ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il dibattito sulla Cannabis è tornato in questi giorni al centro delle cronache per la contrarietà del Ministro dell’Interno alla vendita della Cannabis light e per l’approvazione a Torino di una mozione consiliare sulla coltivazione di Cannabis ad uso medico sui terreni comunali.
Dietro alla confusione mediatica e politica sull’uso della Cannabis si nasconde una disciplina frammentata, al confine tra diritto penale e diritto amministrativo. L’attualità del tema dellaCannabis ad uso medico è evidentemente collegata all’interesse pubblico alla produzione e alla ricerca sull’efficacia terapeutica di questo prodotto, per la risposta che esso può dare alla richiesta di tutela della salute delle persone.
Sommario: la disciplina della cannabis ad uso medico. -l’intervento pubblico come programmazione della ricerca e produzione. - la cooperazione amministrativa.
1. La disciplina della Cannabis ad uso medico.
L’uso medico della Cannabis non è considerato una terapia, ma un trattamento sintomatico in grado di supportare i trattamenti standard laddove non producano gli effetti desiderati o qualora non siano tollerati o necessitino di incrementi posologici che potrebbero determinare la comparsa di effetti collaterali [FB1] [1].
La disciplina dell’uso medico della Cannabis trova riferimento nel quadro normativo frammentato in materia di: autorizzazioni[2], accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore[3], medicinali[4], prescrizioni delle preparazioni magistrali[5].
La potenziale offensività della circolazione di sostanze stupefacenti spiega la rilevanza penale dell’uso della Cannabis.
Non stupisce che la giurisprudenza penale abbia chiarito che per il perfezionarsi del reato di coltivazione abusiva “non rilevano le quantità e qualità delle piante, la loro effettiva tossicità o la quantità di sostanza drogante da esse estraibili, poiché la previsione incriminatrice è rivolta a vietare la produzione di specie vegetali idonee a produrre l’agente psicotropo, indipendentemente dal principio attivo estraibile”[6]; la fattispecie viene inquadrata come “reato di pericolo perfezionato con la posa dei semi idonei a produrre una potenziale germinazione ad effetti stupefacenti senza che si renda necessario attendere l’esaurirsi del ciclo di maturazione e successiva essiccazione delle foglie”[7].
La rilevanza penale che il nostro ordinamento assegna all’uso della Cannabis in ragione dei sui effetti stupefacenti condiziona le diverse attività soggette ad autorizzazione[8].
Per le varietà di canapa che non rientrano [FB2] nel Testo Unico sugli stupefacenti il legislatore consente, invece, senza necessità di autorizzazione, “coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici e privati” della canapa”[9].
2. L’intervento pubblico come programmazione della ricerca e produzione.
L’offerta di mercato della Cannabis ad uso medico è oggi insufficiente a soddisfare interamente la domanda farmaceutica nazionale e la crescita del fabbisogno[10].
Accanto ad un intervento pubblico nella produzione, finalizzato alla garanzia della continuità terapeutica per gli usi già consentiti, vi è un intervento pubblico finalizzato alla ricerca di nuovi impieghi medici e alla valutazione dell’effettiva efficacia di quelli già riconosciuti.
In questa prospettiva ricerca e produzione vanno intese congiuntamente.
Sicché non stupisce che il Ministero della salute, in qualità di Organismo statale della cannabis[11], eserciti altre funzioni oltre a quelle direttamente legate alla tutala della salute nell’ambito del Ssn, provvedendo ad autorizzare e individuare le aree destinate alla coltivazione di piante di Cannabis, autorizzare l’importazione e l’esportazione, determinare le quote di fabbricazione [12].
Recenti disposizioni normative sulla produzione e trasformazione della Cannabis ad uso medico[13] disciplinano l’autorizzazione alla produzione dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze (SCFM), ai fini della fabbricazione di infiorescenze di Cannabis, della coltivazione e della trasformazione della Cannabis in sostanze e preparazioni vegetali per la successiva distribuzione alle farmacie[14].
Nella programmazione[15] dell’approvigionamento non è coinvolto solo l’Organismo statale per la Cannabis che può “autorizzare l’importazione di quote da conferire allo Stabilimento chimico militare di Firenze, ai fini di soddisfare il fabbisogno nazionale di tali preparazioni e per la conduzione di studi clinici”[16], ma anche direttamente Regioni e Province autonome che predispongono le richieste “sulla base della stima dei fabbisogni dei pazienti in trattamento e di eventuali incrementi per nuove esigenze di trattamento”[17].
L’autorizzazione dell’importazione di quote di Cannabis si giustifica con la necessità di “assicurare la disponibilità di Cannabis ad uso medico sul territorio nazionale, anche al fine di garantire la continuità terapeutica dei pazienti già in trattamento”[18].
Al fine di “soddisfare il fabbisogno nazionale di tali preparazioni e per la conduzione di studi clinici”, lo stabilimento fiorentino è autorizzato alla “coltivazione e alla trasformazione della Cannabis in sostanze e preparazioni vegetali per la successiva distribuzione alle farmacie”[19].
Oltre allo stabilimento autorizzato, il Ministero della Salute può individuare con decreto anche “uno o più enti o imprese da autorizzare alla coltivazione nonché alla trasformazione”[20]; soluzione già individuata dalla giurisprudenza amministrativa che ha affermato la possibilità che l’autorizzazione alla coltivazione sia conferita anche ad altri soggetti[21].
Sicché la possibilità di concedere altre autorizzati alla coltivazione per uso medico[22] è stata ritenuta idonea ad escludere l’esistenza di un monopolio statale[23].
In ogni caso i coltivatori autorizzati debbono consegnare “il materiale vegetale a base di cannabis, nei tempi e nei modi definiti nel provvedimento di autorizzazione alla coltivazione, al Ministro della salute, Direzione generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico – Ufficio centrale stupefacenti [n.d.r. Organismo statale per la cannabis] che provvede alla destinazione del materiale stesso alle officine farmaceutiche autorizzate per la successiva trasformazione in sostanza attiva o preparazione vegetale, entro quattro mesi dalla raccolta”[24].
L’autorizzabilità di altri soggetti, subordinata alla necessità di soddisfare il fabbisogno nazionale, è estesa oggi anche all’attività di trasformazione della cannabis; le disposizioni urgenti in materia di finanza e per esigenze indifferibili hanno infatti esteso l’autorizzazione anche alla “trasformazione della Cannabis in sostanze e preparazioni vegetali per la successiva distribuzione alle farmacie”[25].
La disposizione normativa sulla “produzione e trasformazione della Cannabis ad uso medico”[26] richiama le attività di produzione, fabbricazione di infiorescenze, di trasformazione e di coltivazione di Cannabis in sostanze e preparazioni vegetali per la successiva distribuzione nelle farmacie.
La disciplina della Cannabis ad uso medico coinvolge perciò diverse attività per le quali è richiesta l’autorizzazione di cui al Testo Unico in materia di stupefacenti quali: coltivazione, trasformazione, fabbricazione e produzione, uso.
3. La cooperazione amministrativa.
Le attività di coltivazione e trasformazione della Cannabis in sostanze e preparazioni vegetali, per la successiva distribuzione alle farmacie, non sono finalizzate solo “a soddisfare il fabbisogno nazionale di tali preparazioni”, ma anche alla “conduzione di studi clinici”[27].
Perciò se le attività di produzione e di ricerca non sono scindibili, appare difficilmente comprensibile - alla luce del dettato costituzionale di riferimento (artt. 3, 9[28], 32, 41 Cost) - la scelta di condizionare l‘autorizzabilità di altri soggetti al solo caso di carenza di quote di Cannabis.
In tale prospettiva si comprende il tentativo del legislatore della XVII legislatura di definire l’aspetto promozionale della ricerca universitaria, legato alla produzione della Cannabis ad uso medico, disponendo che “nell’ambito delle attività di ricerca, le università e le società medico-scientifiche possono promuovere studi preclinici, clinici, osservazionali ed epidemiologici sull’uso appropriato dei medicinali di origine vegetale a base di cannabis, condotti secondo la normativa vigente in materia di sperimentazione”.[29]
Nell’intervento pubblico di produzione della Cannabis ad uso medico il ruolo universitario[30] nella promozione della ricerca non può essere inteso separatamente dalla programmazione dell’attività di produzione.
L’attività di ricerca e produzione della Cannabis ad uso medico si presenta come attività di cooperazione amministrativa, anche europea[31].
La cooperazione interessa diversi livelli di amministrazione: l’Unione europea, nella sua competenza di sostegno, coordinamento e completamento (art. 6 TFUE), lo Stato, nella garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, co. 2, lett. m); le Regioni, in virtù della loro competenza legislativa concorrente in materia di tutela della salute (art. 117 co. 3); nonché i Comuni in via sussidiaria e come enti di prossimità nella cura della persona (art. 118 Cost.).
La cooperazione amministrativa nella ricerca e produzione di Cannabis ad uso medico coinvolge, inoltre, tutte le Amministrazioni preposte alla tutela della salute: l’amministrazione sanitaria (Ministero della Salute, Aziende ospedaliere, Aziende sanitarie locali, etc.) e l’amministrazione per la ricerca scientifica (Università).
In tale contesto l’amministrazione universitaria assume uno spiccato rilievo nell’innovazione scientifica per la ricerca e la produzione di Cannabis ad uso medico, nonché un ruolo centrale nella cooperazione amministrativa.
Se le Università, che “da almeno un millennio sono depositarie dei più alti livelli di conoscenza in ogni ramo del sapere, possono innovare se stesse, aprendo alla trasformazione delle altre pubbliche amministrazioni”[32], l’amministrazione della Cannabis ad uso medico può configurarsi come modello di cooperazione amministrativa dove l’innovazione universitaria trasforma tutte le altre amministrazioni.
[1] L’art. 4.1. dell’Allegato tecnico per la produzione nazionale di sostanze e preparazioni di origine vegetale a base di cannabis al Decreto 9 novembre 2015, Ministero della Salute, definisce la Cannabis ad uso medico come un “trattamento sintomatico di supporto ai trattamenti standard, quando questi ultimi non hanno prodotto gli effetti desiderati, o hanno provocato effetti secondari non tollerabili, o necessitano di incrementi posologici che potrebbero determinare la comparsa di effetti collaterali”; “esistono diverse linee genetiche di Cannabis che contengono concentrazioni differenti dei principi farmacologicamente attivi e, conseguentemente, producono effetti diversi; pertanto, gli impieghi ad uso medico verranno specificati dal Ministero della salute, sentiti l’Istituto superiore di sanità e l’AIFA per ciascuna linea genetica di cannabis”. Lo stesso decreto afferma, inoltre, che i risultati delle evidenze scientifiche sono ancora oggi contraddittori e non conclusivi. Il D.d.l. recante disposizioni concernenti la coltivazione e la somministrazione della cannabis a uso medico, all’art. 2, nel testo approvato alla Camera il 19 ottobre 2017 nel corso della XVII legislatura, chiariva che per uso medico della Cannabis si deve intendere “l’assunzione di medicinali a base di cannabis che il medico curante prescrive dopo la valutazione del paziente e la diagnosi, per una opportuna terapia”. Alla Cannabis, nella varie fasi della produzione - dalla coltivazione alla trasformazione - si riferiscono le definizioni di: “sostanze vegetali”, con la quale si intendono “tutte le piante, le parti di piante, le alghe, i funghi e i licheni, interi, a pezzi o tagliati, in forma non trattata, di solito essiccata, ma talvolta anche allo stato fresco”, e di “preparazione vegetale”, con la quale si intendono le “preparazioni ottenute sottoponendo le sostanze vegetali a trattamenti quali estrazione, distillazione, spremitura, frazionamento, purificazione, concentrazione o fermentazione. In tale definizione rientrano anche sostanze vegetali triturate o polverizzate, tinture, estratti, olii essenziali, succhi ottenuti per spremitura ed essudati lavorati” (D. Lgs. 24 aprile 2006, n. 219, art. 1). Il prodotto può essere ricondotto alla definizione di medicinale per presentazione, quale “sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane”, come anche a quella di medicinale per funzione, quale “sostanza o associazione di sostanze che può essere utilizzata sull’uomo o somministrata all’uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un’azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica” (D. Lgs. 24 aprile 2006, n. 219, art. 1). Per l’analisi dell’accezione formale e sostanziale della definizione di medicinale si rinvia a M. P. Genesin, La disciplina dei farmaci, in Salute e sanità, a cura di R. Ferrara, in Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà, P. Zatti, Milano, 2010, 631. Sul punto sia consentito rinviare a A. Cauduro, L’accesso al farmaco, Milano, 2017, 15 ss. Sulla disciplina dei farmaci si veda, inoltre, G.F. Ferrari, F. Massimino, Diritto del farmaco. Medicinali, diritto alla salute, politiche sanitarie, Bari, 2015, Si ricorda che “in caso di dubbio, se un prodotto, tenuto conto delle sue caratteristiche, può rientrare contemporaneamente nella definizione di “medicinale” e nella definizione di un prodotto disciplinato da un’altra normativa comunitaria”, trova sempre applicazione la disciplina dei medicinali (Direttiva 2001/83/CE, art. 2).
[2] D. P. R. 9 ottobre 1990, n. 309, Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza e successive modifiche e integrazioni (d’ora in avanti Testo Unico).
[3] Legge 15 marzo 2010, n. 38 recante disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore come richiamata dal Decreto 9 novembre 2015 del Ministero della salute.
[4] D. Lgs. 24 aprile 2006, n. 219, di recepimento della Direttiva 2001/83/CE.
[5] Legge 8 aprile 1998, n. 94 recante disposizioni sulla prescrizione di preparazioni medicinali, come richiamata dal decreto 9 novembre 2015 del Ministero della salute. In specie viene richiamato l’art. 5 della l. n. 94/1998 rubricato prescrizioni di preparazioni magistrali che stabilisce la possibilità “per i medici di prescrivere preparazioni magistrali esclusivamente a base di principi attivi descritti nelle farmacopee dei Paesi dell’Unione europea o contenuti in medicinali prodotti industrialmente di cui è autorizzato il commercio in Italia o in altro Paese dell’Unione europea”.
[6] Cass. Pen., Sezioni Unite 24 aprile – 10 luglio 2008, n. 28605. La decisione muoveva dalla questione se “la condotta di coltivazione di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti sia penalmente rilevante anche quando sia realizzata per destinazione del prodotto ad uso personale”.
[7] Cass. Pen., Sezioni Unite 24 aprile – 10 luglio 2008, n. 28605.
[8] Sulle autorizzazioni si vedano per tutti: A. Orsi Battaglini, voce Autorizzazione amministrativa, in Dig. disc. pubbl., 1987, Torino, 58 ss.; F. Fracchia, Autorizzazioni amministrative, in Diz. Dir.Pubbl., (diretto da) S. Cassese, Milano, 2006, 598 ss.; G. Vignocchi, La natura giuridica dell’autorizzazione amministrativa, Padova, 1944.
[9] Legge 2 dicembre 2016, n. 242, art. 2, lett. f.
[10] Per l’indicazione delle patologie per le quali sono riconosciuti “gli impieghi di cannabis ad uso medico” cfr. punto 4.1, dell’Allegato tecnico per la produzione nazionale di sostanze e preparazioni di origine vegetale a base di cannabis, del Decreto 9 novembre 2015 del Ministero della Salute. Sul punto cfr. Corte cost. 20 giugno 2013, n. 141 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 1, della legge della Regione Liguria n. 26/2012, per violazione dell’art. 117, co. 3, Cost. perché “indicando i medici specialisti a prescrivere i farmaci cannabinoidi e definendo le relative indicazioni terapeutiche, interferisce con la competenza dello Stato a individuare, con norme di principio, tese a garantire l’uniformità delle modalità di prescrizione dei medicinali nel territorio nazionale, gli specialisti abilitati alla prescrizione del farmaco o principio attivo, nonché i relativi impieghi terapeutici”. Il riferimento è al contrasto delle norme regionali con la successiva determinazione AIFA n. 387 del 9 aprile 2013 con la quale l’Agenzia ha autorizzato l’immissione in commercio dell’unico medicinale cannabinoide presente sul mercato italiano.
[11] L’art. 1 del decreto 9 novembre 2015 del Ministero della salute, rubricato Funzioni del Ministero della salute in qualità di Organismo statale per la cannabis, richiama la Direzione generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico – l'Ufficio centrale stupefacenti.
[12] Il Ministero della Salute provvede: a) ad autorizzare la coltivazione di piante di Cannabis da utilizzare per la produzione di medicinali di origine vegetale a base di Cannabis, sostanze e preparazioni vegetali; b) individua le aree da destinare alla coltivazione di piante di Cannabis per la produzione delle relative sostanze e preparazioni di origine vegetale e la superficie dei terreni su cui la coltivazione è consentita; c) importa, esporta e distribuisce sul territorio nazionale, ovvero autorizza l’importazione, l’esportazione, la distribuzione all’ingrosso e il mantenimento di scorte delle piante e materiale vegetale a base di Cannabis, ad eccezione delle giacenze in possesso dei fabbricanti di medicinali autorizzati; d) provvede alla determinazione delle quote di fabbricazione di sostanza attiva di origine vegetale a base di Cannabis sulla base delle richieste delle Regioni e delle Province autonome; b) individua le aree da destinare alla coltivazione di piante di Cannabis per la produzione delle relative sostanze e preparazioni di origine vegetale e la superficie dei terreni su cui la coltivazione è consentita; c) importa, esporta e distribuisce sul territorio nazionale, ovvero autorizza l’importazione, l’esportazione, la distribuzione all’ingrosso e il mantenimento di scorte delle piante e materiale vegetale a base di Cannabis, ad eccezione delle giacenze in possesso dei fabbricanti di medicinali autorizzati; d) provvede alla determinazione delle quote di fabbricazione di sostanza attiva di origine vegetale a base di cannabis sulla base delle richieste delle Regioni e delle Province autonome […]” Art. 1 decreto 9 novembre 2015 del Ministero della salute.
[13] D. L. 16 ottobre 2017, n. 148, conv. in Legge 4 dicembre 2017, n. 172, recante disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili, Titolo III, Fondi ed ulteriori misure per esigenze indifferibili. Produzione e trasformazione di cannabis per uso medico (art. 18 quater).
[14] A copertura del fabbisogno nazionale, in data 30 marzo 2012, l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) e l’Agenzia delle industrie difesa sottoscrivevano un accordo con il quale lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze (SCFM) veniva individuato come sito di produzione di medicinali carenti sul mercato nazionale o europeo. Il 18 settembre 2014 il Ministero della salute e il Ministero della difesa sottoscrivevano, poi, un accordo per l’avvio di un Progetto Pilota per la produzione nazionale di sostanze e preparazioni di origine vegetale a base di cannabis presso lo stabilimento fiorentino.
[15] Sulla programmazione si veda per tutti: M. Carabba, voce Programmazione, in Dig. disc. pubbl., vol. XII, Torino, 1990, 35 ss.; ID, Programmazione economica, in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1113 ss.; M. Luciani, Economia nel diritto costituzionale, in Dig. disc. pubbl., vol. V, Torino, 382. Si veda inoltre A. Predieri, Pianificazione e costituzione, Milano, 1963.
[16] Art. 18 quater D. L. 16 ottobre 2017, n. 148.
[17] Art. 3 Decreto 9 novembre 2015 del Ministero della salute.
[19] L’art. 18 quater, co. 1. L’art. 18 quater rubricato produzione e trasformazione di cannabis per uso medico del D. L. 16 ottobre 2017, n. 148 recante disposizioni urgenti in materia di finanza e per esigenze indifferibili contiene una disposizione normativa analoga a quella dell’art. 6 del d.d.l. richiamato.
[20] Art. 18 quater, comma 3.
[21] T.A.R. Lazio, Roma, 3 marzo 2017, n. 3074.
[22] D. P. R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 27 (autorizzazioni alla coltivazione).
[23] “Il decreto in questione in realtà non si limita ad attribuire al solo Stabilimento farmaceutico militare la competenza alla produzione di sostanze a base di cannabis, atteso che esso si affianca ad altri soggetti che siano autorizzati ai sensi dell’art. 27 del Testo Unico di cui al D. P. R. n. 309 del 1990 a coltivare tale pianta per uso medico, i quali, se in possesso dell’autorizzazione, possono altresì procedere alla raccolta e alla detenzione, e che nello specifico, come precisato dall’art. 1 del decreto «consegnano il materiale vegetale a base di cannabis nei tempi e nei modi definiti nel provvedimento di autorizzazione alla coltivazione all’Ufficio centrale stupefacenti, che provvede alla destinazione del materiale stesso alle officine farmaceutiche autorizzate per la successiva trasformazione in sostanza attiva o preparazione vegetale, entro 4 mesi dalla raccolta”, (T.A.R. Lazio, Roma, 3 marzo 2017, n. 3074).
[24] Art. 1 decreto 9 novembre 2015 del Ministero della salute.
[25] Art. 18 quater, co. 1 D. L. 16 ottobre 2017, n. 148.
[26] Art. 18-quater d.l. 16 ottobre 2017, n. 148.
[27] Art. 18 quater, co. 1 D. L. 16 ottobre 2017, n. 148. Alle finalità di promozione della ricerca il legislatore aveva dedicato una disposizione nel d.d.l. richiamato.
[28] Sulla ricerca scientifica, senza pretesa di esaustività, per tutti: F. Merusi, Art. 9., in Comm. Cost., a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1975, 445 ss.; F. Merloni, voce Ricerca scientifica (organizzazione ministeriale), in Enc. dir [agg. 2001], specie dove osserva che “le soluzioni organizzative possono essere ricostruite nel senso del progressivo spostamento delle funzioni di programmazione e coordinamento in capo a soggetti con forte ruolo di indirizzo politico, mente le funzioni «operative» (legate allo svolgimento diretto delle attività di ricerca) sono affidate a soggetti pubblici, università e enti di ricerca dotati di autonomia nei confronti dell’indirizzo politico e caratterizzati, più o meno ampiamente, dal principio dell’autogoverno delle comunità scientifiche che vi operano”; ID, Autonomie e libertà della ricerca scientifica, Milano, 1990.
[29] L’art. 9 d.d.l. recante disposizioni concernenti la coltivazione e la somministrazione della cannabis a uso medico, prevedeva che “allo stesso fine possono essere promossi studi di tecnica farmaceutica presso le università e studi di genetica delle varietà vegetali di cannabis presso gli istituti di ricerca. Con decreto del Ministro della salute, sentito il Consiglio superiore di sanità, sono definiti ulteriori impieghi della cannabis a uso medico, sulla base delle evidenze scientifiche”.
[30]U. Pototschnig, L’Università come società, in Rivista giuridica della scuola, 1976, 819, poi in Scritti scelti, Padova, 1999; U. Pototschnig,, L’autonomia universitaria: strutture di governo e di autogoverno, in Giur. cost., 1988, II, c. 2305 ss.; F. Merloni, L’autonomia delle Università e degli enti di ricerca (articoli 6-9), in F. Merloni (a cura di), Il Ministero e l'autonomia delle Università, Bologna, 1989, 81.
[31] ”La cooperazione amministrativa – sia come cooperazione verticale tra livello sovranazionale e livello statale, sia orizzontale, tra amministrazioni nazionali – costituisce una nuova competenza dell’Unione Europea che non esclude la responsabilità degli Stati Membri, ma che si configura come politica interna”, R. Cavallo Perin, G. M. Racca, voce Cooperazione amministrativa europea, in Dig. Disc. Pubbl., 2017, 193.
[32]G. Ajani, R. Cavallo Perin, B. Gagliardi, L’Università: un’amministrazione pubblica particolare, in Federalismi.it, p. 8.
Per noi anche questo è importante
E’ stato annunciato un nuovo decreto legge in materia di “ordine e sicurezza pubblica”. Il testo, che ha iniziato a circolare ancor prima dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, ha un chiaro sapore elettorale. Ancor una volta non sono note le ragioni di urgenza che potrebbero legittimare la procedura, ma quel che è più grave è che con la sua introduzione si compirebbero scelte strumentali, palesemente incostituzionali e gravemente lesive di diritti fondamentali.
Già con i “pacchetti sicurezza” degli anni 2008/2009 della maggioranza Popolo della Libertà – Lega, l’Italia sembrò aver cambiato pelle: il tema della sicurezza, calato sulla paura e insofferenza della gente, era diventato la priorità del nuovo governo, favorendo, come oggi, l’estendersi di sentimenti di odio ed intolleranza. “Famiglia Cristiana”, in uno storico editoriale del 15 febbraio 2009, denunciò il clima che si diffondeva nel Paese, definendolo “soffio ringhioso di una politica miope e xenofoba”.
Ma oggi, se possibile, con quest’altro “decreto spazza-diritti”, si profila qualcosa di peggio: si insiste sulla declamata politica dei “porti chiusi” (in sé impraticabile se non in presenza di gravi e specifici rischi per la sicurezza e l’ordine pubblico dello Stato di approdo) e, in base al concetto di “soccorso illegale” (una definizione illogica e lessicalmente contraddittoria, che avrebbe senso giuridico solo in caso di provato accordo criminale tra le ONG ed i trafficanti di migranti), si arriva a prevedere assurde sanzioni pecuniarie al solo scopo di paralizzare l’azione di soccorso dei migranti che coraggiosamente continuano a svolgere le poche organizzazioni non governative ancora in grado di operare in un Mediterraneo sempre più plumbeo.
Si ignora, in tal modo, che proprio sulla base di precisi obblighi internazionali (oltre che di doveri etico-sociali), quelle navi cercano lodevolmente di soccorrere coloro che rischiano la propria vita per sfuggire a guerre e a disperanti condizioni di vita.
Ci troviamo di fronte, invece, ad un progetto di norma che sembra prevedere un divieto di salvataggio con conseguente accettazione del rischio di un maggior numero di morti per annegamento: forse l’anticamera per analoghe sanzioni a carico di chi ospita o sfama i disperati stranieri anche sulla terraferma?
Viene attribuita alle Procure distrettuali la competenza per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: una scelta irragionevole che accentua la centralizzazione del pubblico ministero e sembra scommettere su una sorta di maggiore prevedibilità di decisioni conformi allo spirito di tempi così bui.
Limitando le competenze del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti alle sole finalità di sicurezza della navigazione e di protezione dell’ambiente marino si realizza un’anomala concentrazione di poteri in capo al Ministro dell’Interno (cui viene attribuita la competenza a limitare o vietare il transito e/o la sosta nel mare territoriale qualora sussistano ragioni di ordine e sicurezza pubblica), turbando gravemente i delicati equilibri istituzionali che presidiano le competenze statuali in materia di difesa e sicurezza.
Nella stessa scia, si pone la scelta di commissariare il Ministero della Giustizia, prevedendo la istituzione di un Commissario straordinario nominato su proposta del Ministro dell’Interno per gestire l'assunzione a termine di 800 persone destinate alla notifica delle migliaia di sentenze oggi ineseguite per la nota carenza di personale amministrativo, in particolare nelle Corti di Appello. Un problema reale, ma sfruttato politicamente per alimentare paure e soffiare sul fuoco dell’insicurezza collettiva. Per di più violando le prerogative costituzionali del Ministro della Giustizia e sostituendosi ai poteri di organizzazione degli uffici giudiziari spettanti ai loro dirigenti, talvolta dimentichi che prima di invocare nuove risorse, avrebbero il dovere di dimostrare che quelle disponibili sono state utilizzate al meglio.
Non abbiamo alcun bisogno di alterare l'ordinamento giudiziario con simili pericolosissimi vulnus privi di qualsiasi giustificazione
E’ auspicabile che il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro della Giustizia, entrambi
E’ auspicabile che il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro della Giustizia, entrambi avvocati, così come tutti i componenti del Governo, sappiano respingere questa ennesima deriva populista che si presta a plurime censure di incostituzionalità, privilegiando il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, la divisione dei poteri ed il riparto di competenze nell’ambito dell’Esecutivo.
(dal quotidiano “La Repubblica” del 13.5.2019)
E’ dal 17 aprile del 2011, dalla messa in onda del primo episodio della prima stagione del Trono di Spade (siamo quasi alla fine dell’ottava ed ultima) che assistiamo, pubblico sempre più vasto negli anni, al racconto violento, romantico, fantastico e magico della infinita guerra per la conquista della corona dei Sette Regni e del Trono di Spade.
A contendersi il trono sono oggi due Regine, Cersei Lannister e Daenaerys Targaryen, anche se oramai il Regno del Nord è principale preoccupazione di una terza, Lady Sansa e la tremenda battaglia contro il Re della notte ed i suoi guerrieri zombie è stata conclusa dal colpo letale della adolescente guerriera Lady Arya Stark.
Non è andata sempre così. Ai suoi esordi la storia ruotava attorno a troni e principati saldamente in mano a re e cavalieri, e molte presenze femminili parevano solo un bellissimo contorno; ma poi negli anni, ben otto anni, la trama ha valorizzato quelle ed anche altre figure femminili, estreme ma dominanti; ora si preparano alla resa dei conti finale. Quel mondo in questi anni è cambiato.
Non vado oltre, per quanto sia irresistibile l’attrazione per queste storie e soprattutto per questi personaggi, ma ho voluto iniziare da questo per parlare con un po’ di leggerezza di un argomento, genere e rappresentanza, quote e percentuali, che con il suo prevedibile andamento carsico si è riaffacciato in queste settimane sulla scena dei nostri gruppi associati.
Curiosamente, parliamo di quote di genere, di chance e/o di risultato ogni volta che ci avviciniamo a qualche appuntamento elettorale e non c’è dubbio che chi ha portato avanti per anni questi temi all’interno della magistratura associata debba rivendicare con orgoglio gli effetti positivi che l’inserimento delle quote di genere nello statuto dell’A.N.M. e di alcuni dei gruppi ha prodotto proprio in occasione della scelta delle nuove rappresentanze.
Basta questo per dirci soddisfatti? E’ questa l’unica strada da proseguire e percorrere in questi tempi? Siamo in grado di adattare la trama della nostra presenza maschile/femminile nelle sedi della rappresentanza associata a come è diventata la magistratura oggi?
E’ scontato che io non sia qui a dare risposte, anzi sono la prima a farmi molte domande quando mi rendo conto, con qualche preoccupazione, che il modo ed i tempi con i quali noi magistrate riusciamo ad intervenire nelle realtà associative, in ANM e nei gruppi che la compongono, non sembrano risentire positivamente del rovesciamento di percentuali di presenza femminile in magistratura[1] e non sembrano, diversamente da quanto accade nelle storie di fantasy, recepire e valorizzare un cambiamento che da ben più di soli otto anni caratterizza la nostra realtà lavorativa.
La composizione della magistratura, oggi, vede una base costituita, nelle prime fasce di anzianità, da prevalente presenza femminile. L’età media delle donne magistrato, entrate in numero sempre maggiore negli ultimi anni, è più bassa di quella degli uomini.
Eppure nel dibattito che in pochi giorni si è acceso su alcune mailing list e che vedeva rifiorire l’interesse al rispetto di quote di genere e rappresentanza abbiamo registrato gli interventi di magistrati, uomini e donne, che anche nel contrapporsi delle idee avevano un preciso tratto comune: una certa anzianità, di ruolo ed anagrafica.
Abbiamo rivolto, negli anni passati, grande impegno e sforzo innovativo per raggiungere il risultato di cui ancora adesso discutiamo, lamentando ancora effetti insoddisfacenti, ma possiamo dire, come singoli e come gruppi, d’aver messo la stessa volontà e una reale capacità d’ideazione per superare gli ostacoli che oggi come anni fa rendono più accidentato, rispetto ai loro coetanei, l’accesso delle giovani magistrate, seppur ormai maggioranza, ai luoghi ed alle esperienze che formano un percorso di crescita in un gruppo associato?
Se scrivo queste righe è perché sono convinta che sia il momento di pensare laicamente alle quote di genere così come inserite nello statuto dell'ANM e dei nostri gruppi[2] come ad un traguardo acquisito che ci consente di rivolgere ora la nostra piena attenzione ad altri più sostanziosi argomenti anticipando, se possibile, una evoluzione della magistratura che già è in atto ma che, ora più che mai, ha bisogno di trovare nuovi motivi di coesione piuttosto che di contrasto.
Potremmo, in primo luogo, superare il pregiudizio di chi tuttora vede nelle quote di genere una sorta di compensazione per tutte quelle volte che, per fare altro, abbiamo lasciato un po’ prima della fine un convegno, abbiamo rinunciato ad una bella iniziativa fuori sede e ci siamo fatte da parte. Dovremmo superare l’idea che con i numeri e la percentuale di candidate ed elette si esaurisca il tema della rappresentanza a prescindere da specifici contenuti e scopi, conoscenze e ruoli, realistica valutazione delle esigenze della comunità che rappresentiamo.
Potremmo occuparci, ad esempio, delle ragioni per le quali per molte donne, fin dai primi anni di lavoro, è così difficile farsi avanti, autopromuoversi ma anche aiutarsi e creare legami costruttivi in un contesto associativo e quindi chiederci se gli argomenti che trattiamo o il modo in cui amministriamo i nostri uffici possano essere strumenti per facilitare una migliore partecipazione di tutti.
Potremmo poi concentrarci maggiormente su proposte e temi sui quali una nuova base della magistratura sia spinta a dare il proprio contributo ideale e di impegno con un sostanziale superamento delle contrapposizioni di genere ed una reale condivisione delle scelte più efficaci in relazione al risultato da raggiungere. Anche a Westeros alleanze e primi cavalieri cambiano secondo la necessità, del resto..
Potremmo cominciare a pensarci e confrontarci davvero come uguali.
[1] Di facile consultazione, anche se non aggiornatissimi, alcuni documenti nella sezione Comitato Pari opportunità in magistratura sulla pagina web del CSM al link che segue:
[2] In realtà non ne ho trovato traccia nello statuto di Magistratura Indipendente e nell’atto costitutivo di Autonomia ed Indipendenza mentre nello statuto di UNICOST si trova – art.8 – l’impegno del Comitato di Coordinamento a designare almeno il 40% per genere quanto a candidature al CDC e promuovere candidature di entrambi i generi al CSM
di Andrea Apollonio
Caro Giuseppe,
Mi suscita una velata inquietudine sapere che da oggi non sei più parte del nostro mondo. Una sensazione strana e del tutto inspiegabile, perché non ti ho mai conosciuto. Non c'è stata occasione di incontrarti, e d'altronde non poteva esserci: faccio il tuo stesso lavoro - il pubblico ministero - da un mese appena, nella piccola (ma non lontana dalla tua Palermo) procura di Patti - e, per inciso: in Sicilia ci sono venuto con le mie gambe, non a causa di contingenze legate a punteggi e graduatorie. E' un giovane pm a scriverti, l'avrai capito, che ha scelto questa funzione perché ci ha visto dentro un portato idealistico, nonostante tutto; nonostante i tempi che corrono.
Non ci siamo mai incontrati ma, entrato in magistratura, m'è parso di conoscerti fin dall'inizio (della tua lunga e della mia micrometrica carriera). Perchè è da quando guidi la procura di Roma - correva l'anno 2012, ed io neanche immaginavo di diventare magistrato - che seguo con interesse e curiosità, dalla semplice lettura delle notizie di giornale, l'evoluzione delle "politiche" giudiziarie di quell'ufficio: centralissimo, che pure nel corso degli anni, o dei decenni precedenti, si era conquistato la triste fama di "porto delle nebbie", perché nulla si muoveva, le inchieste non andavano avanti, come se la politica - la vera regina di Roma, da sempre - avesse chiesto e ottenuto di non essere disturbata: non disturbare il manovratore, recitava il cartello affisso sui tram.
Se la percezione collettiva dell'ufficio requirente capitolino è radicalmente mutata, il merito è tuo, e della squadra che hai saputo guidare col tuo tipico fare felpato e netto al contempo.
Ti dobbiamo - noi cittadini - l'avere messo a nudo sistemi corruttivi di proporzioni inimmaginabili, che prolificavano indisturbati sotto i nostri occhi, radicati nella Capitale con l'intento di inquinare le basi stesse della vita economica e produttiva del Paese. Ti dobbiamo - noi italiani - l'avere rappresentato lo Stato (questo è accaduto, nella sostanza) con credibilità e autorevolezza nei due momenti in cui la nostra coscienza nazionale ha pericolosamente vacillato: e mi riferisco al caso Regeni e, più di recente, al caso Cucchi, momenti in cui il Paese era stranamente unito perché chiedeva, unanimemente, che si facesse giustizia. Al di là di quello che si è potuto fare, e che si farà, ci hai messo la faccia, trasmettendo l'idea che lo Stato fosse, comunque, dalla parte giusta. Ti dobbiamo - noi giuristi - un nuovo modo di concepire i fenomeni mafiosi, che prescinde dall'intimidazione violenta per edulcorarsi, trasformarsi in un amalgama relazionale che, al Paese, può nuocere più dei morti ammazzati per strada. Le indagini contro Carminati e la sua banda hanno contribuito a lanciare un messaggio fortissimo e dirompente alla comunità giuridica, alla quale adesso si chiede di non trincerarsi più dietro i vecchi schemi interpretativi (talvota assurti a veri e propri alibi), ma di verificare quale effetto produca, in termini di diffusività e profondità, ed in concreto, il fenomeno delinquenziale da colpire con le indagini, i processi, le sentenze. Un messaggio che per questa via, un pò attutito e semplificato, è arrivato al comune cittadino, il quale oggi sa bene, ed era tempo che lo sapesse, che il metodo mafioso può annidarsi anche nelle mazzette; e ciò forse aiuta il lento percorso di moralizzazione della vita pubblica intrapreso - dalla politica, seguita dagli altri ceti dirigenti - da qualche anno a questa parte.
"Moralizzazione" è un termine che tu, probabilmente, disdegneresti, anche perché evoca altre epoche, per certi aspetti non edificanti, della nostra vita pubblica. Ma lasciamelo dire: i risultati che la tua squadra - tu, i tuoi aggiunti, i tuoi sostituti - ha conseguito in questi sette anni sono, sotto l'aspetto sistemico, paragonabili soltanto a quelli della procura di Milano dei tempi di Tangentopoli, con una sostanziale differenza: il tuo stile moderato e, diremmo nell'accezione migliore, democristiano ha prodotto effetti ben più incisivi e duraturi di quelli raggiunti con i toni accesi, i gesti plateali nei corridoi a favore delle telecamere, gli scontri frontali con il legislatore. Tanto che oggi i modelli investigativi coniati da Tangentopoli, problematici sotto l'aspetto delle garanzie degli indagati, sono considerati recessivi, anche perché ampiamente superati - in primo luogo, da interventi legislativi ad hoc, che non mi sento di definire sbagliati - mentre, sono sicuro, tra dieci o venti anni continueremo a indagare e a ragionare sulla scorta dell'inchiesta "apripista": Mafia Capitale, appunto, ma è solo un esempio tra i tanti.
Scrivendoti di getto, mi rendo conto di aver consumato lo spazio di questa lettera richiamando soltanto i tuoi ultimi anni, senza neppure citare i decenni di impegno - legati a sacrifici personali incalcolabili - trascorsi tra Palermo e Reggio Calabria; ma del resto, neanche tu, che conosci la tua storia meglio di chiunque altro, hai saputo trarre un bilancio analitico, se a precisa domanda di Giovanni Bianconi, nell'intervista dell'altro ieri sul Corriere della Sera, hai piuttosto voluto chiudere così: "E voglio sottolineare che risultati importanti sono per un pm non solo arresti e condanne, ma anche assoluzioni e archiviazioni, anche se proprio queste a volte sono oggetto di critiche violente quanto infondate".
E' una frase lapidaria perchè controcorrente, che certifica la statura del magistrato, reclinandola nel verso più corretto, quello garantista. Credo che noi, (tuoi) giovani colleghi, ed in particolare noi, giovani pm, dovremmo raccogliere dalla tua esperienza sopratutto questo tuo modo ponderato di fare e di pensare, che guarda ai fenomeni criminali come qualcosa da analizzare nel loro insieme per colpirli più efficacemente, che guarda al pubblico ministero come portatore di un interesse collettivo ineludibile, con funzioni talvolta rappresentative del comune sentire; che guarda all'indagato come soggetto da accusare e da tutelare allo stesso tempo.
Non posso che tramutare la velata inquietudine con la quale oggi so che ti congedi dal mondo in cui sono appena entrato in un rinnovato impegno; rendendo omaggio alla tua storia, e a quella della magistratura italiana migliore, passata e presente, semplicemente con il mio incondizionato impegno, nei palazzi di giustizia e fuori.
Le questioni di fine vita, specie grazie al caso che ha visto protagonista Marco Cappato a seguito della morte di Fabiano Antoniani, sono ritornate prepotentemente sotto i riflettori del dibattito giuridico e politico, amplificando l’eco, già particolarmente significativa, della legge n. 219 del 2017.
Il fatto che il quadro normativo attuale risulti almeno parzialmente contraddittorio, come efficacemente evidenziato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 207 del 2018, è un dato che parrebbe imporsi con una tale autoevidenza da non lasciare spazio a considerazioni ulteriori, almeno per ciò che attiene alle premesse da cui muovere per un superamento di quelle aporie. La c.d. eutanasia, però, non solo appassiona i giuristi, ma, soprattutto, li divide. Risulta indubbiamente difficile stabilire da che parte possa stare la Giustizia, ma resta possibile, forse, provare a chiarire da che parte debba stare il Diritto.
Sommario: 1. Che i riflettori restino accesi, anche quando rischiano di accecare. – 2. L’impianto motivazionale dell’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale. – 3. Soluzioni ipotizzabili: a) l’intervento della Corte costituzionale. – 3.1. b) l’intervento del legislatore. – 3.2. c) la valorizzazione di una logica del “caso per caso”.
1.Che i riflettori restino accesi, anche quando rischiano di accecare
Le questioni di fine vita sembrano destinate a salire sul palcoscenico del dibattito politico e giuridico solo in rare occasioni, le quali però, in ragione della potenza narrativa delle storie che raccontano, catalizzano l’attenzione dello spettatore in maniera pressoché inevitabile: commuovono, indignano, disorientano e, soprattutto, dividono.
Inutile precisare che le vicende umane e giudiziarie, classificate, secondo le cadenze dell’algido vocabolario di cui i giuristi sono avvezzi a nutrirsi, come i “casi” di Piergiorgio Welby, Fabiano Antoniani, Eluana Englaro, Walter Piludu, Giovanni Nuvoli, Oriana Cazzanello (si è portati, curiosamente, a indicare i casi in questione non con il nome degli imputati ma con quello delle “vittime”), rappresentano solo la punta dell’iceberg di un fenomeno eterogeneo e complesso.
Al contenzioso quantitativamente poco significativo generato dalle “pratiche “eutanasiche, del resto, fa da contraltare la sconcertante ordinarietà con cui le questioni di fine vita si (im)pongono nelle corsie d’ospedale, nel silenzio delle case che ospitano e qualche volta nascondono i pazienti e le loro famiglie, in certe strutture di ricovero per malati terminali che rischiano di somigliare più a un lazzaretto disperato e disperante che a un protettivo rifugio in cui, ostinatamente, si “scelga” di continuare a “vivere”. Il sistema sanitario nazionale, inutile negarlo, non sempre risponde in maniera adeguata alla supplicante richiesta di chi le cure non intende rifiutarle ma ottenerle, pur a fronte di sofferenze atroci che consumano il corpo e lo spirito. Se la questione fosse osservata attraverso una lente un po’ meno appannata da riflessi filosofico-giuridici, susciterebbero forse un sorriso amaro le raffinate e appassionate discussioni attorno a un preteso paternalismo, non importa se hard o soft, praticato da uno Stato al quale sta a cuore che il singolo “per il suo bene, non si faccia del male”, ma i cui cittadini, che magari di Feinberg o Dworkin sanno poco o nulla, hanno spesso l’impressione che la tutela della propria salute assuma la consistenza di un mero “diritto di carta”, almeno per chi non disponga di risorse economiche che consentano di aggirare le liste di attesa, di accedere alle strutture più all’avanguardia, di ottenere un’assistenza dignitosa in presenza di malattie che mettono a dura prova anche la dignità più volenterosa[1].
Ben venga, allora, da qualunque precomprensione ideologica si muova, un dibattito partecipato sui temi compendiati sotto la discussa etichetta della “eutanasia”. Ben venga, allora, il coraggio di chi ritiene che la sofferenza di una scelta in apparenza “controintuitiva”, come quella di darsi o farsi dare la morte, non sia solo un fatto privato, ma una questione pubblica. Ben venga, allora, il tentativo di comprendere non solo (e non tanto) da che parte possa stare la Giustizia, ma (almeno) da che parte debba stare il Diritto.
Il caso che ha visto protagonisti Fabiano Antoniani e Marco Cappato ha riacceso in maniera prepotente, quasi accecante, i riflettori sulle questioni di fine vita. Meno nota, almeno mediaticamente, è la vicenda di Davide Trentini, per il cui suicidio assistito in Svizzera sono attualmente imputati lo stesso Marco Cappato e Mina Welby: il copione, sia pur con le inevitabili peculiarità che caratterizzano ogni singola vicenda, continua dunque a ripetersi. In occasione del caso di Marco Cappato e di Dj Fabo, tuttavia, è salita sul palco anche la Corte costituzionale: l’ordinanza n. 207 del 2018 non ha pronunciato l’ultima battuta, ma ha indubbiamente introdotto un colpo di scena che, allo stato, lascia aperto più di un possibile finale.
2.L’impianto motivazionale dell’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale
La Corte d’assise di Milano, con ordinanza del 14 febbraio 2018[2], ha sollevato questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 580 c.p. sotto un duplice profilo. Anzitutto, si è ravvisato un aspetto incostituzionalità nel fatto che l’art. 580 c.p. attribuisca rilevanza penale anche a forme di aiuto meramente materiale al suicidio, le quali quindi, rivolgendosi a un soggetto volontariamente e liberamente determinatosi a porre fine alla propria vita, non abbiano inciso in alcun modo sul suo proposito[3]. In via subordinata (come chiarito dalla Corte costituzionale[4]), si lamentava una sproporzione del trattamento sanzionatorio, visto che l’art. 580 c.p. prevede la stessa (severa) pena tanto per l’aiuto morale quanto per quello materiale.
Con l’ordinanza n. 207 del 2018, come ampiamente noto, la Corte costituzionale ha optato per una soluzione prima facie insolita, almeno sul piano strettamente procedurale: pur ravvisando alcune criticità nell’attuale disciplina dell’aiuto al suicidio e pur ritenendo che lo strumento più adatto ad emendarle sia la penna del legislatore, il Giudice delle Leggi ha preferito non ricorrere al consueto e collaudato strumento della sentenza monito, ma, «facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale», ha disposto il rinvio del giudizio al 24 settembre 2019. L’obiettivo dichiarato è quello di consentire un intervento del legislatore che adegui la risposta dell’ordinamento e rimedi alla “disparità di trattamento” che si determinerebbe nei confronti di soggetti in condizioni analoghe a quelle di Fabiano Antoniani.
L’impianto motivazionale dell’ordinanza n. 207 del 2018 può essere idealmente scomposto in due parti, dalla cui lettura congiunta si ricava un tentativo di delimitazione del “campo di indagine” che, a sua volta, sembra rispondere a una doppia finalità. Da una parte, si edificano degli argini robusti, per impedire che il piano su cui è adagiato (in equilibrio precario) l’aiuto al suicidio si inclini troppo, fino a trasformarsi nel famigerato e temibile pendio scivoloso e ingovernabile; dall’altra parte, la Corte si è assunta la responsabilità di non abbassare gli occhi[5], mettendo in evidenza le più plateali incongruenze che emergono dall’attuale quadro normativo.
Quanto al primo aspetto, la Corte afferma, in maniera apparentemente perentoria, che «l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione»[6]. La scelta, dunque, è quella di “salvare” l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, generalmente e genericamente inteso, e senza che a venire in considerazione siano le specifiche questioni poste dai soggetti affetti da malattie irreversibili. Tralasciando il dettaglio delle singole argomentazioni addotte sul versante tanto dell’art. 2 Cost. quanto degli artt. 2 e 8 CEDU, pare interessante sottolineare il mancato accoglimento del cambio di paradigma relativo al bene giuridico tutelato, pure proposto con forza dal giudice a quo: secondo la tesi di quest’ultimo, in effetti, il bene giuridico sotteso all’art. 580 c.p. andrebbe individuato non più nella vita, come nelle logiche stataliste e statolatriche del codice Rocco, ma nella libertà di autodeterminazione del singolo, con la conseguente necessità di non considerare penalmente rilevanti condotte di aiuto rivolte a un soggetto liberamente e autonomamente determinatosi al suicidio. La Corte costituzionale, viceversa, continua ad assumere quale punto di riferimento l’esigenza di tutelare il bene della vita[7], enfatizzando la condizione di particolare vulnerabilità in cui versano (rectius, potrebbero versare) i soggetti che si orientano a favore di una scelta estrema e irreparabile: spesso, infatti, si tratta di persone «malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine»[8].
La prospettiva in questione risulta indubbiamente significativa, se non altro perché da uno spostamento del fuoco di tutela dalla vita alla libertà individuale sarebbero potute derivare conseguenze di rilievo anche in riferimento alla tenuta della fattispecie di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), in cui, per definizione, il soggetto passivo presta un consenso libero e consapevole[9].
Nella seconda parte dell’ordinanza n. 207 del 2018, la Corte ha cura di sottolineare la peculiarità di quelle ipotesi, assimilabili al caso di Fabiano Antoniani, «in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Al verificarsi di queste condizioni, osserva la Consulta, l’assistenza da parte di terzi potrebbe rappresentare «l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.»[10].
La legge n. 219 del 2017, stabilizzando e precisando gli esiti giurisprudenziali che hanno definito tanto il caso di Piergiorgio Welby quanto quello di Eluana Englaro, ha esplicitamente riconosciuto a ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o di interrompere qualsiasi trattamento sanitario, anche se necessario alla propria sopravvivenza. Il punto è che Fabiano Antoniani, pur bisognoso del respiratore artificiale, non ne era completamente dipendente, con la conseguenza per cui il distacco dello stesso avrebbe comportato la morte del paziente solo dopo alcuni giorni: proprio per questa ragione Dj Fabo aveva infine optato per una pratica di suicidio assistito in Svizzera. Trattando questa fattispecie concreta in maniera differente da quella, per intendersi, riassunta dal caso Welby, si verrebbe a determinare una vera e propria disparità tra il soggetto per cui l’unica via praticabile sia quella dell’interruzione “tout court” di un trattamento in atto e il soggetto per il quale questa via, pur materialmente percorribile, cagionerebbe sofferenze chiaramente più atroci di quelle che conseguirebbero all’intervento di un soggetto terzo che lo “aiuti a morire”.
A nulla varrebbe opporre, in questo caso, l’argomento della particolare vulnerabilità di soggetti che si trovino in una condizione come quella di Fabiano Antoniani, poiché «se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione»[11]. Se, altrimenti detto, il consenso informato “funziona” nelle situazioni prese in considerazione dalla legge n. 219 del 2017, dovrebbe poter operare anche in vicende che differiscono da quelle disciplinate dal legislatore solo per un contingente profilo di carattere naturalistico-causale.
Come già precisato, tuttavia, la Corte ritiene che una pronuncia di accoglimento della questione, pur significativamente “ritagliata” rispetto a quella sollevata dai giudici milanesi, lascerebbe aperti profili di criticità evitabili solo con un intervento del Parlamento, il quale, sempre ad avviso della Consulta, potrebbe concretizzarsi in una modifica della legge n. 219 del 2017. Tra le preoccupazioni più significative che emergono dall’ordinanza n. 207 del 2018 si segnalano: a) il rischio che «qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – possa lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino»; b) le lacune che verrebbero a determinarsi in riferimento alle «modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura»; c) il rischio di una prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010[12].
Per queste ragioni, ricalcando le orme della Corte Suprema canadese e della Corte Suprema inglese, la Corte “mette in mora” il legislatore, nella speranza che il dialogo con il Parlamento, sia pur forzosamente avviato, si traduca nel superamento di una disciplina (quanto meno) anacronistica e (certamente) inadeguata.
3.Soluzioni ipotizzabili: a) l’intervento della Corte costituzionale
Anche muovendo da una delimitazione della questione di legittimità costituzionale rispetto alla fisionomia che la stessa assumeva nell’ordinanza di rimessione, restava pur sempre ipotizzabile un intervento “immediato” della Corte, attraverso una sentenza interpretativa. Lo sviluppo logico-argomentativo seguito dal Giudice delle Leggi, per esempio, avrebbe potuto condurre a dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p. nella parte in cui rende penalmente rilevante l’aiuto meramente materiale fornito a chi, ancora capace di autodeterminarsi, versi in una condizione che gli consentirebbe di richiedere l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua, alle condizioni previste dalla legge n. 219 del 2017.
Non è impresa agevole quella di ipotizzare lo scenario che potrebbe determinarsi qualora il legislatore resti inerte o intervenga in maniera inadeguata. L’ordinanza in questione è stata etichettata fin da subito come una “pronuncia a incostituzionalità differita”: si è affermato, in proposito, che il 24 settembre 2019 la Corte non potrebbe certo tornare sui propri passi, convertendo il sostanziale accoglimento di oggi in un futuro rigetto[13]. La lettura della motivazione non lascerebbe dubbi sul fatto che la disposizione impugnata sia ritenuta illegittima, sebbene a seguito di una drastica delimitazione della questione rispetto a quella sollevata dalla Corte di appello di Milano[14]. La scelta di non dichiarare l’incostituzionalità non obbliga certo la Corte a pronunciarla il prossimo settembre, ma un esito che, qualora la situazione restasse invariata, fosse diverso dalla dichiarazione di parziale illegittimità «infliggerebbe al prestigio della Corte un colpo esiziale»[15].
Le conclusioni dell’ordinanza n. 207 del 2018, in effetti, non sembrerebbero ammettere ripensamenti: «laddove, come nella specie, la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolga l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere, questa Corte reputa doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale».
Anziché avventurarsi in temerari propositi, sembra però più saggia la via della prudente (e fiduciosa) attesa.
3.1 b) l’intervento del legislatore
La via più agevole per il legislatore che intendesse raccogliere il “monito rafforzato” della Corte costituzionale sarebbe forse quella di intervenire non tanto sulla formulazione dell’art. 580 c.p., quanto piuttosto sull’impianto della legge n. 219 del 2017. Se il Parlamento si limitasse a recepire le indicazioni “minime” suggerite dalla Corte, si tratterebbe di “estendere” la disciplina attuale a coloro che, pur tenuti in vita attraverso tecniche di sostegno artificiale, non ne siano del tutto dipendenti. Questi soggetti, e solo loro, dovrebbero poter optare per tecniche di suicidio assistito, previa acquisizione del consenso nelle forme già previste dalla legge. Resterebbe pur sempre aperta la questione relativa ai soggetti “non punibili”, rendendosi necessario chiarire, in particolare, se si tratti solo dei medici o paramedici, o anche di soggetti “non qualificati”.
Qualora, invece, il legislatore intendesse “andare oltre” le indicazioni offerte dal Giudice delle Leggi, si tratterebbe di introdurre una disciplina organica in materia di suicidio assistito, il cui vero punctum pruriens sarebbe la previsione normativa di meccanismi e procedure capaci di assicurare un effettivo accertamento della “reale volontà” del paziente[16].
Resta infine la possibilità di intervenire direttamente sugli articoli 579 e 580 c.p., ritagliando uno spazio di irrilevanza penale alle pratiche di eutanasia che, vista la presenza nell’ordinamento della legge n. 219 del 2017, con quest’ultima dovrebbe necessariamente coordinarsi.
La strada intrapresa dal Legislatore è proprio quella di limitare l’ambito applicativo delle fattispecie previste dal codice penale, sia pur attraverso un intervento extra codicem: il riferimento, in particolare, è alla proposta di legge di iniziativa popolare presentata il 13 settembre 2013 (XVII legislatura, AC n. 1582), assegnata il 26 giugno 2018 alla Commissioni Giustizia e Affari sociali. Le disposizioni più significative sono quelle contenute nell’art. 3 della proposta di legge, il quale prevede che le disposizioni di cui agli articoli 575, 579, 580 e 593 c.p. non si applicano al medico e al personale paramedico che hanno praticato trattamenti eutanasici, provocando la morte del paziente, al ricorrere di una serie di condizioni. La richiesta deve infatti provenire da un paziente maggiorenne e non in stato di incapacità di intendere e di volere, salvo quanto previsto dal successivo art. 4; il paziente deve essere stato adeguatamente informato sulle possibili alternative terapeutiche; devono essere altresì informati i parenti entro il secondo grado e il coniuge i quali, previo consenso del paziente, devono essere messi nella condizione di colloquiare con lo stesso; la richiesta – si tratta della condizione indubbiamente centrale – deve essere motivata dal fatto che il paziente sia affetto da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi; il trattamento eutanasico deve rispettare la dignità del paziente e non arrecare allo stesso sofferenze fisiche.
Il successivo art. 4 prevede la possibilità di rendere dichiarazioni anticipate di trattamento in riferimento a pratiche di eutanasia, qualora il paziente dovesse trovarsi nelle condizioni descritte in precedenza (malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi) e sia incapace di intendere o di volere ovvero di manifestare la propria volontà, nominando al tempo stesso un fiduciario che, al ricorrere delle condizioni, confermi la richiesta.
Quanto all’estensione della clausola di “irrilevanza penale”, che si traduce in definitiva in una delimitazione della tipicità delle singole fattispecie (lo schema sistematico di riferimento potrebbe essere quello dei limiti della norma penale), qualche precisazione si rende necessaria per la menzione tanto dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) quanto dell’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.). Nella proposta attualmente in discussione il trattamento eutanasico non è oggetto di apposita definizione, mentre in altri disegni di legge si chiarisce che lo stesso si intende limitato alla somministrazione, da parte del personale medico, di farmaci aventi lo scopo di provocare, con il consenso del paziente, la sua morte immediata e indolore[17]. Un eventuale silenzio del legislatore, potrebbe giustificarsi con l’esigenza di rinviare alla competenza del singolo medico chiamato ad effettuare il trattamento, che, di volta in volta, avrebbe il compito individuare il “mezzo tecnico” più adeguato alle condizioni del singolo paziente. Si tratta però di una scelta che potrebbe comportare qualche difficoltà di coordinamento sistematico, anche in ragione della formulazione dell’art. 3, che fa riferimento, come anticipato, ai soggetti che «praticano trattamenti eutanasici, provocando la morte del paziente». Anzitutto l’impiego del verbo “generico” provocare, in luogo del più “tecnico” cagionare, potrebbe teoricamente riferirsi non solo a condotte attive, ma anche a condotte omissive. In secondo luogo, la menzione congiunta degli articoli 579 e 580 c.p. farebbe ritenere che la nuova disciplina potrebbe trovare applicazione tanto in casi come quelli di Dj Fabo (art. 580 c.p.), quanto nelle ipotesi di somministrazione di un farmaco letale (art. 579 c.p.). La lettera della legge, però, ben potrebbe risultare compatibile anche con ipotesi di interruzione di un trattamento in corso, come avvenuto, per intendersi, nel caso di Piergiorgio Welby: considerando che la legge n. 219 del 2017 fa già riferimento al medico che non esegua un trattamento o ne interrompa uno già esistente, sarebbe auspicabile un coordinamento tra i due corpi normativi.
La proposta di legge esclude anche l’applicazione dell’art. 575 c.p.: questa precisazione parrebbe motivata dall’esigenza di evitare che dalla non applicabilità degli artt. 579 e 578 c.p. possa derivare una “riespansione” dell’art. 575 c.p., che risulterebbe in effetti applicabile, sia pur in ipotesi limitate, anche in presenza del consenso della vittima. Considerazioni in parte analoghe potrebbero valere sul piano dell’omissione di soccorso, anche se in questo caso il riferimento all’art. 593 c.p. risulta indubbiamente “più forzato”.
Una questione estremamente problematica è quella che attiene al novero dei soggetti attivi presi in considerazione dalla proposta di legge. L’art. 3 fa infatti riferimento ai soli medici e al personale sanitario che pratichino trattamenti di eutanasia, provocando la morte del paziente. In altre proposte di legge (più recenti) si prendono invece in considerazione, oltre ai sanitari, anche “tutti coloro che agevolino o aiutino il paziente nell’accesso al trattamento eutanasico”[18]. In assenza di quest’ultima precisazione, in effetti, resterebbe applicabile la sanzione penale a casi assimilabili a quello di Marco Cappato e riconducibili, più in generale, all’aiuto meramente materiale (non si fa riferimento anche alle forme di aiuto morale) prestato da soggetti “non qualificati”, a partire da coloro che compongono la cerchia di amici e familiari del paziente. Si tratterebbe di una conseguenza per certi aspetti paradossale, visto che nel momento in cui si rende lecita la pratica eutanasica, per definizione rivolta a soggetti che il più delle volte non risultano del tutto autosufficienti, risulterebbe irragionevole perseverare nell’applicazione della sanzione penale a fronte di condotte “materialmente prodromiche” alla pratica stessa. Il problema, semmai, sarebbe quello di delimitare con sufficiente precisione l’ambito applicativo delle condotte in questione. Se, per esempio, si estendesse l’irrilevanza penale alle condotte prodromiche “all’accesso al trattamento eutanasico”, ferma restando la necessità di chiarire a che cosa il concetto di “trattamento eutanasico” faccia riferimento, potrebbe ritenersi che nelle condotte di “aiuto all’accesso” rientrino anche quelle di chi reperisca informazioni utili sulla procedura da seguire o, ancora, accompagni materialmente il paziente nel luogo prescelto per il trattamento.
Sul piano della definizione dello stato patologico in presenza del quale è possibile richiedere l’accesso all’eutanasia, deve trattarsi di una malattia che provoca gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi. Sembrerebbe che i requisiti in questione non debbano sussistere congiuntamente, come suggerito dall’impiego della disgiuntiva “o”, anche se non è chiaro se la stessa si riferisca solo ai rapporti tra inguaribilità e prognosi infausta: non è chiaro, altrimenti detto, se la malattia debba essere inguaribile o con prognosi infausta, ma comunque grave, oppure se il requisito della gravità possa operare anche da solo. Il concetto di gravità, ad ogni modo, individua un parametro indubbiamente elastico ma, almeno, non rinvia alla mera percezione soggettiva del paziente (in altri disegni di leggi si parla di “sofferenze insostenibili”[19]).
Nella proposta di legge, pare opportuno ribadirlo, si prevede anche la possibilità di rendere dichiarazioni anticipate di trattamento in riferimento all’eutanasia, sia pur alle rigide condizioni individuate dalla legge stessa. In questo modo il requisito dell’attualità risulta “dilatato”, recuperandosi però un pieno parallelismo rispetto alla legge n. 219 del 2017.
Un’ultima considerazione attiene proprio ai rapporti tra la disciplina attuale e quella che, eventualmente, sarà approvata. La scelta di intervenire con un nuovo testo legislativo, come già precisato, potrebbe comportare dei disallineamenti a livello sistematico. La questione si pone non solo per il coordinamento tra le condotte penalmente irrilevanti, ma anche per i profili relativi alla responsabilità del medico, su un duplice livello: il primo è quello relativo alle conseguenze “sfavorevoli” per il medico che non dia seguito alla richiesta dal paziente; il secondo è quello relativo agli effetti “favorevoli” per il medico che agisca nel rispetto delle condizioni richieste dalla legge.
Quanto al primo aspetto, la legge del 2017 non prevede espressamente conseguenze “sfavorevoli” per il medico “inadempiente”, mentre l’art. 2 della proposta di legge attualmente in discussione alla Camera dei Deputati stabilisce che «il personale medico e sanitario che non rispetta la volontà manifestata dai soggetti e nei modi indicati nell’articolo 1 è tenuto, in aggiunta a ogni altra conseguenza penale o civile ravvisabile nei fatti, al risarcimento del danno, morale e materiale, provocato dal suo comportamento».
Ancora più complessa è la questione relativa alla “non punibilità” del medico. La legge n. 219 del 2017, in effetti, si limita a precisare che il medico «è esente da responsabilità civile o penale». Qualora, come avvenuto per la vicenda giudiziaria successiva alla morte di Piergiorgio Welby, in caso di interruzione di un trattamento già in atto si ragionasse nei termini di una condotta attiva, scriminata ex art. 51 c.p., si determinerebbe una situazione paradossalmente meno favorevole rispetto a quella che, a monte, esclude l’applicabilità degli articoli 579 e 580 c.p. “persino e addirittura” nei casi di trattamenti eutanasici.
Indipendentemente dalla soluzione che si ritenga preferibile, dunque, la scelta di un testo legislativo unitario avrebbe forse evitato eccessive incertezze in sede interpretative, a fronte di una normativa organica e omogenea (almeno) in riferimento alla formula linguistico-terminologica cui si affida la “non punibilità” del medico adempiente.
3.2 c) la valorizzazione di una logica del “caso per caso”
Qualora la situazione legislativa dovesse restare invariata e qualora, per assurdo, la Corte costituzionale decidesse di non dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., resterebbe pur sempre la via “interpretativa”.
Una soluzione praticabile, in effetti, sembra quella fondata sulla valorizzazione della libertà di autodeterminazione del singolo come bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p. Muovendo dalla premessa per cui il soggetto che decide di togliersi la vita, a fortiori mediante il contributo di un terzo, versi solitamente in una condizione di particolare vulnerabilità, potrebbe ritenersi che l’art. 580 c.p. configuri un reato di pericolo presunto, posto a tutela della libertà di autodeterminazione del singolo e fondata su una “presunzione ragionevole”, che trovi cioè corrispondenza nelle regole di comune esperienza. È ormai opinione sufficientemente condivisa quella per cui i reati di pericolo presunto possono considerarsi compatibili con il principio di necessaria offensività in materia penale solo in quanto la presunzione di pericolo effettuata in astratto dal legislatore sia “superabile” in concreto da parte del giudice.
La lettura in questione ha un pregio e un difetto, entrambi evidenti.
Il pregio è quello di affidarsi alla (e di confidare nella) logica del “caso per caso” in una materia che, per la delicatezza degli interessi che vengono in considerazione e per la inadeguatezza “culturale” che si registra a più livelli nell’attuale contesto sociale, politico, ma anche giuridico, sembrerebbe mal conciliarsi con una disciplina di carattere generale e astratto.
Il difetto è quello per cui, se davvero si ritesse di assumere come presupposto una sostanziale messa in discussione del dogma dell’indisponibilità della vita umana per approdare alla tutela della (sola) libertà di autodeterminazione, si comprometterebbe non tanto la tenuta dell’art. 580 c.p., ma, come già precisato, quella dell’art. 579 c.p. Si tratterebbe però di conseguenze cui la perdurante vocazione a un paternalismo di facciata, incline più a lasciarsi distrarre dal dito anziché a concentrarsi sulla luna, non sembra per ora disposto a concedere spazi, anche solo ipotetici.
[1] «[…] non c’è nulla da fare: il problema è sempre nello scarto tra l’affermazione formale e l’attuazione dei diritti, scarto che aumenta nelle congiunture di particolare difficoltà economica»: O. Di Giovine, Procreazione assistita, aiuto al suicidio e biodiritto in generale: dagli schemi astratti alle valutazioni in concreto, in Dir. pen. proc., 7/2018, 921.
[2] Sull’iter giudiziario che ha condotto alla Corte costituzionale si rinvia, per tutti, a D. Pulitanò, Il diritto penale di fronte al suicidio, in www.penalecontemporaneo.it, 16 luglio 2018; M. D’Amico, Scegliere di morire “degnamente” e “aiuto” al suicidio: i confini della rilevanza penale dell’art. 580 c.p. davanti alla Corte costituzionale, in Corr. giur., 2018, 737 ss.; R. Bartoli, Ragionevolezza e offensività nel sindacato di costituzionalità dell’aiuto al suicidio, in www.penalecontemporaneo.it, 8 ottobre 2018. Si segnalano, poi, le Note di udienza, relative alla discussione di fronte alla Corte costituzionale, di F. Gallo e V. Manes, consultabili Giurisprudenza penale web, 5 novembre 2018.
[3] Sul punto già L. Risicato, Dal «diritto di vivere» al «diritto di morire». Riflessioni sul ruolo della laicità nell’esperienza penalistica, Giappichelli, 2008, 79.
[4] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 1 del Considerato in diritto.
[5] Come auspicato da V. Manes, Note di udienza, cit., 14. Sottolinea la scelta, da parte della Corte costituzionale, di non occultare il problema, sebbene senza approdare a una sentenza manipolativa, anche S. Prisco, Il caso Cappato tra Corte Costituzionale, Parlamento e dibattito pubblico. Un breve appunto per una discussione da avviare, in Riv. biodiritto, 3/2018, 156.
[6] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto.
[7] V. in particolare Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto: «neppure […] è possibile desumere la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita, che il rimettente fa discendere dagli artt. 2 e 13, primo comma, Cost.».
[8] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 6 del Considerato in diritto.
[9] Per più ampie considerazioni al riguardo sia consentito il rinvio ad A. Massaro, L’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio. La rilevanza penale delle pratiche di fine vita, in Giurisprudenza penale web, 14 ottobre 2018, 6 ss.
[10] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto.
[11] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 9 del Considerato in diritto.
[12] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 10 del Considerato in diritto.
[13] A. Ruggeri, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul Caso Cappato), in www.giurcost.org, 2018, III, 574.
[14] M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in Quest. giust., 19 novembre 2018, § 1.
[15] Così, ancora, M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale, cit., § 3.
[16] Cfr. la proposta di O. Di Giovine, Procreazione assistita, cit., 922.
[17] Il riferimento è al Disegno di legge presentato al Senato il 30 ottobre 2018, AS 912, art. 7, comma 1.
[18] Disegno di legge, AS 912, cit., art. 7, comma 1.
[19] V. ancora Disegno di legge, AS n. 912, cit., art. 7, comma 1, lettera d).
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