ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
IL cinema: un ausilio intelligente alla formazione dei magistrati (storia di un esperimento riuscito a Scandicci)
di Andrea Apollonio
Spesso, troppo spesso e forse ingiustamente, si imputa alla classe magistratuale tutta di essere autoreferenziale, priva di capacità autocritica, e per ciò ermeticamente chiusa alle istanze e alle effettive esigenze della società. Nell'immaginario comune questo stato di cose lo si deriva, per lo più, dallo stesso percorso formativo del magistrato, che prevede una puntigliosa conoscenza delle norme e delle leggi, del sistema giuridico nel suo complesso, senza tuttavia interessarsi ad attività di più ampio respiro, di carattere culturale o intellettuale. Lo stesso concorso, d'altro canto, presenta un elevato coefficiente di complessità proprio perché comporta l'avere - solo e soltanto - un bagaglio di conoscenze teorico-giuridiche vasto se non sconfinato, su cui applicare le proprie tecniche di ragionamento inferenziale.
Per il vero, la gran parte dei magistrati ha un sostrato intellettuale spesso almeno quanto quello, tecnico-giuridico, adoperato quotidianamente. Eppure queste critiche colgono il segno tutte le volte in cui non si registrano, nei programmi di formazione, attività che vadano oltre la conoscenza e l'interpretazione del dato di legge, e tocchino magari più generali problemi della società, oppure approfondiscano con altri linguaggi il proprio ruolo.
Di tutto questo i giovani magistrati requirenti nominati con D.M. del 7 febbraio 2018 (la cui attività di formazione iniziale, a Scandicci, si è appena conclusa) erano consapevoli, quando hanno proposto al comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura di inserire tra le attività didattiche a loro rivolte anche la proiezione di un film, che spingesse gli studenti ad interrogarsi sulla natura della propria funzione, spesso esposta al rischio del pre-giudizio di chi la esercita. Una proposta infine accolta, ed in maniera molto favorevole, dal Direttivo: così, per la prima volta nella recente storia della formazione di quelli che un tempo erano gli "uditori" giudiziari - ed oggi m.o.t., terribile acronimo di magistrato ordinario in tirocinio -, a Scandicci, dopo l'orario delle lezioni frontali "tradizionali", è stato proiettato l'immortale film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", al quale è seguito un intenso e partecipato dibattito coordinato proprio da un membro del Direttivo, il prof. Riccardo Ferrante.
Uno dei film migliori e più intelligenti mai prodotti sulla magistratura, un film in questo senso necessario, che già nel 1971 si interrogava sull'uso distorto della funzione giudiziaria (celebre la scena in cui l'indagato Vittorio Gassman urla a Ugo Tognazzi: "Lei mi odia a livello ideologico, lei è prevenuto contro di me, lei non è un buon giudice!"; e purtroppo, la storia raccontata nel film gli darà ragione). Un'opera che gli stessi studenti, magistrati in procinto di prendere le funzioni nelle rispettive sedi, hanno voluto dibattire, approfondendo - in un momento di formazione intellettuale "collettiva" - i rischi che un approccio eccessivamente ideologizzato alla giurisdizione, in qualsiasi senso esso sia rivolto, produce nei casi concreti.
L'auspicio, quindi, è che un'attività didattica di questa natura possa essere organicamente inserita nei programmi di formazione, almeno della formazione iniziale dei m.o.t., che tornerà presto ad essere di ben diciotto mesi; giacché vedersi rivolgere domande cruciali sulla propria funzione, per mezzo di espressioni artistiche, quale quella cinematografica, che lasciano sempre un solco profondo nella coscienza di ciascuno, vuol dire incarnare il ruolo giudiziario con maggiore consapevolezza; meglio "attrezzati". La premessa (l'attenzione alla tematica da parte della Scuola Superiore) è nei fatti: l'auspicio è che l'esperimento ben riuscito a Scandicci qualche settimana fa non sia un esempio virtuoso ma isolato, bensì il punto d'avvio di un nuovo modo di concepire la formazione, che faccia leva anche sui linguaggi diversi da quello giuridico per preparare meglio - e a tutto tondo - il magistrato di domani alle sfide della modernità; che già oggi appaiono ciclopiche.
L’EQUIVOCO TRA GIURISTA E MEDICO LEGALE IN TEMA DI PARAMETRAZIONE DEL DANNO BIOLOGICO di Enrico Pedoja
L’evoluzione dottrinaria medico legale sui presupposti accertativi tecnici del danno alla persona, ora unitariamente confluiti nel danno non patrimoniale, ha fatto emergere, in seno alla Società italiana di Medicina legale e delle Assicurazioni, alcune criticità circa la valenza probatoria del concetto di danno biologico rispetto alle effettive esigenze di parametrazione liquidativa della componente base del danno non patrimoniale. In tal senso vi è stato un arresto della Medicina Legale in contrapposizione alle attuali modulazioni risarcitorie della componente base del danno non patrimoniale , non potendo sussistere – sotto il profilo strettamente “tecnico”- alcuna corrispondenza automatica tra il parametro di disfunzionalità biologica (inabilità temporanea e invalidità permanente biologica) ed il grado di sofferenza ad esse correlato. Ne deriva la necessità di una nuova rivisitazione medico giuridica della materia che consenta una migliore specificazione tecnica dei parametri di accertamento medico legale, onde pervenire ad una più equilibrata e perequativa definizione monetaria di quelli posti a base per la liquidazione delle componenti biologiche del danno non patrimoniale.
(documento SIMLA maggio 2018 -v. Sito SIMLA –org-, il danno biologico nel danno non patrimoniale. Indagine casistica Società Medicolegale Triveneta 2015 Articolo pubblicato su RI.DA.RE.- vedi sito www.smlt.it-.
Sommario: 1.Premessa - 2. La parametrazione tecnica medicolegale - 3. Il sofismo tecnico medico legale 4. Cosa emerge nella pratica applicativa – I conseguenti paralogismi giuridici e liquidativi - 5. Conclusioni e proposte
1. Premessa
La lettura della Sentenza n. 901/2001 ed in particolare quella n. 7513 del 27.3.2018 della Cassazione Civile pone attualmente serie criticità interpretative medico legali e medico giuridiche sulla intrinseca nozione e contenuto del concetto di danno biologico, quale emerge dagli art. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni, in relazione all'acquisizione di una definizione tecnica medico legale di “danno biologico”, definita dalla Società Italiana di Medicina Legale nel lontano 2001, divenuta ora di difficile inquadramento nel contesto della più estensiva nozione di danno non patrimoniale.
2. La parametrazione tecnica medicolegale
E’ nozione comune per qualsiasi specialista medico legale che la parametrazione dell’invalidità permanente biologica segue l’integrazione di parametri di riferimento tecnici contenuti nei cosiddetti Barèmes ove il presupposto valutativo è costituito esclusivamente e sostanzialmente da riferimenti di esclusiva disfunzionalità anatomica e/o psichica che integrano l’incidenza della menomazione accertata rispetto alle attività quotidiane comuni a tutti, con le uniche variabili connesse necessariamente all’età e sesso del danneggiato. Parametri tecnici che, in vero, non hanno subito alcuna modifica sostanziale allorché la valutazione della disfunzionalità anatomica e/o psichica passò – con l’avvento del danno biologico – dal concetto di danno alla capacità lavorativa generica a quello di invalidità permanente biologica, nonostante fosse mutato il presupposto valutativo dell’incidenza della menomazione : dalla ricaduta negativa sul “non fare reddituale” rispetto alla stima sul “ non fare areddittuale”.
3. Il sofismo tecnico medico legale
A prescindere da tale “iniziale peccato veniale”, quali specialisti medico legali, accertatori della componente base del danno, dobbiamo necessariamente prendere atto che l’errore “concettuale” espresso nel c.d. “decalogo SIMLA” del 2001 fu quello di inserire in una parametrazione di natura disfunzionale, ovvero la ricaduta negativa sul fare quotidiano del danneggiato, anche una proporzionale ed automatica ricaduta negativa sul sentire del soggetto, portatore di una determinata percentuale di invalidità permanente (i c.d. aspetti dinamico relazionali), senza che la Ns. valutazione consentisse di differenziare, rispetto alla invalidità quantificata, quali fossero effettivamente le conseguenze medie della menomazione sul comune “sentire” di ogni danneggiato che non sempre possono coincidere con la “ realtà del danno non patrimoniale” quale appare dalla sola invalidità permanente biologica.
In altri termini il ricomprendere i comuni “aspetti dinamico relazionali” nel concetto di inabilità ed invalidità permanente biologica è un sostanziale “errore interpretativo tecnico” , non avendo tali parametri alcuna valenza probatoria automatica sul sentire di qualsiasi soggetto che ha patito una documentata lesione e che nella sua quotidianità convive con un’accertata e specifica condizione menomativa.
Ricomprendere gli “aspetti dinamico relazionali” nella componente di inabilità temporanea ed invalidità permanente biologica (parametri che incidono esclusivamente sul “non fare” del danneggiato) ha un significato solo nel senso di valutare quantitativamente gli “impedimenti” o difficoltà del danneggiato nel partecipare al contesto sociale, famigliare o relazionale (quindi un “ generico non fare dinamico relazionale), ma non può in sé ricomprendere la sofferenza del soggetto per il “non poter fare come prima” in conseguenza del mutamento peggiorativo della propria integrità psicofisica né tantomeno la sofferenza del danneggiato nel sentirsi “svalutato” né tantomeno la percezione intrinseca della componente di dolore nocicettivo (ove questo sussista).
In sostanza il parametro “ quantitativo “ del danno biologico “ ( cioè la IT e la IP ) non ha alcun rapporto con i generici aspetti “ qualitativi “ della lesione e della menomazione
La sofferenza intima connessa al vissuto della lesione ed alla convivenza con la menomazione è una componente sempre presente nel danno alla persona accertabile dallo specialista medico legale: componente distinta da quella connessa ad altre peculiari condizioni “esistenziali” o conseguente ad altri diritti violati , non direttamente riconducibili all’evento lesivo psicofisico
Ad ogni disfunzionalità umana, conseguente a lesione psichica o fisica, corrisponde sempre un grado di sofferenza ad essa correlabile e definibile con differenti parametri “qualitativi”, accertabili anch’essi – in via convenzionale / presuntiva – dallo specialista medico legale (dolore, disagio e degrado *) : unico soggetto idoneo a qualificare l’effettiva corrispondenza quali-quantitativa del danno: parametri che – si ribadisce- non son tecnicamente rapportabili in via “automatica” al grado di generica disfunzionalità accertata (inabilità temporanea biologica ed invalidità permanente biologica)**
In tale ottica - onde chiarire equivoci interpretativi tecnici- è bene ricordare che l’apprezzamento del “ dolore nocicettivo” non fa parte in se’ della stima dell’invalidità permanente biologica , ma – ove presente e oggettivamente valutabile – serve a motivare una maggior disfunzionalità , in genere di tipo articolare e quindi una maggiore quota di invalidità permanente biologica , ma non riguarda l’apprezzamento qualitativo della “ sofferenza “ da parte di quello specifico danneggiato ( in termini di “ sentire “ , oltre al relativo “ disagio nel non poter fare quotidiano” , e alla ammissibile “ percezione del mutamento peggiorativo della propria integrità fisica ) rispetto ad altro soggetto che ha analoga percentuale di invalidità , senza manifestazioni di dolore nocicettivo.
4. Cosa emerge nella pratica applicativa – I conseguenti paralogismi giuridici e liquidativi
Per fare un semplice esempio ( vedasi il caso citato nella Sentenza n. 901/2001 della Cassazione e sostanzialmente ripreso nella Sentenza n 7513/2018), è sufficiente considerare che il riconoscimento di un 8% di invalidità permanente biologica per riduzione della capacità genitoriale, è totalmente differente da un 8% riconosciuto per gli esiti medi disfunzionale di una qualsiasi lesione fratturativa di un arto inferiore, ovvero da un 8% conseguente ad una perdita della funzione olfattiva ovvero – come spesso avviene nella comune pratica professionale - da un 8% derivante dalla somma di plurime microlesioni. Trattasi chiaramente di condizioni menomative quantitativamente analoghe, sotto il profilo di una parametrazione derivante dall’applicazione dei comuni Barèmes medico legali , ma totalmente differenti ,per quanto riguarda le ricadute della menomazione ,in sé distintamente considerata sotto il profilo qualitativo, relativamente alle ripercussioni sugli aspetti “dinamico relazionali” e quindi alla condizione di “sofferenza intrinsecamente correlabile a quella determinata e qualificata menomazione”.
Il problema interpretativo tecnico medicolegale – e di conseguenza risarcitorio- assume particolare rilevanza , con evidente possibilità di sperequazione risarcitoria , in relazione alla sussistenza del limite normativo ( il 9% di IP ) posto che , stante l’attuale Baréme di legge , alcune menomazioni , pur definite “ quantitativamente “ al di sotto del 9% presentano aspetti “ qualitativi “oggettivamente significati in rapporto alle ricadute personali e dinamico relazionali di qualsiasi soggetto ( vedasi ad esempio la perdita del testicolo o dell’ovaio , esisti disestetici di moderata entità in donne di giovane età, perdita della funzione olfattiva, disturbi da adattamento post traumatico di moderata entità ecc) col risultato che le stesse trovano minor riscontro risarcitorio rispetto ad invalidità biologiche ,stimate con danni pur di poco superiore al limite di legge , ma costituiti da plurime condizioni menomative che – valutate singolarmente – hanno minor o quasi assente ricaduta su comuni aspetti dinamico relazionali e quindi sulla “ sofferenza “ del danneggiato
Per fare un altro esempio si può arrivare a stimare un danno biologico superiore al 9% a seguito del complessivo apprezzamento tecnico conseguente alla perdita della milza, senza residue complicanze sulla crasi ematica ( invalidità che viene stimata nella misura dell‘8’ % con ricaduta dinamico relazionale pressoché nulla ), assieme a coesistenti esiti di un trauma minore del collo ed esiti dolorosi di singola frattura costale : complesso menomativo biologico che troverebbe paradossalmente maggior presupposto risarcitorio ( con applicazione delle Tabelle di Milano ) rispetto – ad esempio - alla già considerata perdita dell’ovaio in età’ fertile o del testicolo in età post-puberale o per un danno estetico di moderata entità in soggetto femminile o di altre condizioni menomative individuate nel Baréme di legge come “ lesioni di lieve entità’”, ma , al contrario, fonti di rilevante “ sofferenza correlata” per qualsiasi danneggiato/a.
Ciò senza voler entrare nel merito della proporzionale “disparità di liquidazione delle relative componenti di Inabilità temporanea biologica e della conseguente disparità liquidativa allorché sussistano ulteriori ricadute della menomazione su peculiari o particolari aspetti dinamico relazionali dello specifico danneggiato.
5. Conclusioni e proposte
In conclusione – dovendosi inquadrare il danno biologico nel contesto del danno non patrimoniale – emerge l’evidente necessità di una parametrazione aggiuntiva alla Inabilità ed invalidità biologica, di natura “ qualitativa” che non rappresenta “duplicazione di danno”, bensì specificazione degli aspetti di sofferenza connessi alla lesione ed alla menomazione accertata: condizione definibile in via presuntiva dallo specialista medico legale, che è l’unico soggetto in grado di apprezzare l’elemento di prova fondamentale ai fini del danno, cioè la realtà clinica della lesione e della menomazione.
Il problema, se mai, è solo di quello di un adeguamento della parametrazione risarcitoria del “ danno base” individuato nelle Tabelle di Milano , ovvero in quella proposte dal Tribunale di Roma , tramite l’applicazione di suppletive “percentuali “ integrative IP correlate secondo graduazione valutativa espressa in forma “ qualitativa o numerica” da parte dello Specialista Medicolegale , come tale suscettibile anch’essa di Contraddittorio tra le Parti in sede tecnica ( anche in fase extragiudiziaria -) Modulazione che potrebbe prendere a riferimento – in via analogica – il limite massimo del 67% del danno biologico quale previsto ad esempio dell’art. 6 della Legge 3.8.2004 n. 206 in tema di liquidazione della cosiddetta “ invalidità complessiva” (anch’essa costituita dal danno biologico e danno morale correlato)
Ciò ferma restando l’autonoma possibilità risarcitoria aggiuntiva al danno biologico “ base” per ulteriori allegazioni , suffragate da adeguato riscontro probatorio , conseguenti ad eventuali interferenze della lesione o della menomazione su peculiari aspetti dinamico relazionali dello specifico danneggiato, la cui definizione quantitativa , ovviamente , non compete allo specialista medicolegale (cui spetta, semmai, il parere di compatibilità con la menomazione accertata), così come non compete allo stesso la valutazione di possibili differenti componenti “ non biologiche “ di danno non patrimoniale conseguenti a violazione di altri Interessi Costituzionalmente tutelati
Peraltro, si deve considerare che aspetti quali “la disistima, la vergogna , la percezione del peggioramento della propria integrità” – ove autonoma conseguenza di lesione o menomazione, rappresentano comunque sempre aspetti “ qualitativi” di un determinato danno biologico e come tali suscettibili di “ equilibrato e motivato “ apprezzamento medicolegale nel contesto del proprio “ accertamento tecnico “ .
*Documento SIMLA maggio 2018 ( vedi Sito SIMLA –org)
** il danno biologico nel danno non patrimoniale. Indagine casistica Società Medicolegale Triveneta 2015 Articolo pubblicato su RI.DA.RE.- ( vedi sito www.smlt.it)
Sulla commerciabilità della cannabis sativa
La sesta Sezione della corte di Cassazione, con la sentenza n. 4920 del 2019, motiva la decisione assunta in tema di commerciabilità della cannabis light.
La liceità della commerciabilità è corollario logico giuridico della liceità della coltivazione come introdotta della legge n. 242 del 2016, come peraltro già affermato dalla giurisprudenza di merito (Tribunale di Ancona 27.7.2018; Tribunale di Rieti 26.7.2018; Tribunale Macerata 11.7.2018; Tribunale Asti 4.7.2018).
La liceità della coltivazione della cannabis sativa contenente principio di thc inferiore allo 0,6% determina l’effetto che detta sostanza non è soggetta alla disciplina di cui al d.p.r. n 309 del 1990, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano nelle tabelle allegate al predetto d.p.r., vale dunque il principio generale secondo il quale la commercializzazione di un bene che non presenti specifici divieti o controlli preventivi previsti dalla legge deve ritenersi consentita.
Decisioni difformi sono state assunte dalla III e dalla IV sezione della Corte di Cassazione per cui si attende la remissione alle Sezioni Unite.
Nota redazionale
Nessuno deve marcire in carcere
Per non spegnere i riflettori, come ci esorta a fare Glauco Giostra con il suo articolo dal titolo Oltraggi visivi (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-penale/563-oltraggi-visivi), abbiamo ritenuto utile pubblicare la sentenza della V sezione penale n. 50187 /2017 in tema di continenza, valenza sociale delle parole e obiettiva lesività dell’onore di espressioni contro l’umanità della persona.
La corte ricorda che nessuno, nemmeno chi è stato dichiarato colpevole di delitti efferati, può essere disumanizzato e assimilato a concetti ripugnanti o cose destinate a marcire.
E’ proprio il riconoscimento dei diritti fondamentali e irrinunciabili della persona e il rispetto della dignità umana che qualificano la superiorità dell’ordinamento statale necessariamente fondato sulla centralità della protezione dell’individuo.
“Deve marcire in carcere” è una frase che mai avremmo voluto sentir pronunciare da un Ministro della Repubblica dal quale ci si aspetta il rispetto dei principi della nostra Costituzione e dello Stato di diritto.
Nota redazionale
Caso Diciotti. Brevi note sulla decisione del Tribunale dei Ministri di Catania di Sandro Saba
L’autore affronta le questioni sottese all'avvio della procedura per il rilascio dell’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro Salvini, la prospettiva normativa, le violazioni accertate, il reato ministeriale. Evidenzia, sotto il profilo tecnico giuridico, come tra la tesi dell’ accertamento giurisdizionale del reato, in applicazione del principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti la legge, e quella dell’insindacabilità dell’atto politico si tratti di coniugare l’istanza di legalità e con l’autonomia dei poteri. Il nostro augurio è che il senato decida con la forza del ragionamento, nel rispetto dei principi costituzionale, e non con la forza della maggioranza.
Sommario: 1. La decisione. Gli accadimenti tra il 15 e il 25 agosto 2018. - 2. Il quadro normativo. Le violazioni riscontrate. - 3. L’ipotesi di delitto quale reato ministeriale. - 4. La tesi dell’insindacabilità dell’atto politico nella pronuncia del Tribunale dei Ministri. - 5. Una diversa soluzione ermeneutica: la sindacabilità a geometrie variabili dell’atto politico.
1. La decisione. Gli accadimenti tra il 15 e il 25 agosto 2018.
Con provvedimento depositato il 22 gennaio 2019, il Tribunale di Catania – Sezione Reati Ministeriali ha disposto, ex art. 8, comma 1, l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1, la trasmissione degli atti al Presidente del Senato per l’avvio della procedura prevista dall’art. 9, legge costituzionale citata, per il rilascio dell’autorizzazione a procedere nei confronti del Senatore Matteo Salvini, in ordine al reato di sequestro di persona aggravato (ai sensi dell’art. 605, commi 1, 2 n. 2 e 3, c.p.), per aver, nella sua qualità di Ministro dell’Interno e con abuso dei propri poteri, privato della libertà personale 177 migranti di varie nazionalità (tra cui soggetti minori d’età), giunti al porto di Catania a bordo dell’unità navale di soccorso “U. Diciotti” della Guardia Costiera italiana (fatto commesso dal 20 al 25 agosto 2018).
La decisione prende le mosse dalla ricostruzione degli accadimenti tra il 14 agosto 2018 (cui risale l’avvistamento del barcone a bordo del quale viaggiavano i migranti) e il successivo 25 agosto 2018 (allorquando il Ministro dell’Interno, in tarda serata, ha autorizzato lo sbarco di quanti ancora a bordo dell’unità navale di soccorso). Il 14 agosto la Centrale Operativa del Comando Generale delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera (IMRCC – Italian Maritime Rescue Coordination Centre) è stata informata dell’avvistamento di un barcone con numerose persone a bordo, giunto l’indomani in zona SAR maltese (dopo un tentativo d’intervento della guardia costiera libica). Alle ore 00:28 del 15 agosto 2018, quanto l’imbarcazione si trovava ancora in acque SAR maltesi, l’IMRCC ha allertato l’Ufficio Circondariale Marittimo di Lampedusa del possibile arrivo del barcone nell’area di competenza, provvedendo alle successive ore 08:00 a chiedere alle Autorità maltesi di comunicare le proprie intenzioni sull’operazione di salvataggio, rispondendo tuttavia RCC – Malta che stava procedendo al monitoraggio della situazione, non qualificata come “evento SAR” (Search and Rescue), in assenza di pericolo di affondamento. Poiché nel frattempo l’IMRCC era stata contattata mediante telefono satellitare dai migranti, che avevano segnalato le difficoltà dell’imbarcazione a proseguire nella navigazione, alle ore 20:24, preso atto dell’attendismo di Malta, la Centrale Operativa ha informato il competente Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno della predisposizione di mezzi idonei a intervenire qualora il barcone fosse entrato in acque SAR italiane, avanzando una preliminare richiesta di indicazione di POS (Place of Safety), dove sbarcare i migranti eventualmente soccorsi. Il mattino del 16 agosto 2018, i migranti hanno chiesto immediati soccorsi all’IMRCC, avendo il natante iniziato a imbarcare acqua. Preso atto dell’atteggiamento maltese (che disconosceva la situazione di emergenza), l’IMRCC, ricevuta ulteriore richiesta di SOS, ha disposto l’intervento delle proprie motovedette (che stazionavano in acque SAR italiane), ordinando il soccorso dei migranti in acque SAR maltesi, atteso l’imminente affondamento dell’imbarcazione. Effettuato il salvataggio verso le ore 04:00, tenuto conto del peggioramento delle condizioni atmosferiche, le due motovedette hanno raggiunto le coste dell’isola di Lampedusa, ove, alle ore 07:43, si è proceduto al trasbordo dei 190 naufraghi (143 uomini, 10 donne e 37 minori) sulla motonave “U. Diciotti”, nominata coordinatrice SAR dalla Centrale Operativa di Roma. Alle ore 10:00, il Comandante ha attivato il protocollo sanitario MEDEVAC, autorizzando lo sbarco a Lampedusa di 13 migranti in precarie condizioni di salute. Nel frattempo, proseguendo la controversia tra le Autorità italiane e quelle maltesi sulla competenza a indicare il porto dove sbarcare i migranti, la “U. Diciotti” continuava a stazionare nei pressi dell’isola di Lampedusa. Il 17 agosto 2018 l’IMRCC ha inviato, alle ore 22:15, una nuova richiesta di POS al Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione (analoga richiesta è stata inoltrata alle Autorità maltesi). La sera del 19 agosto 2018, il Comando Generale delle Capitanerie di Porto ha dato ordine alla “Diciotti” di dirigersi verso Pozzallo, dove l’unità di soccorso è giunta il mattino successivo. Il 20 agosto 2018 l’IMRCC Roma ha ordinato alla motonave di raggiungere Catania, ove ha attraccato alle ore 23:49, con a bordo i 177 migranti rimasti. Il Comandante ha, tuttavia, ricevuto l’ordine di non calare la passerella e lo scalandrone. Permanendo la situazione di stallo e di diniego di POS, il 22 agosto 2018, su esplicita richiesta del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minori di Catania, il Ministero dell’Interno ha autorizzato lo sbarco dei soggetti minorenni non accompagnati. Dopo ulteriore e inutile attesa protrattasi per altri due giorni, il 24 agosto 2018 l’IMRCC Roma ha inviato una terza richiesta di POS. Solo nella tarda serata del 25 agosto 2018, il Ministero dell’Interno ha autorizzato lo sbarco dei migranti ancora a bordo. Le operazioni, iniziate alle ore 00:08 del 26 agosto 2018, si sono concluse poche ore dopo con il trasferimento degli stessi presso l’Hotspot di Messina, dove sono state ultimate le procedure di riconoscimento e identificazione.
Reputa il Collegio desumibile con certezza dalle esternazioni del Ministro dell’Interno agli organi di stampa nonché dalle dichiarazioni rese dai massimi vertici amministrativi competenti l’esistenza di una precisa volontà del Ministro a fondamento della decisione del Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione di non esitare tempestivamente la richiesta d’indicazione di POS avanzata in data 17 agosto 2018 dal MRCC Roma.
2. Il quadro normativo. Le violazioni riscontrate.
Il Tribunale di Catania, a fronte della ricostruzione degli accadimenti offerta, ha riscontrato la violazione di plurimi parametri normativi.
Innanzitutto, della Convenzione internazionale di Amburgo sulla ricerca e il soccorso marittimi del 1979 (c.d. Convenzione SAR – Search and Rescue, ratificata in Italia con l.n. 147/89), del decreto di attuazione d.p.r. n. 662/94, della Risoluzione MSC 167-78 nonché della direttiva SOP 009/15. La Convenzione (concretamente attuata nell’ordinamento interno col menzionato regolamento del 1994) obbliga gli Stati parte a garantire, nelle regioni SAR di competenza (ripartite d’intesa tra gli stessi), che sia prestata assistenza a ogni persona in pericolo in mare (senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali venga trovata) nonché a fornirle le prime cure mediche e di altro genere e a trasferirla in un luogo sicuro (POS – Place of Safety), ossia una località dove le operazioni di soccorso possano considerarsi concluse e dove: a) la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non sia più minacciata; b) le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte; c) possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale. Così le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (di cui alla Risoluzione MSC 167-78 del maggio 2004), ove si prescrive, peraltro, alle parti contraenti di dotarsi di un Centro nazionale di coordinamento delle attività di soccorso (MRCC – Maritime Rescue Coordination Centre) nonché di appositi piani operativi. In Italia il piano operativo è stato adottato con direttiva SOP 009/15, edita nel settembre 2015 dal Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera (l’IMRCC), con l’obiettivo di individuare le procedure da seguire per una più rapida e tempestiva individuazione del POS nei casi in cui l’IMRCC abbia assunto il coordinamento di operazioni di soccorso, quand’anche al di fuori della Search and Rescue Region (SRR). Nel dettaglio, s’è previsto che, ove l’attività di soccorso in mare sia stata effettuata materialmente da unità navali della Guardia Costiera italiana, la richiesta di assegnazione del POS debba essere presentata da MRCC Roma al Centro nazionale di coordinamento (NCC), con successivo inoltro al Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione del Ministero dell’interno, competente all’indicazione del POS ove operare lo sbarco. Ora, reputa il Tribunale dei Ministri che detta disciplina sia stata violata nel caso sub iudice, attesa l’omessa indicazione del place of safety da parte del Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione del Ministero dell’interno sino al 25 agosto 2018, a fronte d’istanza validamente inoltrata da MRCC Roma già in data 17 agosto 2018.
Si ritiene, in secondo luogo, violato il precetto di cui all’art. 10ter, comma 1, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (introdotto con d.l. 17 febbraio 2017 n. 13, conv. in l. 13 aprile 2017 n. 46), che esclude qualsivoglia forma di costrizione dei migranti salvati in mare, cui è garantita l’immediata conduzione in strutture ricettive, per le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico e la presentazione di istanze volte all’attivazione di procedure di protezione internazionale, potendo le attività di prima assistenza e soccorso essere prestate al di fuori dei centri istituiti soltanto per il tempo strettamente necessario all’avvio ai predetti centri o all’adozione dei provvedimenti occorrenti per l’erogazione di specifiche forme di assistenza di competenza dello Stato (così l’art. 23, comma 1, d.p.r. 31 agosto 1999, n. 394, Regolamento attuativo del t.u. Immigrazione), presupposti della disciplina in deroga evidentemente non ricorrenti nel caso di specie. V’è, infine, la violazione del divieto assoluto di respingimento alla frontiera di minori stranieri non accompagnati, sancito all’art. 19, comma 1bis, citato decreto legislativo (comma inserito dalla l. 7 aprile 2017, n. 47), atteso il ritardato sbarco degli stessi (risalente al 22 agosto 2018 e, peraltro, disposto su sollecitazione del Procuratore della Repubblica per i Minorenni di Catania).
Il Tribunale di Catania evoca, inoltre, le sentenze C. edu, 1° settembre 2015 e 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri c. Italia, ove s’è ritenuta la violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU (che consente la limitazione della libertà personale, per finalità di gestione del fenomeno migratorio, solo in presenza di base legale nel diritto interno) in ipotesi di trattenimento forzoso presso i centri di soccorso e di prima accoglienza (di cui all’art. 10ter t.u.), in quanto attuata in difetto d’idonea base giuridica, prevedendo l’ordinamento italiano, quale unica forma lecita di trattenimento dello straniero, la misura della detenzione amministrativa nei centri di permanenza per i rimpatri, ex art. 14 t.u., soggetta, come noto, alla convalida dell’Autorità giudiziaria ordinaria (commi 3 ss.).
3. L’ipotesi di delitto quale reato ministeriale.
Il Tribunale di Catania reputa, pertanto, fondata la notitia criminis a carico del Ministro dell’Interno, in ordine al delitto di sequestro di persona aggravato di cui all’art. 605 c.p., avendo questi, nella veste di pubblico ufficiale e con abuso delle funzioni attribuitegli, arbitrariamente posto il proprio veto all’indicazione da parte del Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione di un place of safety, quale atto propedeutico e necessario per autorizzare lo sbarco, così determinando la forzosa permanenza dei migranti a bordo dell’unità navale “U. Diciotti” (tra cui soggetti minori d’età), con conseguente illegittima privazione della loro libertà personale per un apprezzabile lasso temporale (dal 20 agosto 2018, data dell’ormeggio in Catania, sino al 25 agosto 2018), al di fuori dei casi consentiti dalla legge.
Esclude il Collegio che il reato sia stato commesso in presenza di cause di giustificazione, in particolare ex art. 51 c.p. (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere). Il Tribunale s’è, invero, confrontato con l’efficacia potenzialmente scriminante dell’esercizio dei poteri accordati al Ministro dell’Interno, quale autorità nazionale di pubblica sicurezza, ai sensi dell’art. 1, l. 1° aprile 1981, n. 121. Tuttavia, s’osserva come, nel caso di specie, lo sbarco dei 177 cittadini stranieri non regolari non potesse costituire un problema cogente di ordine pubblico, essendosi, da un lato, assistito nel medesimo periodo a numerosi sbarchi di migranti destinatari di diverso trattamento e non risultando, dall’altro, che tra gli stranieri a bordo della “Diciotti” vi fossero soggetti pericolosi per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale. Ne consegue che la decisione del Ministro non è stata dettata da esigenze di ordine pubblico in senso stretto bensì da motivazioni meramente politiche (estranee alla procedura amministrativa prescritta dalla summenzionata disciplina internazionale e di diritto interno).
Del delitto si afferma, infine, la natura ministeriale (e, così, la competenza funzionale del Tribunale dei Ministri) in ragione della perpetrazione dello stesso nell’esercizio della funzione governativa, facendo applicazione delle coordinate ermeneutiche offerte dalla pronuncia Cass. pen., S.U., 1° agosto 1994, n. 14, a mente della quale, ai fini del giudizio sulla ministerialità del reato, accanto alla particolare qualificazione giuridica soggettiva dell’autore, occorre unicamente ricercare un rapporto di strumentale connessione fra la condotta integratrice dell’illecito e le funzioni esercitate dal Ministro, rapporto che sussiste tutte le volte in cui l’atto o la condotta siano comunque riferibili alla competenza del soggetto, dovendo, invece, ritenersi siano esclusi dalla categoria quei reati in cui sia ravvisabile un rapporto di mera occasionalità tra la condotta illecita e l’esercizio delle funzioni (cfr. Cass. pen., sez. V, 6 agosto 2014, n. 34546 nonché Cass. pen., sez. VI, 20 maggio 1998, n. 8854). Per contro, non integra requisito del reato ministeriale che lo stesso o il suo movente abbiano carattere politico, né che vi sia la presenza di un interesse pubblico collegato alla funzione esercitata dal ministro, in quanto criteri idonei a giustificare la concessione o la negazione dell’autorizzazione a procedere da parte della Camera dei deputati o del Senato della Repubblica, ma non certamente qualificabili come condizioni per la configurabilità di reati ministeriali.
4. La tesi dell’insindacabilità dell’atto politico nella pronuncia del Tribunale dei Ministri.
Esclusa la rilevanza, quale scriminante, delle ragioni politiche sottese alla condotta serbata del Ministro dell’Interno, il Collegio ne indaga la possibile qualificazione in termini di atto politico. Reputa, infatti, il Tribunale che l’eventuale inclusione della decisione ministeriale nel novero degli atti politici ne determinerebbe l’insindacabilità tout court da parte dell’Autorità giudiziaria.
Secondo consolidata giurisprudenza amministrativa, la politicità dell’atto deriva dalla convergente presenza di due requisiti, l’uno soggettivo l’altro oggettivo. In ordine al primo (che attiene alla provenienza del provvedimento), deve trattarsi di «atto emanato dal governo, e cioè dall’autorità cui compete, altresì, la funzione d’indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica» (cfr. C. Stato, sez. V, 6 maggio 2011, n. 2718 e C. Stato, sez. V, 6 ottobre 2009, n. 6094). Sotto il profilo oggettivo, invece, si deve essere al cospetto di un atto adottato «nell’esercizio di un potere politico, anziché nell’esercizio di un’attività meramente amministrativa», che «deve riguardare la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione» (si vedano C. Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1397 nonché TAR Veneto, sez. III, 25 maggio 2002, n. 2393), talora specificandosi che «gli atti politici costituiscono espressione della libertà politica commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti e sono liberi nella scelta dei fini, mentre gli atti amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini posti dalla legge» (cfr. C. Stato, sez. V, 27 luglio 2011, n. 4502 e C. Stato, sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209; in dottrina, per un’attenta disamina dell’istituto, G. Tropea, Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico, in Dir. amm., 2012, III, p. 329 ss.).
Ora, il Collegio non ravvisa, nel caso sub iudice, gli estremi della politicità testé descritti, attesa la natura propriamente amministrativa dell’atto omesso (o meglio illegittimamente ritardato), vincolato nell’an nonché di immediata e diretta incidenza nella sfera giuridica soggettiva e individuale dei destinatari. Preme, peraltro, evidenziare come, in subiecta materia, si sia esclusa la caratura politica del decreto di espulsione emesso dal Ministro dell’Interno ai sensi dell’art. 13, comma 1, t.u. (così C. Stato, sez. VI, 16 gennaio 2006, n. 88), diversamente reputato atto di alta amministrazione (dunque soggetto al giudizio di legittimità, sebbene limitato, in ragione della latitudine dell’apprezzamento discrezionale, al vaglio estrinseco in ordine alla mancanza di una motivazione adeguata o alla sussistenza di eventuali profili di travisamento, illogicità o arbitrarietà), argomento che si menziona per evidente specularità e contiguità logica.
5. Una diversa soluzione ermeneutica: la sindacabilità a geometrie variabili dell’atto politico.
La tesi dell’assoluta insindacabilità dell’atto politico da parte del Giudice ordinario, pur autorevolmente sostenuta, non pare pienamente condivisibile. Innanzitutto, per l’assenza di disposizioni normative del medesimo tenore dell’art. 7, comma 1, c.p.a. (che pone il divieto di giustiziabilità innanzi al Giudice amministrativo), norma che, in quanto eccezionale, risulta insuscettibile di applicazione analogica (così già O. Ranelletti-A. Amorth, Atti politici (o di Governo), in NDI, I, 2, Torino, 1958, p. 1515, in relazione all’art. 31 t.u. C. Stato). Va, inoltre, evidenziata la diversità strutturale del giudizio ordinario (rispetto a quello amministrativo), avente principalmente a oggetto il vaglio di liceità di condotte (si veda, sulla distinzione fra illegittimità e illiceità, E. Guicciardi, L’atto politico, in ADP, 1937, 504-505): in altri termini, il Giudice ordinario conosce della legittimità dell’atto soltanto in via incidentale, quale mero elemento della fattispecie fattuale dedotta, di cui verificare l’aderenza al paradigma normativo di riferimento, secondo operazioni logiche di sussunzione o distinzione (cfr. Cass. pen., S.U., 21 dicembre 1993, n. 11653 nonché, da ultimo, Cass. pen., sez. III, 10 ottobre 2017, n. 46477), senza, di norma, adottare pronunce demolitorie (per scongiurare le quali – esito tipico del giudizio amministrativo – s’è posto per l’atto politico il limite d’impugnabilità).
Né può, surrettiziamente, sostenersi l’idoneità dell’atto, in sé considerato, a elidere l’antigiuridicità della condotta tipica, in particolare ai sensi dell’art. 51 c.p., qualora il provvedimento, lungi dal rappresentare l’antecedente della condotta, integri esso stesso il fatto di reato (per evidente circolarità logica dell’opposto ragionamento).
In definitiva, non paiono riscontrabili nella disciplina dell’illecito penale argomenti a sostegno dell’imperscrutabilità tout court dell’atto politico (come fosse attributo suo proprio), dovendosi, di contro, analizzare il tema della punibilità puntualmente verificando la sussistenza di guarentigie eventualmente accordate dall’ordinamento a tutela della funzione pubblica. Si fa, evidentemente, riferimento alle immunità riconosciute dalla Costituzione, che costituiscono il corollario operativo dell’autonomia accordata ai poteri supremi dello Stato. Spetta, dunque, all’interprete coniugare le opposte istanze – legalità secondo il diritto comune e autonomia dei poteri – applicando istituti positivamente disciplinati.
In alcuni casi l’immunità compenetra intimamente l’apprezzamento sostanzialistico, talora integrando causa di giustificazione (Cass. pen., sez. V, 24 novembre 2006, n. 38944) o, comunque, di non punibilità (Cass. pen., sez. V, 11 aprile 2008, n. 15323 e Cass. pen., sez. V, 22 novembre 2007, n. 43090), talaltra concorrendo persino alla perimetrazione del fatto tipico. In merito alla possibile incidenza della prerogativa tutelata sulla tipicità della condotta, si veda la più recente giurisprudenza di legittimità (così Cass. pen., sez. VI, 11 settembre 2018, n. 40347), ove si è esclusa la configurabilità del delitto di corruzione propria nell’esercizio della funzione legislativa, ostandovi il combinato disposto degli artt. 64, 67 e 68 Cost. (che non consente l’individuazione di doveri specificamente e riconoscibilmente correlati al mandato parlamentare), così residuando la sola punibilità per il meno grave reato di corruzione impropria (per effetto del mero divieto di ricevere indebite remunerazioni per lo svolgimento del munus publicum).
In altri, derivando l’immunità dall’attivazione di particolari procedure, la distinzione tra penale rilevanza e concreta punibilità rimane netta: così in ipotesi di reati ministeriali (art. 96 Cost.), in relazione ai quali soltanto il rituale svolgimento dell’iter procedurale prescritto (con l’insindacabile valutazione di cui all’art. 9, comma 3, l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1) determina esenzione dalla reazione sanzionatoria. Tanto induce a ritenere che l’imperscrutabilità non sia attributo genetico dell’atto (quand’anche politico), il quale, diversamente, “diviene” immune da stigma penale solo all’esito della procedura a tutela della prerogativa statuale, nel vaglio diacronico che s’è descritto.
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