ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L'emendamento "allunga processi" di Michele Cerminara
All’indomani della presentazione del famigerato emendamento al ddl anticorruzione sulla prescrizione si sono levate, bipartisan, da parte di tutti (o quasi tutti) gli operatori e tecnici del diritto o addetti ai lavori che dir si voglia -comunque sia da parte di tutti coloro che, per onestà intellettuale, indipendentemente dal ruolo, non accettano che temi di così alta incidenza sociale possano essere affrontati sull’onda della faciloneria animata da slogan propagandistici del momento-, moltissime critiche, per un tentativo di riforma generalizzata dell’istituto della prescrizione, che giunge ad appena quasi due anni dall’approvazione della c.d. riforma Orlando, che ha già introdotto la sospensione del decorso della prescrizione per complessivi tre anni successivamente alla pronuncia di primo grado.
Il rischio è quello di continuare a sacrificare diritti di rilevanza costituzionale[1], frutto di fondamentali conquiste della civiltà giuridica, per non affrontare concretamente le reali disfunzioni del sistema Giustizia e rimediare alle storture del sistema processuale.
Lo sbalordimento è enorme, il legislatore manifesta scarsa conoscenza delle aule dei Tribunale e degli apparti amministrativi e, ancora una volta, per scongiurare la piena, si ostina illogicamente a porre l’argine a valle ancorché a monte.
Il fatto che nessun valido cambio di rotta sia stato posto in essere per individuare e migliorare i meccanismi di funzionamento dell’apparato Giustizia e che a brevissima distanza si voglia intervenire nuovamente sull’istituto dimostra un completo disinteresse rispetto ai veri temi e alle problematiche del processo penale italiano.
Solo ponendo in essere interventi specifici e mai generalizzanti è pensabile pensare di poter ridurre i “tempi della Giustizia”. Una riforma della Giustizia non può infatti passare attraverso provvedimenti demagogici, ma deve muovere, a monte, da investimenti in strutture e interventi su base culturale, iniziando ad interrogarsi, in una prospettiva realistica e con gli approfondimenti indispensabili del caso, sull’opportunità di mantenere o meno l’obbligatorietà dell’azione penale.
Mentre non si riesce a cogliere il risultato positivo che con la riforma si vorrebbe raggiungere, prima facie, appaino invece chiare le conseguenze disastrose che una simile riforma potrebbe arrecare.
La riforma, acché ne dicano gli ideatori, non è certo un antidoto alla lunghezza dei processi, né può assolutamente servire quale presidio di salvaguardia alla certezza della pena.
Non è possibile avere piena contezza, in concreto, dell’impatto negativo che, a vari livelli, una riforma generalizzata dell’art. 157 c.p. è in grado di procurare, laddove non si tenga ben presente la duplice ratio sottesa a detta causa estintiva del reato, ovverosia: da un lato il progressivo affievolirsi nel tempo dell’allarme sociale destato dall’illecito; dall’altro, nella prospettiva del reo, il maturare in capo a costui di un diritto all’oblio per il fatto commesso.
Ove si tenga conto di queste essenziali fondamenta, dovendosi muovere necessariamente in una prospettiva costituzionalmente orientata, risulta palese la necessità di dover rifuggire da semplicistiche generalizzazioni. Bisogna andarci cauti! Solo limitatamente ad alcuni tipi o classi di reati, da vagliarsi con circospezione e dovizia, può infatti ipotizzarsi un allungamento dei termini di prescrizione e ciò solo laddove l’analisi venga condotta in ossequio all’ineludibile principio di “ragionevolezza” che la Carta costituzionale esige e che non può che rispondere a due insopprimibili parametri ordinatori: la sussistenza di un allarme sociale così intenso da determinare una “resistenza all’oblio” più che proporzionale all’energia della risposta sanzionatoria; la complessità delle attività probatorie necessarie, in sede di indagini preliminari o in giudizio, per accertare il reato nelle sue componenti oggettiva e soggettiva.
La riforma che si propone è, drammaticamente, ben altra cosa, non considera che la maggior parte delle prescrizioni matura già in fase di indagini preliminari, dove il PM è dominus indiscusso. Per come è ideata, essa è suscettibile di comportare solo un inevitabile allungamento dei tempi del processo, finendo così per rappresentare una contraddizione in termini, giacché viene meno alla stessa finalità che essa proclama di voler realizzare.
L’imputato, a rigore, potrebbe vedersi sottoposto a processo penale pressoché a vita.
Una volta messo al riparo il problema della prescrizione al momento della pronuncia di primo grado, tutte le parti in causa (ed anche le Cancellerie si potrebbe pensare!) non avrebbero più alcuno stimolo e/o necessità a dover accorciare i tempi di conclusione del procedimento, potendo infatti “utilizzare” tutto il tempo necessario a prescrivere (meno un giorno) prima di addivenire alla sentenza.
Si pensi al caso di un delitto “semplice” (in relazione al quale il legislatore non ha modificato in maniera specifica i termini di prescrizione), la cui pena massima è stabilita in dieci anni di reclusione. Il Giudice potrebbe impiegare, senza alcun rischio per la prescrizione, ben dodici anni e mezzo (viste le “classiche” interruzioni) per pronunciare sentenza. A sua volta la Corte di Appello, con la prescrizione ormai sospesa (nell’emendamento si parla di sospensione ma, considerati i termini, sarebbe più onesto parlare di interruzione definitiva), non avrebbe limiti di tempo per decidere.
L’imputato, in sostanza, potrebbe essere sottoposto a processo per tutta la sua vita e un processo senza fine sarebbe l’equivalente di un ergastolo a vita, in barba alla presunzione d’innocenza!
Lo dicono buon senso e logica. Il processo è già pena, specialmente ai nostri giorni, allorquando viene accompagnato da gogne mediatiche e facili movimenti di piazza.
Bloccare o sospendere la prescrizione è incostituzionale ed è contrario a principi internazionali, rappresentando una grave violazione dei più basilari diritti umani.
Al diavolo tutti i preziosi insegnamenti e i principi che i padri del pensiero giuridico, Cesare Beccaria e Pietro Verri per dirne alcuni, hanno donato al mondo intero e alla civiltà giuridica d’ogni dove!
La prescrizione dei delitti è argomento centrale e delicatissimo. Se è vero che per alcuni delitti essa non deve trovare applicazione e che deve necessariamente essere modulata in base alla gravità del reato, è al contempo, inequivocabilmente, principio irrinunciabile di civiltà giuridica cui non è possibile abdicare, figura indispensabile ai fini dell’amministrazione della Giustizia (diceva Beccaria: “Qual più crudele contrasto che l’indolenza di un Giudice e le angosce d’un reo? I comodi e i piaceri di un insensibile magistrato da una parte e dall’altra le lagrime, lo squallore d’un prigioniero?”[2]).
Un processo celere e la certezza della pena, anzitutto in termini di immediatezza della stessa dopo la commissione di un reato, sono i veri principi cui occorre senza indugio dare ossequio, solo attraverso essi, non certo annichilendo tout court un istituto che, a ben vedere, si pone quale ultimo baluardo di garanzia degli stessi contro la deriva nascente dalle storture del sistema, è possibile auspicare alla realizzazione del tanto sbandierato “giusto processo”.
Per non parlare poi di tutte quelle conseguenze negative che l’allungamento del processo comporterebbe per le persone offese dal reato costituitesi parte civile successivamente all’esercizio dell’azione risarcitoria in sede civile. In questi casi, la causa civile, a rigore di codice, verrebbe ad essere sospesa fino alla definitività della sentenza penale, con la conseguenza che la persona offesa potrebbe non ottenere un ristoro del danno per tempi lunghissimi[3].
Si pensi poi all’imputato assolto in primo grado. Questi, ove il PM interponesse impugnazione avverso la sentenza assolutoria emessa dal Giudice di prime cure, potrebbe rimanere comunque “imputato a vita”. E’ allora evidente come, quella di voler “sospendere” la prescrizione in maniera definitiva dopo la sentenza di primo grado, rappresenti una scelta che viene a porsi in acceso contrasto con il principio della ragionevole durata del processo a cui proprio i fautori dell’emendamento dicono ipocritamente di tendere.
Il problema delle lungaggini processuali non è una problematica risolvibile con un intervento teso ad elidere l’istituto della prescrizione; basterebbe modificare e, dove occorra, correttamente applicare alcune norme del codice di procedura penale già esistenti, soprattutto laddove si consideri che relativamente a molti reati risulta ad oggi già prevista una dilatazione del tempo necessario a prescrivere.
Le norme processualistiche che avrebbero dovuto, già prima della riforma Orlando, porsi a garanzia e scongiurare il problema del tempo “sul processo”, sono sempre state disapplicate, interpretate così tanto in favore della garanzia di difesa dell’indagato-imputato da risultare distorte, consentendo al difensore di poter mettere in atto una serie di mezzi per non far giudicare il proprio assistito.
L’omesso avviso 415 bis c.p.p. al secondo difensore nominato, l’omesso avviso al secondo difensore delle udienze, per dirne alcune, a voler essere seri, non comportano alcuna violazione effettiva del diritto di difesa.
Nessuno, sia l’indagato (poi imputato) che uno dei due difensori ha ricevuto un avviso; beh non si capisce la ratio della nullità sottesa a tali inutile formalismi: l’omesso avviso, qualunque esso sia, al secondo difensore, non pare affatto suscettibile di ledere il diritto di difesa.
Attendiamo ancora (le non più recentissime modifiche che hanno abolito l’istituto della contumacia hanno senz’altro comportato un grave peggioramento) una decisa modifica delle notificazioni, successive alla prima, all’imputato libero. Sul punto è logico e necessario responsabilizzare il difensore coinvolgendolo concretamente (puntando a realizzare il tentativo posto in essere dal legislatore del 2005, con l’introduzione del comma 8 bis all’art 157 c.p.p., scarsamente recepito finanche dalla Corte Suprema secondo cui, in caso di dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato, la notifica al difensore, invece che all’imputato, è da ritenersi nulla[4]. Si potrebbe, d’altro canto, sospendere la prescrizione per tutto il tempo del rinvio per concomitante impegno professionale del difensore, cosi da scongiurare inutili rinvii spesso strumentalizzati. Ancora, si potrebbero introdurre alcune delle proposte dell’A.N.M.[5], quale, ad esempio, la cristallizzazione dell’effetto interruttivo della prescrizione dell’art. 415 bis c.p.p., o ancora, prevedere la non rinnovazione degli atti a seguito del cambio del giudicante persona fisica, quantomeno relativamente alla c.d. “prova generica” assunta da altro Giudice, se non allorquando il nuovo Giudice lo ritenga, motivatamente, necessario. Ma di più, si dovrebbe “svecchiare” la fase dibattimentale del processo penale italiano allineandolo alle innovazioni tecnologiche, consentendo l’escussione dei testi a distanza. Se è consentita (in determinate condizioni e per gravi reati) la partecipazione a distanza dell’imputato, non è dato capire perché anche i testimoni non possano essere sentiti a distanza.
Si tratterebbe di porre in essere misure o interpretazioni di norme capaci, più efficacemente, di incidere sui tempi del processo rispetto ad una mera, sconsiderata, modifica dell’istituto della prescrizione. È necessario introdurre una cadenza processuale serrata, magari prendendo come spunto (coi dovuti accorgimenti) le cadenze dei termini di fase ex art. 303 c.p.p., ponendo in rapporto di stretta e diretta proporzionalità il tempo entro cui dovrà svolgersi il processo rispetto alla gravità ed al numero dei reati contestati.
Modifiche che, anche prima della riforma Orlando, avrebbero certo scongiurato il pericolo della prescrizione del reato e, nel contempo, avrebbero anche impedito alla politica di racimolare il consenso di non addetti ai lavori con patinati emendamenti propagandistici, disorganici, controproducenti e di estrema pericolosità[6].
[1] Stefano Ceccanti, Intervento sulla pregiudiziale relativa alla prescrizione, pubblicato in www.libertàeguale.it, “Prescrizione: non facciamo un buco nella rete del diritto”
[2] Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene – Prontezza della pena – Capitolo 19
[3] Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, Quale futuro per il garantismo? Riflessioni su processo penale e prescrizione in www.questionegiustizia.it
[4] Il riferimento è a Cass. Pen. SS.UU n. 58120/2017
[5] Proposte di riforma dell’Associazione Nazionale Magistrati in materia di diritto e processo penale (approvate dal Comitato Direttivo Centrale nella riunione del 10 novembre 2018)
[6] Gaetano Insolera, LA RIFORMA GIALLO-VERDE DEL DIRITTO PENALE: ADESSO TOCCA ALLA PRESCRIZIONE, in www.penalecontemporaneo.it
Traendo spunto da una recente sentenza della Corte di giustizia sugli effetti del recesso dall’Unione Europea del Regno Unito, l’autore delinea le vicende più significative nella storia del mandato d’arresto europeo.
Sommario: 1. Premessa. - 2. Il Consiglio di Tampere e il potenziamento della cooperazione giudiziaria penale in ambito UE. - 3. L’euromandato in Italia: la complessa gestazione legislativa e la successiva opera di armonizzazione della Suprema Corte. - 4. Il mandato di arresto europeo nell’interpretazione della Corte di giustizia. - 5. Gli effetti della Brexit sul mandato d'arresto europeo.
1. Premessa.
Sono trascorsi più di sedici anni dalla approvazione della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo e oltre dieci dalla sua trasposizione nell’ordinamento italiano, ad opera della l. 22 aprile 2005, n. 69 (ex plurimis, M. Bargis - E. Selvaggi, Il mandato d’arresto europeo. Dall’estradizione alle procedure di consegna, Giappichelli, 2005; A. Chelo, Il mandato di arresto europeo, Cedam, 2010; G. De Amicis - G. Iuzzolino, Guida al mandato d’arresto europeo, Giuffrè, 2008).
Un periodo di tempo che consente di tratteggiare una breve storia dell’istituto, per ricordare le sue origini e i più recenti sviluppi interpretativi.
In via di premessa, alla luce della giurisprudenza interna e sovranazionale, si può affermare che l’istituto ha ormai raggiunto nel panorama della cooperazione giudiziaria tra Stati membri dell’Unione Europea una posizione consolidata, che gli consente di svolgere un ruolo strategico nel contrasto alla criminalità transfrontaliera (una esaustiva panoramica sulla giurisprudenza è compendiata in G. Lattanzi - E. Lupo, Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, vol. XIII, Giuffrè 2013, nonchè, in A. Marandola, Cooperazione giudiziaria penale, Giuffrè, 2018, p. 467 e ss.).
Il mandato di arresto europeo rappresenta, in altre parole, l'archetipo della cooperazione basata sul principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, come testimonia la circostanza che lo schema utilizzato nella decisione quadro ha costituito il modello intorno al quale sono stati progettati gli altri istituti implementati negli anni successivi (ad esempio, i decreti legislativi del febbraio 2016, con i quali è stata data attuazione nell'ordinamento italiano ad alcune decisioni quadro e direttive in materia; sul tema, G. De Amicis, I decreti legislativi di attuazione della normativa europea sul reciproco riconoscimento delle decisioni penali, in Cass. pen, 2016, supplemento al n. 5).
Tuttavia, benchè appaiano oramai sopite le più violente “crisi di rigetto” che i singoli ordinamenti nazionali hanno manifestato nei primi periodi di vigenza dell’istituto, è anche vero che, con particolare frequenza, si presentano dinanzi alla Corte di giustizia casi alquanto complessi e delicati, che richiedono particolare attenzione.
Lo spunto per questa breve analisi proviene proprio da una recente decisione della Corte di giustizia, che si è pronunciata sugli effetti che la cosiddetta “Brexit” può riverberare sul meccanismo di consegna delle persone ricercate (Si tratta di C. giust. UE, 19 settembre 2018, C- 327/18).
Anche se, come si vedrà, tale decisione, per quanto inedita e significativa per i suoi contenuti, è coerente con altri precedenti della Corte e rappresenta, pertanto, niente altro che una tappa del percorso compiuto fino ad ora.
2. Il Consiglio di Tampere e il potenziamento della cooperazione giudiziaria penale in ambito UE.
La Convenzione Europea di Estradizione, dal 1957 e per quasi mezzo secolo, ha disciplinato la cooperazione giudiziaria tra Stati membri dell’Unione Europea. Nonostante le innovazioni, tale istituto presentava, comunque, i consueti limiti che derivano dalla impostazione dei rapporti di cooperazione secondo il tradizionale schema dell’estradizione.
Così, anche a seguito delle ulteriori semplificazioni apportate dai protocolli addizionali e la stipula tra Stati di convenzioni bilaterali volte a rendere ancora più snelli i rapporti, nell’Unione Europea si avvertiva sempre di più la necessità di un cambio di paradigma, che rivoluzionasse l’assetto della cooperazione.
Alla libera circolazione di merci, capitali, lavoratori e servizi dovevano affiancarsi strumenti idonei ad evitare che la progressiva eliminazione delle frontiere permettesse ai delinquenti di sfruttare tali opportunità per fini illeciti. In altre parole, era necessario realizzare anche una “libera circolazione degli imputati” (A. Di Martino, Principio di territorialità e protezione dei diritti fondamentali nello Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia. Osservazioni alla luce della giurisprudenza costituzionale di alcuni Stati membri sul mandato d’arresto europeo, in AA.VV., Legalità costituzionale e mandato d’arresto europeo, Jovene, 2007, p. 79).
Il meccanismo estradizionale, pertanto, si rivelava inadeguato, e la sua obsolescenza discendeva soprattutto dalla persistenza di un vaglio di carattere politico sulle richieste, dalla eccessiva ampiezza del catalogo di clausole che consentivano agli Stati di rifiutare la consegna, dalla inesistenza di termini precisi entro i quali evadere le pratiche, dalla quale, spesso, derivava una eccessiva durata delle procedure.
Il primo passo verso un radicale cambiamento fu compiuto nel corso del Consiglio europeo straordinario di Tampere, tenutosi nei giorni del 15 e 16 ottobre 1999. In questa occasione, si parlò espressamente della necessità di abolire l’estradizione e di potenziare il sistema di cooperazione attraverso l’implementazione, anche per la gestione delle questioni criminali, del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie (una sintesi dei lavori e le conclusioni del Consiglio sono pubblicate in Cass. pen., 2000, p. 302).
L'idea di fondo intorno alla quale si intendeva costruire questo nuovo meccanismo di consegna era la condivisione tra tutti gli Stati membri di un medesimo patrimonio di valori, che consentisse di dismettere talune cautele tipiche del regime estradizionale, nel quale, per contro, vengono a contatto Stati i cui ordinamenti giuridici possono essere ispirati a principi anche antitetici.
I lavori successivi – sicuramente accelerati dalle cruente manifestazioni del terrorismo internazionale – diedero alla luce la decisione quadro sul mandato d’arresto europeo.
I punti qualificanti del nuovo istituto sono, appunto, l’eliminazione del ruolo dell’autorità politica, sostituito da un dialogo diretto tra le autorità giudiziarie, l’attenuazione del principio di doppia incriminazione e, più in generale, la drastica riduzione dei motivi di rifiuto della consegna, che si accompagnano alla introduzione di serrate cadenze procedimentali, finalizzate a ridurre i tempi necessari per la decisione.
Era prevedibile che modifiche così incisive potessero suscitare perplessità nei singoli Stati membri. Del resto, la materia nella quale andava a innestarsi l’istituto – l'esercizio della potestà punitiva – è uno degli aspetti più delicati e al tempo stesso più gelosamente custoditi da ciascuno Stato. Queste tensioni, pertanto, hanno richiesto numerosi interventi della Corte di giustizia, finalizzati a individuare nozioni interpretative comuni per tutti gli Stati membri e, per quanto riguarda l'Italia, una opera costante della Suprema Corte.
3. L’euromandato in Italia: la complessa gestazione legislativa e la successiva opera di armonizzazione della Suprema Corte.
Sin dal principio, l'Italia ha assunto una posizione affatto peculiare, manifestando un atteggiamento di chiusura – per molti versi inspiegabile – nei confronti del nuovo corso della cooperazione giudiziaria europea.
Volgendo lo sguardo indietro, la ritrosia del legislatore italiano emerge, in maniera inequivocabile, dalla complessa gestazione che ha dato alla luce la l. 22 aprile 2005, n. 69.
L’euromandato, infatti, è stato recepito con notevole ritardo: se la “clausola ghigliottina” contenuta nell’art. 31 della decisione quadro indicava quale termine di entrata in vigore del nuovo strumento il 1 gennaio 2004, in Italia l’euromandato, ai sensi dell’art. 40, sostituiva l'estradizione soltanto nel maggio 2005.
Peraltro, la legge 22 aprile 2005, n. 69 si caratterizza sia per una disciplina transitoria tesa a posticipare ancora l’effettiva entrata in vigore dell’istituto, sia per la presenza di altre previsioni che limitano fortemente i profili di maggiore innovazione: a titolo esemplificativo, si possono ricordare gli artt. 7 e 8, in evidente contrasto con la eliminazione del principio di doppia incriminazione, e l’art. 18 che contempla numerosi motivi di rifiuto estranei alle previsioni della decisione quadro (su tali difformità, M. Bargis, Libertà personale e consegna, in R. E. Kostoris, Manuale di procedura penale europea, III ed., Giuffrè, 2017, p. 329 ss.).
In realtà, tale atteggiamento era maturato su un terreno reso fertile dalle opinioni, invero autorevoli, di una parte della dottrina, che aveva sollevato seri dubbi sulla coerenza dell’istituto con le previsioni costituzionali in materia penale (Caianiello – Vassalli, Parere sulla proposta di decisione-quadro sul mandato di arresto europeo, in Cass. pen., 2002, p. 462 ss.).
Era inevitabile, pertanto, che tale diffidenza si traducesse, dal punto di vista legislativo, in un testo difficile da gestire: in effetti, una interpretazione coerente con lo spirito della decisione quadro era ostacolata non soltanto da previsioni che con quella decisione si ponevano in deciso contrasto, ma anche da altre disposizioni normative che, a prescindere dalla loro conformità con l'atto sovranazionale, presentavano consistenti difetti strutturali.
L’impressione iniziale dell’interprete, pertanto, è stata quella di dover lavorare su un testo che, se fosse stato applicato alla lettera, avrebbe determinato un inadempimento delle prescrizioni sovranazionali e una notevole regressione nei rapporti tra Stati membri dell’Unione europea. Per certi versi, la cooperazione in forza di euromandato sarebbe risultata sovrapponibile a quella basata sull’estradizione extraconvenzionale, come sarebbe avvenuto – ad esempio – se fosse intesa letteralmente la previsione dell’art. 17, comma 4, che esige, per procedere alla consegna, la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza.
La legge sul mandato d’arresto europeo, quindi, ha richiesto ripetuti interventi della Suprema Corte, sicuramente più intensi nel primissimo periodo di vigenza del nuovo strumento, ma piuttosto frequenti anche successivamente (sul punto, G. Lattanzi, Prefazione, in G. De Amicis - G. Iuzzolino, Guida, cit., p. VIII ss.).
Una pietra miliare in questo cammino giurisprudenziale è la sentenza resa dalle Sezioni unite nel caso Ramoci (Cass., sez. un., 30 gennaio 2007, n. 4614, Ramoci, in Cass. pen., 2007, p. 1911). Chiamate a valutare il significato dell’art. 18 lett. e), che impone di rifiutare la consegna qualora l’ordinamento dello Stato richiedente non contempli termini massimi di durata delle misure cautelari, le Sezioni unite hanno fornito una lettura della previsione in parola che è in grado di salvaguardare tanto il principio costituzionale sancito dall’art. 13 Cost. che le esigenze della cooperazione giudiziaria. Tale decisione ha assunto particolare importanza perché ha dettato i criteri esegetici ai quali l’interprete deve attenersi per conciliare lo scarno dato normativo interno con i non semplici impegni derivanti dalla partecipazione allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione Europea.
4. Il mandato di arresto europeo nell’interpretazione della Corte di giustizia.
La situazione italiana presenta senz’altro connotati peculiari che, come si è visto, hanno richiesto un energico intervento da parte della Suprema Corte di cassazione.
Tuttavia, anche osservando la situazione dal punto di vista della Corte di giustizia - che consente di inquadrare la materia in una prospettiva più ampia - si percepiscono gli attriti prodotti dall’introduzione dell’euromandato nell’ordinamento sovranazionale (per una esaustiva e aggiornata panoramica sulla giurisprudenza della Corte di giustizia, M. Bargis, Libertà personale, cit., p. 350 ss.).
Si può muovere dalla storica sentenza sul principio di doppia incriminazione (C. giust. Ue, 3 maggio 2007, C-303/05, in Cass. pen., 2007, p. 3078), che costituisce una pronuncia fondamentale in quanto ha avallato la legittimità formale e sostanziale dell’istituto (Bargis, Libertà personale, cit., p. 350 e ss.), per arrivare alle sentenze sul rito contumaciale (C. giust. Ue, 21 ottobre 2010, C-306/09, in Cass. pen., 2011, p. 393 e C. giust. Ue, 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni, in Cass. pen., 2013, p. 2070, che hanno interessato direttamente l'ordinamento italiano), passando per altre decisioni cruciali, come quella sulla nozione di residente (C. Giust. UE, 17 luglio 2008, C-66/08, in Cass. pen., 2008, p. 4399, con osservazioni di E. Selvaggi; decisione che ha contribuito, nell’ordinamento italiano, alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 18, lett. r), della nostra legge sull’euromandato da parte di C. cost., 24 giugno 2010, n. 227, in Cass. pen., 2010, p. 4148).
Emerge dalla trama di questo lavoro giurisprudenziale l’impegno che la Corte di giustizia ha profuso nel bilanciamento tra gli interessi contrapposti e nell’elaborazione di una lettura della decisione quadro che, senza pregiudicare le esigenze degli Stati membri e la tutela dei singoli, ha comunque garantito il funzionamento del nuovo strumento di cooperazione giudiziaria.
Nel periodo più recente, poi, la Corte di giustizia ha dovuto confrontarsi con un tema di straordinaria rilevanza che ha posto l’istituto cooperativo in una relazione ancora più immediata e diretta con il problema della tutela dei diritti fondamentali delle persone.
Una prima manifestazione di questa esigenza si coglie nelle decisioni con le quali è stata affrontata la questione del rapporto tra l’esecuzione di un mandato di arresto europeo e il problema del sovraffollamento carcerario nello Stato membro di emissione (C. giust. UE, 5 aprile 2016, C-404/15 e C-659/15, Aranyosi e Caldararu, Dir. pen. e proc., 2016, con nota di Martufi, La Corte di Giustizia al crocevia tra effettività del mandato d'arresto e inviolabilità dei diritti fondamentali; C. giust. UE, 25 luglio 2018, C-220/18).
Qui, la Corte di giustizia è stata particolarmente cauta, ma ha mostrato chiaramente la sensibilità verso le esigenze di tutela del singolo: il dato fondamentale è la individuazione in via pretoria di un motivo di rifiuto, non contemplato dalla decisione quadro, in forza del quale, dinanzi al pericolo che la persona sia consegnata ad uno Stato presso il quale subirebbe un trattamento inumano e degradante, lo Stato di esecuzione deve sospendere la consegna, richiedendo rassicurazioni idonee a escludere tale rischio, e rifiutarla qualora la tutela garantita non appaia soddisfacente (a questo insegnamento, peraltro, si è uniformata anche la Corte di Cassazione: Cass., sez. VI, 1 giugno 2016, n. 23277, in Cass. pen., 2016, p. 3804, con nota di Abate, Il sovraffollamento delle carceri come motivo di non esecuzione del mandato del mandato di arresto europeo).
In questa prospettiva, sembra delinearsi, in seno alla giurisprudenza della Corte, un nuovo metodo interpretativo teso a stimolare il dialogo tra le autorità degli Stati membri: se la tutela dei diritti fondamentali permette di derogare alla tassatività dei motivi di rifiuto della consegna, un esito simile rappresenta comunque l'extrema ratio ed è ipotizzabile soltanto qualora la situazione potenzialmente lesiva non sia destinata a risolversi in altro modo. Anche se, nell’economia delle decisioni della Corte di giustizia, sembra assumere rilievo preminente, rispetto alla tutela dei diritti fondamentali, l'esigenza di assicurare il funzionamento dei meccanismi repressivi nazionali, che, con l'emissione di un mandato di arresto europeo, esplicano i loro effetti nel territorio di tutti gli Stati membri.
Successivamente, il medesimo ragionamento è stato replicato in un altro delicatissimo caso, relativo alla riforma dell’ordinamento giudiziario in Polonia e alle possibili conseguenze che il nuovo assetto avrebbe potuto produrre sulla garanzia di un processo equo. La riforma in parola, infatti, è stata censurata dalla proposta motivata del 20 dicembre 2017, adottata ai sensi dell’art. 7, TUE, con la quale la Commissione Europea ha articolato due distinti rilievi: in primo luogo, ha evidenziato l’assenza di un controllo di costituzionalità indipendente e legittimo; in secondo luogo, ha sottolineato i rischi di violazione dell’indipendenza dei giudici ordinari.
Anche qui, la Corte di giustizia ha escluso la possibilità di un rifiuto immediato della consegna – possibile soltanto qualora sia integrata l'ipotesi contemplata dal decimo considerando della decisione quadro – e ha ancora posto l’accento sulla necessità di avviare un dialogo preliminare tra gli Stati, ribadendo che la consegna può essere rifiutata soltanto qualora tale interlocuzione non escluda il rischio di una concreta violazione dei diritti fondamentali (C. giust. UE, 25 luglio 2018, C-216/18).
5. Gli effetti della Brexit sul mandato d'arresto europeo.
Le vicende applicative del mandato d'arresto europeo sembrano aver raggiunto finalmente un punto di quiete: superate le difficoltà iniziali, appare ormai acquisito un patrimonio interpretativo che permette di risolvere le questioni sollevate di volta in volta dai giudici nazionali. Così, anche qualora si presentino situazioni affatto inedite, gli strumenti esegetici collaudati nel corso di questi anni consentono di elaborare una soluzione coerente con tutte le esigenze del caso.
Non era mai accaduto, tuttavia, che la Corte di giustizia dovesse prendere posizione su un tema tanto delicato come quello degli effetti che il recesso di uno Stato membro dall'Unione Europea può produrre sui rapporti di cooperazione giudiziaria.
La vicenda della cosiddetta Brexit, quindi, rimane di stringente attualità anche da un punto di vista processualpenalistico almeno per due motivi.
In primo luogo, perchè ricorda come la cooperazione giudiziaria penale possa risentire delle evoluzioni di matrice prettamente politica all'interno dell'Unione Europea e subirne le conseguenze.
In secondo luogo - ed è questo il profilo di maggiore interesse - perchè quella vicenda impone di verificare quali effetti scaturiscano da un evento simile.
Sintetizzando estremamente, la preoccupazione del giudice del rinvio irlandese era che, con il recesso della Gran Bretagna dall'Unione Europea, potessero venir meno alcuni presidi fondamentali della cooperazione. Si dubitava, più precisamente, del fatto che la Brexit potesse far venir meno il diritto alla deduzione del periodo di custodia scontato nello Stato membro di esecuzione, il riparo offerto dal principio di specialità e la tutela che limita la consegna o l'estradizione successiva, nonché, in generale, il rispetto dei diritti fondamentali della persona consegnata conformemente alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Nel momento in cui si è pronunciata la Corte di giustizia, la concreta attuazione della Brexit non aveva – come del resto non ha ancora – assunto caratteri di certezza e definitività, quindi, sulla scorta di tale premessa si è escluso che un simile pericolo possa sussistere: finché rimane uno Stato membro, il Regno Unito è tenuto a rispettare tutti gli obblighi in questione.
La Corte, tuttavia, si è spinta oltre, per escludere che anche in futuro possano verificarsi gli effetti negativi paventati dal giudice del rinvio. In questa ottica, ha evidenziato che l'adesione alla Convenzione europea di estradizione – che diverrebbe il riferimento normativo per gestire i rapporti di cooperazione con il Regno Unito – e l'adesione alla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo consentono di ritenere che, anche una volta al di fuori del sistema eurounitario, il Regno Unito continuerà a garantire un sufficiente livello di tutela dei diritti fondamentali.
Tale decisione, quindi, si pone in linea di continuità con gli arresti più recenti, nei quali la necessità di garantire efficacia al meccanismo di consegna è stata sempre coordinata con la tutela dei diritti fondamentali.
A margine di tale decisione, tuttavia, si intravede un altro argomento da tenere in considerazione: si tratta del ruolo di garanzia svolto nelle dinamiche cooperative dalla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, che diviene una sorta di valvola di sicurezza per garantire il rispetto dei diritti fondamentali anche in un contesto più ampio rispetto a quello dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell'Unione Europea.
1. Superando iniziali incertezze (Sez. 4, n. 2545 del 21/02/1996, Rv. 204582), si è da tempo consolidato l’indirizzo secondo il quale per assicurare la continuità dell'assistenza tecnico-giuridica e garantire la concreta e efficace tutela dei diritti dell'imputato, vale il principio dell'immutabilità del difensore fino all'eventuale dispensa dall'incarico (Sez. 2, n. 3832 del 06/06/1997, Rv. 208081; Sez. 1, n. 3534 del 11/05/1999, Rv. 214303; Sez. 1, n. 3304 del 5/06/1998, Rv. 211298), poi esteso anche al difensore di ufficio (Sez. 1, n. 1616 del 2/12/2004, dep. 2005, Rv. 230651; Sez. 3, n. 24334 del 11/05/2004, Rv. 228974).
2. L’art. 97, comma 5, cod. proc. pen. prevede che “il difensore di ufficio ha l’obbligo di prestare il patrocinio e può essere sostituito solo per giustificato motivo” e l’art. 30, comma 3, disp. att. cod. proc. pen. gli richiede di avvisare immediatamente l’autorità giudiziaria se si trova nella impossibilità di adempiere l’incarico.
L’inosservanza o la violazione 97, comma 5, cod. proc. pen., mancando una espressa previsione di legge, ordinariamente non produce nullità (Sez. 3, n. 3659 del 14/11/2017, dep. 2018, Rv. 27257701; Sez. 6, n. 17554 del 26/04/2006, Rv. 234507) a meno che non si sia verificata una concreta lesione del diritto di difesa (Sez. 4, n. 1245 del 23/11/2017, dep. 2018, Rv. 2719370; Sez. 2, n. 48238 del 20/11/2003, Rv. 227083).
3. La sentenza n.3594/2018 della Seconda sezione penale della Corte di appello di Venezia ha affrontato la questione della richiesta del difensore d’ufficio di essere sostituito ex art. 97 comma 5, cod. proc. pen. per l’intenzione – conclusosi il giudizio di primo grado – di fare causa all’assistito per ottenere il compenso pertinente.
Il difensore ha richiamato l’art. 34 del nuovo codice deontologico forense, che prevede l’obbligo dell’avvocato di rinunciare, prima di agire giudizialmente nei confronti del cliente o della parte assistita per il pagamento delle proprie prestazioni professionali, a tutti gli incarichi ricevuti e che la violazione di questo dovere comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.
La norma si riferisce alle difese fiduciarie, ma il Consiglio nazionale forense in un parere espresso il 14/07/2011 ha valutato che la lesione del diritto del difensore d’ufficio a essere retribuito “impedisce di ritenere che sussista, in carico al medesimo il contrastante dovere di tollerare di non essere retribuito”, con la conseguenza che “detta eventualità potrà essere da lui ritenuta quel giustificato motivo che, ex art. 97, comma 5, cod. proc. pen. consente di instare per la sostituzione”.
4. Invece, la Corte di appello ha ritenuto di dare priorità al principio di immutabilità della difesa anche d’ufficio in tutto il procedimento, richiamando le norme costituzionali, europee e processuali dalle quali si evince il carattere di munus publicum della difesa d’ufficio e osservando - in particolare - che per il difensore di ufficio vale la stessa immutabilità del difensore di fiducia: infatti, la nomina di un suo sostituto (comma 4) non fa venire meno il suo munus per cui può riprendere immediatamente il suo ruolo al cessare della situazione contingente dalla quale è derivata la sua sostituzione.
Inoltre, ha considerato che è previsto che la liquidazione al difensore sia effettuata al termine di ogni fase processuale e, comunque, all’atto della cessazione dell’incarico (art. 83, comma 2, d.P.R. 115/2002), rilevando che la norma impedisce al giudice di liquidare il compenso prima di tale momento ma non gli vieta di provvedervi successivamente, per cui è da escludere che il difensore che ha assistito un cliente in primo grado abbia l’onere di avviare le procedure esecutiva nei confronti del cliente immediatamente dopo la conclusione del primo grado per non perdere la possibilità di essere retribuito dallo Stato.
5. La Corte ha escluso, in ogni caso, che una interpretazione del giustificato motivo per la sostituzione del difensore di ufficio sulla base di una norma di carattere deontologico possa consentire una deroga al principio della immutabilità (anche) del difensore d’ufficio, derogabile solo nel caso in cui questi non abbia svolto alcuna attività per il proprio assistito.
In realtà non c’è dubbio che una norma contenuta in un codice deontologico non possa derogare a una norma scaturente da fonte primaria (a meno che la stessa fonte primaria espressamente non lo preveda).
Il punto è se la situazione prospettata dal difensore di ufficio sia un giustificato motivo di sostituzione ex art. 97, comma 5, cod. proc. pen.
La Corte di appello ha osservato che ammetterlo comporterebbe che il difensore possa provocare la sua sostituzione scegliendo il momento in cui chiedere la propria retribuzione, così vanificando il principio della immutabilità della difesa.
Su queste basi, ha concluso che la diffida a adempiere inoltrata al proprio assistito dal difensore di ufficio non può costituire giustificato motivo per la sostituzione ex art. 97, comma 5, cod. proc. pen..
6. Questa soluzione può risultare frustrante per le motivazioni professionali di un difensore di ufficio non retribuito. D’altra parte pone una regola chiara e, come tale, idonea a orientare le prassi. Sarebbe utile una ricognizione della giurisprudenza di merito in materia.
A.C
Chiamata a pronunciarsi sulla liceità della commercializzazione dei prodotti derivati dalla cannabis light, la Corte di Cassazione con due pronunce a distanza di poche ore stabilisce nuovi, rigidissimi limiti all'interpretazione della legge 242 del 2016. Centinaia di esercizi commerciali a rischio chiusura?
Sommario. 1. Premessa. 2. Cannabis stupefacente, cannabis per uso agroalimentare e cannabis “terapeutica”: le normative di riferimento. 3. La legge 242 del 2016: dalla coltivazione alla commercializzazione. Problemi operativi e rapporti con il T.U stupefacenti. 4. L’accertamento tecnico sulle piante di cannabis: tra THC e CBD. 5. Le decisioni della Corte di Cassazione del 29 novrembre e 7 dicembre 2018 e i precedenti di segno opposto: verso un intervento delle Sezioni Unite.
1. Premessa
La produzione e la commercializzazione della cosiddetta “cannabis light”, fenomeno recente ed in rapido sviluppo, pone questioni di non facile soluzione per gli operatori giuridici. Se fino ad oggi i prodotti finali della pianta di cannabis, cioè le infiorescenze essiccate della pianta di cannabis contenenti il principio attivo psicoattivo d9-tetraidrocannabinolo (THC) conciate per essere fumate a scopo ricreativo, rientravano senz’altro nell’ambito di applicazione del Testo Unico degli Stupefacenti, a seguito dell’entrata in vigore della legge nr. 242 del 2016 (vedi infra) il legislatore sembrerebbe aver consentito, e sostanzialmente “legalizzato”, la coltivazione di una “cannabis light” cioè di una cannabis con un principio attivo THC inferiore allo 0.6 %.
Successivamente all’entrata in vigore della legge nr. 242, in Italia diverse aziende si sono lanciate sul mercato con prodotti a base di “cannabis” con percentuali del principio attivo psicotropo d9-Tetraidrocannabinolo (THC) tali da rendere il prodotto commerciale inoffensivo e quindi “legale”, ritenendo che la liceità della coltivazione di questo tipo di prodotto ne comportasse ipso facto la libera vendita sul mercato.
Il mercato della “cannabis light” è in continua espansione, con un costante aumento della disponibilità di prodotti commerciali che presentano concentrazioni diverse di d9-Tetraidrocannabinolo (THC) e di Cannabidiolo (CBD).
Si tratta di un vero e proprio fenomeno ormai diffusissimo in ogni parte d'Italia, che ha inevitabilmente creato non pochi problemi per gli operatori a vario titolo coinvolti nell’azione di contrasto allo spaccio di sostanze stupefacenti (forze di polizia, autorità giudiziaria, tecnici di laboratorio), improvvisamente trovatisi a fronteggiare la presenza sul mercato di un prodotto apparentemente identico allo stupefacente ma - per la prima volta - posto in vendita in regolari esercizi commerciali.
In un primo momento ci si è posti dunque il problema della liceità della stessa esistenza di questo tipo di negozi che, spesso con fare ammiccante, sembrano proporsi come attrattivi proprio per le (più che dubbie) proprietà droganti della merce venduta.
Immediatamente dopo, ci si è resi conto che la libera circolazione nelle strade e la detenzione da parte dei giovani utenti del nuovo prodotto di pacchetti, bustine e contenitori vari di marijuana (seppure non contenente principio attivo, elemento ovviamente non riscontrabile ictu oculi) rischia di mettere in serio pericolo l'attività di contrasto delle forze dell'ordine al fenomeno dello spaccio di sostanze stupefacenti, costringendo gli operanti a moltiplicare esponenzialmente i controlli ed a rivolgere i propri sforzi alla ricerca di un corpo del reato divenuto improvvisamente evanescente ed indistinguibile da beni liberamente detenibili.
Ad aggravare la situazione di incertezza, la lettura delle norme contenute nella legge 242 del 2016 si presenta difficile e foriera di dubbi interpretativi: la Polizia Giudiziaria si è trovata di fatto in serie difficoltà nel comprendere se e quando i prodotti della cannabis light dovessero essere sequestrati.
Sono stati effettuati in varie parti della nostra penisola provvedimenti di sequestro probatorio (cioè rivolto a campioni di merce per stabilire se il principio attivo superasse i limiti della recente normativa per essere considerato a tutti gli effetti sostanza stupefacente), e di sequestro preventivo per impedire la ulteriore commercializzazione della merce ritrovata a seguito dei controlli.
Tali provvedimenti, lungi dal fare chiarezza, hanno semplicemente - ed inevitabilmente - spostato i dubbi interpretativi sull'Autorità Giudiziaria.
A fronte di alcuni Pubblici Ministeri che, ritenendo lecita la commercializzazione della cannabis light, non hanno convalidato i sequestri probatori o non hanno chiesto la convalida di quelli preventivi, altri magistrati inquirenti hanno invece ritenuto di operare in conformità con quanto richiesto dalla Polizia Giudiziaria, portando il problema sulle scrivanie dei G.I.P., poi dei Tribunali per il Riesame ed infine della Corte di Cassazione, dove il contrasto si è riproposto in tutta la sua drammaticità.
Le prime pronunce di legittimità sull' argomento in esame sembrano avere un'unica caratteristica che le accomuna: non avere pressocché alcun elemento in comune.
Ognuna delle Sezioni della Suprema Corte che sono state investite del problema pare fare riferimento a criteri interpretativi differenti, ed appare indifferibile un intervento delle Sezioni Unite che, dopo adeguata ponderazione delle problematiche, faccia finalmente chiarezza su questa delicata materia.
Nei paragrafi che seguono si cercherà di illustrare tali problematiche, al fine di fornire, nei limiti del possibile, alcune risposte ai quesiti attualmente in discussione.
2. Cannabis stupefacente, cannabis per uso agroalimentare e cannabis “terapeutica”: le normative di riferimento
La cannabis, come noto, è una pianta; le foglie, le infiorescenze ed i prodotti derivati come l’olio e la resina sono incluse nella tabella II del T.U. Stup. 309/90; il principale principio attivo psicoattivo della pianta di cannabis è il d9-Tetraidrocannabinolo (THC) che è incluso nella tabella I del T.U. Stup. 309/90.
Il THC è l’unica sostanza psicoattiva della cannabis; nella pianta sono presenti altri cannabinoidi minori, come il cannabinolo (CBN), il cannabigerolo (CBG), ecc. con proprietà che non sono psicoattive; tra queste il il cannabidiolo (CBD) la cui presenza, in percentuali considerevoli, caratterizza, come vedremo, sia la c.d. “cannabis terapeutica” sia la “cannabis light”.
L’inserimento della cannabis, e del suo principio attivo, nelle tabelle sopra richiamate comporta necessariamente che la cannabis, e i suoi derivati, debbano essere qualificati quali “sostanze stupefacenti”, con la conseguenza che la coltivazione, la cessione, la detenzione a fini di spaccio di tale sostanza può determinare la consumazione del reato di cui all’art. 73 comma 4 D.P.R. 309 del 1990.
Il Testo Unico Stupefacenti, nell’inserire il THC nella tabella I sopra richiamata non indica alcuna percentuale minima di THC che la pianta deve presentare per poter essere considerata sostanza stupefacente; ne deriva, a rigore, che qualsiasi percentuale di THC (che sia superiore allo 0,2%) presente nella pianta, e nei suoi derivati, è tale da determinare l’illiceità della sostanza.
Tale quadro normativo, e tale considerazione della “cannabis” e dei suoi derivati (hashish, marijuana, ecc.) quali “sostanze stupefacenti” a prescindere dalla percentuale di principio attivo THC, è destinato ad essere rivalutato successivamente all’entrata in vigore della legge nr. 242 del 2016 che ha disciplinato la coltivazione della “cannabis” per uso agro industriale (i contorni applicativi di tale intervento normativo sono stati successivamente chiariti dalla circolare del 22 maggio 2018 del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali).
La normativa menzionata introduce disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale di sessantadue varietà di canapa (iscritte nel catalogo europeo delle varietà delle specie di piante agricole) che abbiano concentrazioni di THC comprese tra lo 0,2% e lo 0.6%; queste varietà di canapa, come espressamente stabilito dal testo di legge richiamato, non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di sostanze stupefacenti.
Ne deriva che a seguito di tale intervento normativo è ora necessario distinguere tra una “cannabis” con principio attivo inferiore allo 0.6%, che essendo assimilabile ad una cannabis per uso agroalimentare troverà la sua disciplina nella legge nr. 242 del 2016, ed una “cannabis” con un principio attivo superiore allo 0.6% che continuerà ad essere disciplinata dal testo unico stupefacenti.
Va inoltre considerato che con D.M. del 9.11.2015 (G.U. nr. 279 del 30.11.2015) il Ministero della Salute ha autorizzato la coltivazione della cannabis nel nostro paese per la produzione di medicinali, sostanze e preparazioni a base di cannabis: si tratta della c.d. “cannabis terapeutica”, il cui consumo (tramite assunzione orale del decotto o somministrazione per via inalatoria mediante l’uso di un dispositivo di vaporizzazione) è consentito a fini terapeutici per una serie patologie, espressamente indicate dallo stesso Decreto (analgesia del dolore cronico, trattamento anticinetosico ed antiemetico, trattamento del glaucoma, ecc. ).
Va da subito precisato che la coltivazione di piante di cannabis per uso medico con una percentuale di THC superiore allo 0,2 % deve essere autorizzata dal Ministero della Salute.
A partire dall’anno 2016, dopo un primo periodo in cui la cannabis per le preparazioni farmaceutiche veniva importata dall’Olanda, lo stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, autorizzato dal Ministero della Salute e dal Ministero della Difesa, ha cominciato a produrre la CANNABIS – FM 2, che presenta una percentuale di principio attivo dichiarato pari al 5–8 % ed una percentuale di CBD oscillante tra il 7,5 ed il 12, 5 %.
3. La legge 242 del 2016: dalla coltivazione alla commercializzazione. Problemi operativi e rapporti con il T.U stupefacenti
Ciò posto, occorre ora soffermare maggiormente l’attenzione sulla legge nr. 242 del 2016, concentrandoci sulle problematiche che l’entrata in vigore di tale normativa comporta per gli operatori di polizia e per l’autorità giudiziaria.
L’art. 2 della legge nr. 242 del 2.2.2016 prevede che la coltivazione delle varietà di canapa di cui all’art. 1 comma 2 della medesima legge è consentita senza necessità di alcuna autorizzazione.
L’unico obbligo espressamente previsto in capo al coltivatore dall’art. 3 è quello di conservare i cartellini della semente acquistata per un periodo non inferiore a dodici mesi, nonché l’obbligo di conservare le relative fatture di acquisto.
La legge sopra richiamata, inoltre, quale ulteriore requisito di liceità della coltivazione, introduce un limite massimo di principio attivo THC che la canapa coltivata può contenere; per rientrare pienamente nella normativa, difatti, la percentuale di THC non deve superare lo 0.6%, considerato che il comma 5 dell’art. 4 della legge prevede espressamente che “qualora all’esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0.6 per cento, nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge”.
Proprio con riferimento alla possibilità di procedere alla verifica di questo “requisito” inderogabile che la coltivazione deve presentare per poter essere considerata lecita, l’art. 4 consente un doppio binario di controllo.
Da un lato, difatti, è previsto che il Corpo Forestale dello Stato (ora confluito nell’Arma dei Carabinieri) è autorizzato ad effettuare i necessari controlli, compresi i prelevamenti e le analisi di laboratorio, sulle coltivazioni di canapa autorizzate dall’intervento normativo. Tale controllo deve avvenire necessariamente “a campione” con prelievo della coltura, da eseguire alla presenza del coltivatore a cui deve essere rilasciato un campione prelevato per eventuali controverifiche (si tratta pertanto di un controllo da effettuare nel “contraddittorio” delle parti).
Solo se a seguito di un accertamento compiuto con tali modalità risulti che il contenuto di THC nella coltivazione sia superiore alla 0.6%, l’autorità giudiziaria potrà disporre il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla presente legge (con esclusione anche in questo caso di responsabilità dell’agricoltore che abbia rispettato tutte le indicazioni normative).
Va da subito precisato che la normativa non da indicazioni sui metodi analitici per la determinazione quantitativa del THC della canapa, una volta prelevato il campione da sottoporre alle analisi da una “coltura in pieno campo”, con la conseguenza che si porrà il problema di individuare i metodi secondo i quali il campione dovrà essere analizzato (vedi infra).
La normativa, tuttavia, fa salvo “ogni altro tipo di controllo da parte degli organi di polizia giudiziaria eseguito su segnalazione e nel corso dello svolgimento di attività giudiziarie”; si tratta, quindi, di un controllo di tipo diverso, da effettuare nell’ambito di attività di polizia giudiziaria quando, evidentemente, ci siano motivi per ritenere configurabile, almeno in astratto, il reato di coltivazione di cui all’art. 73 D.P.R. 309 del 1990 (e quindi il superamento dei limiti sopra indicati in presenza dei quali la coltivazione deve considerarsi a tutti gli effetti consentita dalla legge).
Ciò posto in linea generale sulla coltivazione, va chiarito che la legge n. 242 nulla prevede in ordine alla possibilità di procedere alla commercializzazione della canapa oggetto della coltivazione, limitandosi ad indicare tassativamente le finalità per cui la coltivazione della canapa è consentita:
1) produzione di alimenti e cosmetici;
2) semilavorati per forniture alle industrie e alle attività artigianali;
3) produzione di materiale destinato alla pratica del sovescio;
4) produzione di materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
4) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
5) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative, nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
6) coltivazioni destinate al florovivaismo.
Tra queste finalità, come è facile rilevare, non è compresa quella “ricreativa”; non è pertanto consentita dalla legge la produzione di canapa finalizzata al consumo ricreativo con assunzione di preparati di cannabis utilizzabili per “smoking”.
Il ragionamento sulla legalità della coltivazione (il cui unico limite è rappresentato dalla misura del principio attivo THC) è quindi ben diverso da quello relativo alla commercializzazione della sostanza e alla successiva detenzione da parte del privato.
La legge, infatti, nulla dice in ordine alla possibilità di procedere alla commercializzazione del prodotto coltivato; tale commercializzazione, non essendo espressamente vietata, è pertanto sicuramente consentita, almeno per le finalità consentite dalla legge, ad eccezione quindi della finalità ricreativa sopra richiamata.
E’ evidente dunque il motivo per cui a fronte di tale intervento normativo, che di fatto introduce nel nostro ordinamento e sul mercato una cannabis “legale”, si sono venuti a creare rilevanti problemi di natura pratica nella quotidiana attività di contrasto allo spaccio di sostanze stupefacenti.
In particolare è necessario interrogarsi su quali possano essere i provvedimenti eventualmente adottabili dalla polizia giudiziaria (di iniziativa o su ordine dell’autorità giudiziaria) nei confronti del rivenditore al dettaglio, del detentore e del mero consumatore di cannabis “light”; ciò in forza dell’ovvia considerazione che un’apparente attività di vendita o di mera detenzione di tale particolare tipologia di sostanza (da considerarsi del tutto lecita), possa in realtà celare la detenzione, la cessione ed il consumo di una sostanza stupefacente penalmente rilevante ai sensi dell’art. 73 comma 4 D.P.R. 309 del 1990.
Il legislatore, come sopra accennato, ha disciplinato esclusivamente i controlli a cui è possibile sottoporre il coltivatore diretto della canapa (si veda l’art. 4 della legge nr. 242 del 2016 sopra richiamato); è evidente tuttavia la necessità di procedere a tali controlli anche nella successiva fase di commercializzazione della sostanza.
Si pone in altri termini la necessità, da un punto di vista operativo, di verificare se effettivamente la sostanza commercializzata, con riferimento al contenuto di THC, rispetti i parametri indicati dalla legge nr. 242 del 2016; solo in tal caso la vendita e la detenzione della sostanza potranno essere considerati penalmente irrilevanti.
Il Ministero dell'Interno si è fatto carico di affrontare alcuni di questi problemi con una Circolare del 31 luglio 2018 (avente ad oggetto “ Aspetti giuridico-operativi connessi al fenomeno della commercializzazione delle infiorescenze della canapa tessile a basso tenore di THC e relazioni con la normativa sugli stupefacenti”) con soluzioni non sempre condivisibili.
In particolare, occorre soffermare l'attenzione sull'affermazione, contenuta nella Circolare, secondo la quale non sarebbe possibile estendere l’efficacia scriminante delle disposizioni contenute nell’art. 4 della Legge 242/16 anche ai titolari degli esercizi commerciali che pongono in vendita le infiorescenze a cui pertanto sarebbe sempre vietata la commercializzazione delle stesse anche in presenza di limiti di THC consentiti dalla Legge e pure se la vendita al dettaglio avvenga per le finalità consentite dalla medesima legge. Tale distinzione tra il coltivatore ed il rivenditore al dettaglio delle infiorescenze, infatti, sembra in contrasto con la ratio dell’intervento legislativo che è di escludere l’applicazione del TU stupefacenti in relazione ai derivati della canapa che presentino principio attivo compreso nei limiti 0.2-0.6%.
Da tale esclusione, secondo un'interpretazione che è allo stato prevalente nella giurisprudenza di merito e che appare preferibile deriva infatti che l’esimente di cui all’Art. 4 L. 242/2016, in assenza di diversa indicazione normativa debba valere sia per il coltivatore che per il rivenditore al dettaglio.
Ovviamente l’unico strumento a disposizione degli operatori di polizia per accertare il rispetto di tali parametri è l’accertamento di natura tecnica, che sembrerebbe passare necessariamente per il sequestro (probatorio) della sostanza stupefacente; come accennato, difatti, la legge nr. 242 prevede la possibilità di effettuare controlli di natura amministrativa esclusivamente nei confronti del coltivatore, e non anche nei confronti del rivenditore al dettaglio della sostanza.
Considerata la potenziale diffusione del fenomeno è evidente come sia necessario individuare criteri il più possibili uniformi per stabilire quando la polizia giudiziaria sia legittimata a procedere al sequestro della sostanza al fine di sottoporla a successivi accertamenti di natura tecnica, volti a riscontrare l’eventuale consumazione delle fattispecie di reato previste dal T.U. stupefacenti.
In particolare, con riferimento al rivenditore “al dettaglio” della cannabis light è ragionevole distinguere l’ipotesi in cui il rivenditore sia in grado di dimostrare nell’immediatezza dell’intervento dell’organo accertatore il rispetto dei requisiti di liceità posti dalla legge nr. 242 del 2016, dalla diversa ipotesi in cui il rivenditore non sia in grado di fornire alcuna documentazione; difatti, a fronte di un rivenditore che sia in grado di documentare la provenienza (lecita) della sostanza e della coltivazione, di documentare il regolare acquisto della sostanza tramite l’esibizione delle relative fatture, di esibire certificazione di un laboratorio di analisi che attesti il mancato superamento nella sostanza commercializzata del limite di THC consentito, è evidente come si potrà ragionevolmente procedere al sequestro della sostanza, al fine di effettuare successive analisi, solo in presenza di elementi (concreti) che possano far dubitare della veridicità di quanto indicato nella documentazione esibita.
Questo in forza dell’ovvia considerazione che il sequestro probatorio della sostanza e le successive analisi sono giustificate solo in presenza di elementi che portino ad ipotizzare, almeno in astratto, la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie di reato di cui all’art. 73 comma 4 D.P.R. 309 del 1990; va inoltre tenuto conto che qualora all’esito delle analisi disposte risulti superato il limite dello 0.6% di THC sarà ben difficile raggiungere la prova dell’elemento soggettivo dell’ipotesi di reato richiamata, ben potendo l’indagato lamentare la mancanza di consapevolezza dell’eventuale superamento di tale soglia, acquistata a suo dire nel pieno convincimento che si trattasse di sostanza con percentuale di THC inferiore allo 0.6 per cento (soprattutto nell’ ipotesi non infrequente in cui il prodotto venga commercializzato in regime di “franchising”, senza essere confezionato personalmente dal soggetto che lo pone in vendita).
In definitiva, quando il rivenditore sia in grado di fornire la documentazione attestante la liceità del prodotto venduto, e non sussistano elementi per dubitare della genuinità di tale documentazione, si ritiene preferibile non procedere a sequestro probatorio della sostanza detenuta nell’attività commerciale.
Resta salva la possibilità per gli organi di polizia di procedere in via amministrativa ad un mero campionamento della sostanza con forme analoghe a quelle stabilite dall’art. 4 della legge nr. 242 (e quindi alla presenza del venditore, al quale dovrà essere rilasciato un campione prelevato in contraddittorio per eventuali controverifiche).
Si tratta di una soluzione che comporta un giusto contemperamento tra la necessità di procedere ai dovuti accertamenti volti a verificare se effettivamente la sostanza abbia un contenuto di THC consentito dalla legge (inferiore allo 0.6%) e l’esigenza del venditore di non vedere sottoposta al vincolo del sequestro una sostanza che potrebbe essere stata legittimamente acquistata e del tutto legittimamente venduta.
Ovviamente se all’esito delle analisi disposte in via amministrativa emerga il superamento del tasso soglia di 0.6% di THC, sarà possibile procedere al sequestro da parte dell’autorità giudiziaria dell’intero quantitativo di sostanza detenuto all’interno dell’esercizio commerciale.
Discorso parzialmente diverso deve essere svolto con riferimento al privato che, trovato dagli organi di polizia in possesso di sostanza apparentemente del tipo “marijuana”, dichiari immediatamente che la stessa sia “cannabis legale” e di averla legittimamente acquistata in uno dei vari punti vendita presenti sul territorio.
In tal caso è evidente che in presenza di elementi concreti che possano far ipotizzare la destinazione a fini di spaccio della sostanza (quantitativo incompatibile con un uso personale, suddivisione in dosi della sostanza, possesso di bilancini di precisione ecc.) siano configurabili, almeno in astratto, gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 73 comma 4 D.P.R. 309 del 1990: non va dimenticato infatti che la cannabis light, come già evidenziato in precedenza, non è comunque commercializzabile per uso ricreativo, sicchè ad esempio anche la detenzione di questa sostanza insieme a cartine, filtri e accendino potrebbe essere sintomatica della finalità di cessione non conforme a legge.
In tale ipotesi, di conseguenza, è ragionevole ritenere che non debba procedersi al sequestro della sostanza esclusivamente quando dalle modalità della detenzione risulti evidente che effettivamente si tratti di “cannabis legale” legittimamente acquistata (ipotesi che ragionevolmente si verificherà solo quando la sostanza si trovi ancora sigillata all’interno della confezione acquistata); in tutte le altre ipotesi si ritiene che debba procedersi al sequestro della sostanza, per verificare, attraverso successive analisi, se si tratti effettivamente di “cannabis legale” di cui sia consentita la detenzione.
L’arresto in flagranza di reato, invece, qualora il soggetto dichiari che la sostanza rinvenuta sia “cannabis legale”, sarà consentito solo in presenza di elementi che facciano emergere con palese evidenza la non verosimiglianza della dichiarazione resa (ingente quantitativo della sostanza, occultamento della stessa, presenza di altri elementi da cui ricavare la destinazione allo spaccio quali bilancini di precisione, suddivisione in distinte dosi, materiale per il confezionamento).
Va infine valutata la posizione del soggetto che venga trovato nell’atto di consumare per “smoking” la “cannabis light”; come sopra accennato la vendita della c.d. cannabis legale non è consentita per finalità “ricreativa” e cioè per finalità di consumo per “smoking”.
Ne deriva che, in astratto, il soggetto che venga trovato dalla polizia giudiziaria nell’atto di “fumare” la cannabis legale potrebbe essere chiamato a rispondere dell’ipotesi amministrativa di cui all’art. 75 D.P.R. 309 del 1990; in tal caso, quindi, è prevedibile che gli agenti accertatori continueranno a procedere nelle consuete forme di legge previste per il consumo di sostanza stupefacente per uso personale, pur potendosi obiettare a tale impostazione che la canapa consumata, a causa del principio attivo THC inferiore alla 0.6 per cento, non possa in radice essere qualificata quale “sostanza stupefacente” ai sensi del T.U. stupefacenti.
Infine va tenuto conto, nel valutare le ricadute applicative dell’intervento legislativo del 2016, del recente parere reso in data 1.03.2018 dal Ministero della Salute – Direzione Generale dei Dispositivi medici e del Servizio Farmaceutico – in risposta ad un quesito formulato dall’Ufficio delle Dogane di Roma – Sot di Ciampino ed avente ad oggetto i prodotti provenienti dalla Svizzera contenenti infiorescenze di Cannabis corredate di certificazione attestante un contenuto di THC inferiore allo 0.6% e di Cannabidiolo superiore al 10%.
In particolare il Ministero della Salute, dopo aver escluso che i prodotti a base di Cannabis provenienti dalla Svizzera possano avere legittimo ingresso nel territorio dello Stato Italiano, considerato che in tale paese non risultano ammesse varietà di cannabis di cui al Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole ai sensi dell’art. 17 della Direttiva 2002/53/CE del Consiglio del 13 giugno 2002, affronta esplicitamente il problema relativo alla presenza nella c.d. “cannabis light” del principio attivo del Cannabidiolo (CBD).
Il Ministero afferma espressamente che non essendo inclusa tale sostanza nelle tabelle delle sostanze stupefacenti psicotrope di cui al D.P.R. 309 del 1990, debba applicarsi, in caso di presenza di CBD, la normativa vigente in materia di medicinali, e cioè il Decreto legislativo nr. 219 del 2006.
Tale affermazione del Ministero della Salute e tale richiamo al D. Lgs. nr. 219 del 2006 pone rilevanti ed ulteriori problemi di natura operativa; potrebbe difatti sostenersi che la commercializzazione di cannabis con un basso principio attivo di THC (ed in particolare con un principio attivo di THC inferiore allo 0.6 per cento) ma con un alto contenuto di CBD, pur essendo penalmente irrilevante ai sensi del T.U. stupefacenti, possa assumere rilevanza penale sotto un diverso profilo.
Se difatti la c.d. cannabis light, a causa della presenza di alte percentuali di CBD, deve essere considerata come un vero e proprio “farmaco”, la produzione e la commercializzazione della sostanza in assenza di autorizzazione potrebbe comportare l’integrazione delle ipotesi di reato previste dall’art. 147 del Decreto legislativo nr. 219 del 2016 che, come noto, prevede una specifica ipotesi contravvenzionale per il titolare o legale rappresentante dell’impresa che inizi l’attività di produzione di medicinali o materie prime farmacologicamente attive senza munirsi della necessaria autorizzazione; analoga sanzione penale, inoltre, è prevista per il soggetto che metta in commercio medicinali per cui non sia stata rilasciata apposita autorizzazione.
Senza contare, infine, che la commercializzazione di sostanze che possano essere qualificate come “farmaci” potrebbe anche comportare, in astratto, la consumazione del reato di cui all’art. 348 c.p. (esercizio abusivo della professione di farmacista).
Quanto sopra rappresentato deve essere valutato anche alla luce del parere del Consiglio Superiore di Sanità sez. V del 10 Aprile 2018, che chiamato a pronunciarsi in seguito al quesito posto dal Segretariato Generale se i prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa siano da considerarsi pericolosi per la salute umana e se tali prodotti possano essere immessi in commercio, raccomanda che nell’interesse della salute pubblica ed in applicazione del principio di precauzione, siano attivate misure atte a non consentire la libera vendita di tali prodotti.
Probabilmente un'eco delle medesime preoccupazioni e considerazioni meta-giuridiche è alla base delle due pronunce della Corte di Cassazione che in questo articolo si commentano e di cui si dirà meglio di qui a breve.
4.
L’accertamento tecnico sulle piante di cannabis.
Il fenomeno della cosiddetta cannabis light pone problemi di notevole complessità anche dal punto di vista analitico e tossicologico.
Per la determinazione della liceità o meno della coltivazione della pianta di canapa occorre infatti determinare con esattezza il THC, compito reso ancora più difficile dalle Circolari recentemente emanate e di cui si è detto.
Laddove la legge 242 del 2016 fissa un limite di liceità della coltivazione allo 0.6 % e la Circolare del Ministero dell'Interno indica un limite dello 0,5 % i tecnici sono chiamati a fornire interpretazioni su dati che non si presentano in modo assolutamente certo ed avendo oltretutto a disposizione un margine di errore pressocché inesistente.
Ed invero, l’esito delle analisi è influenzato in maniera sensibile da una serie di variabili che rendono l’analisi non agevole e possono impedire al tecnico di rassegnare conclusioni univoche, utilizzabili per l’accertamento dell’ipotesi di reato eventualmente ipotizzata dalla polizia giudiziaria.
In particolare, va rilevato che la misura del THC nel materiale vegetale di piante di cannabis può subire notevoli variazioni a causa della disomogeneità del campione (variabilità intrinseca) e delle procedure di lavorazione ed analisi (variabilità estrinseca); ma è proprio la misura del THC nel campione che pone il limite tra una coltivazione lecita ed una coltivazione penalmente rilevante.
La variabilità intrinseca, che comporta come detto la mutevolezza del dato, implica importanti conseguenze nel caso di sequestri di piantagioni o comunque di un numero elevato di piante di cannabis: in queste ipotesi occorrerà procedere ad un campionamento di piante il più possibile omogeneo prestando attenzione a selezionare al contempo una quantità di piante che possa essere rappresentativa dell’intera piantagione. Il primo problema che si pone è pertanto il campionamento su una popolazione numerosa di piante di cannabis: nel caso di sequestri di piantagioni o elevate quantità di piante il campionamento dovrebbe basarsi sulla numerosità operando per gruppi omogenei di elementi simili, selezionando una quantità di piante che possa essere rappresentativa dell’intera piantagione.
Quando si procede ad un campionamento la fase di maturazione della pianta rappresenta un indice indispensabile per dare una misura delle percentuali di principio attivo, poiché il THC varia nelle diversi fasi di crescita di una pianta.
La legge prevede inoltre di eseguire i campionamenti su “colture in pieno campo”, per cui il soggetto autorizzato a procedere ai controlli dovrebbe fare un campionamento su piante allo stato vegetativo, e quindi selezionare piante “fresche”: per una corretta esecuzione occorrerebbe dunque coinvolgere il tecnico incaricato di eseguire le analisi chimiche sin dal momento del campionamento, o in alternativa istruire l’operatore autorizzato al controllo ad operare in modo corretto e secondo le direttive sopra indicate.
I problemi relativi allo stato fisico della pianta sono noti agli esperti del settore. Nelle piante fresche di Cannabis il THC-acido, componente diverso dal THC, è molto abbondante e si trasforma con la maturazione in THC. Considerazioni analoghe possono essere fatte per il CBD acido, che si trasforma in CBD con il tempo.
Il valore di THC può variare notevolmente in base alla porzione di pianta che si analizza, alla fase di maturazione, alla tipologia, ed in base allo stato fisico della pianta che si sottopone ad accertamento chimico. Trattandosi quindi di un prodotto vegetale che non è omogeneo e non è stabile, si potrebbe verificare una variabilità delle concentrazioni di principio attivo THC, e quindi della valutazione della liceità della coltivazione.
Una volta selezionato un campione rappresentativo dell’intera piantagione il materiale deve essere pesato prima di poterlo sottoporre ad analisi chimica.
Come indicato nelle linee guida nazionali e internazionali - linee guida per la determinazione di sostanze stupefacenti e psicotrope su materiale non biologico con finalità tossicologico-forensi – GTFI del 29/05/2017, o nei metodi raccomandati della United Nations Office on Drugs and Crime UNODC. Recommended methods for the identification and analysis of cannabis and cannabis products, 2009, la pesatura consiste nella determinazione del valore di peso netto secco del materiale.
Quindi è necessario riferirsi al peso netto secco del materiale vegetale costituito dalle sole foglie e/o infiorescenze, uniche porzioni della pianta sulle quali si può trovare il THC, al netto dell’umidità e delle eventuali ulteriori porzioni legnose, semi, e ramaglie presenti nel reperto originale.
Deve successivamente procedersi alla defogliazione ed alla essiccazione di un campione rappresentativo e successivamente triturare finemente il campione per garantire l’omogeneità del prodotto da sottoporre alle analisi di laboratorio.
La norma prevede che gli addetti ai controlli eseguano il campionamento alla presenza del coltivatore, al quale deve essere rilasciata un’aliquota del campione prelevato per il controllo in contraddittorio.
Ulteriori problemi si pongono in relazione alla necessità o meno che il campione consegnato al coltivatore (potenziale indagato) sia essiccato o meno e in caso di risposta positiva a chi spetti l’onere di procedere all’essiccazione, nonché per quanto tempo e con quali modalità il coltivatore debba conservare il reperto.
Si tratta di questioni di estrema rilevanza a cui la normativa non dà alcuna risposta, affidandone la soluzione, che si presenta non poco problematica, agli operatori tecnici.
Anche il tempo che inevitabilmente trascorre tra l’acquisizione del reperto e le sue analisi (da quella eseguita in fase di indagine alle eventuali ulteriori analisi riservate alla fase processuale, magari a distanza di mesi se non di anni dall’avvenuto campionamento) incidono notevolmente sull’attendibilità del risultato e sulla sua utilizzabilità a fine di prova. Si tratta infatti di materiale vegetale, soggetto per effetto del tempo sia a perdita di peso sia a fenomeni di trasformazione: fenomeni che comportano sensibili variazioni nella misura del THC.
La legge prevede che l’esito della misura del THC deve essere una media tra campioni di piante, prelevati, conservati, preparati ed analizzati secondo il metodo prescritto “dalla normativa vigente”, senza specificare quale sia la normativa a cui fare riferimento.
La legge n. 242 del 2016 dà disposizioni sui controlli, compresi i prelevamenti e le analisi di laboratorio, indicando come soggetti abilitati ad eseguirli il Corpo Forestale dello Stato (oggi come noto soppresso e incorporato nell’Arma dei Carabinieri) o “soggetti privati autorizzati”.
Tali controlli devono essere eseguiti tenendo conto del regolamento CE n. 882/2014 (Regolamento relativo ai controllo ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali) e delle linee guida in materia di controlli, legge n. 35 del 4/4/12, che nulla però descrivono in merito alle operazioni pratiche di campionamento, pesatura e dei criteri analitici da adoperare negli accertamenti chimici sulle piante di cannabis.
Il comma 3 della L. n. 242 rinvia per le modalità di campionamento, prelevamento e pesatura nonché di conservazione ed analisi dei campioni ai fini della determinazione del THC alla “vigente normativa dell’unione europea e nazionale”.
Si tratta di un rinvio generico, che deve verosimilmente essere inteso in assenza di indicazioni certe, al metodo comunitario per la determinazione quantitativa del THC della canapa – Allegato I al Regolamento CE n. 1112/2009 – che descrive capillarmente il metodo chimico per determinare il tenore di THC delle varietà di canapa.
Il regolamento CE n. 1112/2009 vigente al momento della promulgazione della Legge 242 è stato successivamente modificato dal regolamento delegato UE 2017/1155 della Commissione Europea del 15 febbraio 2017, e descrive la campionatura, il prelievo, l’essiccazione e le modalità operative per le analisi di laboratorio, di una determinata popolazione di varietà di canapa ammessa tra le varietà per le quali il peso del THC rispetto al peso di un campione portato a peso costante non superi certi limiti. Pertanto tale regolamento sembrerebbe rispondere alle necessità previste dalla legge n. 242 con la caratterizzazione del chemiotipo della “cannabis”, cioè la misura della quantità percentuale di THC presente.
La norma impone un limite definito: se la pianta ha un THC superiore allo 0.6% deve essere considerata stupefacente, se inferiore allo 0.6% rientra nei parametri normativi e non va considerata stupefacente, con conseguente liceità della sua coltivazione e della cessione di parte della stessa.
Tale limite quantitativo contrasta però con il margine d’incertezza che è conseguenza dei numerosi fattori di variabilità di cui si è detto sopra, che influiscono o possono influire sul quantitativo di THC, sicché uno stesso campione potrebbe risultare superiore o inferiore al limite a seconda della pianta analizzata all’interno della stessa piantagione, o addirittura nell’ambito della stessa pianta, in conseguenza del passare del tempo e della macerazione della stessa.
Un ulteriore spunto di riflessione sul tema è dato dal riscontrato aumento di vendita al dettaglio di prodotti derivati da questa coltivazione lecita: l’inedita presenza su strada di marijuana legale e la difficoltà di distinguerla da analoga sostanza avente effetto stupefacente perché con THC superiore allo 0.6% (e dunque illegale) sta comportando numerose difficoltà per la polizia giudiziaria operante che, come riferito nel paragrafo precedente, a fronte di un reperto di dubbia liceità, è costretta a procedere al sequestro al fine di effettuare le analisi tecniche necessarie a stabilire se si tratti di sostanza detenuta lecitamente o illecitamente.
Si osserva nei controlli fino ad oggi disposti sulla “marijuana light” che la percentuale di THC oscilla intorno al valore legale e che spesso è stata riscontrata la presenza di un alto contenuto di Cannabidiolo (CBD).
Il CBD non è incluso nelle tabelle degli stupefacenti, quindi una produzione di cannabis “light” con alta concentrazione di CBD non è considerata stupefacente ai sensi del D.P.R. 309/90. Ma il CBD è noto per le sue proprietà farmacologiche, tanto da caratterizzare in modo prevalente, la tipologia di cannabis autorizzata per finalità terapeutiche.
In diversi prodotti commerciali di cannabis “light”, molti dei quali importati dall’estero (svizzera, spagna olanda), vi sono percentuali di THC tra lo 0,1 e 1,0% e di CBD che variano tra il 4% ed il 12%, ponendosi a cavallo tra le due normative, quella della cannabis light n. 242 ed il Decreto Ministeriale del 9.11.2015 della cannabis terapeutica.
La legge n. 242 non dà indicazioni sulla presenza di CBD ma il fenomeno della commercializzazione di prodotti con THC basso sembra essere sempre associato a prodotti con prevalenza percentuale di CBD.
A tal proposito il parere espresso dal Ministero della Salute nel marzo 2018 specifica che la presenza del Cannabidiolo in una preparazione di cannabis commerciale è sottoposto alla normativa in materia di medicinali (D Lgs. n. 219 del 2006).
Si legge nel parere che: “l’impiego di tali infiorescenze per la produzione di medicinali può essere autorizzato solo nel rispetto delle norme in materia di medicinali che consentono unicamente ad officine farmaceutiche autorizzate dall’AIFA la possibilità di utilizzare le piante di cannabis, secondo specifiche procedure dalla coltivazione al confezionamento finale e alla somministrazione al paziente, come attualmente avviene per lo stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze”
Tale circostanza porta inevitabilmente a chiedersi, se sia opportuna una valutazione della liceità della coltivazione esclusivamente sulla base dei livelli di THC riscontrati o se sia opportuno una valutazione di ulteriori parametri.
5. Le decisioni della Corte di Cassazione 29 novembre e 7 dicembre 2018 e i precedenti di segno opposto: verso un intervento delle Sezioni Unite.
In questo complesso e poco chiaro contesto normativo, come si è detto, il problema della liceità della commercializzazione della cannabis light è giunto all'attenzione della giurisprudenza di merito ed infine di quella di legittimità.
Sono immediatamente emersi due orientamenti di segno opposto.
Il primo, più restrittivo, poggia sulla considerazione che la coltivazione di sostanze stupefacenti è illecita a prescindere dalla concentrazione di THC, sicché le disposizioni della legge 242 del 2016 - che consentono a certe condizioni la coltivazione di cannabis -deve ritenersi norma eccezionale e sicuramente non estensibile analogicamente alle altre condotte disciplinate dal t.u. 309/90 tra le quali la vendita e la detenzione a fini di spaccio.
Si conclude dunque che non occorra accertare che il principio attivo presente nella sostanza commercializzata sia inferiore allo 0.6% perché tale limite è previsto solo per i coltivatori: chiunque commerci derivati dalla cannabis, in qualsiasi percentuale sia presente il THC, viola l'articolo 73 del t.u. 309/90.
Di parere opposto le pronunce dei G.I.P. che hanno rigettato le richieste di sequestro (o dei Tribunali per il Riesame che hanno annullato i sequestri eventualmente disposti dai giudici di prime cure) ritenendo che la legge 242 del 2016 abbia creato una finestra di liceità della coltivazione della cannabis che non può non riverberarsi sulla commercializzazione dei prodotti della coltivazione medesima.
Se coltivare cannabis è lecito, quando il principio attivo contenuto nella pianta è inferiore allo 0.6 %, ciò vuol dire secondo i fautori di questa ricostruzione che il prodotto della coltivazione non può più considerarsi, giuridicamente, "sostanza stupefacente" e non è dunque più soggetto alla disciplina del t.u. 309 del 1990.
Si tratterebbe infatti di sostanza che, al pari di altre varietà vegetali della stessa canapa, non rientra tra quelle inserite nelle tabelle allegate al predetto Testo Unico.
Si è creata dunque una giurisprudenza oscillante, con soluzioni diametralmente opposte in presenza di fattispecie analoghe a seconda del Tribunale (e persino del singolo Giudice) chiamato ad occuparsi della questione.
Le impugnazioni delle parti ai provvedimenti avversi hanno portato alcuni di questi casi all'attenzione della Corte di Cassazione, che allo stato non sembra avere trovato una soluzione univoca e ripropone al livello più alto la medesima disparità di vedute sopra descritta.
In particolare, si segnala, quanto al primo orientamento, la sentenza n. 34332 del 13 giugno del 2018 (depositata il 20 luglio 2018) con cui la Quarta Sezione della Corte di cassazione ha rigettato il ricorso dell'indagato avverso il provvedimento del Tribunale per il riesame che aveva confermato un sequestro di cannabis light rilevando che "il destinatario del margine di tolleranza fissato tra lo 0,2 e lo 0.6 % è l'agricoltore", con esclusione dunque dell'applicabilità della normativa della legge 242 del 2016 a chiunque sia implicato nella commercializzazione dei prodotti della sostanza coltivata.
Di tutt'altro avviso la Sesta Sezione della Corte, che dopo aver ribadito con sentenza numero 52003 del 10 ottobre del 2018 (depositata il 18 novembre) l'orientamento restrittivo negli stessi termini già evidenziati (nella motivazione della sentenza si afferma infatti che l'esenzione di responsabilità alle condizioni di legge prevista dalla legge numero 242 del 2016, "al di là della denominazione della legge in questione (Disposizioni per la prevenzione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa) è espressamente ed esclusivamente riferita al solo agricoltore") ha pochi giorni fa mutato completamente orientamento, sposando in pieno le considerazioni che sono alla base dell'interpretazione meno rigorosa della normativa in esame.
Con la "Notizia di decisione 9/2018" del 5 dicembre del 2018 la Sesta Sezione (Presidente Fidelbo, relatore Costanzo) rende noto che "non sussistono i presupposti per il sequestro preventivo di infiorescenze di cannabis light poste in vendita e provenienti dalle coltivazioni eseguite nel rispetto delle previsioni di cui alla legge 2 dicembre del 2016 n. 242".
Ciò in quanto, si legge nella notizia di decisione (la motivazione della sentenza non è ovviamente ancora stata depositata) che "il sequestro preventivo disposto dal giudice in relazione al reato di cui all'articolo 73, comma 4 del d.p.r. 309 del 1990 è stato annullato, in quanto si è ritenuto che il commercio delle infiorescenze (e in genere dei prodotti derivati dalla canapa) è consentito se il contenuto di THC non supera il limite dello 0.6 % fissato dall'articolo 4 della legge 242 del 2016 in riferimento alla coltivazione della canapa; superato tale limite, il prodotto è soggetto alla disciplina del d.p.er. 309 del 1990 e, quale sostanza stupefacente, non può essere commercializzato".
E' evidente dunque che la Corte ha (questa volta) sposato interamente le ragioni dell'orientamento contrario a quello affermato dalle precedenti due pronunce, con affermazione piena della liceità della commercializzazione della cannabis light.
L'ultimo pronunciamento della Corte di Cassazione è del 7 dicembre: a fronte di un contrasto così palese ed insanabile, il Procuratore Generale aveva chiesto "rimettersi la questione alle sezioni unite ove dovendosi concludere in contrasto con quanto affermato dalle sezioni quarta e sesta che la legge non fa riferimento esclusivo all’agricoltore ma si riferisce anche altri protagonisti della filiera agroalimentare che prima nella vendita delle sementi e poi nel terziario contribuiscano all’attività economica che si collega alla coltivazione come stabilito al comma c) dell’ articolo 1 rubricato “”finalità” che fa riferimento allo sviluppo delle filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguono l’integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale".
La Corte di Cassazione ha, all'esito della camera di consiglio, annullato il provvedimento del tribunale del riesame di Ancona del 27 luglio 2018, di rigetto dell’appello del Pm contro l’ordinanza del gip che aveva rigettato la richiesta di convalida del sequestro preventivo di confezioni di cannabis light.
In altri termini, ha accolto la prospettazione del Pubblico Ministero ricorrente che aveva proceduto al sequestro sul presupposto che la causa di non punibilità prevista dalla legge 242 del 2016 sia valida esclusivamente per l'agricoltore, con conseguente divieto di commercializzazione dei prodotti della coltivazione anche se la percentuale di THC sia inferiore allo 0.6%.
Si tratta di una pronuncia dagli effetti potenzialmente dirompenti, soprattutto perché - negando l'esistenza del contrasto tra Sezioni che era alla base della richiesta del P.G.- sembra destinata a perpetuare per un ulteriore periodo (fino all'inevitabile pronuncia delle Sezioni Unite, che non potrà non prendere atto dell'esistenza di un contrasto così importante) la situazione di incertezza con evidenti ripercussioni sull'operatività del contrasto agli stupefacenti.
Ordinanza del Tribunale di Ancona 27 luglio 2018
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