ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Bioetica e biodiritto. Nuove frontiere
Roberto Giovanni Conti*
Sommario: 1.Il ruolo dei diritti fondamentali.2. Dalla vulnerabilità alla fragilità della persona, attraverso un inestricabile intreccio di diritti che reclamano tutti tutela e protezione. 3 La fame di dignità nel biodiritto. 4. Il principio di cooperazione fra i protagonisti delle vicende biogiuridiche, giudici e fonti. 5. Quale giudice per il biodiritto.
L’Autore torna a riflettere sui temi eticamente sensibili, provando ad individuare gli scenari che si aprono davanti agli operatori del diritto chiamati a maneggiare le vicende che ruotano attorno alla fragilità della persona. In questa ricerca coglie non solo la centralità della dignità umana, ma l’emersione del metaprincipio di cooperazione capace di produrre frutti fecondi nei rapporti fra giudici, interessi coinvolti e fonti.
1. Il ruolo dei diritti fondamentali.
È davvero un onore parlare dopo che il Premio Nobel per la pace Essid Abdelaziz ha infiammato i nostri cuori.
Proverò allora a pormi in continuità con i messaggi che lui ha lanciato, anzitutto mettendo in chiaro come il tema che intendo qui affrontare sulla base delle indicazioni degli organizzatori è esso stesso consustanziale rispetto a quello della pace e della giustizia, nel senso che non vi è pace e giustizia nel mondo se non si tutelano e garantiscono i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo, bastando ricordare l’art.11 della Costituzione – che pone a giustificazione dell’adesione del nostro Paese alle organizzazioni internazionali le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni – insieme al Preambolo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, laddove riconosce che le Libertà fondamentali costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento si fonda essenzialmente, da una parte, su un regime politico veramente democratico e, dall'altra, su una concezione comune e un comune rispetto dei Diritti dell'Uomo a cui essi si appellano.
Dunque, assodato il nesso di collegamento, indissolubile, fra diritti fondamentali, pace e giustizia, il tema del biodiritto è fortemente condizionato da alcuni fattori che credo vadano individuati con nettezza.
Da un lato assistiamo ad una diffusa e crescente sensibilità di una platea sempre più ampia attorno al ruolo dei diritti fondamentali, ormai avvertiti nel loro significato estremo che ad essi aggancia il controllo di legalità diffuso operato dall’ordine giudiziario[1].
A questa si affianca la crescita quasi esponenziale del numero dei diritti fondamentali e, con essi, la crescita delle fonti dai quali i diritti stessi promanano e dei plessi decisionali chiamati a riconoscerli ed applicarli.
Il governo delle fonti provenienti da sistemi autonomi ancorché collegati e delle interpretazioni che di queste stesse fonti offrono gli interpreti qualificati (secondo i diversi sistemi) danno al contempo la misura delle questioni che si pongono sul tavolo dell’operatore del diritto ma, direi ancora prima, innanzi a chi dovrebbe godere di quelle tutele offerte alle persone coinvolte.
Ruotando ora la lente verso il biodiritto, lo scenario non sembra per nulla diverso.
Si è assistito, in effetti, ad un’esplosione di diritti in favore di persone che, accomunate da una condizione di vulnerabilità, hanno via via fruito di tutele e protezioni crescenti, coinvolgendo una platea di soggetti sempre più ampia. Riavvolgendo quello che cinque fa, sempre camminando insieme a Cammino, provai a rappresentare sullo status e sulla condizione di vulnerabilità[2] , vale ora la pena di ricordare alcune delle più rilevanti novità nel panorama normativo e giurisprudenziale.
Il pensiero va immediatamente alle discipline in tema:a) di indennizzo per i casi di sovraffollamento carcerario (art.35 ter l. ord. pen.)- alla quale si è affiancata una giurisprudenza nazionale che ha raccolto il testimone lasciato dalla sentenza Torreggiani della Corte edu raggiungendo soglie elevate di protezione[3] –; b) di regolamentazione delle unioni civili (legge.n.76/2016); c) di tutela offerte, per via giurisprudenziale, alla condizione del soggetto adottato rispetto alla conoscenza delle proprie origini (Cass.S.U. n.1946/2018, Cass.n.6963/2018); d) di trascrizione di atto di nascita redatto all’estero su istanza di coppia omosessuale (Cass.n.19599/2016); e) di adozione non legittimante del minore da parte del partner dello stesso sesso del genitore (Cass.n.12962/2016).
Si arriva, così, fino alla più recente legge n.219/2017 dedicata alla relazione di cura fra medico e paziente ed alle disposizioni anticipate di trattamento, alla quale ha fatto seguito, ancora più di recente, l’ordinanza n.207/2018 della Corte costituzionale sul tema dell’aiuto al suicidio, nella nota vicenda Cappato.
2.Dalla vulnerabilità alla fragilità della persona, attraverso un inestricabile intreccio di diritti che reclamano tutti tutela e protezione
Cosa insegnano i recenti interventi legislativi e giurisprudenziali in campi eticamente sensibili?
Anzitutto, essi dimostrano la continua espansione delle forme di tutela che prendono in considerazione la fragilità della persona che il legislatore ed i giudici considerano come meritevole di tutela e protezione.
Emerge, così, la precisa scelta legislativa di normare vicende nelle quali la particolare posizione di debolezza di un soggetto suggerisce un intervento statale in funzione di sostegno o protettiva.
Un ulteriore tratto caratterizzante la materia biogiuridica è, a me pare, dato dal fatto che la condizione di fragilità di cui si è detto si declina spesso al plurale.
Ed infatti. la condizioni di fragilità viene posta a base di un intervento normativo prendendo come punto di riferimento diversi soggetti coinvolti, tutti direttamente esposti ad una situazione di potenziale debolezza.
Si pensi alla materia che riguarda le relazioni genitori separati-figli ed al contestato ddl Pillon che, al di là delle pertinenti ed autorevoli critiche ad esso rivolte, ho l’impressione sia partito proprio dall’idea che le relazioni familiari presentano un contenuto di vulnerabilità-fragilità non limitato a chi tradizionalmente viene considerato il perno della tutela (id est, il minore).
Non meno marcato mi pare risulti, in questa stessa prospettiva, il filo rosso che scorre all’interno della legge n.219/2017, solo apparentemente eretta per salvaguardare in via esclusiva e prioritaria la fragilità del paziente ed il suo diritto all’autodeterminazione, ed invece essa stessa dimostrativa che i vari soggetti ed interessi coinvolti – malato, parenti, fiduciari, persone che si prendono cura del malato, sanitari – in quel rapporto di cura possono versare in una condizione di fragilità idonea a giustificare l’adozione di misure protettive nei loro stessi confronti[4].
La pluralità della condizioni di fragilità di cui si diceva si declina, poi, anche in un altro senso.
A ben considerare, le contese fra genitori e figli minori in ambito familiare, fra parenti dei malati e loro congiunti, fra genitori di minori e sanitari o fra minori e genitori rispetto agli atti di cura, si muovono all’interno di un assai peculiare scenario nel quale tutti i protagonisti, a vario titolo, si sentono partecipi e portatori non del solo interesse individuale ma di quello ulteriore, in astratto appartenente ad un diverso soggetto ma che viene avvertito come proprio e rispetto al quale quegli stessi soggetti rivendicano il diritto di potere influire, in relazione alla particolare funzione svolta secondo decisioni che ritengono rivolte a difendere o valorizzare l’interesse altro. Da ciò consegue l’assai peculiare situazione che impone la piena valorizzazione e considerazione di questo fascio di interessi.
È dunque questa complessità delle vicende che ruotano attorno all’ambito biogiuridico a richiedere una capacità non solo di ascolto, ma di conoscenza ed approfondimento notevoli rispetto a fasci di interessi apparentemente autonomi e slegati ma invece, a mio avviso, talmente tra loro avviluppati ed aggrovigliati da escludere operazioni di automatica prevalenza dell’un diritto sull’altro, invece abbisognando di tutele e protezioni elastiche e creative, per dirla con Paolo Grossi.
3.La fame di dignità nel biodiritto.
Infine, le vicende appena ricordate fanno emergere, tutte, un bisogno estremo di considerare la dignità della persona come autentico supervalore che l’ordinamento, in tutte le sue diverse articolazioni, deve considerare e proteggere, alimentando ancora una volta i dubbi e le incertezze che questo concetto reca con sé[5].
Si deve convenire sull’insostituibilità del canone di dignità quale principio-base dal quale non può prescindersi ove si intende affrontare temi di biodiritto, pur nella difficoltà, spesso inestricabile, di offrire uno stabile e sicuro approdo – al giudice prima ed alla collettività – circa la soluzione della questione posta al suo vaglio.
Qualcosa di ulteriore merita di essere detto quando discutiamo di dignità più che di altri diritti fondamentali, che pure in essa trovano la loro copertura di base.
E quel qualcosa sta proprio nella consapevolezza di dovere rifuggire dall’idea che sia possibile ‘scrivere’ e ‘decodificare’, una volta per tutte, che cos’è la dignità, invece accettando l’idea per cui essa, spettando a qualsiasi essere umano, non può essere declinata senza un’adeguata interpretazione nelle diverse circostanze[6] e ‘non può essere perduta da alcun essere umano, anche da quello più misero e sofferente o da quello più miserabile e abbrutito’[7], al contempo rappresentando espressione massima della libertà (recte, autodeterminazione) dell’individuo e limite all’autonomia del medesimo soggetto[8]. Dignità della quale nessuno può essere deprivato, sia esso cittadino o straniero, “in quanto ogni persona è portatrice della dignità di tutta l’umanità.”[9]
4. Il principio di cooperazione fra i protagonisti delle vicende biogiuridiche, giudici e fonti.
Allora quali frontiere, quali ponti costruire in un periodo storico che sembra orientato verso logiche che tendono ad edificare barriere.
Ecco appunto, il ruolo e l’importanza dei diritti fondamentali, con tutta la complessità che questi determinano per l’attività di riconformazione dei dati normativi alla quale essi chiamano indefettibilmente gli interpreti quando i plessi decisionali – nazionali e sovranzionali, legislativi e giurisdizionali – su tali diritti si moltiplicano e tendono quasi naturalmente ad entrare in competizione fra loro.
Allora, rispetto a questi “scontri” quale arma prediligere, quella del conflitto bellicoso, quella della regolazione gerarchica fra i diversi plessi, quella della scelta tra chi dice sempre il giusto e chi declama ciò che è sbagliato, quella che predilige l’ottica nazionale come bene assoluto e guarda a quella sovranazionale come aggressiva e pericolosa minaccia al sovranismo, oppure quella che tende a considerare la prospettiva sovranazionale sempre e comunque prevalente, perché portatrice di valori che, in quanto destinati a ricadere su tradizioni diverse ma comuni, meritano una protezione superiore per la forza attrattiva che gli stessi hanno?
Nessuna di queste prospettive, a mio avviso, può e deve prevalere, convinto come sono dell’utilità di praticare e disseminare l’idea della cooperazione fra le fonti e fra gli interpreti. E ciò non in una logica buonista o di accomodamento, reputando per davvero che il confronto, quando si fa tra portatori di istanze realmente aperte all’interazione ed alla conoscenza reciproca, è in grado di realizzare frutti prima inimmaginabili.
Si tratta di una prospettiva che, riguardo alla funzione dei giudici, trae le sue origini dal principium cooperationis che, per dirla con Antonio Ruggeri, suggerisce di considerare tutti i giudici come “orizzontali”, siccome distinti tra di loro unicamente per le funzioni esercitate o, se si preferisce, per la tipicità dei ruoli, comunque bisognosi di essere espressi al massimo rendimento possibile ad ogni livello istituzionale, senza dunque alcuna “graduatoria” tra di loro: siano giudici comuni e siano pure giudici costituzionali o materialmente costituzionali, quali ormai in modo sempre più marcato e vistoso vanno conformandosi le stesse Corti europee[10].
Lo stesso principio, d’altra parte, alimenta i rapporti fra le diverse fonti dei diritti fondamentali, pienamente introiettato dalla nostra Costituzione che, aprendosi indiscutibilmente al riconoscimento del diritto dell’Unione europea ed ai diritti fondamentali di matrice internazionale, mostra attraverso il suo magnifico arsenale, costituito dagli artt.2,3,10,11 e 117, quanto sia la centralità della persona umana ad escludere l’idea stessa di una ‘scala’ fra le fonti e fra i valori fondamentali, questi ultimi invece tutti quanto abbisognando del sostegno delle Carte e dei loro interpreti per poter realizzare l’obiettivo di una sempre più elevato livello di protezione di quei valori[11].
Ed è, ancora, la stessa logica cooperativa a dovere essere preferita come regola aurea nei rapporti fra legislatore e giudici, dovendosi il primo orientare, quando in gioco è la materia del biodiritto, verso regolamentazioni minimali capaci di individuare la cornice generale al cui interno sussumere la singola vicenda, per poi lasciare al decisore di turno il ruolo di attuatore concreto del comando, in modo che esso sia modulato e modellato nel modo migliore rispetto alla singola vicenda ed agli interessi, sempre cangianti, che ivi emergono.
In questa prospettiva, proprio la legge n.219/2017 – al netto dei pur esistenti deficit che possono intravedersi al suo interno[12] – proseguendo la linea tracciata dalla legge n.6/2004[13], sembra essersi pienamente coniugata e coordinata con alcuni punti di partenza offerti dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione – al cui interno un ruolo fondamentale hanno svolto la Presidente Luccioli e la nota sentenza Englaro –. Ciò in uno spirito di piena e leale cooperazione, che ha visto, nel caso di specie, la legge fissare in termini astratti alcuni elementi di base già valorizzati in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità all’interno di una disciplina che si presta, poi, ad essere attuata dal giudice nel caso concreto. Tutto all’interno di un circuito circolare che è destinato ad ulteriormente arricchirsi attraverso l’opera ermeneutica del giudice, al quale spetterà, eventualmente di colmare le lacune esistenti attraverso il ricorso ai principi fondamentali del sistema dotato di immediata precettività o di investire la Corte costituzionale per verificare l’esistenza di disposizioni che determinano uno iato con questi stessi principi, riletti anche attraverso le Carte dei diritti sovranazionali
Del resto, la stessa presa di posizione della Corte costituzionale nel già ricordato caso Cappato, nel concedere al legislatore un termine per normare la materia, non risulta essere tanto espressione di un conflitto fra giudici e legislatore ma, più che mai, desiderio di dialogo, di riconoscimento del ruolo istituzionale che legislatore e giudici hanno, ciascuno, all’interno delle prerogative costituzionali.
Alla medesima prospettiva di cooperazione credo debba ispirarsi l’attività del giudice chiamato ad affrontare questioni biogiuridiche.
Ciò vale, anzitutto, quando il giudice maneggia fonti sovranazionali.
In questa prospettiva si muovono nono solo i protocolli d’intesa conclusi fra le più alte giurisdizioni nazionali e la Corte edu a partire dal dicembre 2015[14] , ma lo stesso Protocollo n.16 annesso alla CEDU, che, non appena ratificato dall’Italia, offrirà alle Alte Corti nazionali la possibilità di dialogare direttamente con la Corte edu, formulando richieste di parere preventivo al quale seguiranno risposte del giudice europeo “non vincolanti”, anch’esse aperte al confronto franco ed aperto con il giudice nazionale e dunque ad una logica non di contrapposizione, ma di piena ed autentica cooperazione. Non è un caso che l’Adunanza Plenaria della Cassazione francese abbia, pr prima, attivato tale meccanismo in materia di maternità surrogata[15]
Per altro, verso, è fin troppo facile notare quanto decisivo sia stato l’impulso della giurisprudenza della Corte edu su diverse materie eticamente sensibili.
E tuttavia, l’osservatore attento e occhiuto non potrà fare a meno di notare che proprio in tale ambito spesso la Corte ha agito sia come propulsore per il riconoscimento di nuove nicchie di tutela, sia da mediatore rispetto a fenomeni che le tradizioni nazionali hanno, lentamente ma progressivamente ricondotto ad un livello tale da rendere poi necessario l’intervento omogeneizzante della Corte europea, generalmente rivolto ad approfondire gli standard di tutela più che a ridurli.
Insomma, un andamento altalenante, condizionato dal comune sentire delle legislazioni e delle giurisprudenze nazionali, tutte capaci di incidere su un testo, quello della Convenzione europea, vocato ad essere letto ed attuato in chiave dinamica[16].
Andamento che, in definitiva, è pur esso rispettoso delle realtà nazionali, invitate a considerare i livelli di tutela raggiunti, ad interrogarsi sulla compatibilità di quei livelli con i diritti di matrice convenzionale e dunque a cooperare attivamente nel processo di implementazione e massimizzazione delle tutele, con logiche antitetiche rispetto a quelle gerarchiche.
Non meno centrale per il biodiritto è, poi, la comparazione, anche questa destinata ad essere applicata e compresa secondo una chiave di lettura improntata a logiche di cooperazione.
Non può sfuggire, infatti, che la materia del fine-vita ha visto confrontarsi diverse soluzioni adottate in contesti socio-culturali diversi che hanno contribuito non poco a condizionare, per effetto della circolazione dei modelli e delle tecniche decisorie, quelle realtà nelle quali l’assenza di discipline normative ha lasciato per lungo tempo il giudice arbitro dei destini delle persone colpite da malattie terminali[17].
La prospettiva della comparazione è divenuta strumento di ridefinizione semantica di istituti per effetto dell’apertura del sistema interno al diritto internazionale e sovranazionale nonché metodo di lavoro basico per il giurista anche di civil law e, soprattutto, per il giudice che maneggia i diritti della persona e le scelte che questa compie.
Comparazione che non costituisce orpello ornamentale destinato ad abbellire e rendere dotte le decisioni del giudice, ma piuttosto criterio ermeneutico capace di giocare un ruolo di sostanza pieno ed importante quando il giudice è chiamato ad interpretare il quadro normativo primario di un sistema democratico fondato sulla persona o quello secondario o, ancora, ad esaminare gli effetti di lacune del sistema[18].
Ed è stata proprio Corte cost. n. 207/2018 a sottolineare la decisività del ricorso alla comparazione, allorché essa ha ritenuto di innovare in modo profondo l’indirizzo fino a quel momento espresso a proposito dei casi in cui la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolge l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere. Colpisce, allora, che la legittimazione rispetto all’assai innovativa posizione della Corte costituzionale, espressa concedendo al legislatore un termine di un anno per legiferare sospendendo il giudizio di legittimità costituzionale sia stata desunta richiamando precedenti di altre corti supreme – Corte Suprema del Canada, sentenza 6 febbraio 2015, Carter c. Canada, Corte Suprema del Regno Unito, 25 giugno 2014, Nicklinson e altri – che avevano utilizzato analoghe forme di dialogo con il legislatore in materie eticamente sensibili. Un’ulteriore conferma di quanto le decisioni giudiziarie, oltre ad essere naturalmente vocate al dialogo fra le Corti[19], trovino sempre di più alimento proprio nella comparazione. Ed è forse superfluo evidenziare che questo processo si è compiuto senza tralasciare le radici del contesto nazionale nel quale il giudice è chiamato ad operare, ma nemmeno perdendo di vista la dimensione universale che certi valori tendono progressivamente ad acquisire.
5. Quale giudice per il biodiritto.
L’idea che mi sono fatto svolgendo il mestiere di giudice tutelare e, al contempo, tentando di approfondire il ruolo dei diritti fondamentali nelle materie che toccano i valori più cari alla persona umana, soprattutto quando versi in condizioni di vulnerabilità, è che l’operato del giudice riesce ad offrire al meglio la propria risposta quando coinvolge nel modo più pieno tutti gli interessi coinvolti, offre loro voce e dignità non nascondendoli, ma facendoli emergere in tutta la loro reale consistenza per poi tentare di fare al meglio ciò che è chiamato a fare per funzione, bilanciando i fasci di interessi coinvolti, considerarli tutti e quindi decidere, quando una decisione gli viene chiesta. Un’attività, quest’ultima, ancora una volta naturalmente vocata a realizzare una cooperazione fra i fasci di interessi coinvolti, per di più come già detto tra loro aggrovigliati al punto da rendere difficile l’individuazione dell’unico centro di imputazione[20]
Un’ottica, quest’ultima, tesa a favorire il bilanciamento fra diritti fondamentali qualunque ne sia la loro fonte, come di recente hanno riconosciuto le Sezioni Unite civili con la sentenza n.33208/2018, proprio a proposito di soggetti anch’essi fragili e vulnerabili quali possono risultare i collaboratori di giustizia sottoposti a programmi di protezione da parte dello Stato. Un’attività, quella giudiziale, mossa da un dato di partenza indefettibile, per cui qualunque valore fondamentale “ … è da sé medesimo[o] portato[o] ( e, comunque obbligato[o]) a comporsi armonicamente in sistema coi restanti valori. La “logica” dei valori è…quella del reciproco contemperamento, non già l’altra della tirannica sopraffazione di un valore sull’altro ( o sugli altri)” [21].
Ecco, così, emergere, lentamente ma inesorabilmente, la difficoltà del mestiere del giudice, per l’un verso orientato a concretizzare e materializzare nel modo più pieno e compiuto i diversi interessi e le diverse prospettive delle quali i vari “attori” sono portatori, all’interno di un circuito giudiziario nel quale essi devono confrontarsi.
Per altro verso, il decisore di turno è chiamato, per funzione, a governare i plessi normativi e giurisprudenziali in modo da realizzare, nel caso concreto, il corretto bilanciamento degli interessi contrapposti.
Egli dovrà farsi così garante di un metodo dialogico volto a favorire l’emersione di tutte le posizioni in gioco e, al contempo, ad attingere a tutte quelle fonti, giuridiche e non, necessarie per realizzare al meglio gli interessi che è chiamato a maneggiare.
Quel giudice si troverà, così preso, parafrasando la riflessione di Guido Calabresi sul mestiere del giudice[22], da un intreccio di contatti con giurisdizioni, legislazioni, istituzioni – sanitarie e non – relazioni che lo renderanno meno solo e più capace di offrire la soluzione più giusta rispetto al caso.
Un giudice che, in definitiva, nelle decisioni che è chiamato ad adottare, non per scelta ma per funzione, è ogni volta giurista, ma prima ancora persona, paziente, parente, padre, madre e figlio.
Un giudice, ancora, che sulla linea marcata dalla legge n.219/2017, non condanna, non determina il soggetto che vince a discapito dell’altro che perde ma, invece, offre o tenta di offrire soluzioni miti[23].
Un giudice, in definitiva, che la legge n.219/2017 sembra silenziosamente incamminarsi dal mondo degli incapaci affetti da patologia psichiatrica cronica a quello delle persone malate, per ciò stesso strutturalmente deboli.
Dunque, quale giudice per il biodiritto.
Mi piace prendere a prestito le espressioni utilizzate dal collega Giacomo Travaglino in una pronunzia della Corte di Cassazione - Cass.20 aprile 2016 n.7766 - quando invita il giudice - qualsiasi giudice - a “dismettere il supponente abito di peritus peritorum ed ascoltare la concorde voce della scienza psicologica, psichiatrica, psicoanalitica, che comunemente insegna, nell'occuparsi dell'essere umano, che ogni individuo è, al tempo stesso, relazione con se stesso e rapporto con tutto ciò che rappresenta "altro da se", secondo dinamiche chiaramente differenziate tra loro, se è vero come è vero che un evento destinato ad incidere sulla vita di un soggetto può (e viceversa potrebbe non) cagionarne conseguenze sia di tipo interiore …, sia di tipo relazionale, ontologicamente differenziate le une dalle altre, non sovrapponibili sul piano fenomenologico, necessariamente indagabili, caso per caso, quanto alla loro concreta (e non automatica) predicabilità e conseguente risarcibilità. E tali conseguenze non sono mai catalogabili secondo universali automatismi, poiché non esiste una tabella universale della sofferenza umana. È questo il compito cui è chiamato il giudice della responsabilità civile, che non può mai essere il giudice degli automatismi matematici ovvero delle super-categorie giuridiche quando la dimensione del giuridico finisce per tradire apertamente la fenomenologia della sofferenza. Compito sicuramente arduo…ma reso meno disagevole da un costante lavoro di approfondimento e conoscenza del singolo caso concreto o, se si vuole, di progressivo e faticoso "smascheramento" della narrazione cartacea rispetto alla realtà della sofferenza umana.”
La prospettiva che disegna Travaglino, apparentemente conchiusa all’interno del pianeta responsabilità civile è, a ben considerare, la dimensione comune del giudiziario rispetto alle vicende che coinvolgono la persona, i suoi beni supremi, le sue aspettative interiori, la sua dignità[24].
Un giudice che tocca con mano, in vivo, i diritti coinvolti, li maneggia, li fa emergere, li delinea nel loro preciso contenuto ritagliandoli volta per volta, caso per caso, nel giudizio che è chiamato ad esaminare.
Ma certo c’è uno iato, una crasi, un distacco fra essere e dover essere, fra ciò che sono i Tribunali e le Corti e ciò che dovrebbero essere, per dinamiche che spesso sfuggono al controllo del singolo e diventano, invece, scelte di sistema, per le quali e sulle quali il singolo non ha forza, non ha potere e per questo spesso subisce, più o meno supinamente, dinamiche protese a favorire, più o meno scopertamente, la burocratizzazione della funzione (che costituisce anticamera della normalizzazione delle sue decisioni e dell’inaridimento della sua stessa funzione) e logiche volte a ridurre al minimo i rischi insiti nelle scelte giudiziarie ed a favorire, piuttosto, la navigazione quieta.
La magistratura deve mostrare di essere pronta a comprendere non solo la centralità del ruolo del giudice negli ambiti che si è qui cercato di rappresentare, ma anche il ‘modello di giudice’ che è necessario offrire alle nuove generazioni perché esse siano capaci di offrire alla società il miglior servizio possibile.
Ma anche l’Accademia e l’Avvocatura, che spesso non mancano di sostenere il “cammino” della magistratura nel senso qui prospettato, ha il dovere di cooperare nella condivisione degli aspetti problematici del “sistema giustizia” che ad esse pure appartiene, prima che alle persone.
Queste, dunque, in estrema sintesi, le sfide che mi sembra potranno e dovranno essere affrontate da quanti hanno compreso la centralità del biodiritto nell’ambito di una società che senza dignità e diritti fondamentali è destinata a regredire verso forme di oscurantismo.
Una società nella quale occorre lasciarsi alle spalle l’epoca della contrapposizione e del conflitto insanabile, invece costruendo proprio su quelle contrapposizioni e sulle derive egoistiche che pure serpeggiano con sempre maggiore consistenza nei tempi moderni una condizione di resilienza[25] sulla quale ciascuno – legislatore, giudice, avvocato, cittadino – nel proprio ruolo, memore delle ferite subite nel tempo passato, possa contribuire a realizzare il diffuso radicamento dei diritti umani senza retorica, ma con la consapevolezza che una società che calpesta i diritti degli ultimi, degli indifesi, degli emarginati e dei ‘fragili’ non è più tale ma lascia il posto a barbarie.
* Intervento al convegno di studio su Persone vulnerabili: nuove e antiche frontiere nella tutela dei diritti fondamentali, organizzato dall'Associazione CamMiNo, Roma, 24-26 gennaio 2019.
[1] A. Ruggeri, Il futuro dei diritti fondamentali, sei paradossi emergenti in occasione della loro tutela e la ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, nel paper concessomi in anteprima dall’Autore.
[2] V., volendo, R. Conti, Diritti fondamentali, soggetti vulnerabili: tappe e obiettivi di un articolato “cammino” interno, in Questione giustizia on line, 8 febbraio 2014. Testo rielaborato di un intervento al Convegno organizzato in occasione del 15^ anniversario della costituzione dell'Associazione CamMiNo, sul tema Persone vulnerabili e diritti fondamentali esigenze di tutela, nodi critici, lacune legislative, Roma, 24 gennaio 2014, Biblioteca del Senato della Repubblica.
[3] Del tema ho provato a discutere in R. Conti, La nuova frontiera dopo la “Torreggiani”: tracciati e prospettive per il giudice e il legislatore, a cura di F. Fiorentin e D. Galliani, Milano, in corso di stampa.
[4] Si intende qui fare riferimento a tutte le disposizioni, inserite nella legge n.219/2017, che regolamentano gli effetti delle condotte del sanitario e degli altri soggetti che interagiscono con il malato, determinandone compiti, funzioni ed esenzioni di responsabilità.
[5] È sufficiente rinviare ai numerosi scritti di A. Ruggeri sul tema della dignità, ricordati, da ultimo in A. Ruggeri, Fraintendimenti concettuali e utilizzo improprio delle tecniche decisorie nel corso di una spinosa, inquietante e ad oggi non conclusa vicenda (a margine di Corte cost. n. 207 del 2018), nel paper gentilmente concessomi in visione dall’Autore.
[6] M. Reichlin, La discussione sulla dignità umana nella bioetica contemporanea, in Biolaw Journal - Rivista di BioDiritto, n.2/2017, 101.
[7] F. Viola, I volti della dignità umana, in Colloqui sulla dignità umana. Atti del convegno internazionale, Palermo 2007, 107.
[8] Sull’uso della dignità in funzione deontica riflette G. Cricenti, I giudici e la bioletica. Casi e questioni, Roma 2018, 21.
[9] M. G. Luccioli, Diario di una giudice. I miei cinquant’anni in magistratura, Udine 2016, 64. Nel diario della Luccioli alla dignità l’Autrice più volte si riferisce, dimostrando anche ai più scettici come questo “supervalore”, pur nel suo complesso e a volte scivoloso carattere plurale, costituisce sempre fonte insostituibile ed inesauribile alla quale il giudice, il buon giudice, deve attingere.
[10] A. Ruggeri, Costituzione e CEDU, alla sofferta ricerca dei modi con cui comporsi in “sistema”, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti. XVI. Studi dell’anno 2012, Torino, 2013,246.
[11] Non ci si può così, mai stancare di ricordare che “la pluralità delle Carte dei diritti gioca naturalmente nel senso di rendere particolarmente oneroso il compito demandato ai giudici, a tutti i giudici (costituzionali e non), al fine della loro ottimale salvaguardia, alle condizioni oggettive di contesto: un compito, dunque, assai impegnativo e non di rado sofferto, specie laddove – come si diceva – si tratti di risolvere questioni di biodiritto, al quale tuttavia nessun operatore può sottrarsi.”- A. Ruggeri, Tutela dei diritti fondamentali e ruolo “a fisarmonica” dei giudici, dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale, in www.dirittifondamentali.it, fascicolo n.2/2018, 18 novembre 2018 -. Attenzione al giudiziario che è, in definitiva, deferenza piena e totale ai valori fondamentali della persona, rispetto ai quali occorre, ancora una volta, individuare un metodo preciso di lavoro. Non è, ricorda lo stesso Ruggeri, “facendo luogo ad improponibili rivendicazioni di un impossibile primato dell’una sull’altra Carta e/o dell’una sull’altra Corte che le questioni stesse possono essere a modo affrontate; di contro, è solo muovendo dalla duplice premessa della parità delle Carte, riconosciute perciò idonee a giocarsi ogni volta la partita nello sforzo da ciascuna di esse prodotto di offrire sul mercato dei diritti la migliore mercanzia, e della necessaria e leale cooperazione degli operatori che si può andare alla ricerca della soluzione più adeguata al caso, che peraltro assai di frequente appare essere non già idonea ad appagare a pieno i diritti e, in genere, gli interessi meritevoli di tutela in campo bensì a far pagare agli stessi il minor costo possibile, specie nella presente congiuntura segnata da plurime e gravi emergenze (da quella economica a quella terroristica, da quella rappresentata dal fenomeno delle migrazioni di massa a quella ambientale, ecc.) che obbligano i diritti e i beni della vita in genere a forte contrazione del loro formidabile potenziale espressivo. del giudice”.
[12] Su quanto riferito nel testo e sulla legge n.219/2017 ci si permette di rinviare ad un volume di imminente pubblicazione, R. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la l. 219/2017, in corso di stampa con i tipi di Aracne Editore.
[13] V., da ultimo, sul ruolo del giudice tutela nell’ambito dell’amministrazione di sostegno, S. Celentano, L’amministrazione di sostegno tra personalismo, solidarismo e sussidiarietà ed il ruolo del Giudice della Persona, in Questionegiustiziaonline, fascicolo n.3/2018.
[14] Di questo e del Protocollo n.16 annesso alla CEDU abbiamo discusso in R. Conti, I Protocollo di dialogo fra Alte Corti italiane, CSM e Corte edu a confronto con il Protocollo n.16 annesso alla CEDU. Due prospettive forse inscindibili, in corso di pubblicazione su Questionegiustiziaonline.
[15] Sulla vicenda è sufficiente rinvia al report predisposto dal gruppo di attuazione del Protocollo d’intesa stilato fra Corte di Cassazione e Corte edu, di recente inserito nel bollettino n.2 Cassazione CEDU, consultabile sul sito istituzionale della Cassazione-www.cortedicassazione.it-, partendo dal link Attività internazionali.
[16] V., volendo, R. Conti, I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione delle Corti europee, Roma 2015, 2^, 269 ss.
[17] S. Ragone, La comparazione come tecnica strumentale all’interpretazione e all’applicazione dei principi: il caso del rifiuto dei trattamenti medici vitali, in Il diritto alla fine della vita, in www.biodiritto.org.
[18] Di questo torniamo a discutere in R. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la l. 219/2017, cit.
[19] V., sulla centralità del dialogo per il giudice federale americano, ma in una prospettiva che non è molto diversa da quella del giudice di ultima istanza nazionale, G. Calabresi, Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano, Bologna 2014, 66 e ss. Anche l’ordinanza n.207/2018 della Corte costituzionale, appena pubblicata, sulla vicenda “Cappato” è sintomatica di quanto le Corti superiori tendano quasi naturalmente a favorire soluzioni che presuppongono un dialogo/confronto con il legislatore o le altre Corti. Dialogo cercato addirittura forzando prassi secolari ed attingendo ad esperienze oltreoceaniche pur se proprie di sistemi giuridici che la tradizione giuridica colloca in ambiti diversi da quelli nostrani.
[20] V., ancora, sul tema, volendo R. Conti, Alla ricerca del ruolo dell’ art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel pianeta famiglia, in Minoriefamiglia. Intervento svolto alla tavola rotonda organizzata all’interno del convegno nazionale dall’Associazione nazionale magistrati per i minorenni e per la famiglia svoltasi a Roma il 23 novembre 2012 sul tema “Tutela delle persone minori di età e rispetto delle relazioni familiari",
[21] V.A. Ruggeri, Le dichiarazioni di fine vita tra rigore e pietas costituzionale, in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti,, XIII, Torino, 2009, 522.
[22] G. Calabresi, Il mestiere del giudice. Pensieri di un accademico americano, cit., 85.
[23] U. Adamo, Costituzione e fine vita, Padova 2018, 226 ss., a proposito delle integrazioni alla legge n.219/2017 in tema di eutanasia.
[24] Ciò che dimostra, ancora una volta, quanto straordinaria - ed onerosa - sia l'opera del giudiziario e quanto vere fossero le parole che Piero Calamandrei andava scrivendo in un suo vecchio, ma sempre straordinariamente attuale saggio, intitolato Giustizia e politica: sentenza e sentimento. "La verità, diceva Calamandrei, è che il giudice non è un meccanismo: non è una macchina calcolatrice. E' un uomo vivo: e quella funzione di specificare la legge e di applicarla nel caso concreto, che in vitro si può rappresentare come un sillogismo, è in realtà un'operazione di sintesi, che si compie a caldo, misteriosamente, nel crogiuolo sigillato dello spirito, ove la mediazione e la saldatura tra la legge astratta e il fatto concreto ha bisogno, per compiersi, della intuizione e del sentimento acceso in una coscienza operosa...ridurre la funzione del giudice ad un puro sillogismo vuol dire impoverirla…, inaridirla…, disseccarla…. La giustizia è qualcosa di meglio: è creazione che sgorga da una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana”.
[25] G. Palombella, La <
Ergastolo ostativo e permessi premio: superamento di una preclusione assoluta?
di Paolo Canevelli
L’articolo sviluppa una nuova lettura delle disposizioni che regolano la vita penitenziaria dei condannati all’ergastolo ostativo e propone il superamento delle preclusioni che sono di ostacolo ad un percorso penitenziario orientato al reinserimento sociale. Il divieto assoluto di fruizione di permessi premio, per chi non abbia scelto la strada della collaborazione con la giustizia, appare privo di ragionevolezza e di giustificazione costituzionale.
Sommario: 1. L’ergastolo ostativo. - 2. Il permesso premio. 3. La pericolosità sociale. - 4. Divieto di benefici penitenziari e percorsi di rieducazione. - 5. La collaborazione con la giustizia: una scelta obbligata? - 6. Verso il superamento delle preclusioni assolute?
1. L’ergastolo ostativo.
Il tema dei rapporti tra la legislazione dell’emergenza mafiosa ed il trattamento penitenziario delle persone condannate alla pena dell’ergastolo per delitti commessi in contesti di criminalità organizzata, avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, non ha ancora trovato nelle aule di giustizia una composizione pienamente rispettosa del principio costituzionale che stabilisce che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato (art. 27, comma 3, Cost.).
Per i condannati all’ergastolo “ostativo”, espressione che indica che il titolo esecutivo si è formato attraverso sentenze di condanna alla pena perpetua riferite a delitti per i quali vige il divieto di concessione di benefici penitenziari previsto dall’art. 4 bis ord. pen., è escluso ogni trattamento rieducativo che si ponga l’obiettivo di favorire gradualmente il reinserimento esterno del detenuto nel contesto sociale. Divieto che riguarda non soltanto le misure di esperimento finale, intese come momenti conclusivi di un positivo e sperimentato percorso penitenziario di totale affrancamento dalla esperienza criminale, quale la liberazione condizionale ammessa dopo l’espiazione di ventisei anni di detenzione, ma anche la possibilità di mantenere e tenere vivi rapporti affettivi e familiari all’esterno del carcere attraverso l’istituto del permesso premio.
La compatibilità di tale regime differenziato, che discrimina gli ergastolani ostativi escludendoli per legge da qualsiasi intervento trattamentale esterno, con il ricordato principio costituzionale, è stata giustificata, a livello normativo e giurisprudenziale, attraverso la previsione di una possibile via di uscita: la collaborazione con la giustizia.
Il principio della tendenziale funzione rieducativa della pena sarebbe rispettato, anche nei confronti dei condannati all’ergastolo ostativo, perché la rigorosa previsione normativa (art. 4 bis ord. pen.) non stabilisce una ipotesi di preclusione assoluta all’accesso ai benefici penitenziari, essendo rimessa al condannato la possibilità di superare il divieto di legge attraverso una scelta collaborativa anche durante l’espiazione della pena. La preclusione non opera, inoltre, per espresso dettato normativo, qualora il Tribunale di sorveglianza competente accerti l’oggettiva impossibilità per il condannato di prestare una utile attività di collaborazione a causa dell’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità ovvero del ruolo secondario rivestito dal condannato all’interno del sodalizio criminale.
La giurisprudenza costituzionale ha già affrontato il tema del divieto di accesso ai benefici penitenziari per i detenuti condannati per i delitti ostativi di cui all’art. 4 bis, comma 1, ord. pen.. Secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 135 del 2003, che si è occupata della questione in relazione all’istituto della liberazione condizionale applicabile ai condannati all’ergastolo dopo l’espiazione di almeno ventisei anni di pena, la preclusione prevista dall’art. 4 bis, comma 1, primo periodo, ord. pen., non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata (l’art. 4 bis citato), ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo. La disciplina censurata, nella interpretazione fornita dal giudice costituzionale, non impedisce in maniera assoluta e definitiva l’ammissione alla liberazione condizionale, ma ancora il divieto alla perdurante scelta del soggetto di non collaborare con la giustizia; scelta che è assunta dal legislatore a “criterio legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di accertare il sicuro ravvedimento del condannato”.
A tale approdo interpretativo è giunta anche la giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto manifestamente infondata la questione, sempre ricorrendo alla possibilità per il detenuto di scegliere se collaborare o meno con la giustizia (Cass. Sez. I, sentenza 13 giugno 2016, n. 51873).
2. Il permesso premio.
La denuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis ord. pen., è stata, di recente, riproposta in relazione al divieto di fruizione, da parte del condannato all’ergastolo ostativo, di un permesso premio per coltivare interessi affettivi e familiari, per violazione degli art. 27, comma terzo, e 117 Cost., in relazione all’art. 3 CEDU, non solo per contrasto con il principio della funzione rieducativa della pena, costituzionalmente protetto - perché impedisce l’effettivo conseguimento delle finalità riabilitative proprie del trattamento penitenziario (rendendo priva di qualsivoglia concreta funzione la riduzione di pena per liberazione anticipata che pure è prevista per i condannati alla pena perpetua al fine di consentire una anticipata maturazione dei requisiti temporali per l’accesso ai benefici) - ma anche per l’evidente contraddizione che la norma esprime rispetto ai principi affermati dalla CEDU che, nel valorizzare l’art. 3 della Convenzione, impongono agli Stati membri di prevedere dei meccanismi temporalmente certi sulla base dei quali, in presenza di una condanna alla pena dell’ergastolo, al detenuto sia assicurata l’effettiva possibilità di ottenere, in relazione al suo concreto percorso rieducativo, una revisione della condanna.
Si tratta, quindi, di questione in parte diversa rispetto alle precedenti decisioni della giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti tra la pena dell’ergastolo, i delitti ostativi di cui all’art. 4 bis, comma 1, ord. pen, e l’istituto della liberazione condizionale previsto dall’art. 176 c.p. che rappresenta nel sistema la più ampia delle misure alternative o sostitutive della pena detentiva e che presuppone che il condannato all’ergastolo abbia tenuto, nel corso di almeno ventisei anni, un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.
La concessione di un permesso premio per coltivare interessi affettivi e familiari (art. 30 ter ord. pen.) è subordinata alla presenza di tre condizioni: che i condannati alla pena dell’ergastolo abbiano espiato almeno dieci anni, che abbiano tenuto in carcere regolare condotta e che non siano socialmente pericolosi. A differenza della liberazione condizionale, che nella cornice ordinamentale e nella concreta esperienza applicativa è concepita come misura riabilitativa finale di un lungo percorso detentivo che si conclude con la definitiva liberazione del detenuto (sicuramente ravveduto), l’esperienza dei permessi premio è considerata dall’ordinamento come parte integrante del programma di trattamento rieducativo (art. 30 ter, comma terzo, ord. pen.), che deve tendere, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale, attraverso un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche esigenze dei soggetti (art, 1, sesto comma, ord. pen.), che si proponga di promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali, che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale.
La differente valutazione che deve compiere la magistratura di sorveglianza per l’esame di una domanda di liberazione condizionale (accertamento di un sicuro ravvedimento) rispetto alla diversa domanda di concessione di un permesso premio (assenza di pericolosità sociale) giustifica, quindi, una autonoma e rinnovata verifica della questione di legittimità costituzionale delle disposizioni che precludono il beneficio di cui all’art. 30 ter ord. pen. ai condannati alla pena dell’ergastolo per delitti commessi avvalendosi del metodo mafioso o al di agevolare l’attività delle associazioni di cui all’art. 416 bis c.p., che non abbiano offerto una positiva collaborazione con la giustizia.
3. La pericolosità sociale.
La questione deve essere, quindi, approfondita con specifico riguardo al tema della pericolosità sociale che l’art. 30 ter ord. pen. individua come elemento fondamentale per la valutazione, positiva o negativa, di una domanda di permesso premio.
Recenti approdi della giurisprudenza costituzionale, in tema di misure di prevenzione personale, hanno illustrato i momenti di tensione applicativa tra il concetto di pericolosità sociale (non più presunta) e l’espiazione di lunghi periodi di detenzione in carcere.
Secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 291 del 2013) - che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui l'esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l'organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d'ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell'interessato nel momento dell'esecuzione della misura - non può giustificarsi una presunzione, anche solo relativa, di persistenza della pericolosità sociale malgrado la sottoposizione ad un trattamento rieducativo specificamente volto alla sua risocializzazione, perché ciò varrebbe a negare in radice la possibile modificazione degli atteggiamenti individuali che costituisce l’obiettivo primario del trattamento penitenziario.
Il tema della pericolosità sociale di persone indagate per reati di criminalità organizzata è stato ampiamente esplorato dalla giurisprudenza costituzionale anche in relazione alle previsioni di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p. ed ai correlati criteri di scelta che il giudice deve seguire nella applicazione delle misure cautelari personali.
Con la sentenza n. 57 del 2013, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, c.p.p. come modificato dall'art. 2, comma 1, d.l. n. 11 del 2009 nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizio di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416- bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì l'ipotesi in cui siano stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Secondo la Corte, le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit.
La pronuncia si riferisce ai delitti commessi avvalendosi del c.d. "metodo mafioso" e ai delitti commessi al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall'art. 416- bis c.p., atteso che la possibile estraneità dell'autore di tali delitti ad un'associazione di tipo mafioso fa escludere che si sia sempre in presenza di un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza ad un tale sodalizio. La mera evocazione di un'associazione criminale, al fine di accrescere la portata intimidatoria della condotta, si riflette sulla gravità del fatto-reato e integra la fattispecie circostanziale di cui all'art. 7, d.l. n. 152 del 1991, ma non può essere equiparata, per quanto concerne la misura cautelare carceraria, alla commissione di un reato che implichi necessariamente un vincolo di appartenenza permanente ad un'associazione di tipo mafioso.
La giurisprudenza costituzionale ha ulteriormente approfondito il tema della pericolosità sociale in rapporto a quello delle misure cautelari personali con la sentenza n. 48 del 2015 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, rispetto al concorrente esterno nel suddetto delitto, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Nei confronti del concorrente esterno, secondo la Corte, non è in nessun caso ravvisabile quel vincolo di adesione permanente al gruppo criminale che è in grado di legittimare, sul piano empirico-sociologico, il ricorso in via esclusiva alla misura carceraria, quale unico strumento idoneo a recidere i rapporti dell'indiziato con l'ambiente delinquenziale di appartenenza e a neutralizzarne la pericolosità; il contesto mafioso in cui si colloca la condotta criminosa addebitata all'indiziato non basta ad offrire una congrua "base statistica" alla presunzione, ove esso non presupponga necessariamente l'appartenenza al sodalizio criminoso. La figura del concorrente esterno, quindi, se pure espressiva di una posizione di contiguità alla consorteria mafiosa, si differenzia da quella dell'associato proprio in relazione all'elemento che è in grado di rendere costituzionalmente compatibile la presunzione assoluta: e, cioè, lo stabile inserimento in una organizzazione criminale con caratteristiche di spiccata pericolosità.
La logica giustificatrice della previsione contenuta nell’art. 4 bis, comma 1, ord. pen., che, in relazione al diverso tema dei benefici penitenziari, e del permesso premio in particolare, ne preclude l’accesso, in senso assoluto, a tutte le persone condannate per i delitti ivi specificamente indicati che non abbiano prestato una collaborazione con la giustizia, senza distinguere tra persone affiliate con carattere di permanenza alle associazioni criminali e quelle che hanno commesso delitti utilizzando modalità mafiose o al fine di agevolare l’attività delle associazioni stesse, sembra entrare in contraddizione con i principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale che, per le valutazioni di competenza del giudice per l’applicazione delle misure cautelari, ha affermato il contrasto con la Costituzione di presunzioni assolute di pericolosità sociale rispetto a situazioni nelle quali non sia sussistente un vincolo di appartenenza ad un'associazione di tipo mafioso.
4. Divieto di benefici penitenziari e percorsi di rieducazione.
Un percorso evolutivo, analogo a quello tracciato dalla giurisprudenza costituzionale sul tema delle misure cautelari applicate a persone indagate per delitti di criminalità organizzata, si è registrato sul terreno della compatibilità tra il divieto di benefici penitenziari previsto dall’art. 4 bis, comma 1, ord. pen. ed i principi costituzionali che governano la fase di esecuzione della pena.
Nel dichiarare la illegittimità costituzionale degli articoli 47 quinquies e 47 ter comma 1, lett. a) e b), ord. pen,, nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari le misure di detenzione domiciliare previste a tutela del rapporto della madre detenuta con i propri figli di età inferiore ad anni dieci, la Corte costituzionale con la sentenza n. 239 del 2014 ha affermato che la scelta legislativa di accomunare nel regime di rigore sancito dall’art. 4 bis, comma 1, ord. pen. fattispecie e misure tra loro profondamente diversificate risulta lesiva dei parametri costituzionali perché illogica rispetto all’obiettivo di incentivazione alla collaborazione, quale strategia di contrasto della criminalità organizzata. La subordinazione dell’accesso alle misure alternative ad un indice legale del ravvedimento del condannato, la condotta collaborativa in quanto espressione della rottura del collegamento tra autore di reato e la criminalità organizzata, può risultare giustificabile, secondo la Corte, quando si discuta di misure che hanno di mira, in via esclusiva, la risocializzazione dell’autore della condotta illecita, non anche quando al centro della tutela si collochi un interesse esterno ed eterogeneo (nel caso di specie, quello del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne).
Con la successiva sentenza del 12 aprile 2017, n. 76, la Corte, scrutinando altra questione di legittimità costituzionale relativa ad altro profilo concernente la detenzione domiciliare speciale (art. 47 quinquies, comma 1 bis, ord. pen), ha sottoposto di nuovo a critica il ricorso a presunzioni insuperabili che negano in radice l’accesso della madre alle modalità agevolate di espiazione della pena, impedendo al giudice di valutare la sussistenza, in concreto, nelle singole situazioni, delle esigenze di difesa sociale, senza consentire un ragionevole bilanciamento di interessi, ma facendo ricorso ad indici presuntivi che comportano il totale sacrificio dell’interesse del minore.
Un’ulteriore importante tappa del processo di emersione di uno stato di perdurante tensione tra la previsione di preclusioni assolute nel campo della esecuzione della pena ed il principio costituzionale che afferma la necessaria funzione rieducativa della stessa (art. 27, terzo comma, Cost.) si è manifestata con la sentenza n. 149 dell’11 luglio 2018, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità dell’art. 58 quater, comma 4, ord. pen., nella parte in cui prevede che i condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 c.p., che abbiano cagionato la morte del sequestrato, non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati nel comma 1 dell’art. 4 bis ord. pen., se non abbiano effettivamente espiato almeno ventisei anni di pena.
La Corte ha censurato, in primo luogo, il contrasto di tale disposizione con il principio della progressività trattamentale e della flessibilità della pena, diretta espressione del finalismo rieducativo stabilito dall’art. 27, terzo comma, Cost., che mira a garantire il graduale inserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale durante l‘intero arco dell’esecuzione della pena. Secondo la Corte, la disciplina in esame finisce anche per frustrare la finalità essenziale della liberazione anticipata, la quale costituisce un tassello essenziale del vigente ordinamento penitenziario e della filosofia della risocializzazione che ne sta alla base.
Il carattere automatico della preclusione temporale all’accesso ai benefici penitenziari impedisce al giudice, secondo la Corte, qualsiasi valutazione individuale sul concreto percorso di rieducazione compiuto dal condannato all’ergastolo durante l’espiazione della pena, in ragione soltanto del titolo del reato; tale automatismo contrasta con il ruolo che deve essere riconosciuto, nella fase di esecuzione della pena, alla sua finalità di rieducazione del condannato, finalità ineliminabile che deve essere sempre garantita anche nei confronti di autori di delitti gravissimi condannati alla massima pena prevista nel nostro ordinamento.
Con la sentenza n. 149 del 2018 la Corte, dopo aver ribadito principi già affermati in precedenti decisioni, che indicano come criterio costituzionalmente vincolante quello che rifugge da rigidi automatismi nella materia dei benefici penitenziari, soprattutto se legati al titolo del reato commesso, ha operato un importante riferimento alla giurisprudenza della CEDU che, nella decisione della Grande Camera del 9 luglio 2013, Vinter ed altri contro Regno Unito, ha riconosciuto, pur in assenza nel testo della Convenzione di una disposizione dal tenore comparabile all’art. 27, terzo comma, della Costituzione italiana, la necessaria inerenza alla dignità della persona della prospettiva della risocializzazione del condannato come componente necessaria dell’esecuzione della pena dell’ergastolo, affermando, contestualmente, l’obbligo a carico degli Stati contraenti di consentire sempre che il condannato alla pena perpetua possa espiare la propria colpa, reinserendosi nella società, dopo aver scontato una parte della propria pena.
5. La collaborazione con la giustizia: una scelta obbligata?
La rassegna dei più recenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale in tema di presunzioni assolute che, per talune categorie di reati, impongono la misura cautelare carceraria e che impediscono l’accesso ai benefici penitenziari, induce ad una necessaria rilettura del tradizionale indirizzo interpretativo enunciato con chiarezza nella sentenza Corte costituzionale n. 135 del 2003.
Non è stata sufficientemente valutata, in primo luogo, la irragionevolezza della norma censurata di incostituzionalità (l’art. 4 bis, comma 1, ord. pen.) nella parte in cui prevede un divieto assoluto di concessione di benefici penitenziari nei confronti di autori di delitti, assai diversificati, non necessariamente collegati ad un contesto associativo di tipo mafioso.
La preclusione stabilita per i condannati di delitti come la riduzione in schiavitù, la prostituzione minorile, la pornografia minorile, la tratta di persone o l’acquisto di schiavi si giustifica, nel disegno del legislatore, con la particolare gravità delle condotte, che, tuttavia, non presuppongono lo stabile inserimento in una organizzazione criminale. Anche la generalizzata ostatività stabilita per le ipotesi delittuose previste dagli art. 416 bis c.p e dall’art. 74 D.P.R. n. 309/90, finisce per assimilare fattispecie associative del tutto diverse tra loro, per le peculiari caratteristiche che si riscontrano nelle tradizionali associazioni mafiose, non necessariamente sussistenti nelle ipotesi di organizzazioni finalizzate esclusivamente al traffico di stupefacenti.
Non può sfuggire, neppure, la sostanziale differenza di posizione tra chi è considerato interno (come partecipe o come capo) ad un’associazione di tipo mafioso e chi è stato condannato per un delitto commesso avvalendosi del metodo mafioso ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni stesse.
Prevedere il possibile accesso ai benefici penitenziari, per tutte le categorie di detenuti condannati per una delle diverse ipotesi di reato descritte nell’art. 4 bis, comma 1, ord. pen., solo nei casi in cui tali detenuti collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58 ter ord. pen., ha l’effetto di valorizzare la scelta collaborativa, come momento di rottura e di definitivo distacco dalle organizzazioni criminali, anche nei confronti di detenuti non inseriti in contesti associativi
Se l’obiettivo primario della norma censurata è stato indicato nella incentivazione alla collaborazione, quale strategia di contrasto della criminalità organizzata attraverso la rescissione definitiva dei legami con le associazioni di appartenenza, appare priva di ragionevolezza una disposizione che assimili condotte delittuose così diverse tra loro, precludendo ad una categoria così ampia e diversificata di condannati il diritto di ricevere un trattamento penitenziario rivolto alla risocializzazione, senza che sia data al giudice la possibilità di verificare in concreto la permanenza o meno di condizioni di pericolosità sociale tali da giustificare percorsi penitenziari non aperti alla realtà esterna.
Ulteriore profilo di manifesta irragionevolezza si può cogliere, in secondo luogo, considerando che l’art. 4 bis, comma 1, ord. pen., ricomprende nella preclusione non solo le misure alternative alla detenzione (e la liberazione condizionale), ma anche l’assegnazione al lavoro all’esterno ed i permessi premio che, come già sottolineato, costituiscono parte integrante del trattamento penitenziario (art. 30 ter, comma terzo, ord. pen.). La sostanziale differenziazione dei presupposti richiesti dalla legge per ottenere un provvedimento di liberazione condizionale rispetto alla concessione di un permesso premio, da un lato, il sicuro ravvedimento, dall’altro, l’assenza di pericolosità sociale, mette in luce i limiti della precedente elaborazione della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 135 del 2003), secondo la quale la scelta collaborativa, richiesta dall’art. 4 bis comma 1, ord. pen,, rappresenta un criterio legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di accertare il sicuro ravvedimento del condannato.
Che la scelta collaborativa rappresenti per un detenuto appartenente ad una associazione criminale di tipo mafioso una manifestazione di definitivo distacco dalla stessa, è circostanza affermata dal legislatore e condivisa dalla giurisprudenza. Ma che la cessazione dei legami di un detenuto con il gruppo criminale di riferimento possa essere dimostrata, durante la fase di esecuzione della pena, solo attraverso condotte collaborative, è affermazione che non può avere valore assoluto.
Le motivazioni che orientano un condannato all’ergastolo ostativo a non effettuare una scelta collaborativa non sempre coincidono con una libera determinazione di rimanere legato al gruppo criminale di appartenenza, al fine di continuare ad ottenere i vantaggi che il sodalizio può assicurare, ma possono trovare spiegazione in diverse considerazioni, quali il rischio per la incolumità propria e dei propri familiari, il rifiuto morale di rendere dichiarazioni di accusa nei confronti di uno stretto congiunto o di persone legate da vincoli affettivi o di parentela, il ripudio di un concetto di collaborazione utilitaristica che prescinde da un effettivo interiore ravvedimento.
L’argomento con cui si sostiene che la scelta di collaborare con la giustizia è l’unica condotta valutabile per accertare la rottura dei legami del condannato con la criminalità organizzata, come tale riconosciuta dall’ordinamento, non sembra, quindi, del tutto convincente, quanto meno in tutte le ipotesi in cui l’associazione di cui il detenuto ha fatto parte non esista più ovvero abbia assunto una dimensione organizzativa o territoriale del tutto incompatibile con le precedenti gerarchie (per incorporazione o fusione con altro gruppo criminale o per la totale eliminazione dei vecchi gruppi dirigenti).
L’individuazione della scelta collaborativa, come criterio legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere al fine di accertare il sicuro ravvedimento del condannato, finisce, inoltre, per condizionare il concreto trattamento penitenziario di un detenuto e le sue stesse possibilità di un reinserimento sociale, attraverso il ricorso ad una forma di presunzione che non ammette prova contraria. Il richiamo all’id quod plermque accidit o alla incidenza statistica con la quale le situazioni si verificano non può costituire valido argomento per un così grave sacrifico del diritto di tutti i condannati, anche quelli alla pena dell’ergastolo per reati considerati ostativi, ad una verifica del grado di rieducazione raggiunto dopo l’espiazione di una quantità di pena predeterminata, al fine di rendere effettivo anche nei loro confronti il principio della necessaria finalità risocializzante della pena detentiva.
Il principio è stato espresso con grande efficacia nella decisione della CEDU Grande Camera del 9 luglio 2013, già richiamata: “un detenuto condannato all’ergastolo effettivo ha il diritto di sapere, sin dall’inizio della sua pena, cosa deve fare perché sia esaminata una sua possibile liberazione e quali siano le condizioni applicabili; laddove il diritto nazionale non preveda la possibilità di una tale riesame, una pena dell’ergastolo effettivo contravviene alle esigenze derivanti dall’articolo 3 della Convenzione”.
6. Verso il superamento delle preclusioni assolute?
Le considerazioni che precedono - che evidenziano profili di irragionevolezza della scelta normativa di precludere l’accesso alle misure alternative al carcere nei confronti di tutti i detenuti condannati per delitti particolarmente gravi (solo alcuni dei quali necessariamente collegati alla criminalità organizzata) che non abbiano collaborato con la giustizia - acquistano maggiore rilevanza se riferite al tema della possibile fruizione, da parte di un condannato all’ergastolo ostativo, di fruire di un permesso premio, dopo aver espiato dieci anni di pena, come previsto dall’art. 30 ter, quarto comma, lett. b) e c), ord. pen.
La giurisprudenza costituzionale in tema di preclusioni derivanti dall’art. 4 bis, comma 1, ord. pen., ha valutato la questione di legittimità costituzionale proposta, ritenendola infondata, senza soffermarsi sulla diversa funzione che i benefici penitenziari indicati nella norma assolvono nell’ambito di un trattamento penitenziario che sia rispettoso del principio della necessaria finalità risocializzante della pena. Occorre ribadire, al riguardo, che la condizione cui la legge subordina la concessione di un permesso premio, non è il sicuro ravvedimento, ma l’assenza di pericolosità sociale.
La lettura delle sentenze della Corte costituzionale n. 57 del 2013 e n. 48 del 2015, in tema di misure cautelari personali, può fornire una valido punto di riferimento, nella parte in cui hanno dichiarato non conformi a Costituzione le presunzioni assolute di pericolosità sociale e di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere di persone indagate per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, ovvero per delitti commessi da chi sia indagato per concorso esterno.
La possibilità, ammessa dalla Corte, che, pur in presenza di titoli di reato caratteristici della criminalità organizzata, siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che siano stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, rappresenta una indubbia conferma della irragionevolezza della equiparazione assoluta tra mancata collaborazione con la giustizia e perdurante pericolosità sociale, che non tenga conto delle concrete situazioni di ciascun individuo.
Le riflessioni svolte trovano una importante conferma nella più recente sentenza della Corte costituzionale n. 149 del 2018 che ha ribadito che, per il condannato all’ergastolo che abbia raggiunto, nella espiazione della pena le soglie temporali fissate dal legislatore e che abbia dato prova di positiva partecipazione al percorso rieducativo, eventuali preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari possono legittimarsi sul piano costituzionale soltanto laddove presuppongano, pur sempre, valutazioni individuali, da parte dei competenti organi giurisdizionali, relative alla sussistenza di ragioni ostative di ordine specialpreventivo, “non essendo possibile sacrificare la funzione rieducativa riconosciuta dall’art. 27, terzo comma, Costituzione sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena”.
Sembrano, dunque, maturi i tempi per un ripensamento complessivo della compatibilità tra principi costituzionali e preclusioni assolute che caratterizzano l’espiazione della pena dell’ergastolo ostativo, specie in rapporto al divieto di fruizione di permessi premiali, la cui funzione non è quella di rimettere in libertà “pericolosi criminali”, ma quella di favorire, attraverso momenti di vita familiare esterni al carcere, l’avvio di percorsi di positivo reinserimento, come richiesto dalla nostra Costituzione.
Ho atteso che il tempo sgombrasse l’incredula retina da quelle sequenze da avanspettacolo. Ma purtroppo continuano a rimanervi impresse. Ministri della Repubblica che sgomitano trionfanti per ostentare lo scalpo di un criminale. Ministri della Repubblica che violano disinvoltamente norme del codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario. Ministri della Repubblica che si cimentano in un’imbarazzante gara nell’esibire la divisa dei corpi di polizia appartenenti al loro dicastero. Ministri della Repubblica che intendono la risposta dell’ordinamento al crimine come la soddisfatta vendetta dei vincitori.
Si sono dovuti ascoltare accenti che sarebbero ben comprensibili se provenienti dalla vittima o da un suo familiare, ma che sono inammissibili per un rappresentante dello Stato. Ed invece proprio dalle vittime, il cui dolore giustificherebbe qualsiasi reazione, anche scomposta e vendicativa, viene spesso un esempio di dignità, di compostezza, di umanità che è la prima e più inappellabile sanzione per i loro aguzzini: perché marca una differenza abissale -non tra vincitori e vinti- ma tra coloro che hanno rispetto degli altri esseri umani e della loro vita e coloro non lo hanno.
Ciò che più interessa, tuttavia, non è biasimare l’infelice sceneggiata: c’è stato un confortante coro al riguardo, cui si sono meritevolmente unite anche persone politicamente vicine ai protagonisti della penosa messinscena. Ciò che interessa è sbugiardare inaccettabili giustificazioni “postume”.
Si dice che con l’ostentata soddisfazione si è inteso rimarcare il successo dello Stato; ma le fanfare dell’entusiasmo, semmai, ne sottolineano l’assoluta eccezionalità.
Si dice che sia stato un modo per riconoscere prestigio e meriti alle forze di polizia interessate dall’operazione. Ma a loro dobbiamo riconoscenza e apprezzamento per ciò che con professionalità e sacrificio fanno quotidianamente al servizio della collettività, non certo per qualche selfie in maschera, che anzi ne mortifica l’altissima funzione. Alla Polizia penitenziaria, ad esempio, va la nostra profonda gratitudine per il delicatissimo, silenzioso, ingrato compito assolto nell’ombra umida e claustrofobica delle prigioni, non certo perché, sotto l’enfasi dei riflettori, si limita a prendere in consegna un condannato per gravissimi crimini. A ragionare diversamente, dovremmo ritenere che la Guardia di finanza o l’Arma dei carabinieri, non gratificate da impavesate passarelle, siano meno meritevoli di apprezzamento. O supporre che gli altri ministri dell’attuale governo che operano con discrezione e sobrietà non siano soddisfatti e orgogliosi dei funzionari del proprio dicastero.
Chiamiamo una buona volta le cose con il loro nome: si è trattato di una strumentalizzazione in chiave autopromozionale di funzioni e divise (v. la denuncia i Vigili del fuoco) che appartengono alla Stato, non certo al ministro pro tempore. Strumentalizzazione condotta, oltretutto, con modalità pateticamente esibizionistiche.
Sarà pur vero, come ammoniva Gobetti, che “in Italia la lotta tra il dannunzianesimo e la serietà è eterna”, ma è altrettanto amaramente certo che in questo periodo la lotta si è fatta impari.
(da “il Dubbio”, del 19.1.2019)
Nota redazionale
Esiste nel processo penale una regola di fede privilegiata degli atti pubblici da smentire con querela di falso?
E’ ipotizzabile l’aggravante della “fidefacenza”, ex art. 476 secondo comma cod. pen., con riferimento all’atto di indagine falso della polizia giudiziaria?
La sesta Sezione della Cassazione, pronunciandosi in tema di atti di indagine della polizia giudiziaria, ha affermato che non esistono nel processo penale atti forniti di fede privilegiata fino a querela di falso.
Si giunge a tale conclusione in base alla considerazione che la querela di falso del cod. civ. del 1942 e del cod. proc. civ del 1940 non ha mai riguardato la materia penale; che nel codice penale del 1930 esisteva lo specifico incidente di falso ex art. 215 e ss. da utilizzare per gli atti del processo, non riprodotto dal codice del 1988; che non è prevista nel processo penale specifica pregiudiziale civile.
A ciò si aggiunga la considerazione che la natura di atto che “fa fede fino a querela di falso”, con riferimento all’accertamento penale, è esclusa, non solo in ragione della mancanza di previsione normativa che assegni potestà documentatrice alla polizia giudiziaria ma altresì in quanto una simile previsione sarebbe in contrasto con il sistema.
E’ smentita ogni affermazione di segno contrario dal principio dell’oralità del dibattimento nonché dal principio – di rango costituzionale - della parità delle armi che permane anche nel rito dell’alternativa inquisitoria.
Sotto altro profilo, logica conseguenza che si trae dalla rilevata insussistenza del connotato di atto che fa fede fino a querela di falso è la non configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 476, secondo comma, cod. pen. alla falsità ideologica commessa dalla polizia giudiziaria negli atti di indagine (rapporti, informative, verbali etc.).
La costante affermazione della giurisprudenza di legittimità secondo cui “in tema di reato di falso ideologico in atto pubblico, affinché sia configurabile la circostanza aggravante prevista dall'art. 476, comma 2, cod. pen., sono documenti dotati di fede privilegiata solo quelli emessi dal pubblico ufficiale investito di una speciale potestà documentatrice, attribuita da una legge o da norme regolamentari, anche interne, ovvero desumibili dal sistema, in forza della quale l'atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l'accoglimento della querela di falso o con sentenza penale” (ex plurimis Sez. 6 n. 35219/2017), con riferimento ai verbali della polizia giudiziaria, va dunque senz’altro orientata alla luce della rilevata inammissibilità nel processo penale –governato, si ribadisce, dal principio dell’oralità e della parità delle armi- , nel senso dell’esclusione di caratteri di privilegio probatorio ai verbali redatti dalla polizia giudiziaria, con conseguente non configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 476, comma secondo, cod. pen. nell’ipotesi di falsità dell’atto.
La legge di bilancio per il 2019 ha modificato la pianta organica della magistratura ordinaria portandola a 10751 unità, con un incremento di 600 magistrati rispetto alla precedente dotazione fissata con l. n. 181 del 13 novembre 2008. In quella occasione l’aumento fu modesto (42 unità). Aumenti più consistenti si erano registrati nel 2001 (legge nr. 48 del 13 febbraio 2001: 1000 unità) e nel 1993 (legge nr. 295 del 9 agosto 1993: 600 unità).
Dunque è dal 2001 che la pianta organica non era sottoposta ad un adeguamento capace di incidere significativamente sul sistema giudiziario.
Nel frattempo, va ricordato, altri importanti interventi hanno ridisegnato la distribuzione delle risorse sul territorio: la ridefinizione della geografia giudiziaria del 2013, con la riduzione degli uffici giudiziari attuata attraverso la chiusura e/o l’accorpamento di uffici piccoli, e l’abolizione delle sedi distaccate; la revisione della pianta organica degli uffici di primo e secondo grado operata con i decreti ministeriali del 1° dicembre 2016 e del 2 agosto 2017; gli interventi in materia di assegnazione dei magistrati onorari e del personale amministrativo, anche a seguito di un nuovo consistente reclutamento.
Nelle previsioni del Ministero, anche per le conseguenti coperture di spesa, le 600 unità aggiuntive potranno essere assunte in un triennio, a partire dal 2020, nel numero massimo di 200 per ciascun anno.
La tabella B, poi, risulta modificata già per effetto della legge di bilancio, che suddivide l’aumento di organico assegnando 80 magistrati agli uffici giudicanti e requirenti di legittimità, e 520 agli uffici di merito, con riferimento a magistrati con funzioni giudicanti e requirenti di merito di primo e di secondo grado, di magistrato distrettuale, di coordinamento nazionale presso la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo e semidirettive di primo grado, di primo grado elevate e di secondo grado.
E’ evidente che l’assegnazione delle 80 unità agli uffici di legittimità, nel rispondere ad una condivisibile esigenza di rafforzare la Corte di Cassazione e la Procura Generale, non comporterà particolari difficoltà nella suddivisone dei magistrati fra i due uffici. Molto più difficili, complesse e politicamente sensibili, le scelte che dovranno essere operate per ripartire le 520 unità fra gli uffici di merito di primo e secondo grado.
Si tratta di scelte demandate al Ministro della Giustizia che dovrà emanare i relativi decreti entro tre mesi dalla entrata in vigore della legge di bilancio, previo parere del Consiglio Superiore della Magistratura.
La questione non è stata ancora oggetto di un reale dibattito interno alla magistratura che, anzi, ha dato l’impressione di accorgersi della positiva novità solo a norma approvata. Sembrano lontani i tempi in cui la magistratura associata poteva permettersi di esprimere dubbi sulla bontà di iniziative del genere, concentrandosi semmai sul tema della redistribuzione interne degli organici e sulla necessità della loro copertura integrale. Le considerazioni problematiche sulla concreta possibilità di assorbire un cospicuo aumento della pianta organica con nuovi magistrati forniti di adeguata preparazione di base, e la convinzione delle ricadute negative di un eccessivo ampliamento della categoria professionale, oggi lasciano il campo alla convinta consapevolezza che all’aumento progressivo della domanda di giustizia non può farsi fronte che con un adeguamento delle risorse disponibili; prime fra tutte quelle di magistratura, accompagnate da un programma di assunzioni e reclutamento del personale amministrativo che ne determini l’incremento numerico e qualitativo attraverso un deciso un ricambio generazionale, ed un costante investimento nelle nuove tecnologie e nell’informatizzazione. Si tratta di misure necessarie, unitamente alla progressiva entrata a regime della riforma della magistratura onoraria e dell’ufficio per il processo, per continuare a pretendere i miglioramenti organizzativi che la produzione normativa del Consiglio opportunamente richiede ai dirigenti degli uffici.
La distribuzione in organico di 520 magistrati negli uffici di merito rappresenta dunque uno snodo che influenzerà il funzionamento della giustizia per molti anni, e le scelte che faranno Ministero e Consiglio Superiore, oggettivamente difficili, dovranno essere il risultato di criteri e valutazioni che siano ispirati a trasparenza, efficienza e visione complessiva del sistema. Indirizzare più o meno risorse a uffici di primo o secondo grado, ad uffici distrettuali o uffici piccoli e/o periferici, al Nord o al Sud, sottende valutazioni e scelte cariche di “politicità”, che rischiano di essere pesantemente influenzate da campanilismi, bacini elettorali, cordate e interessi di varia natura. La giustizia non è omogeneamente amministrata sul territorio e la distribuzione delle risorse di magistratura continua ad esserne una delle cause, pur mitigata dai recenti ed utili aggiustamenti del 2016- 2017. Una giustizia a più velocità contribuisce a sua volta a determinare un’Italia a più velocità, dove la lentezza della giustizia fa da pendant alla lentezza della crescita economica e sociale di ampie fette della popolazione. Ne consegue che l’occasione è quella giusta per provare a contribuire a porre rimedio a tali disparità, affrontando una questione che appare molto concreta ma che incide su valori assai elevati.
La recente attività di confronto svolta in sede di comitato paritetico fra Ministero e Consiglio, prodromica alla revisione delle piante organiche di recente attuazione, potrà essere di conforto per i criteri utilizzati e gli approfondimenti che in quella sede furono operati, pur funzionali ad una diversa operazione quale quella di un redistribuzione che doveva condurre ad un saldo invariato, salvo il recupero di poche unità accantonate in passato per ragioni tecniche. Potranno essere utilizzate le tabelle del Ministero e le proiezioni fondate sulla densità di popolazione, sulla natura della criminalità e del contenzioso, sull’incidenza della presenza imprenditoriale, sui flussi delle pendenze, delle sopravvenienze e degli indici di ricambio. I dati aggiornati sulla ripartizione all’interno di Tribunali e Corti di giudici e giudici penali saranno utili a conoscere le esigenze dei diversi uffici e parametrare l’organico degli uffici requirenti; la suddivisione di partenza degli uffici in piccolo, medio piccolo, medio grande, grande e metropolitano, mutuato dal T.U. dirigenza e dalle altre fonti consiliari consentiranno di considerare le differenze fra uffici omogenei; l’acquisizione di dati aggiornati sugli uffici qualificati sedi disagiate ai sensi della legge 133/98, sugli uffici che hanno dovuto fruire del maggior numero di applicazioni extradistrettuali e di quelli che subiscono il maggior tasso di turn over, potranno aiutare ad identificare oggettivamente uffici in sofferenza che necessitano di maggiori risorse.
Alcuni problemi si ripropongono e chiederanno una preliminare soluzione.
Il primo, rituale, è il peso da attribuire al numero dei procedimenti pendenti. La pianta organica degli uffici giudiziari si determina innanzitutto sulle sopravvenienze, sui flussi di procedimenti che nel periodo considerato hanno ingresso nei ruoli dell’ufficio. Ma torna costantemente il tema del valore da attribuire alle pendenze, cioè al carico arretrato che grava sull’ufficio, spesso assai diversificato. Il carico arretrato può essere l’effetto del ricorrere di cause di inefficienza organizzativa non dipendente da carenza di risorse, ovvero da caratteristiche oggettive dell’ufficio, quali l’eccessivo turn over, la scarsa copertura dell’organico e la sua inadeguatezza di base, la carenza di personale amministrativo, la natura del contenzioso. Resta il fatto che al momento della definizione delle piante organiche far finta che non ci siano uffici gravati da un arretrato sensibilmente maggiore di altri, significa tradire la premessa che vuole l’aumento della pianta organica funzionale a dare maggiori risposte di giustizia ai cittadini e, soprattutto, ridurre il differenziale di durata dei processi fra una sede ed un’altra. E’ forse il caso di attribuire maggiore peso che in passato a questo criterio di riferimento; dare la possibilità a questi uffici di aggredire l’arretrato, mettendo poi in campo un monitoraggio del Ministero e del Consiglio per evitare che tali risorse vadano sprecate; veri e propri piani di abbattimento dell’arretrato vanno pensati con la collaborazione fra le istituzioni e con l’impegno degli uffici, responsabilizzati dall’aumento di organico, che può essere anche temporaneo e sottoposto a verifica periodica dei risultati conseguiti.
Altre scelte potranno essere il frutto della preliminare decisione sulla sorte dei magistrati distrettuali. Nel 2017 si prese atto del sostanziale fallimento dell’istituto, derivante dalla assenza di reali incentivi a ricoprire una funzione considerata residuale e prescelta, nell’ambito della mobilità, solo per ragioni collegate all’avvicinamento a casa. Ne conseguì la determinazione di ridurre al minimo indispensabile in posti in organico, a favore di posti stabili presso le Corti d’Appello. Dovrà ora valutarsi se l’istituto può essere rivitalizzato, magari discutendo contestualmente di possibili incentivi alla sua copertura, o se per la sua effettiva attuazione dovrà attendersi l’avvicinamento al pieno organico, possibile solo nei prossimi anni. Ne conseguiranno scelte in ordine alla destinazione a tali funzioni di parte dei posti disponibili per l’aumento di organico.
Uno snodo rilevante da affrontare è quello degli uffici piccoli. Una moderna concezione della geografia giudiziaria dovrebbe procedere per la ulteriore riduzione del numero degli uffici giudiziari, attraverso accorpamenti che semplifichino la distribuzione territoriale e realizzino unità organizzative al di sopra di standard minimi di funzionalità (Procure di 13/14 sostituti – Tribunali di 30/35 giudici), ma è chiaro che un tale progetto non appare assolutamente all’orizzonte e si presenta oggi come una vera e propria chimera, come dimostra anche la decisione del governo di rinviare la chiusura di Avezzano, Lanciano, Sulmona e Vasto fino al 2021. Così stando le cose, non c’è dubbio che la nuova distribuzione delle risorse dovrà puntare a puntellare questi uffici piccoli, mettendoli in condizione di avvalersi di organici in grado di assicurare una minima organizzazione funzionale ed efficace. Una particolare approfondimento meriteranno le Procure fine a 9 sostituti ed i Tribunali fino a 20 giudici; senza automatismi, perché alcune realtà di queste dimensioni sono adeguate, ma sicuramente è auspicabile una valutazione preliminare rispetto alle altre.
Infine, le Corti d’appello. Si tratta, per l’analisi dei numeri di pendenze e sopravvenienze di questi anni, senz’altro dell’imbuto del sistema giudiziario italiano su cui occorre intervenire. Del resto si prospetta, seppur fra qualche anno, un inevitabile incremento dei flussi conseguente alla modifica della norma sulla prescrizione, destinata ad entrare in vigore il 1 gennaio 2020. Ne deriverà per un verso un aumento dei procedimenti in secondo grado, per effetto del prevedibile aumento delle sentenze con decisioni nel merito in primo grado e per il venir meno della prescrizione in itinere dopo tale fase; per l’altro la necessità, nel settore penale, di rendere risposte in tempi ragionevoli per evitare l’effetto boomerang della riforma.
Appare davvero ineludibile, dunque, che una porzione significativa dell’aumento di organico sia destinata a tali uffici, con una particolare attenzione alle Corti d’Appello di Roma e di Napoli che gestiscono circa il 40% dell’arretrato delle Corti italiane, e per le quali dovrà continuarsi il lavoro di monitoraggio intrapreso due anni fa.
Queste solo alcune delle questioni che si pongono in vista della distribuzione dell’aumento di organico.
Ma più, e prima ancora, che il merito delle scelte, ciò che interessa evidenziare è la fondamentale importanza che esse siano per un verso il frutto di un metodo di confronto, discussione e condivisione dei criteri in sede di comitato paritetico Csm – Ministero e, per altro, che le determinazioni finali siano trasparenti e facilmente comprensibili, essendo inevitabile che esse possano determinare critiche, disapprovazioni e proteste. Solo l’assunzione da parte della magistratura di un ruolo centrale in questo percorso, sia nell’ambito del dibattito associativo che del circuito locale del governo autonomo (attraverso l’acquisizione di informazioni presso gli uffici ed i consigli giudiziari) e del Consiglio Superiore della Magistratura, potrà mettere in campo la giusta interdizione ad interferenze campanilistiche, in parte esterne al legittimo circuito decisionale e di matrice politica, in parte interne ad esso, con la deprecabile corsa al canale di interlocuzione privilegiato con il Ministro che dirigenti ed uffici giudiziari, specie quelli di maggior peso, possano essere tentati di operare.
La sfida è lanciata, e coinvolge tutti. Aspetteremo poi la copertura dei nuovi organici e gli investimenti per il personale e l’informatica. E continueremo, da par nostro, a lavorare sull’organizzazione. Ma questa è tutta un’altra storia, non meno importante.
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