, al punto di rinunciare alla terapia (con l’accettazione della morte) pur di non subire il ridimensionamento del corpo integro.
Può pensarsi, al riguardo, agli esempi delle mutilazioni genitali femminili (poste ad oggetto di una severa disciplina legislativa nel nostro paese) o allo stesso rifiuto delle trasfusioni da parte dei testimoni di Geova; ai casi – che rilevano sul piano del sentimento della dignità o del rispetto di un’identità collettiva – del rifiuto dell’amputazione di una gamba, come estrema forma di salvataggio della vita, o al caso, occorso alcuni anni or sono, dei genitori nigeriani contrari all’asportazione del tumore al bulbo oculare del figlio di pochi anni per il presumibile timore (verosimilmente dettato da ancestrali convinzioni) della maledizione del corpo mutilato.
Pure destano una comprensibile sensazione – e ha suscitato una viva impressione la vicenda occorsa in Italia ad un ospedale siciliano – i casi estremi dei c.d. B.I.I.D. (Body Integrity Identity Disorder), ossia delle persone, perfettamente sane ed integre, che rivendicano la rimozione di una parte sana del corpo (un braccio, piuttosto che entrambe le gambe), e quindi la sua trasformazione materiale, al fine di adattarlo alla propria interiore visione di sé e all’immagine vissuta come ideale dimensione fisica della propria identità personale.
L’evoluzione del modello tradizionale, legato all’esclusiva o prevalente finalità di assicurare l’integrità fisica del minore, è oggi rilevabile (nell’esame delle più recenti pronunce rese nella materia dei trattamenti sanitari sui minori) proprio assumendo, quella descritta trasformazione d’indole culturale attorno all’uso del corpo, dal piano delle valutazioni della comunità statale (tradizionalmente sensibile alle sollecitazioni del dibattito e delle soluzioni della comunità scientifica inclini alla cura e alla preservazione della sanità fisica del corpo), al punto di vista della singola persona, viceversa orientata ad informare il destino del proprio corpo ad un principio di coerenza con ciò che vale a strutturare i caratteri della propria identità o con la definizione delle condizioni del sentimento personale della dignità.
La domanda, se si vuole istintiva o ingenua, fermata alla ricerca del soggetto chiamato a sostituirsi al minore (‘chi decide?’) è destinata a perdere gran parte del suo significato, se dalla pregiudiziale autorità del medico (titolare di una tradizionale ‘potestà scientifica’ sui corpi) voglia giungersi all’affermazione di un modello procedimentale che sappia tener conto di variabili lato sensu etiche o culturali, destinate a interagire con il dato scientifico ‘nudo’ della guarigione clinica del corpo.
In breve, piuttosto che muovere alla ricerca di ‘chi’ decide, varrà spostare l’accento sui modi e le forme che concorrono a ‘costruire’ una decisione, singolare o irripetibile, ispirata ai principi del dialogo e del bilanciamento tra le diverse posizioni, gli argomenti o i valori che cercano realizzazione attraverso l’esperienza della malattia e della sofferenza.
L’abbandono del modello della ‘rappresentanza’ della volontà del minore - un modello che, nel decidere ‘al posto’ dell’incapace, già manifesta la ferma convinzione della dimensione oggettiva e predeterminabile del best interest del minore – si apre così all’accoglimento del più agile e adattabile schema della co-decisione (come desumibile anche dal recente art. 3 della legge n. 219/17 sulla disciplina del consenso informato e delle disposizioni anticipate di trattamento), dove l’esito del dialogo è l’apporto di più voci che si accostano e si aggiungono a quella del minore (ove questo sia, beninteso, già in grado di esprimerla) sul presupposto del carattere irriducibilmente soggettivo e relativo del suo miglior interesse.
L’idea della ‘co-decisione’ con l’incapace (con quello che l’incapace è in grado di offrire, direttamente o attraverso i segni o gli elementi, talora fragili o dispersi, della sua autonomia) richiama alla memoria le pagine (finemente elaborate da Alberto Giusti, uno dei nostri migliori magistrati civilisti) della sentenza resa dalla Suprema Corte sulla tragica vicenda di Eluana Englaro.
In quel discorso della Corte, il richiamo al carattere ‘personalissimo’ del diritto alla salute dell’incapace valse a giustificare la conclusione secondo cui il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non attribuisce al tutore la titolarità di un potere incondizionato di disposizione della salute dell’incapace. Nel consentire al trattamento medico, o nel dissentire dalla sua prosecuzione, la rappresentanza del tutore deve ritenersi sottoposta al duplice vincolo, del perseguimento dell’esclusivo interesse dell’incapace, e, nella ricerca del best interest, della definizione di una decisione che sia non al posto, né per l’incapace, ma con l’incapace stesso.
Da qui l’esigenza della ricostruzione della presunta volontà del paziente incosciente, che tenga conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, o che inferisca quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.
Anche con riguardo alla persona del minore – così come, in generale, di chi, per effetto di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi – s’impone l’assolvimento di un impegno di ricerca che muova alla valutazione degli stessi ‘elementi di autonomia’, anche minimi, labili, frammentari o parziali, che la persona è in grado di esprimere o di offrire, affinché su di essi abbia a costruirsi – come nel disegno di una ‘proiezione’ – il senso di scelte e di decisioni che, alla persona dell’autore, pur sempre conviene che appartengano, se al valore dell’autonomia ascriviamo il contrassegno della dignità della persona.
Proprio con riguardo alla vicenda di Eluana Englaro, del resto, un esame non frettoloso del provvedimento della Corte d’appello milanese successivo alla richiamata pronuncia della Corte di cassazione, evidenzia come la ricostruzione del c.d. ‘tratto personologico’ della donna sia stato in larghissima misura ispirata e composta in forza delle valutazioni e dei sentimenti propriamente espressi da una minorenne, essendo Eluana Englaro definitivamente caduta in stato di incoscienza poco tempo dopo il compimento dei suoi 21 anni di età.
Tutto questo è valido nei casi in cui il minore abbia raggiunto, attraverso i primissimi percorsi dell’età, un grado almeno significativo di sviluppo, suscettibile di predicarne una qualche rilevante attitudine o inclinazione che possa dirsi, sia pure tendenzialmente, espressiva di una sua (embrionale) personalità.
Ma quid iuris a fronte di minori di pochissime mesi o anni? Che cosa rileva al cospetto di minori la cui volontà deve riconoscersi obiettivamente o assolutamente ‘non ricostruibile’? Come si riarticolano i discorsi del diritto che cercano di dotare di senso il valore della dignità della persona (di qualunque persona) senza abdicare alle ambizioni assolutistiche di questo o di quel modello filosofico o religioso?
Il modello co-decisionale sollecitato dalla vicenda dei trattamenti sanitari sui minori – un modello che vale a concretizzare in termini del tutto peculiari il significato solitamente attribuito all’espressione che allude all’alleanza terapeutica – individua, tra i suoi protagonisti, i genitori (o il tutore), il medico (o l’eventuale équipe coinvolta) e l’autorità giudiziaria chiamata a intervenire in caso di contrasto.
Ciascuno dei soggetti indicati può certamente ritenersi portatore di una differente ‘visione’ o di un’alternativa ‘lettura’ dell’interesse del minore, pur nella comune ricerca della ‘migliore’ soluzione prospettabile; e ciascuno di essi introduce, nel vivo del comune dialogo, il rilievo di temi di più ampio spessore che solo esteriormente possono apparire, o esser giudicati, lontani dalla più sofferta sostanza del discorso che si conduce.
Si pensi al rapporto che intercorre tra la dimensione obbligatoria della responsabilità genitoriale e alle prerogative della libertà educativa o dell’autonomia della famiglia intesa come comunità vivente di valori e di interessi condivisi.
All’orizzonte del discorso appartiene l’esame dei confini della proposta scientifica, rispetto alla cogenza dei valori spirituali o esistenziali che valgono a sostanziare i processi identitari di singoli e di gruppi, ed infine lo studio dei rapporti che lo Stato (reso vivo e presente dall’intervento dell’autorità giudiziaria) è chiamato a istituire con ciascuno dei soggetti sin qui considerati, e quindi con l’autonomia delle più ristrette comunità sociali di appartenenza del minore (quella familiare e quella confessionale in primo luogo) e con la stessa comunità scientifica.
Il filo conduttore che unisce e insieme conferisce senso al complesso intricato di tali questioni deve rinvenirsi nel nodo comune rappresentato dalla determinazione del miglior interesse (the best interest) del minore come risultante concreta (vorrebbe dirsi ‘a valle’) dell’interazione tra i differenti piani (scientifico, spirituale, esistenziale, etc.) su cui quell’interesse del minore si trova ad essere declinato in una sorta di circolare risonanza tra i principi e i valori variamente ascrivibili ai protagonisti del dialogo e le particolari occorrenze del fatto concreto.
Per sottrarre il discorso critico sin qui condotto a qualsivoglia rimprovero di astrattezza varrà richiamare le questioni pratiche insorte con riguardo alle richieste o al rifiuto di trattamenti medici solo apparentemente legati al rilievo di motivazioni tecnico-scientifiche: si pensi alle vicende che hanno riguardato l’invocazione delle autorizzazioni all’impiego della c.d. ‘multiterapia Di Bella’ per la cura di tumori di fanciulli o di pre-adolescenti, a fronte della violenza invasiva e della stessa incertezza prognostica della chemioterapia tradizionale.
Sul rifiuto della terapia tradizionale un peso certamente non trascurabile aveva avuto la valutazione condotta nei termini della qualità della vita residua o del futuro sperato o della personale percezione dello stesso minore, come accaduto in occasione del rifiuto della (verosimilmente salvifica) amputazione della gamba a fronte dell’indefinita sorte del decorso post-operatorio.
Alle valutazioni che attengono alla qualità della vita – e che in qualche misura toccano o investono il rapporto con il senso della dignità della persona come percepita o vissuta – neppure devono ritenersi estranee le ragioni indicate a sostegno del rifiuto di terapie o trattamenti medici legato a motivazioni di ordine ideologico-religioso o espressive di una particolare sensibilità della coscienza personale. In questo contesto si inserisce il caso, per molti aspetti drammatico, del rifiuto delle emotrasfusioni da parte dei testimoni di Geova, così come la diversa vicenda occorsa in territorio veneziano del bimbo nigeriano colpito da tumore al bulbo oculare, ma anche quello che muove al rifiuto della protrazione degli ‘stati di minima coscienza’ (Minimum Conscious State) – secondo la nozione preferibile agli equivoci riferimenti al carattere ‘persistente’ o ‘permanente’ dello stato vegetativo -, che, come esemplarmente testimoniato dalla vicenda Englaro, appare intimamente legato alle personali visioni della dignità, della libertà o del senso stesso dell’esistenza umana.
Anche il tema dell’identità personale trova posto tra le questioni destinate a investire il discorso sui trattamenti medici sui minorenni, se si pensa – per non dire dell’estremo caso del disturbo dell’identità legato all’integrità del corpo – alla vicenda della rettificazione e dell’adeguamento dei caratteri sessuali come richiesta che insorge con impellenza nell’età della formazione o anche al caso dell’aborto della minorenne.
Lo sfondo su cui occorre collocare le vicende sin qui richiamate – è agevole evidenziarlo – è costituito dalla questione, ineludibile, del consenso ai trattamenti medici proposti o decisi. Più che alla dimensione interiore o intellettuale dell’adesione, rileva qui propriamente la disponibilità fisica del minore a sottoporsi materialmente al trattamento medico, e quindi l’individuazione del limite inaccessibile o comunque insuperabile della coercibilità materiale.
L’irriducibilità del rifiuto del minore opposto all’attuazione dei trattamenti medici coattivi ha costituito materia grave di riflessione, per gli studiosi e per la giurisprudenza pratica, in relazione al tema delle vaccinazioni rese obbligatorie per legge, dove – per richiamare i motivi del testo dell’art. 32 della Costituzione – al ‘diritto’ alla salute del minore è valso, e in larga misura ancora vale a contrapporsi, il generale ‘interesse’ dell’intera comunità.
L’impossibilità della coattiva esecuzione materiale del trattamento obbligatorio (un riconoscimento che deve apprezzarsi e che pure ha trovato, nella disciplina delle vaccinazioni obbligatorie, un fugace riscontro legislativo nel testo di due decreti-legge successivamente non più convertiti dal Parlamento) trova proprio nella regola dell’art. 32 della Costituzione la sua conferma più autorevole, se voglia intendersi con pensosa sollecitudine il limite - che neppure al legislatore è dato (“in nessun caso”) di trascurare - del ‘rispetto della persona umana’ nella sua ultimativa dimensione normativa d’indole morale.
Si addice, alla cogenza dei trattamenti sanitari, la virtù della persuasione e della fiducia ricercata e acquisita, specie a fronte della fragile opposizione, o della strutturale debolezza, dei soggetti destinati a subirli.
Nel caso di minori di cui non è oggettivamente possibile, non solo ricostruire alcuna sia pur minima forma o elemento di autonomia, ma neppure prospettare l’idea del consenso o della fiducia da ricercare o acquisire, il discorso tende a trasferirsi sul piano dei rapporti tra le diverse comunità di vita (la famiglia, la chiesa, lo stato) in cui il minore viene a trovarsi, già da subito, nell’incontro con l’esperienza dell’essere e dell’esistere. Di tali comunità il minore vive e si alimenta, in termini materiali quanto spirituali; ma a tali comunità esso non appartiene, come a nessuno appartiene la persona, esigendosi che essa «appartenga soltanto a sé stessa», contro ogni configurazione che valga a trasformarla in una res societatis, o in una res familiae o ecclesiae.
3. Responsabilità genitoriale, comunità familiare e pluralismo - Si è detto come la partecipazione dei genitori al dialogo, o alla ‘co-decisione’, circa i trattamenti sanitari destinati a investire la persona del minore, può arrivare ad assumere significati che non necessariamente si riducono (come, verosimilmente, accade nell’ordinarietà dei casi) alla prestazione di un’adesione o alla manifestazione del consenso ai trattamenti suggeriti dal medico per il benessere fisico del figlio.
Nelle ipotesi di contrasto ‘interno’ o, in forme verosimilmente più aspre, nel dissenso che si manifesta all’‘esterno’ della comunità familiare – e quindi nel caso del conflitto che deflagra tra le decisioni genitoriali circa il minore e la struttura sanitaria curante – il tema della responsabilità genitoriale, e quindi la dimensione di ‘doverosità’ che vi è intimamente connessa, rivela, in forme anche tragicamente dolorose, i suoi tratti più apertamente contraddittori, impliciti nella tensione riconducibile alla sostanza di ‘potere’ che pure informa di sé i termini della prerogativa genitoriale.
Occorre non dimenticare come la garanzia del rispetto dei diritti e delle prerogative di esplicazione sancita dall’art. 2 della Costituzione, non riguardi il solo riconoscimento dei diritti inviolabili dei singoli individui, dovendo viceversa estendersi alla stessa costituzione e alla vita, in breve all’intera vicenda delle formazioni sociali intermedie tra il singolo e lo stato, titolari di attribuzioni e di forme irrinunciabili di autonomia, nel quadro della struttura pluralistica dell’ordinamento generale.
Proprio l’idea del ‘riconoscimento’ (e non già dell’‘attribuzione’ o della ‘costituzione’) dei diritti delle comunità intermedie tra l’individuo e lo stato, del resto, così come il complesso delle garanzie di libertà assicurate agli statuti della famiglia, delle confessioni religiose, dei sindacati o dei partiti politici (per menzionare solo alcune delle formazioni sociali ‘tipiche’, espressamente contemplate dalla Carta nella prospettiva del compimento della persona), inducevano ad apprezzare, delle scelte assunte dall’Assemblea costituente (così come la successiva evoluzione della cultura e del costume della società italiana della seconda metà del Novecento avrebbe in larga misura confermato), proprio la convinzione della sostanziale originarietà, rispetto all’ordinamento dello stato, di quelle esperienze comunitarie. Ed insieme la persuasione dell’appartenenza, al territorio del diritto privato, dell’organizzazione giuridica dei rapporti interni ad esse, in considerazione del carattere ‘collettivo’, ma pur sempre ‘particolare’, degli interessi immediatamente riferiti all’iniziativa delle comunità intermedie.
Con riguardo alla disciplina della famiglia, d’altro canto, proprio la norma dell’art. 30 della Costituzione ammonisce a non trascurare quel principio di tensione tra le dimensioni della libertà e della doverosità implicite nell’esercizio della responsabilità genitoriale, se si pensa al riconoscimento del ‘dovere’, ma insieme anche del ‘diritto’ dei genitori di mantenere, istruire ed educare la prole, e della previsione dell’assolvimento di tali compiti con mezzi alternativi, da parte della legge, nei soli casi di ‘incapacità dei genitori’.
Il ‘diritto’ dei genitori, così come i ‘diritti della famiglia’ che compaiono nelle ricordate previsioni costituzionali, devono intendersi, in primo luogo, come pretese che la comunità familiare esercita nei confronti dello stato come garanzia di immunità certamente declinabile anche in termini di libertà educativa d’indole culturale, morale o religiosa.
D’altro canto, se è vero che l’interesse del minore costituisce il limite, per così dire, ‘naturale’ dell’autonomia familiare, è anche vero che quest’ultima (nelle sue proiezioni formative di carattere etico, spirituale o religioso, in breve, culturale) esercita un’incidenza spesso determinante nella coltivazione o nella formazione delle principali scelte esistenziali del minore.
La vicenda legislativa dell’adozione dei minori, del resto (un capitolo e un documento determinante nel processo di comprensione delle idee e delle ideologie che si sono andate avvicendando sul senso dell’esperienza familiare), rende una significativa testimonianza dell’intimo legame che intercorre tra l’identità individuale e la singolarità dell’appartenenza alla propria comunità familiare, se si voglia intendere in termini non banali o sbrigativi il testo della norma che introduce la disciplina organica dell’adozione minorile.
Il diritto del minore di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia, così come, nei casi di impossibilità, di vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia senza distinzione di sesso, di etnia, di età, di lingua, di religione e, soprattutto, nel rispetto della propria identità culturale, vale a significare propriamente che il riguardo per l’identità personale del minore non può prescindere dalla conservazione dei suoi originari legami comunitari, o comunque dalla sua collocazione nel quadro di rapporti che ne richiamino le tradizioni e i segni della cultura di provenienza.
Da questa prospettiva ha senso interrogarsi sull’effettiva legittimità, o financo sulla stessa possibilità, per lo Stato, di stabilire in forza di principi e criteri propri un modello qualitativo assoluto di famiglia, o anche solo l’interesse concreto ‘migliore’ del minore senza riferirsi alla irripetibile storicità della sua vita personale e familiare.
Sul punto varrà richiamare - sia pure in relazione ad un frammento umile o marginale dell’esperienza - le pronunce rese dalle nostre Corti nella materia delle vaccinazioni obbligatorie; pronunce inclini a superare l’antico dogmatismo paternalistico, allineato alle rigorose prescrizioni sanitarie, per aprirsi alla costruzione di uno spazio di ascolto e di dialogo ragionato, in cui l’obiezione genitoriale viene opportunamente recuperata al quadro del dibattito scientifico.
Deve certamente convenirsi sulla inaccettabilità di posizioni o pretese che aspirano a inserirsi nel dialogo condotto sulle scelte relativi ai trattamenti destinati ai minori, quando siano minate da pregiudiziali dogmatismi, impostazioni pseudo-scientifiche o, peggio ancora, quando riposino su forme di verosimile superstizione, come testimoniato dal caso dell’ancestrale rifiuto o della maledizione del bimbo nigeriano mutilato.
E tuttavia, occorre guardare senza impazienze a casi come quello dei genitori cui non fu impedito, ma anzi positivamente autorizzato, il ricorso alla c.d. cura Di Bella (una terapia cui le più recenti sperimentazioni hanno decisamente negato ogni obiettiva valenza scientifica) al posto di una devastante chemioterapia dall’esito del tutto incerto (o per lo più infausto).
Al tema, del resto - nella misura in cui è ancora la famiglia a costituire l’espressione o la fonte di un tessuto educativo e culturale condizionante, rispetto alla formazione del minore -, appartiene anche la questione del rifiuto delle emotrasfusioni da parte dei Testimoni di Geova, là dove a fronte del condivisibile rifiuto di esporre il minore alle conseguenze letali della scelta (un rifiuto che risponde propriamente all’esigenza di preservarne la futura autonomia, piuttosto che tradirla o ferirla), non può negarsi la rilevanza delle manifestazioni di volontà dei ‘grandi minori’ (di cui siano accertate e sperimentabili le facoltà di piena autodeterminazione), specie se il rifiuto abbia a manifestarsi in forme fisicamente insuperabili.
4. Potere e sapere: la comunità scientifica tra autorità e servizio - Il discorso critico che indugia sulla condivisibilità delle scelte o delle prescrizioni che provengono dalla comunità scientifica aiuta a comprendere le ragioni che ascrivono, a prevalenti considerazioni d’indole ideologica, il tradizionale modello di decisione terapeutica che impone la necessaria salvezza dell’integrità fisica del minore, secondo il dettato dell’autorità medica.
L’alleanza tra il potere politico e il sapere scientifico, del resto, ha ascendenze antiche che risalgono alle origini dello Stato moderno ed alla progressiva stabilizzazione dell’‘arte di governo’ delle prime monarchie europee, come testimoniano le raffinate e preziose pagine degli studi condotti da Michel Foucault.
L’idea del ‘disciplinamento’ e del ‘controllo’ sociale (un tema caro e centrale nella riflessione del filosofo francese) prende forma, alle origini della costruzione moderna del potere statale, proprio attraverso l’istituzione di figure di potere sociale strutturate attorno alla coltivazione di ‘saperi’ tecnici.
Nel momento in cui lo stato assume il compito di provvedere alla cura della salute pubblica (per cui nessun rilievo potrà rivestire l’eventuale dissenso della persona interessata), il relativo munus verrà assolto mediante il ricorso al sapere della medicina scientifica e attraverso il contestuale trasferimento del potere statale sui corpi alla classe medica, nell’occasione trasformata in ‘autorità sanitaria’.
La persistenza di una simile ideologia fino alle più recenti esperienze degli statalismi del XX secolo, del resto, trova una traccia nello stesso codice italiano dei rapporti privati approvato negli anni del regime, e in particolare nel testo dell’art. 5, per cui il limite del potere del singolo nel compimento degli atti di disposizione del proprio corpo è misurato sulla conservazione della sua materiale integrità (implicitamente intesa nella sua dimensione di interesse generale), e in ogni caso nel rispetto dei criteri generali della liceità (le norme imperative, l’ordine pubblico e il buon costume) che, nel sistema dell’autonomia privata, segnano il limite delle prerogative individuali rispetto alle ragioni dell’ordinamento nel suo complesso.
Il sovvertimento di quell’impostazione ideologica, si è detto, deve farsi coincidere, sul piano delle testimonianze documentali, con l’approvazione delle carte costituzionali europee (quella tedesca e quella italiana in primo luogo) e dei testi del diritto internazionale (dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, alla convenzione europea del 1953, ai più recenti testi della Convenzione di Oviedo e della Carta di Nizza) costruiti, tutti, sul carattere ‘sacro’ e ‘inviolabile’ della persona e dei contrassegni della sua dignità, alla quale in primo luogo ripugna il fatto stesso dell’uso del corpo altrui o della sua strumentalizzazione per finalità che largamente lo trascendono.
L’idea che occorre ricavare dai testi così sommariamente ricordati – per la costruzione di un possibile ‘statuto’ del corpo, nella prospettiva della sua disponibilità giuridica – può riassumersi nella riaffermazione del principio della ‘libertà’ e dell’‘autodeterminazione’, come valori da perseguire e da realizzare, e quindi nel compimento di quella sorta di ‘rivoluzione copernicana’ (nel trascorrere dalla centralità dello stato alla preminente considerazione della persona) nella strumentalizzazione del sapere scientifico.
Il potere della medicina deve intendersi in tal senso subordinato alla sovranità delle scelte che ciascuno esercita in relazione all’uso e al destino del proprio corpo; ed a scelte che possono anche trascendere la ridotta finalità della conservazione dell’integrità fisica, per giungere alla realizzazione di interessi di differente natura (di volta in volta, estetica, sportiva, sessuale, etc.), fino al possibile sacrificio della pienezza dell’integrità per finalità che riposano su considerazioni d’indole religiosa, spirituale o, più genericamente, culturale.
Tra le ricadute di maggior rilievo, che si legano ad una simile rivisitazione dei rapporti tra lo stato, la persona e il potere della medicina sui corpi, occorre non trascurare l’esame dei limiti oltre i quali deve giudicarsi irragionevole o incongrua la pretesa di esigere, dal singolo medico, l’esecuzione di condotte da questi financo ripugnate: una considerazione che prelude alla verifica della consistenza o dei confini che segnano i limiti dell’obiezione di coscienza nei suoi difficili rapporti con i diritti e le libertà dei singoli.
Anche il tema dell’informazione sanitaria, cui l’espressione del consenso al trattamento medico immediatamente si lega, deve ritenersi comune al discorso sulla diffusione del sapere della medicina e sui modi che inducono ad affrontarne una discussione critica; da questo punto di vista, all’informazione (e alla sua strumentalità rispetto al consenso) occorre ascrivere la finalità di sottrarre la persona ad una specifica forma di ‘incapacità’, conducendola ad un accettabile livello di consapevolezza circa il significato, le modalità e le finalità del trattamento proposto.
Con riguardo ai minori, il tema si traduce nell’individuazione delle modalità di comunicazione più adatte a scongiurare i rischi di una sovraesposizione emotiva, nel decidere tra la limitazione dell’informazione dei soli genitori, del ricorso a questi ultimi quali ‘mediatori’ dei contenuti informativi, o delle forme più congeniali ad un rapporto immediato e diretto tra il minore e l’operatore sanitario.
5. Il giudice e l’autonomia delle culture - Volendo rapidamente raccogliere il senso delle considerazioni sin qui complessivamente accennate, converrà ribadire come, nel quadro costituzionale definito dai principi della Carta del ‘48 e dei documenti di provenienza internazionale che la completano, il discorso del giurista sul tema dei trattamenti sanitari relativi ai minori - tra le spinte progressive della scienza e i richiami austeri dell’etica – è ancora chiamato a muoversi sui territori che definiscono (o ridefiniscono) gli spazi dell’autonomia.
Il superamento della tradizione paternalistica – che dalle teorizzazioni politiche della modernità talora ancora giunge alle più riposte propaggini della cultura medica e scientifica contemporanea – deve indurci ad arricchire il senso della complessità che articola e struttura l’essenza delle autonomie: di quella rivendicata dal sapere della scienza e di quella che, viceversa, è propria delle comunità intermedie in cui la vita del minore prende alimento e si realizza attraverso i percorsi culturali delle autodeterminazioni ancora incompiute o in formazione.
Nell’ambito di tale impegno, è compito dello stato - e quindi del giudice, nel momento in cui è chiamato ad assumerne l’espressione - saper ritrovare, proprio nel dialogo o nel confronto tra il sapere della scienza e i saperi che costituiscono il patrimonio delle persone e delle loro comunità, la radice o la legittimità democratica o, infine, la giustificazione stessa che conferisce un senso autenticamente ‘umano’ all’esercizio del suo potere.
IL SOTTOSISTEMA DEI REATI DEI P.U. CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE di Giorgio Spangher
una microriforma di sistema in relazione a reati ricondotti ad omogeneità, sanzionatoria, processuale, esecutiva, pur nella loro differenziazione qualitativa (in termini di pericolosità) e quantitativa (in termini di pena) che evidenzia la propensione per un sistema sanzionatorio a trazione retributiva. Si accentua il ricorso alle pene accessorie, intese come una sorta di misura di sicurezza ovvero come una specie di “daspo”, comunque – al di là di una effettiva efficacia – sicuramente socialmente stigmatizzanti. Si conferma così il trend di bilanciamento al ribasso delle garanzie processuali e della tutela dei diritti fondamentali.
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Le modifiche di carattere sostanziale. - 3. Le modifiche di carattere processuale. - 4. Le modifiche in materia esecutiva e penitenziaria. - 5. Conclusioni.
1.Considerazioni introduttive.
Reale o solo percepita, la Corruzione è stata considerata un fenomeno che aveva bisogno di un intervento riformatore.
Lo imponevano soprattutto le organizzazioni internazionali che pur evidenziando indici di miglioramento nel nostro Paese, sottolineavano, tuttavia, come rispetto agli impegni internazionali sottoscritti dall’Italia, il nostro Paese fosse ancora inadempiente. Sintomatica, sotto questo profilo, si prospetta la previsione con la quale non si rinnovano le riserve alla Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo (27.11.1999, ratificata dall’Italia con la l. n. 110 del 2016).
In un mondo connotato da una economia globalizzata, il tasso di corruzione di uno Stato diventa, fra gli altri, un elemento di valutazione delle prospettive di investimento, con ricadute sulla crescita e sullo sviluppo di una società. Sul terreno più strettamente politico si evidenziava, altresì, come in un contesto di prolungata crisi economica, il fenomeno della corruzione fosse diventato un tema suscettibile di incidere sulla coesione sociale e a lungo andare anche sulla tenuta democratica del paese.
Non casualmente la l. n. 3 del 2019 è completata con una articolata disciplina in materia di trasparenza e controllo dei partiti e movimenti politici.
La conseguente consapevolezza che ci si trovava di fronte ad un fenomeno di criminalità ancorché già preceduto da altri interventi in materia suggeriva una nuova risposta “forte” capace di arginare la stagione della c.d. criminalità da profitto. L’ulteriore riconoscimento della connessione tra i fenomeni corruttivi e la criminalità organizzata prospettava la possibilità di mutuare degli strumenti operanti per quest’ultima quello che poteva svolgere un’efficace azione repressiva anche a quella economica.
L’ampiezza e la diffusività del fenomeno e la conseguente necessità della lotta e del contrasto suggeriva il ricorso all’armamentario tipico dell’azione di politica criminale: inasprimenti sanzionatori; penetrante strumentario accertativo; rigido sistema esecutivo.
Si può così affermare che si è delineato un sottosistema, quello dei reati dei pubblici ufficiali nei confronti della pubblica amministrazione.
2.Le modifiche di carattere sostanziale.
Con preciso riferimento alle modifiche introdotte nel codice penale (art. 1, comma 1, lett. a) va innanzitutto evidenziato come il legislatore abbia individuato una serie di reati che costituiscono il riferimento in tutto o in larga parte di molte previsioni novellate: il riferimento è in particolare agli artt. 314, 316 bis, 316 ter, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, 320, 321, 322, 322 bis, 346 bis c.p.
Inevitabilmente, come anticipato, si procede a un innalzamento delle pene (art. 316 ter, comma 1, secondo periodo, c.p.; art. 318, comma 1, c.p.; art. 646, comma 1, c.p.) e alla ridefinizione di alcune fattispecie (abrogazione dell’art. 346 c.p. e riformulazione contestuale dell’art. 346 bis c.p.; riscrittura della fattispecie di cui all’art. 322 bis c.p. e interpolazione dell’art. 642 bis c.p.).
Si consolida – sempre per i citati delitti riconducibili ad attività corruttive – l’obbligo della riparazione pecuniaria, secondo i contenuti fissati dall’art. 322 quater c.p. e quello della confiscabilità dei beni, sempre in relazione ai citati delitti riconducibili ad attività corruttive, ai sensi dell’art. 322 ter c.p. (in relazione ai quali il nuovo articolo 322 ter c.p. - articolo 1, comma 1, lett. p) – prevede il possibile affidamento in custodia giudiziale alla p.g.); si modifica altresì l’articolo 578 bis, comma 1, c.p.p. (comma 1, lett. f), relativamente all’applicabilità della confisca ex art. 322 ter c.p. nel giudizio di appello, conclusosi con l’estinzione del reato a fronte di precedente condanna: a seguito della contestuale modifica della prescrizione potrebbe trattarsi di una previsione “precaria”.
Si completano, in tal modo, le misure ablative dei beni già previste per la confisca diretta e per quella allargata ex art. 240 bis c.p.
La previsione sconterà, tuttavia, i limiti connessi alla nuova disciplina della prescrizione nel giudizio d’appello.
Nel contesto delle riforme “penalistiche”, infatti, va da subito segnalato – per le sue molte implicazioni – l’ulteriore riforma della prescrizione.
Già interessata dalla c.d. ex Cirielli e dalla l. n. 103 del 2017, la l. n. 3 del 2019 interviene nuovamente in materia, ancorché differendone gli effetti al 1° gennaio 2020. Si prevede al riguardo, modificando l’art. 158, primo comma, c.p., che il tempo della prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la continuazione e riformando l’art. 159, secondo comma, c.p., che il decorso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o dal decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna.
Non sono mancate, al riguardo, numerose critiche e non si è mancato di sottolineare una certa irragionevolezza delle scelte legislative, soprattutto con riferimento all’apertura costituzionale che sui tempi del processo dovrebbe essere assicurata dalla durata ragionevole del processo.
La sovrapposizione dei tempi delle riforme – la l. n. 103 del 2017 opererà solo per i reati commessi successivamente alla sua entrata in vigore – pone non pochi problemi, come non pochi interrogativi si prospetteranno in relazione agli sviluppi procedimentali, connessi allo sviluppo processuale legato alle apposizioni di decreti penali ed alle decisioni di annullamento.
Il vero fulcro della riforma in materia di contrasto alla corruzione è costituito dalla profondamente novellata disciplina delle pene accessorie: l’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione (art. 32 quater c.p.) e l’interdizione dai pubblici uffici (art. 32 bis c.p.).
La logica sottesa alla previsione è quella d’una misura perpetua (art. 317 bis c.p.) con alcune varianti, peraltro, comunque fortemente penalizzanti.
Nell’eventualità in cui dovesse essere inflitta una reclusione non superiore a due anni ovvero dovesse ricorrere la circostanza attenuante di cui all’art. 323 bis, primo comma, c.p., la condanna alla pena accessoria sarà determinata per una durata non inferiore a cinque anni e non superiore a sette anni; nel caso della circostanza attenuante prevista al cpv. dell’art. 323 bis c.p., la durata delle pene accessorie non potrà essere inferiore a un anno, né superiore a cinque.
Un ulteriore elemento della riforma è costituito dalla scissione tra il tempo della reclusione e quello della pena accessoria. Il dato trova riscontro nella disciplina della riabilitazione che non produce effetti sulla pena accessoria perpetua, salvo che, trascorsi almeno i successivi sette anni, il soggetto non abbia dato prova effettiva e costante di buona condotta (art. 179, comma 7, c.p. e art. 683, comma 1, c.p.p.); in quella dalla sospensione condizionale (comunque condizionata al pagamento della somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria ai sensi dell’art. 322 quater c.p.) (art. 165, comma 4, c.p.), in relazione alla quale il giudice può disporre che il provvedimento non estenda i suoi effetti alle pene accessorie (art. 166, comma 1, c.p.) e, come si dirà, in relazione all’esito positivo dell’affidamento in prova che non estende i suoi effetti alle pene accessorie (art. 47, comma 12, primo periodo, l. n. 354/1975).
E’ stata prevista (art. 1, comma 1, lett. z) anche una forma di “immediato e spontaneo” pentimento che determina una speciale causa di non punibilità per chi entro quattro mesi dalla commissione del fatto, fornisce una fattiva collaborazione alle indagini mettendo a disposizione quanto percepito ovvero l’equivalente in danaro (art. 323 ter c.p.).
Può non essere inutile ricordare – pur collocandosi su di un diverso piano – come con la l. n. 190 del 2012, l. n. 144 del 2014 e l. n. 179 del 2017 sia stata introdotta e rafforzata la disciplina del cosiddetto whisteblower, ai sensi della quale si tutela il dipendente pubblico che denuncia all’autorità giudiziaria, all’Anac, ovvero alla Corte dei conti ovvero a un superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro.
A rafforzare la normativa alla lotta alla corruzione vanno altresì richiamate le disposizioni per le quali per alcuni delitti che sono indicati nell’art. 1, comma 1, lett. a e lett. b della presente legge, in relazione agli artt. 9 e 10 c.p., non è più necessaria la richiesta del Ministro della Giustizia o l’istanza o la querela della persona offesa.
In questo contesto si inserisce anche l’abrogazione degli artt. 2635, comma 5, e 2635 bis, comma 3, c.c., in materia di società, consorzi ed enti privati per effetto della quale sono diventati procedibili d’ufficio i delitti di corruzione tra privati e di istigazione alla corruzione (art. 4).
Vanno, infine, sottolineate le modifiche introdotte al D. lgs. n. 231 del 2011 in materia di responsabilità amministrativa degli enti con le quali, attraverso l’inserimento dell’art. 346 bis c.p. tra quelli per i quali è consentito sanzionare le società, è aumentata la durata della sanzione interdittiva per i reati già previsti contro la pubblica amministrazione, ed è determinata una minore durata delle misure interdittive sempre per questi reati in caso di condotta collaborativa prima della sentenza di primo grado.
3. Le modifiche di carattere processuale.
Per quanto attiene al processo penale (art. 3, comma 1, lett. a e g), oltre alla previsione della nuova misura interdittiva del divieto temporaneo di contrarre con la pubblica amministrazione (art. 289 bis c.p.), in relazione alla pena accessoria corrispondente, si segnala – in linea con la progressiva omologazione del fenomeno della criminalità da profitto a quella organizzata – l’estensione dell’uso del captatore informatico nei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni determinata ai sensi dell’art. 4 c.p.p. anche tra presenti (art. 266, comma 2 bis, c.p.p.), con abrogazione (art. 3) della deroga prevista dalla legge Orlando in relazione ai luoghi di privata dimora (art. 2, comma 2, dell’art. 6 del D. lgs. n. 216 del 2017). Contestualmente è stata estesa ai citati reati la disciplina operante per i reati di cui all’ art. 51, commi 3 bis e 3 quater, in ordine alle modalità di svolgimento delle indagini con il captatore informatico (art. 267, comma 1, terzo periodo, c.p.p.).
L’attività investigativa è potenziata attraverso il possibile ricorso ad azioni sotto copertura. Estendendo l’ambito di operatività dell’art. 9, comma 1, l. n. 146 del 2006, lett. a), si prevede che in relazione ai citati reati riconducibili ad attività corruttive, i soggetti ivi indicati, nei limiti delle rispettive competenze, nel corso di specifiche operazioni di polizia, possono svolgere attività, espressamente e articolatamente indicate dalla legge, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai citati delitti.
Le previsioni in tema di pene accessorie trovano un preciso coordinamento nella riforma della disciplina dell’applicazione della pena su richiesta delle parti.
Si prevede (art. 1, comma 1, lett. d ed e), al riguardo, che la richiesta di patteggiamento per i già citati delitti di corruzione di cui all’art. 317 bis c.p. possa essere condizionata all’esenzione delle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrarre la pubblica amministrazione nonché all’estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene (con potere del giudice di rigettare la richiesta) (art. 444, comma 3 bis, c.p.p.); si stabilisce che nell’ipotesi di patteggiamento di cui all’art. 445 c.p.p., cioè, con pena non superiore a due anni. Possano essere applicate le riferite pene accessorie (art. 445, comma 1 bis, c.p.p.); si precisa che le riferite previsioni operano anche per le decisioni pronunciate dopo la chiusura del dibattimento (art. 445, comma 1, terzo periodo, c.p.p.).
4. Le modifiche in materia esecutiva e penitenziaria.
Molto significative si prospettano le implicazioni della riforma della disciplina esecutiva e penitenziaria.
L’elemento cardine è costituito dall’inserimento delle riferite previsioni incriminatrici nel contesto del comma 1 dell’art. 4 bis ord. penit., cioè, all’interno della disposizione che esclude l’accesso ai benefici, fatta salva l’ipotesi della speciale causa di non punibilità di cui al già citata art. 323 ter c.p.
Il dato potrebbe avere significative conseguenze sulle condotte in corso di esecuzione. Va altresì sottolineato che per i reati di cui all’art. 4 bis ord. penit. l’art. 656, comma 5, in relazione al comma 9, lett. a, il p.m. non sospende l’esecuzione della pena detentiva. Quest’ultimo elemento sta prospettando non pochi interrogativi sull’operatività della previsione in relazione alle condanne, anche a pena patteggiata, sia definitive, sia destinate a diventarlo.
L’impostazione restrittiva trova ulteriore conferma nella previsione – già citata – per la quale l’esito positivo dell’affidamento in prova non estingue le pene accessorie perpetue (art. 47, comma 12, primo periodo, l. n. 354/1975).
5. Conclusioni.
Tentando una sintesi, la ricostruzione in primo luogo consolida l’idea – avanzata in premessa – che sia stata effettuata una microriforma di sistema in relazione a reati ricondotti ad omogeneità, sanzionatoria, processuale, esecutiva, pur nella loro differenziazione qualitativa (in termini di pericolosità) e quantitativa (in termini di pena).
In secondo luogo, la riforma della prescrizione – seppur nuovamente differita – evidenzia la propensione per un sistema sanzionatorio a trazione retributiva, come è ulteriormente confermato dai limiti all’accesso ai riti premiali.
Inoltre, va segnalata l’accentuazione del ricorso alle pene accessorie, intese come una sorta di misura di sicurezza ovvero come una specie di “daspo”, comunque – al di là di una effettiva efficacia – sicuramente socialmente stigmatizzanti.
Infine, in termini generali, si conferma l’attrazione che il percorso della criminalità organizzata con il suo armamentario (ordinamentale, investigativo, cautelare, premiale, probatoria, esecutiva, penitenziaria, collaborativa) esercita, inevitabilmente, sui fenomeni che creano allarme e disagio sociale, naturalmente, bilanciando – al ribasso – le garanzie processuali e la tutela dei diritti fondamentali.
LA FRAGILITÀ DEL “GIUDICATO” E L’INCERTEZZA DELLA PENA
di Stefano Tocci
Alla luce dei percorsi interpretativi della Corte europea e della Corte costituzionale l’autore osserva come sia stato eroso il principio del cd. mito del giudicato, che resiste per l’accertamento del fatto ma è sgretolato in punto di pena. Se pertanto per l’accertamento del fatto il “giudicato” costituisce un mito, in relazione alla pena è ormai diventato leggenda.
Sommario: 1. Il “mito” del giudicato. - 2. Superamento del giudicato in sede processuale: revisione e ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p. - 2.2. Dilatazione dell’operatività dell’ art. 625 bis c.p.p.; 3.- La “flessibilità” del giudicato in punto di pena. 4. - Casi di “illegalità della pena”
1. Il “mito” del giudicato
Il principio secondo il quale nessuno può essere giudicato più volte per uno stesso fatto che abbia già costituito oggetto di accertamento processuale soddisfa, com'è intuitivo, una esigenza fondamentale di giustizia sostanziale. Al diritto del singolo, inoltre, si affianca una primaria esigenza di salvaguardia del sistema nel suo complesso, che passa anche, ma non solo, attraverso la certezza e la vincolatività delle decisioni giudiziarie definitive. In dottrina si sottolinea che il postulato dell’intangibilità del giudicato ha un fondamento politico, non logico, rappresentato dall’esigenza di certezza giuridica nel caso concreto, e già negli anni ‘50 un’autorevole voce aveva invocato l’esigenza di “depurare” l’immutabilità della cosa giudicata “da tutti quegli elementi parossistici e irrazionali, che hanno trasformato questo che doveva essere un istituto di salvaguardia della sicurezza giuridica in una specie di castello turrito, tetragono ad ogni aspirazione di giustizia” .
Dalla irrevocabilità della sentenza derivino due conseguenze immediate: la prima positiva, perché la decisione acquista una forza esecutiva e secondo le regole dettate dagli artt. 651-654 c.p.p. si impone nei successivi giudizi civili amministrativi e disciplinari; la seconda negativa, in quanto viene impedita la celebrazione di un secondo giudizio per lo stesso fatto quando una persona è già stata condannata o prosciolta in relazione ad esso.
Oggi si parla sempre più di erosione del principio del giudicato.
2. Superamento del giudicato in sede processuale: revisione e ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p.
Va in primis evidenziato che già l’ordinamento processuale conosce, per casi tassativi, la possibilità che il giudicato venga travolto. Mi riferisco all’istituto della revisione disciplinato dall’art. 630 e ss. c.p.p., che costituisce un mezzo di impugnazione straordinaria esperibile senza limiti di tempo. Senza entrare troppo approfonditamente nel tema, collaterale a quello dell’intervento, ritengo sia utile ricordare che l’art. 630 c.p.p. prevede che la revisione possa essere richiesta:
- se vi è la non conciliabilità dei fatti posti a fondamento della sentenza di condanna o del decreto penale di condanna con quelli di un’altra sentenza penale irrevocabile;
- se interviene la revoca di una sentenza civile o amministrativa di carattere pregiudiziale che è stata posta a fondamento della sentenza di condanna o del decreto penale di condanna;
- se sopravvengono nuove prove che da sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto;
- se viene dimostrato che la condanna è stata pronunciata a seguito di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto che la legge prevede come reato.
A pena di inammissibilità della domanda, l’art. 631 c.p.p. sancisce che gli elementi in base ai quali la revisione va richiesta siano tali da dimostrare, se accertati, che il condannato debba essere prosciolto con sentenza di assoluzione (art. 530 c.p.p.), di non doversi procedere (art. 529 c.p.p.) o di non doversi procedere per estinzione del reato (art. 531 c.p.p.).
E’ evidente che la latitudine dell’intervento rescindente è determinata, direi inevitabilmente, anche dalla forza ermeneutica della sensibilità demolitrice dell’interprete. Secondo un criterio di proporzionalità inversa, minore diventa l’esigenza di invarianza del decisum, tanto più si allargano i margini di ammissibilità della istanza di revisione.
Quanto alle prove nuove, ad esempio, la Suprema Corte (Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 53236 del 20/09/2018 Cc. -dep. 27/11/2018- Rv. 274185 – 01) ha affermato che è ammissibile l'istanza di revisione conseguente ad una nuova prova che mette in discussione l'attendibilità di una chiamata di correo, quando si contesta la reale esistenza di un fatto storico che ha rappresentato il riscontro esterno alle dichiarazioni del chiamante (fattispecie in cui il chiamante aveva ammesso di aver ucciso, in concorso anche con l'istante, un minore, mediante colpi di bastone e di roncola, e successivamente di aver fatto a pezzi e bruciato il cadavere, circostanze in realtà non compatibili con il successivo ritrovamento, a distanza di anni, del corpo integro della vittima, che non presentava lesioni scheletriche tipiche di chi ha subito bastonate e fendenti). In tal caso non è quindi una prova nuova di per sé idonea a sovvertire l’esito del giudizio ad essere presa in considerazione, bensì l’emergere di un nuovo elemento di fatto ritenuto, in fase rescindente, idoneo a mettere in crisi la credibilità del chiamante in correità la cui deposizione ha costituito prova nei modi e nei termini di cui all’art. 192 c.p.p.. Ma vi è di più: la Suprema Corte (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 17170 del 31/01/2017 Ud. -dep. 05/04/2017- Rv. 269826 – 01) ha anche affermato che in tema di revisione, rientra nella nozione di "prova nuova" la rilevazione della mancanza della condizione di procedibilità del reato per cui è stata emessa sentenza di condanna, in quanto, ai sensi e per gli effetti dell'art. 630, comma primo, lett. c), cod. proc. pen, devono considerarsi tali sia le prove preesistenti, non acquisite nel precedente giudizio, sia quelle già acquisite, ma non valutate neanche implicitamente, purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudice. Pertanto, il rilevamento postumo della insussistenza di una condizione di procedibilità costituisce “prova nuova”. A tal fine appare opportuno evidenziare che l’art. 187 del codice di procedura penale, stabilisce che sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza ma sono anche oggetto di prova, i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali.
Tra gli strumenti atti a sgretolare il giudicato, contemplati dal codice di rito, va menzionato il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., a mente del quale è ammessa, a favore del condannato, la richiesta per la correzione dell'errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione. Già la lettera della norma evidenzia come non si tratta di uno strumento atto semplicemente a risolvere qualche problema di refuso di stampa, e la valutazione, quando si discetti di errore di fatto, può effettivamente comportare uno stravolgimento del decisum in realtà divenuto irrevocabile a seguito della pronuncia della Suprema Corte conclusiva del processo.
La giurisprudenza, nell’applicazione di tale istituto, ha posto dei paletti interpretativi ben precisi: l'errore di fatto verificatosi nel giudizio di legittimità e oggetto del rimedio previsto dall'art. 625 bis cod. proc. pen., introdotto dall’art. 6 comma 6 L.n. 128/2001, consiste in un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall'influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall'inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 47316 del 01/06/2017 Cc. -dep. 13/10/2017- Rv. 271145 – 01); Il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso i provvedimenti della Corte di Cassazione può avere ad oggetto l'omessa considerazione di una prova esistente, ma non il travisamento della stessa (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 29450 del 08/05/2018 Cc. -dep. 27/06/2018- Rv. 273060 – 01); ai sensi dell’art. 625 bis c.p.p. non possono trovare ingresso questioni di diritto nonché questioni che presuppongono un percorso valutativo (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21939 del 17/04/2018 Cc. -dep. 17/05/2018- Rv. 273062 – 01).
Tant’è vero, consequenzialmente, che è stato ritenuto inammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto proposto al fine di ottenere la revoca della condanna inflitta per fatti di concorso esterno in associazione mafiosa commessi antecedentemente al 1994, rientranti nell'orientamento espresso dalla sentenza Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 43886 del 06/07/2016 Cc. -dep. 17/10/2016- Rv. 268563 – 01).
Va ricordato però che la stessa Suprema Corte, col caso “Drassich”, è incorsa nella necessità di abbattere i suddetti paletti.
2.2. Dilatazione dell’operatività dell’art. 625 bis c.p.p.
La Corte di Strasburgo (decisione 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia) aveva ritenuto iniqua la decisione della Corte di Cassazione che aveva ex officio riqualificato il fatto contestato in termini più gravi per il ricorrente, incorrendo nell’inosservanza dell’art. 3 lett. a) CEDU che riconosce all’imputato il diritto di essere informato non solo del motivo dell’accusa ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti, in funzione di predisporre ed esercitare le prerogative difensive di cui alla lett. b) del paragrafo 3 del medesimo articolo.
La Suprema Corte (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 45807 del 12/11/2008 Ud. - dep. 11/12/2008 - Rv. 241754 – 01) in primis ha affermato che in tema di correlazione tra sentenza ed accusa contestata, la regola di sistema espressa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia), secondo cui la garanzia del contraddittorio deve essere assicurata all'imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice ex officio, è conforme al principio statuito dall'art. 111, secondo comma Cost., che investe non soltanto la formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso. Ne consegue che si impone al giudice una interpretazione dell'art. 521 comma primo cod. proc. pen. adeguata al "decisum" del giudice europeo e ai principi costituzionali sopra richiamati. Quindi può farsi ricorso alla procedura straordinaria di cui all'art. 625 bis cod. proc. pen. per dare esecuzione ad una sentenza della Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo che ha rilevato una violazione del diritto di difesa occorsa nel giudizio di legittimità e che abbia resa iniqua la sentenza della Corte di cassazione, indicando nella riapertura del procedimento, su richiesta dell'interessato, la misura interna per porre rimedio alla violazione contestata. Più precisamente, quanto alle modalità di intervento sul caso concreto, la Corte europea ha rilevato che, in mancanza di richiesta di equo soddisfacimento "l'avvio di un nuovo procedimento o la riapertura del procedimento su richiesta dell'interessato rappresenta in linea di massima un modo adeguato di porre rimedio alla violazione contestata". La Suprema Corte spiega in sentenza perché non è la revisione ex art. 630 c.p.p. lo strumento tecnico da adoperare per rimediare, e quindi seguendo una lettura interpretativa analogica suggerita dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale è pervenuta all’affermazione che si può applicare all'ipotesi de qua uno strumento giuridico modellato sull'istituto introdotto dall'art. 625 bis c.p.p,. chiamato a rimediare, oltre che a veri e propri errori di fatto, a violazioni del diritto di difesa occorse nell'ambito del giudizio di legittimità e nelle sue concrete e fondamentali manifestazioni che rendono invalida per iniquità la sentenza della Corte della Cassazione. La forzatura mi sembra evidente, apparendo tale lettura ermeneutica un po’ in collisione col principio di tassatività delle impugnazioni e credo che il senso della forzatura era ben presente alla Corte, che ha tenuto a sottolineare, in motivazione, che: << nel caso specifico, si è in presenza di violazione affermata dalla Corte europea; violazione che trova la sua immediata tutela nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e nel citato art. 111 Cost., comma 2. In conclusione, vi è una parziale "rimozione" del giudicato, nella parte in cui esso si è formato nel giudizio di legittimità mediante un vulnus al diritto di difesa, che si è tradotto in una "iniquità" della sentenza, "iniquità" che non è scaturita da preclusioni processuali addebitabili al ricorrente, bensì dal "governo" del processo da parte del giudice. Mette conto - a completamento dell'area degli argomenti giuridici - che nel bilanciamento di valori costituzionali, da un lato, quello della funzione costituzionale del giudicato e, dall'altro, quello del diritto a un processo "equo" e a una decisione resa nel rispetto di principi fondamentali e costituzionali posti a presidio del diritto a interloquire sull'accusa, non può che prevalere quest'ultimo; e proprio la prevalenza di quest'ultimo valore ha determinato il legislatore a introdurre il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p. contro le sentenze della Corte di cassazione>>. Come dire: il principio del giudicato deve comunque cedere innanzi ai diritti fondamentali dell’imputato e lo strumento più idoneo contemplato dall’ordinamento è il ricorso straordinario ai sensi dell’art. 625 bis c..p.. La dilatazione esegetica del ricorso straordinario ha trovato poi applicazione anche allorquando la CEDU, con decisione 17.09.2009, caso Scoppola c. Italia, ha rilevato l’iniquità del trattamento sanzionatorio subito dall’istante che si era visto applicare la pena dell’ergastolo all’esito di giudizio con rito abbreviato sebbene nel momento in cui era stato ammesso al rito alternativo la pena massima erogabile era trent’anni di reclusione. La Suprema Corte, prendendo atto della rilevata violazione degli artt. 6 e 7 CEDU ha ritenuto nuovamente che la strada maestra per rimuovere l’iniquità fosse il meccanismo di cui all’art. 625 bis c.p.p., confermano così la duttilità dello strumento atto a rimuovere violazione accertate dalla Corte Europea, e confermando così l’impossibilità di tenere in vita il giudicato reso in violazione di diritti fondamentali dell’individuo, anche in punto di sanzione penale.
3.- La “flessibilità” del giudicato in punto di pena
La flessibilità del giudicato in riferimento della pena ha conosciuto però una evoluzione interpretativa che è andata oltre alla necessità di provvedere, caso per caso, ad eventuali iniquità rilevate dalla Corte Europea. Va premesso che anche per la pena esistono disposizioni normative espressamente dirette ad incidere sulla cosa giudicata: ad esempio la possibilità di rideterminazione della pena in fase esecutiva in caso di riconoscimento della continuazione o del concorso formale tra reati (art. 671 c.p.p.), ovvero si guardi alla sempre più ampia differenziazione tra pena irrogata nella fase di cognizione, “cristallizzata” dall’irrevocabilità della sentenza, e pena effettivamente eseguita nella fase di esecuzione, con l’applicazione delle misure alternative alla detenzione (al di là del differente regime esecutivo che comporta, si pensi alla liberazione anticipata ai sensi dell’art. 54 OP che determina una riduzione del quantum da espiare in ragione dell’adesione del condannato all’opera di rieducazione, ossia al programma trattamentale di risocializzazione) ha condotto la dottrina a riscontrare anche in riferimento alla pena la “cedevolezza del giudicato”, per cui sembra emergere una duplice dimensione del giudicato penale: una dimensione relativa all’accertamento del fatto, realmente intangibile, non essendo consentita, al di fuori delle speciali ipotesi rescissorie di cui si è detto, una rivalutazione del fatto oggetto del giudizio, e tendenzialmente posta a garanzia del reo (presunzione di innocenza e divieto di bis in idem) però cedevole solo a fronte di violazione dei diritti fondamentali e costituzionali dell’imputato, ed una differente dimensione relativa alla determinazione della pena, che, sprovvista di reale copertura costituzionale (o convenzionale), appare maggiormente permeabile alle “sollecitazioni” provenienti ab extra rispetto alla res iudicata.
Come detto, col caso “Scoppola” la Suprema Corte aveva rinvenuto un rimedio processuale all’iniquità della pena attraverso il ricorso straordinario di cui all’art. 625 bis c.p.p., ma successivamente due arresti delle Sezioni Unite hanno stabilito dei punti fermi a cui la giurisprudenza successiva porta tributo: premesso che la questione atteneva alla possibilità che violazioni identiche a quella di cui al caso “Scoppola” fossero rimediabili anche in assenza di pronunciamento specifico dei giudici di Strasburgo, con l’ordinanza “Ercolano” (SS.UU. n. 34472/2012) le Sezioni Unite hanno ribadito che “è l’esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti negativi dell’esecuzione di una pena contra legem a prevalere sulla tenuta del giudicato, che deve cedere, anche in executivis, alla << più alta valenza fondativa dello statuto della pena>>”; con la sentenza Ercolano (Cass. SS.UU. 18821/2013) si afferma che nel caso considerato non si tratta di procedere ad una riapertura del processo funzionale ad un nuovo giudizio di cognizione bensì di rideterminare il trattamento sanzionatorio rivelatosi ex post costituzionalmente illegittimo, per cui lo strumento adatto diventa la procedura ex art. 670 c.p.p. di competenza del Giudice dell’esecuzione, di cui si amplia anche in tal caso, come precedentemente per l’art. 625 bis c.p.p., l’ambito operativo, facendovi rientrare le questione relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo. Le SS.UU. sul caso “Ercolano” quindi aprono la strada allo sgretolamento del giudicato in punto di pena in caso di violazione di norma convenzionale, ormai risolvibile in sede esecutiva, e direi completano l’opera con la sentenza n. 42858/2014 sul caso “Gatto” in cui espressamente si afferma che il diritto fondamentale della libertà personale deve prevalere sul valore dell’intangibilità del giudicato, di cui si ripudia la concezione assolutistica come norma del caso concreto, insensibile alle evenienze giuridiche successive all’irrevocabilità della sentenza, demolendo così il limite di espansione della retroattività delle pronunce della Corte Costituzionale. Con la sentenza “Gatto” si ribadisce l’utilizzabilità dello strumento dell’incidente di esecuzione, ai sensi dell’art. 666 c.p.p., come rimedio.
4- Casi di “illegalità della pena”
Il caso più eclatante di “illegalità della pena” sopravvenuta, fronteggiato negli ultimi tempi dai Giudici dell’esecuzione, è sicuramente quello conseguente alla pronuncia della Consulta in materia di stupefacenti, ossia la sentenza n. 32 del 2014, che ha condotto le SS.UU. ad affermare che la pena applicata, anche con sentenza di patteggiamento, avente ad oggetto uno o più delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 relativi alle droghe c.d. leggere, divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, deve essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale, e ciò anche nel caso in cui la pena concretamente applicata sia compresa entro i limiti edittali previsti dall'originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità (SS.UU. Sentenza n. 37107 del 26/02/2015 Cc. -dep. 15/09/2015- Rv. 264857 – 01). Il giudice dell'esecuzione - richiesto di adeguare il trattamento sanzionatorio in precedenza determinato per l'illecita detenzione di "droghe leggere" sulla base dei limiti edittali di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014 - deve procedere alla rideterminazione della pena sulla base dei criteri previsti dall'art. 133 cod. pen., sia nel caso di pena illegale in quanto superiore ai limiti edittali previsti dalla normativa oggetto di reviviscenza, sia nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali appena indicati (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 36357 del 19/05/2015 Cc. -dep. 09/09/2015- Rv. 264880 – 01). La Sez. 3 infatti chiarisce che al Giudice dell’esecuzione è inibita qualsiasi operazione di riduzione meramente automatica o aritmetico proporzionale, dovendo invece fare necessariamente uso dei poteri discrezionali ed adeguare in tal modo la pena, con congrua motivazione, al disvalore penale del fatto, come accertato dal giudice della cognizione, attraverso un procedimento di determinazione del trattamento sanzionatorio autonomo che tenga conto dei limiti edittali minimi e massimi previsti dalla fattispecie ripristinata a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di quella espunta ex tunc dall'ordinamento.
Rileva, ai fini in esame, anche l’intervento della Corte costituzionale, sentenza 23 marzo 2016, n. 56 che ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 181, comma 1-bis, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), nella parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed»".
A seguito dell'intervento del Giudice delle leggi, dunque, ai fini dell'integrazione dell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, non è più sufficiente che la condotta ricada su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori o su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142, essendo anche necessario che le opere realizzate siano di notevole impatto volumetrico e che superino, dunque, i limiti quantitativi previsti dalla lettera b) dell'art. 181, comma 1-bis. Infatti, la declaratoria di parziale incostituzionalità, per irragionevolezza sanzionatoria, del comma 1-bis dell'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004, ha circoscritto il precetto del delitto paesaggistico ai soli interventi volumetrici di particolare consistenza, trasferendo una porzione del fatto tipico nell'ambito di operatività del precetto contravvenzionale.
Da ciò deriva l'illegalità sopravvenuta, per sproporzione, della pena in precedenza inflitta ed anche la necessità che il tempo necessario a prescrivere venga parametrato non più sul delitto ma sulla contravvenzione. Trattandosi quindi di pena illegale è consequenziale che, se il giudizio non è ancora definito, la sanzione finale sarà quella tipica delle contravvenzioni, mentre in sede di legittimità il trattamento sanzionatorio sarà oggetto di pronuncia di annullamento parziale e comunque si dovrà fare i conti con il minor termine prescrizionale; in caso di sentenza irrevocabile il giudicato dovrà cedere ricorrendo una ipotesi di pena illegale, ed il Giudice dell’esecuzione sarà investito dei poteri di valutazione discrezionale che competevano al Giudice della cognizione. Ed invero la Suprema Corte ha affermato che il giudice dell'esecuzione, richiesto di revoca della sentenza per sopravvenuta "abolitio criminis", ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen., pur non potendo ricostruire la vicenda per cui vi è stata condanna in termini diversi da quelli definiti con la sentenza irrevocabile, né valutare i fatti in modo difforme da quanto ritenuto dal giudice della cognizione, deve accertare se il reato per il quale è stata pronunciata condanna sia considerato ancora tale dalla legge e, a tal fine, può effettuare una sostanziale ricognizione del quadro probatorio già acquisito ed utilizzare elementi che, irrilevanti al momento della sentenza, siano divenuti determinanti, alla luce del diritto sopravvenuto, per la decisione sull'imputazione contestata (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5248 del 25/10/2016 Cc. -dep. 03/02/2017- Rv. 269011 – 01). Cristallizzato quindi il fatto per come accertato, il Giudice dell’esecuzione, nella materia qui esaminata, dovrà valutare se lo stesso sia ancora sussumibile sotto la fattispecie delittuosa dichiarata incostituzionale ovvero ricada nell’ipotesi contravvenzionale: in tal caso, perseverando l’illiceità penale del fatto per cui è condanna, è la parte sanzionatoria a presentare carattere di illegalità, risultando il fatto, accertato in sentenza, ancora previsto dalla legge come reato ma sanzionato con pena di specie diversa dal modello legale.
Alla luce dei percorsi interpretativi seguiti deve quindi ritenersi ampiamente eroso il principio del cd. mito del giudicato, apparendo ancora resistente quello in riferimento all’accertamento del fatto ma sgretolato in punto di pena.
Se pertanto in riferimento all’accertamento del fatto il “giudicato” costituisce un mito, in relazione alla pena è ormai diventato leggenda.
*Relazione per l’incontro di studio “Il giudicato penale: limiti di tenuta ed ipotesi di superamento” presso la S.S.M. 30 gennaio – 1 febbraio 2019, sul tema “ Le decisioni della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo: la pena diventa illegale?”
"Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924)
di Andrea Apollonio
"Il delitto Matteotti", pellicola del 1973 diretta dal poco noto Florestano Vancini, è anzitutto un film fedelmente ricostruttivo: oggi, verrebbe definito un docu-film. Si apre con le esatte parole pronunciate da Matteotti in Parlamento nel maggio 1924, ripercorre con precisione cronachistica le fasi del rapimento, quelle successive delle campagne di stampa, delle mobilitazioni popolari stroncate a colpi di manganelli, delle contro-mosse del nascente regime fascista. I personaggi, poi, riproducono con cura le fattezze delle corrispondenti figure storiche: ritroviamo allora non solo un Franco Nero clamorosamente simile a Matteotti, tanto che per assomigliarvi il più possibile furono imposti all'attore ritocchi plastici del viso, ma anche un Turati, un Gramsci, un Mussolini, pressocché identici - ed è stato detto che questo è il miglior Duce cinematografico di sempre. L'unico personaggio del "delitto Matteotti" per cui non ci si è preoccupati troppo di raggiungere la rassomiglianza col modello reale è Mauro Del Giudice, il magistrato che inizialmente istruì il processo: è probabile che nessuno, oggi come allora, se ne sia accorto, essendo egli rimasto una personalità secondaria e ben poco conosciuta, di quel cruciale momento della storia italiana.
Ma al di là della raffigurazione filmica, Florestano Vancini restituisce per intero al giudice istruttore la dirittura morale e la dignità storica che gli pertiene, anzitutto facendolo interpretare da uno straordinario Vittorio De Sica - straordinario nel farsi carico degli scrupoli, dei pensieri preoccupati ma fermi di un anziano giudice: una vera e propria compenetrazione di piani, tra vicenda storica, recitazione e vita dell'attore: quella del "delitto" è una delle sue ultime apparizioni, De Sica morirà due anni dopo - e poi, il regista lo fa avendo semplicemente riportato su pellicola - con metodo quasi storiografico - il modo in cui Del Giudice condusse le indagini, fino a che poté.
Una condotta indissolubilmente legata all'indipendenza di giudizio, che è poi garanzia di imparzialità, mantenuta idealmente fino all'ultimo. Una storia, la sua, che oggi apparirebbe ordinaria o addirittura scontata, se non fosse che siamo nel 1924: per le strade imperversano le squadracce fasciste, che pestano a sangue, uccidono, inquinano e condizionano fortemente i meccanismi di una democrazia liberale che sta via via spegnendosi. Nel film, per contro, il De Sica - Del Giudice istruisce il "delitto" con rigore e arriva ai responsabili; non si lascia influenzare dagli "avvertimenti" istituzionali; non si lascia intimidire, neppure dalle manifestazioni fasciste organizzate fuori la sua abitazione: e in quegli anni, il rischio di finire accoppati era elevatissimo, e tanto valeva anche per un anziano giudice quasi settantenne.
Egli avrebbe confidato, a chi in quei momenti gli stava attorno: "le carte dell'inchiesta passeranno, ma dovrà rimanere integra l'onorabilità e l'indipendenza della magistratura romana". Queste le fonti. Certo è che sapeva bene come quella partita l'avrebbe persa (Del Giudice sarà subito rimosso dal suo ufficio con una "promozione" pilotata, mentre le carte del delitto Matteotti finiranno, impantanate, a Chieti), e proprio per questo la conduceva non per sé, ma per l'intero corpo dei magistrati: per assicurarne lo strumento primo ed imprescindibile dell'indipendenza, nonostante tutto; per assicurarlo pro futuro, almeno.
Eppure, a dispetto del secolo trascorso da quei fatti, e nonostante Giacomo Matteotti sia (doverosamente) entrato fin da subito - fin dal 26 luglio 1943 - nel Pantheon della Nazione prima, della Repubblica poi, non si è voluto incidere nella memoria collettiva il profilo di quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924), che col suo essere fedele ai principi "naturali" - nel senso di principi di diritto naturale - di indipendenza e imparzialità del magistrato, e di pervicace opposizione alle ingerenze del potere politico, ha indicato una via: percorsa senza indugio né deviazioni venti anni dopo, dai Padri costituenti.
Perchè è vero, come disse Calamandrei, che se si vuole andare in pellegrinaggio nei luoghi in cui è nata la Costituzione, occorre salire sulle montagne dove i partigiani persero la vita, ma non bisogna neppure dimenticare che l'elaborazione di molti dei principi della Carta sgorga, zampilla anche dall'esempio fornito da tutti coloro - ciascuno nel proprio ruolo - che seppero tenere dritta la schiena durante il ventennio, senza scendere a compromessi con aberrazioni politiche e legislative: tra questi, ed è un dato storicamente accertato, la gran parte dei magistrati ordinari che con ogni mezzo difesero il perimetro della propria indipendenza (il primato, quindi, del diritto "naturale", avverso il diritto "innaturale" di stampo fascista), quasi sempre, infine, soccombendo.
Al pari dei partigiani, Padri della Costituzione sono anche loro: lo è anche Mauro Del Giudice, a cui però è stata concessa, in quasi cento anni, giusto una fulgida interpretazione di De Sica e l'intitolazione di una scuola a Rodi Garganico, suo paese d'origine.
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