ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’invasione degli zombie secondo Jim Jarmusch. Un divertissement cinefilo, aspettando (pur tra qualche sana risata) il colpo d’ala che non arriva.
Diciamolo da subito: non è il miglior film di Jim Jarmusch. E siamo lontani da quella perla horror vampirista che era stata Solo gli amanti sopravvivono.
I morti non muoiono (film di apertura del Festival di Cannes 2019) racconta della vita di un tranquillo paesino statunitense (Centerville, “davvero un bel posto” recita il cartello all’ingresso), stravolta dall’invasione degli zombie, che riemergono dalle tombe a causa della deviazione dell’asse terrestre (provocata da una spietata multinazionale).
In questa zombie comedy (perché qualche risata, e pure di gusto, la si fa) ritroviamo tutti gli stilemi tipici del cinema di Jarmusch.
Ecco così il cast stellare e feticcio con Bill Murray (l’imperturbabile sceriffo del paese), Adam Driver (il giovane e razionale poliziotto), Steve Buscemi (uno scorbutico redneck di campagna), lo zombie Iggy Pop, il saggio eremita Tom Waits e una strepitosa Tilda Swinton (nelle assurde vesti della responsabile dell’agenzia di pompe funebri, con un etereo accento scozzese e una katana à la Kill Bill).
Ecco anche la vena ironica e surreale che lambisce i dialoghi (Driver, dopo aver ribadito per l’ennesima volta che la storia finirà male, spiega candido: “Lo so perché Jim mi ha mostrato la sceneggiatura”), il citazionismo di livello (alcuni turisti di passaggio guidano una Pontiac del 1968, anno dell’uscita della Notte dei Morti Viventi di George Romero), la cinefilia ammiccante (su tutti, il gestore della pompa di benzina: un nerd con la maglia di Nosferatu che sa perfettamente come comportarsi con gli zombie) e il ricorso divertito all’intertestualità (il personaggio di Driver si chiama Peterson, con una sola vocale diversa dal precedente Paterson, e sfoggia un portachiavi di Star Wars...).
Eppure, è nel sottotesto politico che il regista pare decisamente svogliato: la polemica ambientalista assume toni piuttosto fiacchi (si parla di fracking dei poli ma il tema sembra gettato lì quasi per caso) e la critica al consumismo (gli zombie, più che desiderosi dei cervelli dei viventi, invocano insaziabilmente alcolici, dolciumi, caffè e wi-fi) rasenta il didascalismo.
No, dimenticatevi le metafore dei morti viventi di Romero.
I non-morti di Jarmusch (oltre a ispirare l’eponima canzone country di Sturgill Simpson che accompagna affettuosamente tutti i personaggi) fanno più che altro da sfondo ad un divertissement che, pur tra qualche notevole trovata autoriale e alcune battute azzeccate, langue sul piano contenutistico e ci lascia più di un rimpianto.
Spoiler per gli appassionati di splatter: le teste degli zombie non esplodono, come nella migliore tradizione, ma esalano fumo nero.
Al mondo, il 3% dei detenuti sono ergastolani, 300.000 su 10 milioni. Uguale in Italia: 1.700 su 60.000, il 2,8%. Ma esiste una differenza gigantesca. Dei 300.00 ergastolani, in 230.000 hanno la possibilità di ottenere la liberazione condizionale, da parte di un giudice o di un organo quasi-giurisdizionale (il parole board). Significa che, per l’80%, si potrà valutare se la rieducazione ha fatto il suo corso o se permane la pericolosità. In Italia, invece, dei 1.700 ergastolani, 1.200 sono ostativi, per i quali la liberazione condizionale è valutabile solo se hanno utilmente collaborato con la giustizia.
Traduciamo: per il 75% degli ergastolani italiani la liberazione condizionale è un istituto che rimane “sulla carta”, sanno che esiste, ma non la otterranno mai. Questo perché – per l’art. 4bis, I c., ord. pen. – tutti i benefici penitenziari, per le persone condannate per uno dei reati ricompresi nello stesso articolo, possono essere concessi solo a fronte di una utile collaborazione con la giustizia.
Sei un ergastolano? Collabora, il gioco è fatto. Vero, ma anche no. Esiste la libertà morale di non barattare la propria libertà personale con quella altrui, magari un fratello. Esiste il diritto al silenzio, un diritto inviolabile della persona, che non può evaporare solo perché il processo di cognizione è finito. Esiste la paura, vale a dire il rischio per la vita e la incolumità di chi collabora e dei propri famigliari, iniziando dai figli. E va detto che esiste anche uno Stato, il nostro, che non prende sul serio il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia. A detta del Procuratore Nazionale Antimafia, è da ripensare completamente: scarse risorse finanziarie e di personale, cambio di identità concesso di rado, abbandono del collaboratore e dei famigliari, scarsa vigilanza e controllo. Del resto, una domanda ragionevole, che germoglia dalla comune esperienza: cosa può garantire che una persona che ha collaborato, in realtà, non lo abbia fatto per tornare a delinquere, per vendicarsi, per mero calcolo processuale?
In questo scenario, non certo inaspettata, è giunta, il 13 giugno 2019, la sentenza Viola v. Italia n. 2 della Corte europea dei diritti umani. Due, tra i tanti, gli aspetti da evidenziare. Uno di merito, uno di metodo.
Il merito. La disciplina italiana dell’ergastolo ostativo, per la Corte, viola l’art. 3 della Convenzione, poiché non permette al giudice di valutare altro rispetto alla non collaborazione con la giustizia. Se la persona ha intrapreso, nel corso della detenzione, un percorso positivo – anche grazie ai direttori di carcere, alla polizia penitenziaria, agli educatori, alla famiglia – il giudice non ne può tenere conto, poiché ciò che conta è solo che, potendolo fare, non ha collaborato. Il giudice negherà sempre e comunque ogni beneficio penitenziario: è questo che, per la Corte, costituisce una chiarissima violazione dell’art. 3, che protegge la dignità umana, cardine del sistema convenzionale, che deve essere sempre garantita, indipendentemente dai reati. Qualunque cosa positiva faccia il detenuto, è come se fosse fatta per niente, perché, se non ha collaborato, il suo comportamento non può essere valutato.
La Corte si incanala nella sua giurisprudenza, inaugurata nel 2013. Ad oggi, i 10 Stati del Consiglio d’Europa che prevedono l’ergastolo senza liberazione condizionale sono stati tutti giudicati dalla Corte, tranne Svezia e Malta. A parte il Regno Unito, tutti gli Stati hanno subito la medesima sorte: violazione dell’art. 3, la pena è inumana e degradante.
Nel metodo. La sentenza Viola non è pilota, poiché non sono depositati alla Corte un grande numero di ricorsi simili a quello di Viola (in Torreggiani erano più di 3.000). E’ una sentenza quasi-pilota: dato che nelle condizioni di Viola si contano 1.200 ergastolani, la Corte, che potrebbe ricevere ricorsi da tutte queste persone, decide di indicare allo Stato le misure generali da prendere. Il problema è strutturale, si deve intervenire verso tutti, preferibilmente con una riforma legislativa, dice, giustamente, la Corte. Ma, ovvio, non è l’unica possibilità, tanto è vero che la Corte stessa richiama la questione di costituzionalità pendente alla Consulta, in attesa di essere discussa il 22 ottobre 2019. Quello che importa è che la preclusione legislativa da assoluta diventi relativa, decida lo Stato italiano come, di preferenza con una riforma legislativa (che ridisegni il regime ostativo), ma anche con un intervento del giudice costituzionale.
Due ulteriori notazioni. La sentenza Viola diverrà definitiva il 13 settembre 2019, fino allora il Governo può chiedere il rinvio alla Grande Camera. Dubito che, se chiesto, sarà accettato, il percorso giurisprudenziale della Corte, su questa importante questione, è lineare. Cosa intende fare, il Governo, insistere con la storia della grazia e del differimento della pena per motivi di salute? Libero di farlo, ma il rischio è una seria figuraccia a livello internazionale.
Per quanto riguarda il caso all’attenzione della Consulta, non resta che attendere, speranzosi. Riguarda il permesso premio e non la liberazione condizionale, tuttavia la sentenza Viola potrà aiutare (non poco) i giudici costituzionali nell’estendere la (eventuale) incostituzionalità, ricomprendendo il permesso premio, la semilibertà e la liberazione condizionale. Non è forse un obbligo costituzionale il rispetto degli obblighi internazionali? D’altro canto, a cosa serve, un permesso, se non per la semilibertà e la liberazione condizionale? Vi è poco da fare: oltre alla Convenzione, l’ergastolo ostativo viola la Costituzione, che si fonda sul progresso verso la rieducazione, detto altrimenti sul senso di umanità.
La Costituzione, appunto. L’impegno affinché rappresenti uno scudo per i diritti dei detenuti non si arresta mai. Si pensi alla decadenza dalla responsabilità genitoriale per gli ergastolani, alla eliminazione anche nel penale del ricorso personale in Cassazione, alla quadruplicazione dei reati contenuti nel regime ostativo, ora applicabile anche ai minori. Sono esempi. Che vanno affrontati seguendo l’insegnamento di Umberto Veronesi, per il quale “il dolore non ha senso, e non può in nessun caso costituire un valore”. Aveva “un’intima speranza che poi è un sogno: sogno un uomo e una società che abbiano dei dubbi (…) ma che non abbiano paura. Paura di dialogare, di ragionare, di cambiare”. E’ come fosse ieri quando diceva che “la forza della democrazia è non avere paura”. Qualsiasi perpetuità e qualsiasi automatismo altro non sono che una sconfitta del coraggio e della speranza. Di tutti: giudici, pubblici ministeri, avvocati, professori universitari, operatori, politici, persone, private o meno della libertà
*Scritto destinato a Ristretti Orizzonti e a Giustizia Insieme. Una versione ridotta apparirà nella rubrica Fuoriluogo de il manifesto del 19 giugno 2019
La rapina sconclusionata di quattro studenti universitari, in un film che cerca la verità nella finzione.
Lexington, Kentucky: dei libri molto preziosi, una biblioteca con blandi sistemi di sicurezza, la noia dei pomeriggi universitari.
Ci sono tutti gli elementi per un colpo facile facile, anche alla portata di quattro collegiali scapestrati.
Questa la trama di American animals, il nuovo film di Bart Layton (presentato l’anno scorso alla Festa del Cinema di Roma); ma anche la vera storia di Spencer Rheinhard, studente di storia dell’arte, che nel 2003 aveva radunato una banda di amici per mettere a segno il furto di due rari volumi (le edizioni di Birds of America di James Audubon e L’Evoluzione della Specie di Charles Darwin) dalla biblioteca dell'università.
In American animals Layton ripropone il trucco metanarrativo che già aveva adottato in The Imposter (osannata pellicola indie, fra documentario e cinema di genere, che esplorava la mitomania del ladro d’identità Frederic Bourdin). E così mescola le interviste dei protagonisti reali alla finzione di un heist movie, tanto preciso nella regia quanto assurdo nei connotati (niente armi sofisticate o diavolerie informatiche, un taser basta e avanza; nessun clan rivale né spietati avversari da eliminare, c’è solo una bibliotecaria sessantenne da immobilizzare).
Il colpo, lo si intuisce fin dall’inizio, è un fallimento totale. Ma non è quello il cuore del film.
Mentre sorridiamo seguendo l’ideazione del piano (compreso lo spassoso ammiccamento a Le iene) e ascoltiamo la vera voce degli improvvisati Ocean’s Four, si affaccia il vuoto di orizzonte che li pervade: quattro giovani bianchi americani, più o meno di buona famiglia, che intravedono finalmente l'occasione di vivere qualcosa eccezionale, l'identità che cercano, per rispondere al disperato bisogno di sentirsi speciali.
E poi, tra le righe, c’è il tema dell’instabilità della memoria, dell’impossibilità di offrire un’unica versione dei fatti nemmeno sulla base dei racconti di chi c’era, quando possono farsi più labili le linee di demarcazione tra verità e finzione (e già sentiamo gongolare i teorici della “docu-fiction”).
La realtà si scolora, via via i ragazzi appaiono meno convincenti degli attori, il documentario abborda la messinscena.
All'inizio del film compare una scritta: "This is not based on a true story. This is a true story". Un monito, una dedica, un'insolenza: ma qual è la vera storia?
La sentenza della corte costituzionale n. 88/2019: ma la revoca della patente è sempre identica?
di Roberto Aniello
Sommario:1. I motivi della declaratoria di illegittimità costituzionale. - 2. Il presupposto del ragionamento della Corte Costituzionale: l’identità della sanzione amministrativa. - 3. La duplicità di sanzioni - sospensione e revoca – nell’art. 222 comma 2 cod. str.
1. I motivi della declaratoria di illegittimità costituzionale.
Con sentenza n. 88/2019 (ud. 19.2.2019 - dep. 17.4.2019) la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 222 comma 2, quarto periodo, del codice della strada, “nella parte in cui non prevede che, in caso di condanna, ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per i reati di cui agli artt. 589-bis (Omicidio stradale) e 590-bis (Lesioni personali stradali gravi o gravissime) del codice penale, il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa ai sensi del secondo e terzo periodo dello stesso comma 2 dell’art. 222 cod. strada allorché non ricorra alcuna delle circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo e terzo degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen.”
Il ragionamento che ha condotto il giudice delle leggi a tale pronuncia è assolutamente lineare e si articola nei seguenti passaggi logici:
Queste sono dunque le argomentazioni fondamentali che hanno condotto il giudice delle leggi alla declaratoria di incostituzionalità.
Vi è per la verità una successiva considerazione in ordine alla sovrapposizione delle sanzioni amministrative della sospensione della patente, prevista dal secondo e terso periodo dell’art. 222 comma 2, e della revoca, prevista dal quarto periodo per fattispecie di reato in parte identiche. Tuttavia, a questo rilievo la Corte, nell’ambito del ragionamento relativo alla illegittimità costituzionale della revoca non attribuisce efficacia, limitandosi ad osservare che si tratta di “una poco coerente sovrapposizione di fattispecie sanzionate, o no, con la revoca della patente, che si aggiunge all’irragionevolezza intrinseca della sanzione indifferenziata per ipotesi marcatamente diverse in termini di gravità della condotta”.
2. Il presupposto del ragionamento della Corte Costituzionale: l’identità della sanzione amministrativa.
I passaggi argomentativi della pronuncia in esame appaiono ineccepibili, ma danno per scontato un presupposto: quello della identità della sanzione amministrativa della revoca della patente per tutte le ipotesi di reato alle quali la stessa consegue.
Se così fosse, certamente si verificherebbe quell’indifferenziato automatismo sanzionatorio censurato dalla Corte Costituzionale e posto a fondamento della declaratoria di illegittimità costituzionale.
Ma è proprio così?
Certamente, la revoca è, a differenza della sospensione, atto definitivo, come espressamente stabilito dall’art. 219 comma 3 cod. str.; infatti, in seguito alla sospensione, una volta decorso il termine prescritto, la patente viene restituita, senza necessità di attivazione dell’interessato (art. 218 comma 4 cod. str.), mentre la revoca impedisce che la patente conseguita possa riacquistare validità.
Però la revoca non ha una indefinita efficacia impeditiva rispetto al conseguimento di una nuova patente di guida, non ha, in altri termini, effetti permanenti.
Il titolare di patente revocata può infatti conseguire una nuova patente sostenendo nuovamente gli esami prescritti dalla legge, ma le norme del codice della strada impongono dei termini dilatori per il conseguimento della nuova patente (decorrenti dalla data del passaggio in giudicato della sentenza che dispone la revoca: Cass. Civ. Sez. 2^, n. 13508/2019).
In particolare, l’art. 219 comma 3 bis cod. str. prevede, nell’ipotesi di revoca di cui al precedente comma 2, che “l'interessato non può conseguire una nuova patente se non dopo che siano trascorsi almeno due anni”; nel caso di revoca della patente di guida disposta a seguito delle violazioni di cui agli articoli 186, 186-bis e 187 cod. str., il termine è di tre anni.
Per le ipotesi che qui interessano, la legge n. 41/2016 ha effettivamente previsto, introducendo i commi 3 bis e 3 ter dell’art. 222 cod. str., la revoca della patente di guida per tutte le ipotesi di cui agli artt. 589 bis e 590 bis c.p.
Ha però, al contempo, differenziato i limiti temporali per il conseguimento della nuova patente: il comma 3 bis prevede 15 anni per i reati cui all’art. 589 bis secondo, terzo e quarto comma; 10 anni per il reato di cui all’art. 589 bis quinto comma; il termine è elevato a 20 anni per chi sia già stato condannato per guida in stato di ebbrezza o di alterazione da stupefacenti e a 30 anni in caso di omissione di soccorso e fuga. Il comma 3 ter stabilisce un termine di 5 anni per i reati di cui agli artt. 589 bis e 590 bis, raddoppiato per chi sia già stato condannato per guida in stato di ebbrezza o di alterazione da stupefacenti e aumentato a 12 anni in caso di omissione di soccorso e fuga.
Facendo riferimento a queste differenziate previsioni per i termini dilatori a seguito dei quali la patente di guida può, dopo la revoca, essere nuovamente conseguita, la Procura generale della Corte di Cassazione aveva concluso, già con requisitoria in data 24.7.2018 (ric. Olivelli), nel senso della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata col ricorso e la Corte di Cassazione aveva condiviso tale conclusione con sentenza di Sez. 4^ n. 52804 del 14/09/2018 Cc. (dep. 23/11/2018)[1], ric. Olivelli, sentenza così massimata: “È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 222, comma 2, quarto periodo, cod. strada, in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui rende obbligatoria la revoca della patente di guida quale effetto della condanna ovvero dell'applicazione della pena su richiesta delle parti per i reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., rientrando tale previsione nel legittimo esercizio del potere legislativo”.
Tale pronuncia, peraltro, aveva motivato essenzialmente non già sui diversi limiti temporali previsti per il conseguimento di nuova patente, ma sulla diversa natura delle sanzioni amministrative rispetto a quelle penali, osservando che la modifica delle sanzioni amministrative operata della legge n. 41/2016, in relazione all'accertamento delle due nuove fattispecie autonome di reato di omicidio colposo stradale (589 bis cod. pen.) e di lesioni personali stradali gravi o gravissime (590 bis cod. pen.), aveva inteso inasprire le conseguenze di carattere amministrativo in relazione a condotte di guida accomunate da particolare gravità sia sotto il profilo della condotta che dell'evento, in quanto lesive dei beni primari della vita e della integrità fisica., con una scelta legislativa non sindacabile sotto il profilo della ragionevolezza.
Successivamente, la stessa Sez. 4^, con sentenza n. 6423 del 06/11/2018 Cc. (dep. 11/02/2019) ric. Lobbia[2], ha fatto espresso riferimento alla differente durata dei periodi previsti prima che l’interessato possa acquisire una nuova patente; la massima recita: “E' manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 222 cod. strada, commi 2, quarto periodo, e 3-ter, in relazione agli artt. 3, 25, 27 e 111 Cost., laddove ad esso consegue la revoca della patente di guida tanto per le lesioni gravi o gravissime quanto per l'omicidio stradale, atteso che il trattamento sanzionatorio deve essere valutato nel suo complesso, e che la diversa durata, prevista dalla norma, dei periodi di inabilitazione alla guida prima che l'interessato possa acquisire una nuova patente, conferisce una diversa afflittività alla sanzione in base alla gravità del fatto”. In motivazione si precisa che vi è equiparazione solo tra l'omicidio stradale 'basico' e le lesioni gravi e gravissime, equiparazione che però non appare irragionevole
Le argomentazioni di tale pronuncia sono state richiamate e ribadite con al sentenza di Sez. 4^ n. 7548 del 28/11/2018 Cc. (dep. 19.2.2019), ric. Nespoli (non massimata)[3].
Si può solo ulteriormente evidenziare che la durata dei termini dilatori per il conseguimento di nuova patente appare strettamente correlata alla differente gravità delle fattispecie, cosicché la revoca risulterebbe avere una efficacia concretamente commisurata all’entità del fatto commesso.
Ciò posto, le osservazioni che avevano indotto la Corte di Cassazione a dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale non sembrano di trascurabile importanza, ma sta di fatto che la Corte Costituzionale, pervenendo all’opposta conclusione della incostituzionalità della norma in esame, non le ha minimamente prese in considerazione. Si può ipotizzare, una volta esclusa la possibilità di una lacuna motivazionale, che i giudici delle leggi abbiano ritenuto del tutto irrilevanti gli argomenti illustrati dalla Corte di Cassazione, il che però desta qualche perplessità, verosimilmente destinata a rimanere tale.
3. La duplicità di sanzioni - sospensione e revoca – nell’art. 222 comma 2 cod. str.
Per completezza, con riferimento alla sovrapposizione delle sanzioni amministrative rilevata nella sentenza in esame, è opportuno evidenziare che anch’essa era stata già presa in considerazione dalla Corte di legittimità, pervenendo a quella che appare l’unica soluzione possibile.
Invero, la legge 41/2016 ha modificato l’art. 222 comma 2 quarto periodo, che ora è del seguente tenore: “Alla condanna, ovvero all'applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per i reati di cui agli articoli 589-bis e 590-bis del codice penale consegue la revoca della patente di guida”.
La riforma ha però lasciato inalterati i primi tre periodi dell’art 222 comma 2, con i quali sussiste ora un evidente contrasto.
Infatti, i primi tre periodi prevedono la sospensione della patente di guida – con differenti durate – per i fatti commessi con violazione del codice della strada dai quali derivino lesioni personali colpose lievi, gravi o gravissime o omicidio colposo.
Secondo la disciplina previgente alla legge 41/2016, ai sensi del quarto periodo, qualora i fatti di cui al secondo o terzo periodo (lesioni gravi e gravissime e omicidio) fossero commessi da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), ovvero da soggetto sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice applicava la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente.
La legge 41/2016, nel sostituire questo quarto periodo, ha fatto riferimento ai reati di cui agli artt. 589 bis e 590 bis c.p., nei quali sono confluite tutte le ipotesi di omicidio stradale e lesioni stradali gravi e gravissime.
Per queste fattispecie vi sarebbe dunque una duplicità di sanzioni amministrative accessorie, la sospensione della patente prevista dal secondo e terzo periodo e la revoca prevista dal quarto periodo. Soltanto per le lesioni colpose lievi, non rientranti nel nuovo art. 590 bis, rimane la sola sanzione della sospensione.
Sospensione e revoca sono, all’evidenza, sanzioni incompatibili e non applicabili contemporaneamente, né avrebbe senso un’applicazione di entrambe in tempi successivi.
L’unica soluzione ragionevole è allora quella di ritenere implicitamente abrogate le norme precedenti, alla stregua del principio fissato dall’art. 15 delle preleggi in ordine alla incompatibilità tra le nuove disposizioni e quelle anteriori.
Ne consegue che, per le lesioni colpose gravi e gravissime e per l’omicidio colposo commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale, la sanzione amministrativa accessoria da applicare è – o meglio, sarebbe, se non vi fosse stata la pronuncia di illegittimità costituzionale - la revoca della patente, ai sensi dell’art. 222 comma 2, quarto e quinto periodo.
A tali condivisibili conclusioni era giunta la Corte di Cassazione con le citate sentenze Lobbia e Nespoli, ora però superate dalla sentenza della Corte Costituzionale, che ha reso la sospensione e la revoca sempre alternative – fatta eccezione per le ipotesi aggravate previste dal secondo e dal terzo comma sia dell’art. 589 bis che dell’art. 590 bis c.p. - e, in quanto tali, rimesse alla valutazione discrezionale del giudice.
[1] Rv. 274523 – 01 - Presidente: Izzo Fausto. Estensore e relatore: Ranaldi Alessandro. Imputato: Olivelli Dario. P.M. Romano Giulio (N.D.R.: indicazione erronea, in realtà P.M. Aniello Roberto) (Conf.) Dichiara Inammissibile, Gip Tribunale Livorno, 25/01/2018.
[2] Rv. 275023 – 01 Presidente: Fumu Giacomo. Estensore e Relatore: Dovere Salvatore. Imputato: Lobbia Giovanni. P.M. Fodaroni Maria Giuseppina. (Conf.) Rigetta Tribunale Pavia, 29/05/2018.
[3] Pres. Fumu, Est. Ranaldi, P.M. Aniello (Conf.).
Il L.A.P.E.C. è una realtà importante per la formazione congiunta dei magistrati e degli avvocati. Tanti, ma non tutti, lo conoscono. Qual è la sua storia e la sua situazione attuale?
Il Laboratorio Permantente su esame, controesame e giusto processo “Ettore Randazzo” è nato da una geniale intuizione di un grande pioniere dell’avvocatura cui oggi è dedicato.
Ettore era un riformista pragmatico: capiva che la parità dei ruoli non si poteva imporre per legge ma sarebbe stata raggiunta da un’avvocatura capace di confrontarsi sul piano culturale con magistratura ed Accademia. Sposo’ la teoria dei piccoli passi cominciando dalla condivisione delle regole sulla Cross Examonation. Anni prima nell’Unione (che di lui si è dimenticata) aveva scritto le regole sulle indagini difensive prevedendo per il difensore una rigorosa applicazione delle regole deontologiche.
Senza di lui le difficoltà sono molte ma l’associazione continua a vivere grazie all’abnegazione della moglie Elisabetta, del nuovo presidente Valerio Spigarelli e del coordinatore nazionale Giovanni Sofia. Sperabilmente in autunno si terrà il congresso nazionale da cui ripartire. A mio parere occorre coinvolgere di più le sezioni territoriali come forza propulsiva.
Come avvocato e studioso che da decenni si occupa di logica e di filosofia della scienza e come cittadino attivo e attento ai fenomeni sociologici e politici, quali ritiene che siano le maggiori carenze che la formazione e la pratica dei giuristi italiani presentano al riguardo?
La ringrazio per la considerazione: da modesto fruitore del diritto trovo che ancora l’ambiente dei giuristi sia troppo autoreferenziale e chiuso agli influssi dell’epistemologia e delle scienze sociali.
Secondo me l’avvocato (e più in generale il giurista) oggi deve sapere o almeno essere curioso di economia e di metodo scientifico, essere aggiornato sul progresso scientifico, capire il contesto sociale e politico. Deve avere apertura mentale insomma. Il Diritto è una visione politica e bisogna ragionarci intorno.
Non mi pare che i corsi di studio sulle professioni legali siano sufficientemente aperti, tranne qualche rara eccezione. Il risultato è alla fine un diffuso conformismo, specie nell’avvocatura che pure dovrebbe essere una forza critica contro il potere.
La “manifesta illogicità” della motivazione vizia la sentenza e conduce al suo annullamento (art. 606 lett. e, cod. proc. pen.). Tuttavia, il legislatore non ne definisce la nozione. Se dovesse illustrarne il significato a un suo assistito di cultura media cosa gli direbbe ?
Io sto ancora cercando di spiegarlo a me stesso facendo lo slalom della variegata giurisprudenza sul punto.
Una delle migliori spiegazioni l’ho sentita ad un corso della Sua Scuola Superiore ad opera di Piero Gaeta, magistrato e mente giuridica tra le più brillanti. Il vizio logico e’ la rottura del sillogismo di Aristotele. Proprio quello: Premessa maggiore- minore-sintesi finale
Sbagli uno dei tre ed hai il vizio logico: le faccio un esempio da una esperienza reale.
1- L’affidabilità di una prova scientifica di basa sul metodo, 2- il perito x ha commesso degli errori, 3- il risultato della prova è esatto. E’ evidente che tra le due premesse e la conclusione vi e’ un salto logico. Ciò nonostante l’esempio che le ho fatto è reale: a Sua (e mia) consolazione la Cassazione ha corretto.
Il ricorso alle leggi scientifiche è un dato quotidiano in molti settori della pratica giudiziaria. Quali insidie epistemologiche comporta il loro utilizzo per la ricostruzione di eventi singoli?
Come scrive in un suo bel libro Gaetano Carlizzi (“la valutazione della prova scientifica”) la valutazione di una legge o meglio dire un principio scientifico è un giudizio di affidabilità sul meccanismo di applicazione al caso concreto.
Da Daubert a Franzese a Cozzini abbiamo appreso che non può esserci da parte del giudice una meccanica trasposizione del dato tecnico al giudizio senza una verifica puntuale dei vari passaggi e della correttezza epistemologica. Dunque riproducibilità, percentuale di errore e condivisione della comunità scientifica.
I problemi nascono dalla “maneggiabilita’” di questi concetti ad opera dei giuristi e soprattutto dalla difficoltà di “testare” con regole di valutazioni uniformi le scienze leggere come quelle cognitive.
Un problema, Lei lo sa, che ci appassiona e che ci fa disperare quanto alla sua soluzione perché è legato purtroppo alla soggettività del giudice. Non esiste ancora una legge universale della scienza cognitiva.
Concludiamo con temi para-istituzionali.
Le vicende dei rapporti fra le associazioni dei magistrati e degli avvocati sono state e sono variegate secondo i tempi, i luoghi e i contesti. E’ difficile farne una sintesi… Ma quali realistiche direzioni, possiamo seguire per intensificare la formazione comune e cooperare per un miglior funzionamento delle istituzioni? Inoltre, in questo contesto, quale ruolo attribuire alla magistratura onoraria, oggetto di importanti riforme non ancora completate?
“Vaste programme” ma sintetizzo ritornando all’inizio della nostra chiacchierata , al Lapec di Ettore Randazzo.
Occorre una rivoluzione mentale. Avvocati e magistrati devono sentirsi parte di una unica comunità. Sa quale sarebbe la situazione ideale? Che un giudice come Lei si "sentisse” allo stesso modo con un avvocato come con un pm. Indifferente o accomunato, faccia Lei. Nella realtà non è così . Cerco di far capire ai miei colleghi quanto sia nocivo il senso di inferiorità, e che da parte della migliore magistratura oggi esista un genuino desiderio di conoscere la realtà delle nostre associazioni ed addirittura di crearne di comuni. Questa difficoltà è alla base della realtà incompiuta dei magistrati onorari, impedisce loro di vivere compiutamente la giurisdizione. Ci vuole molto tempo ma io ho fiducia. Penso sarebbe bello per un avvocato poter esercitare la giurisdizione in prima persona per un tratto della sua vita professionale. Solo un periodo limitato, però, perché è importante morire da avvocato.
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