ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Tre domande per un’intervista multipla
LA CRISI DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA E IL RUOLO DELLA MAGISTRATURA
di Angelo Costanzo
La crisi della rappresentanza politica ridimensiona il potere legislativo e questo può avere riverberi anche sulla legittimazione dei giudici a esercitare la loro funzione che (nel nostro sistema giuridico e culturale) ha il suo fondamento nell’essere interprete della volontà del legislatore, a sua volta espressione della volontà popolare.
Per avviare una esplorazione di alcuni profili di questo tema (assai complesso) è parso utile rivolgere tre domande a tre noti studiosi che da decenni contribuiscono alla formazione di magistrati e avvocati nelle università italiane-– anche svolgendo molteplici ruoli in autorità indipendenti, nell’amministrazione giudiziaria, in commissioni pubbliche - e la cui influenza culturale, pertanto, supera i confini delle discipline di provenienza e dell’ambito accademico:
il prof. Mario Barcellona, civilista
il prof. Alessandro Corbino, romanista,
il prof. Antonio D’Atena, costituzionalista.
Alcuni loro contributi più recenti sul tema oggetto dell’intervista sono richiamati nella formulazione delle domande.
Come valutare la situazione attuale, in Italia e in Europa, alla luce di questa prospettiva?
Antonio D’Atena
La Costituzione italiana non ha optato per un sistema di democrazia “assoluta”, ma per un sistema di democrazia liberale, nel quale si contrappongono, bilanciandosi, due componenti: una componente schiettamente democratica ed una componente liberal-garantistica. La prima trova espressione nella rappresentanza politica e nel principio maggioritario, la seconda, nella separazione (orizzontale e verticale) dei poteri e nell’esistenza di apparati pubblici sganciati dal circuito della rappresentanza (e della responsabilità) politica.
L’equilibrio tra le due componenti è essenziale. Si pensi ad esempio che, se l’unico principio di struttura accolto in Costituzione fosse il principio democratico, la legge – come pone in evidenza Carl Schmitt – potrebbe fare tutto; essa non dovrebbe limitarsi a porre regole, ma potrebbe anche assumere contenuto individuale e concreto, usurpando, tra l’altro, il ruolo, che, nello Stato di diritto, è proprio della giurisdizione: potrebbe, ad esempio, assumere il contenuto della sentenza.
È proprio lo Stato di diritto, il quale costituisce l’elemento centrale della componente garantistica del sistema, a richiedere che la legge si faccia regola, assumendo un contenuto generale astratto, e che gli atti individuali e concreti siano adottati da organi dello Stato in posizione di imparzialità (o, addirittura, come avviene per la magistratura, in posizione d’indipendenza). Si tratta – come noto – di organi, la preposizione ai quali avviene mediante concorso, non attraverso l’investitura elettorale. Il che consente di affermare che, a questo riguardo, la nostra democrazia liberale sia più avanzata di quella nord-americana, caratterizzata dalla presenza di organi giudiziari eletti.
Questo il quadro costituzionale.
È, tuttavia, da rilevare che, oggi, nel dibattito politico italiano, il modello liberal-democratico non viene sentito da tutti come un elemento irrinunciabile dell’organizzazione statale. Si pensi alla forza di attrazione esercitata da Stati che conoscono derive illiberali (o che, come accade in Ungheria, si fanno addirittura un vanto della democrazia illiberale). Si pensi, ancora, alle suggestioni della democrazia diretta (nella versione contemporanea della web-democracy), la quale presenta un aspetto largamente mistificatorio. Si pensi, infine, all’idea – inconcepibile, fino a pochi anni fa – secondo cui, in prospettiva, potrebbe mettersi in discussione la funzione (e, addirittura, l’esistenza) di parlamenti rappresentativi.
Mario Barcellona
Il possibile sbocco tirannico di una maggioranza (quand’anche democraticamente costituita) è insito nello stesso sistema democratico e per questa ragione l’introduzione della democrazia è stata sempre accompagnata da dispositivi che la garantissero contro questo rischio.
In Europa, il costituzionalismo trae origine dal “patto costituzionale” (C. Mortati) che vale come “limite” entro il quale il sistema democratico può tuttavia liberamente dispiegarsi (M. Dogliani). Invece, negli ordinamenti anglosassoni il contenimento della democrazia è stato affidato a un sistema di “pesi e contrappesi” il cui senso, però, non è quello del “limite”, ma del “concorso” di poteri diversi che non solo si estende oltre i tre tradizionali poteri di Montesquieu (e la loro gerarchia), ma soprattutto è concepito come emendamento permanente e ordinario dello stesso processo democratico secondo un modello che vuole la democrazia corretta da una sorta di policentrismo oligarchico che si vorrebbe “imparziale” perché attingerebbe la sua legittimazione dalla nuda tecnica.
L’attuale prevalere di questa seconda strategia e la crescita della sua articolazione nel duplice livello nazionale e sovranazionale non solo impoveriscono la democrazia, ma soprattutto inducono la formazione di élite, che si sviluppano secondo logiche autoreferenziali, rischiano di far secessione dal “popolo” (C. Larsch) e diffondono una percezione diffusa della società come distinta in insider e outsider. Molti dei malanni solitamente attribuiti alla “tirannia della maggioranza”, oggi si presentano, piuttosto, come cascami di questa strategia e della reazione populista che essa innesca, in Italia, in molti altri paesi dell’Unione e nelle stesse due Americhe.
Considerazioni simili valgono per l’articolazione territoriale della democrazia, alla quale, nel contesto di una divisione del mondo in blocchi contrapposti, si affidava la funzione di aprire la politica nazionale ad equilibri più avanzati ma non troppo allarmanti rispetto alla dislocazione internazionale dell’Italia (P. Ingrao). Nell’odierno diverso contesto, l’autonomia, da forma di organizzazione e gestione ravvicinate dei servizi erogati dal Pubblico, si muta in strumento di cattura e conservazione al territorio del gettito fiscale in esso prodotto, luogo di un conflitto sulla ripartizione della ricchezza agito dal deperimento della solidarietà nazionale e dallo sviluppo di un nuovo egoismo regionale.
Se queste considerazioni sono in qualche misura fondate, allora si deve riconoscere che l’attuale crisi della democrazia non può superarsi potenziando i contrappesi “imparziali” (che in realtà, spesso servono non a fronteggiare il rischio di una “tirannia della maggioranza” ma ad immobilizzare qualsiasi maggioranza entro gli assetti di potere consolidati), ma solo ricostituendo le condizioni, oggi latenti, di una reale democrazia rappresentativa, ove gli interessi si confrontino apertamente e trovino, sempre dentro il quadro costituzionale, quella mediazione politica che è la sola coerente con l’idea democratica, sia in Italia che nell’Unione.
Parimenti, i principi di eguaglianza e solidarietà, intrinseci all’idea democratica, si salvano non tanto mediante il pur necessario pluralismo politico del sistema regionale ma garantendo la ripartizione delle risorse pubbliche secondo il paradigma del 2° comma dell’art. 3 e attivando, al contempo, efficaci e repentini sistemi di controllo e di intervento sostitutivo delle amministrazioni centrali nel caso di inefficienti gestioni regionali delle risorse trasferite dallo Stato o, comunque, di sbilanciamenti rispetto ai livelli medi nazionali.
Alessandro Corbino
L’esatto rilievo (la tendenza del metodo “democratico” a favorire la semplificazione e, con essa, la decisione “emozionale” invece di quella “ponderata”) non deve orientare verso una limitazione della “democrazia”. Non è introducendo elementi di “tecnocrazia” che si migliora l’efficacia della forma di governo in discussione, insuperabilmente legata alla percezione dei singoli di avere effettiva influenza sui processi decisionali. È ricostituendo piuttosto le materiali condizioni di una tale possibilità. L’obbiettivo da perseguire mi sembra quello di un sistema “politico” che (ben definito l’ambito della “sovranità”: nel nostro contesto contemporaneo, ne vedo, dal nostro punto di osservazione, solo uno “europeo”) si articoli (abbandonate logiche “nazionali”, insostenibili in un tempo che esige libera circolazione delle persone e riguardo per il multiculturalismo complesso e diffuso che ne consegue) attraverso “cerchi territoriali concentrici” coordinati (per esempio: macro-regioni transnazionali e sub-distretti via via più limitati, sino ad una dimensione di sostenibile “partecipazione”: “insiemi” di non oltre 15/20 mila persone), nei quali sia perciò praticabile nei fatti una interazione costante dei soggetti politici, individuali (singoli cittadini “radicati”) e collettivi (partiti, movimenti, associazioni), che alimenti i meccanismi partecipativi (che potrebbero prevedere – in ragione della limitatezza dimensionale dei contesti – anche un concorso di metodologie: “rappresentative” e “dirette”). Nell’ambito di “definite” risorse (legate ad una “fiscalità” complessa, misurata anche sui contesti) e di competenze territoriali di decisione (in alcune materie) e di proposta (in altre), si dovrebbe mirare a mantenere permanentemente attivo un circuito virtuoso “multilivello”. L’autonomia dei distretti darebbe modo di articolare un “pensiero politico” differenziato localmente (e non verticalmente coordinato secondo una logica “discendente”). Le decisioni generali maturerebbero (almeno tendenzialmente) attraverso un percorso “ascendente” (di progressive sintesi “inclusive” del condiviso, con conseguente attenuazione/contrasto delle barriere indotte dalla “distanza”). La strada a me sembra, insomma, quella di una ridisegnata convivenza ispirata ad “uguaglianza” politica (universale suffragio e accesso alle cariche) ed attenzione alle “diversità” culturali, economiche e sociali (legate a tradizioni, risorse e costumi).
2. Nel nostro sistema, il generale e astratto disporre è prerogativa della politica, l’individuale e concreto provvedere va affidato a organi imparziali non rappresentativi [lo ricorda: D’Atena, Tensioni e sfide della democrazia, in: Giurisprudenza costituzionale, 6, 2017, pp. 3120-3137].
A questa costruzione si va periodicamente contrapponendo l’idea che il potere non è divisibile e che, pertanto, anche quello esercitato dalla magistratura dovrebbe ricevere una legittimazione non solo tecnico-culturale ma anche politica [Corbino, Rigore è quando l’arbitro fischia. Il mito della legalità, Jovene 2018 ].
E’ quest’ultima un’idea condivisibile e, se accolta, mediante quali forme potrebbe essere concretizzata. Con quali esiti in termini di vantaggi e rischi?
Mario Barcellona
Che il potere non sia divisibile è vero nel senso che il potere di una struttura deve rendersi compatibile con quello delle altre e questo può perseguirsi solo secondo due paradigmi, quello della distinzione delle competenze e quello della gerarchia.
Di entrambi questi due paradigmi si avvale(va) lo Stato di diritto: da un lato la distinzione tra il fare la legge, il darvi esecuzione e l’applicarla, che presiede alla distinzione delle competenze tra Parlamento, Governo e Giurisdizione; dall’altro, la sovraordinazione della legge, e dunque del Parlamento.
Ovviamente, questa distinzione delle competenze e la divisione dei poteri cui sono assegnate vanno comprese in modo adeguato: i giudici non sono mai stati bouche de la loi, e quando si sono sforzati di esserlo non hanno mai reso un buon servizio alla legge. Ma questo non impedisce affatto che – contrariamente a quanto proclamano molte teorie dell’interpretazione ingenue e miopi – non si dia una “fedeltà” dell’interprete al testo (H.G. Gadamer), la quale attiene al suo “senso” ed alla sua “funzione”, concepiti, rispettivamente, come “orizzonte” di un’epoca o di una sua fase e come “prestazione” che il sistema giuridico è chiamato a svolgere per il sistema sociale verso la complessità che lo insidia (M. Barcellona).
Alcuni giuristi, fraintendendo l’operato della giurisprudenza, proclamano l’avvento del “governo dei giudici” (N. Lipari) e anche alcuni giudici che, fraintendendo il loro stesso operato, si dicono investiti di una generale supplenza della politica. In realtà, il rapporto tra la sentenza e la norma non è di rottura, ma di sviluppo del senso e della funzione che la seconda trova nella prima.
Molti sostengono che nel postmoderno della contingenza e della liquidità la legge non sarebbe più in grado di dare unità sistematica al mondo sociale o che il degrado della politica avrebbe privato i Parlamenti della capacità di confrontarsi con il cambiamento e di mediarne i conflitti che suscita, per cui non più alla legge ma al giudice spetterebbe ormai il compito di produrre il Diritto e di trarre dal mondo sociale i valori da implementare secondo ragionevolezza.
Solo che questa rappresentazione incappa in una serie di incongruenze:
Queste incongruenze non sono superabili apprestando una sorta di legittimazione politica della magistratura. Una tale legittimazione, infatti, presupporrebbe un qualche modo elettivo del reclutamento dei giudici che si si esporrebbe all’eventualità di linee di politica del diritto differenti e contraddittore. Rispetto alle quali non si darebbe possibilità di alcun controllo di legittimità. Mentre un controllo “politico” centralizzato rischierebbe di destituire una tale legittimazione di ogni parvenza democratica.
In realtà, la prospettiva di un governo dei giudici, si lega a una ideologia che si ripropone, di depotenziare la politica e mascherare il conflitto, di dissimulare che nell’ordine giuridico si racchiude un ordine sociale il quale annovera sempre vincitori e vinti, componendone tuttavia le ragioni al fine di assicurare la pace sociale.
Antonio D’Atena
Proprio sull’idea della divisibilità del potere si sono storicamente edificate le contemporanee democrazie liberali. Le quali rappresentano un’incontestabile conquista di civiltà. Questo non significa che esse non possano essere modificate. Si pensi ad esempio all’avvento dello Stato sociale agli inizi del secolo breve. Esso ha costituito la risposta del costituzionalismo alla sfida lanciatagli dalla rivoluzione d’ottobre e dal pensiero che le era alle spalle.
Ma questa risposta non ha cancellato l’acquis precedente. E quindi essa non si è sostituita all’antico Stato di diritto, ma si è aggiunta ad esso, per riecheggiare la formula che figura nell’articolo 28 della Legge fondamentale tedesca.
Nulla, pertanto, impedisce di arricchire le acquisizioni del passato. Oggi, ad esempio, è diffusa l’idea, risalente a Peter Häberle, secondo cui, nello Stato costituzionale contemporaneo figurerebbero una serie di elementi ulteriori, che lo arricchiscono. Dello Stato sociale, ho appena detto. Ad esso non può non aggiungersi il pluralismo, che è una delle maggiori conquiste della contemporaneità.
Alessandro Corbino
Resto al mio punto di vista. Il potere politico non è divisibile. Divisibile ne è solo l’esercizio. Il quale dunque va ripartito secondo competenze distinte, ma interconnesse in modi fattuali che impediscano (per le procedure di attribuzione delle funzioni, di esercizio di esse e di controllo di tale esercizio) ogni forma di “concentrazione” e di “autoreferenzialità”. Le modalità non potranno essere ovviamente uniformi (per ciascuna funzione), se non in negativo (nella indispensabile preclusione cioè di un esercizio di ciascuna di esse che non resti esposto, direttamente o indirettamente, al controllo dei singoli appartenenti alla comunità politica “sovrana”). Per la magistratura non si dovrebbe fare eccezione (salvo a determinare le forme appropriate compatibili: un interessante modello da studiare potrebbe essere, per il reclutamento e le responsabilità, quello inglese). Mi domando piuttosto: siamo sicuri che una giustizia esercitata da giudici “professionali”, individuati soltanto attraverso la loro astratta competenza “tecnica”, sia una modalità compatibile con un ordine politico “democratico”? Non si dovrebbe riflettere bene sulle origini del “modello” (indubbiamente collegato ad una visione alternativa – imperiale – della “sovranità”)?
3. “La rappresentanza non si dà se gli individui sociali non si concepiscono già come rappresentabili” [Barcellona, Dove va la democrazia, Castelvecchi, 2018, p.83]. Per altro verso, la cosiddetta democrazia diretta (che è cosa diversa dalle varie vie di democrazia partecipata) e le accresciute possibilità di manipolazione del consenso politico concorrono a mettere in crisi la democrazia rappresentativa perché la privano di progettualità [Montanari, La politica fra progettualità e mera contingenza, in Filosofia in movimento 2018, http://filosofiainmovimento.it]
Questo determina uno squilibrio nel rapporto fra i poteri dello Stato che si riverbera sul ruolo della magistratura.
La perdita di legittimazione del potere politico (quando il consenso che riceve risulta in parte fittizio e alterato) quali conseguenze comporta per la legittimazione del potere giudiziario ?
Alessandro Corbino
La rappresentanza politica di milioni di cittadini non può non essere affidata alla competenza, di organismi politici, sostenuti da un pensiero “tecnico” qualificato.
Per la questione “potere giudiziario”, il discorso è un po’ più complesso.
La funzione giudiziaria è assicurata conferendo autorità “politica” al “giudicato” (tanto indispensabile quanto insuperabilmente fallibile). In un sistema democratico il “giudicato” non deve avere solo “autorità”, ma, prima ancora, una “credibilità” che deriva dall’ordinamento giudiziario adottato.
Al vincitore è necessario ottenere il giudizio in un tempo utile alle “certezze” alle quali esso è preordinato (la “definizione” della controversia, l’accertamento della responsabilità criminale ipotizzata). Al soccombente il giudizio deve apparire “oggettivo”. Questa “oggettività” investe, in particolare, la configurazione del “giudice” e la determinazione dei criteri di giudizio (norme) che egli deve adottare (non solo le “leggi”, ma anche la loro “interpretazione”). La soluzione di questi problemi è complessa (e non priva di variabili). I criteri devono apparire (a chi li subisce) frutto di valutazioni “collettive” (perciò “spersonalizzate”). Questo si è ottenuto (per due millenni, nella civiltà giuridica di ispirazione romana) affidandone l’elaborazione ad una “riflessione” di tipo “scientifico”, costruita da una “dottrina” (in senso personale) se non “aperta”, almeno “estesa” (potrebbe anche coincidere dunque – vedi esperienza di common law – con quello di un “corpo giudiziale” istituzionale) che sia composizione di un pensiero diffuso. Quanto invece al “giudice”, occorre distinguere. I giudizi privati (nei quali il giudice è “terzo”) potrebbero essere utilmente affidati sia a giudici (meglio se “collegiali”) predefiniti, sia a giudici “scelti” dalle parti (in questo secondo caso, vi sarebbe il vantaggio della maggiore tempestività con cui si giungerebbe al “giudicato”: verrebbe meno ogni necessità di appello). Nei giudizi criminali (nei quali il giudice partecipa dell’interesse collettivo alla repressione), la soluzione è meno aperta. Sicuramente preferibile (ai fini della percezione di “oggettività” in discussione) sarebbe il ricorso ad una “collegialità” molto larga del giudice (e composta per l’occasione), in grado di fare convergere sulla sua “figura” (la concreta composizione del collegio) il più largo numero possibile delle sensibilità sociali meritevoli di “attuale” considerazione. Tenuto conto del crescente rilievo delle tecnicalità anche nella materia criminale, si potrebbero distinguere le situazioni, con il ricorso a collegi di diversa composizione “tipologica” (in relazione alla accusa in discussione). Quali che siano le soluzioni resta comunque certo che “giudicare” (con valenza “pubblica”) non è un “potere”, ma una “funzione del potere (politico)” e che, dunque, la “legittimazione” a definire le modalità di esercizio di tale funzione (attribuzione, orientamento dottrinario e controllo) non può essere distinta da quella che vale per ogni altra funzione dello stesso “potere”.
Antonio D’Atena
Seguito a ritenere – come ho detto – che la democrazia diretta non possa costituire una valida alternativa alla democrazia rappresentativa.
Al riguardo, bastano pochissime osservazioni.
In primo luogo, non vanno ignorati i limiti “linguistici” della democrazia diretta, il cui lessico comprende soltanto due parole: “sì” e “no” (due parole, che, come insegnava Max Weber, non consentono di adottare decisioni politiche complesse).
In secondo luogo, deve rilevarsi che alla democrazia diretta manca un elemento essenziale: la responsabilità. È, infatti, fuori discussione, che, per far valere la responsabilità “politica”, sia necessaria un’istanza rappresentativa che non si confonda con la collettività da essa rappresentata: se tutti decidono, nessuno risponde. Quindi, le potenzialità tecnologiche che consentono a tutti di comunicare in tempo reale le proprie valutazioni (e, pertanto, al limite, di decidere), non sono in grado di superare questo limite, dotando la democrazia diretta della priorità assiologica propria della democrazia rappresentativa
In terzo luogo, l’esportazione nel mercato politico delle tecniche di manipolazione del consenso, che hanno trovato i loro iniziali impieghi nel mercato tout-court, espone la democrazia ad un rischio mortale. Si pensi alla carica suggestiva di messaggi individualmente calibrati sulla figura del singolo destinatario, quale risulta dagli algoritmi costruiti in base alle tracce che ciascuno lascia in rete. Si pensi al conseguente isolamento informativo in cui possono venirsi a trovare i cittadini-elettori, quando dal loro orizzonte informatico vengono esclusi tutti i contenuti che potrebbero metterne in discussione i pregiudizi. Si parla, come noto, al riguardo di bubble-democracy. Tutto questo determina la caduta di un elemento essenziale alla democrazia: l’autentico dibattito pubblico.
Mi rendo conto che la soluzione di quest’ultimo problema è di straordinaria complessità. Tuttavia, è questo un terreno sul quale diventa sempre più urgente impegnarsi.
Mario Barcellona
La ragione della crisi della democrazia rappresentativa non sta tanto nel degrado della politica (che pure è incontrovertibile) quanto nell’avvento della c.d. società liquida (Z. Bauman) e nella singolarizzazione di massa che ne rappresenta l’altra faccia (M. Barcellona) e che, dissolvendo le aggregazioni sociali e le formazioni intermedie, occulta le differenze e distrugge i presupposti stessi della rappresentanza.
La stessa manipolazione del consenso come l’appello alla democrazia diretta dipendono da questo processo: il cittadino è manipolabile perché la sua singolarità lo espone direttamente al rapporto con il potere senza le mediazioni di prima che ne decifravano il volto e l’operato e la seduzione della democrazia diretta si impianta anch’essa sulla sua singolarizzazione che gli impedisce di sentirsi rappresentato e lo fa sentire privo di voce nella disputa politica.
Ma lo squilibrio che questo certamente produce, non ha modificato né accresciuto la legittimazione del potere giudiziario.
Vero è che le decisioni della corte costituzionale e della magistratura ordinaria hanno supplito a molte inerzie del legislatore, ma lo hanno fatto, essenzialmente, in materia di diritti civili (e non a caso, visto che in questa materia non vi sono “controinteressati” chiamati a sostenere i costi dei diritti che vengono riconosciuti e vi è solo un ceto politico che con questi interventi si vede tolte molte castagne dal fuoco). Nessuna di queste decisioni, invece, viene incontro ai problemi che povertà, disoccupazione e inoccupazione, precarietà e solitudine suscitano in strati sempre più larghi della società, nessuna entra nel cuore del grande malessere che oggi la attraversa.
Nella stragrande maggioranza dei casi la giurisdizione non è in grado di farlo. Ma questo fa sì che il potere giudiziario, nonostante la crisi della politica, non abbia acquisito alcun maggior credito presso la larga maggioranza dei cittadini. Anzi, risulta in discesa negli indici di fiducia nei corpi dello Stato e – occorre averne coscienza e dirlo – accade anche che l’opinione pubblica lo inscriva tra le élite verso le quali non si possono escludere diffidenze.
Non manca certo l’apprezzamento di fronte a sentenze che sanzionano la criminalità o la corruzione. Ma non manca neanche la delusione verso sentenze che, dopo processi interminabili, prosciolgono per l’intervenuta prescrizione. Né manca, talvolta, l’attribuzione di valenza prevalentemente politica a decisioni che investono, direttamente o indirettamente, gli esponenti più in vista dell’apparato politico, le spezzano il consenso verso il potere giudiziario secondo le loro appartenenze.
Ma tutto questo significa che nessuna maggiore o diversa legittimazione viene alla magistratura dalla crisi della politica e che, anzi, questa crisi rischia di travolgere anche le altre istituzioni dello Stato, potere giudiziario incluso.
NOTE CRITICHE SULL'IPOTIZZATO "TRIBUNALE SUPERIORE DEI CONFLITTI di Antonello Cosentino
Sommario: 1. La proposta di legge.- 2. La compatibilità della proposta di legge con la costituzione. - 3.La distonia della proposta di legge con il sistema italiano di tutela giurisdizionale. - 3.1 Giudici o arbitri ? - 3.2. Riparto di giurisdizione e nomofilachia.
1.La proposta di legge.
Il 22 maggio 2018 è stata presentata alla Camera dei deputati una proposta di legge (n. 649, prima firmataria on. Bartolozzi, di Forza Italia) di delega al Governo per l'istituzione, presso la Corte di cassazione, del “Tribunale superiore dei conflitti”; la proposta di legge è attualmente all’ esame della Commissione Giustizia, in sede referente; la Commissione ha già svolto diverse audizioni conoscitive ed ha sentito, tra gli altri, il Primo Presidente ed il Procuratore generale della Corte di cassazione, i Presidenti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, i rappresentanti dell'Associazione italiana professori di diritto amministrativo.
Nella proposta di legge il Tribunale superiore dei conflitti viene qualificato come «organo giurisdizionale supremo per la risoluzione delle questioni di giurisdizione insorte nei giudizi civili, penali, amministrativi, contabili, tributari e dei giudici speciali» ed al medesimo sarebbe attribuita in via esclusiva «la cognizione dei conflitti di giurisdizione e del regolamento preventivo di giurisdizione»; esso sarebbe composto da dodici membri, di cui sei magistrati della Corte di cassazione, tre del Consiglio di Stato e tre della Corte dei conti, scelti dagli organi di autogoverno delle rispettive magistrature; i membri del Tribunale eserciterebbero le relative funzioni in via esclusiva e la presidenza sarebbe attribuita a turno ai magistrati dei tre ordini, con rotazione annuale; nel giudizio di fronte al Tribunale sarebbe previsto l'intervento della Procura generale della Corte di cassazione; la segreteria del Tribunale sarebbe istituita presso la Corte di cassazione.
Nella relazione si assegna alla proposta di legge «l'obiettivo di trovare il punto di equilibrio fra le esigenze di celebrazione di un giudizio conforme a giustizia e quelle, altrettanto rilevanti, di un processo celere e spedito»; si sottolinea che «l'evoluzione della legislazione ha determinato una demarcazione sempre meno chiara dei confini tra le giurisdizioni anche con l'attribuzione di fattispecie di giurisdizione esclusiva spesso in modo non perfettamente lineare»; si richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018 (la quale, come è noto, è intervenuta sul tema del sindacato esercitato dalla Cassazione sul superamento dei limiti della giurisdizione, restringendo l’ambito di tale sindacato rispetto agli orientamenti più recenti delle Sezioni Unite Civili), sottolineando come tale sentenza lasci «impregiudicata l'esigenza di individuare un “arbitro imparziale” della giurisdizione composto da giudici provenienti dalle diverse giurisdizioni, nel solco della risalente esperienza francese del Tribunal des conflits».
La suddetta proposta di legge si pone in sostanziale continuità culturale con le proposte contenute nel Memorandum delle tre giurisdizioni elaborato dall’associazione Italiadecide e sottoscritto dai presidenti della Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte di conti e dai procuratori generali della Cassazione e della Corte dei conti. Tale Memorandum, presentato al Presidente della Repubblica il 15 maggio 2017, prefigurava l’assegnazione delle questioni di rilievo nomofilattico comune ai vari plessi giurisdizionali, ivi comprese le questioni di giurisdizione, ad un collegio delle Sezioni Unite della Cassazione integrato con la partecipazioni di consiglieri di Stato e consiglieri della Corte dei conti; la proposta di legge Bartolozzi, invece, limita il proprio oggetto alle questioni di giurisdizione, sostanzialmente prefigurando l’importazione, nel nostro ordinamento, del Tribunal des conflits francese.
Il Memorandum delle tre giurisdizioni suscitò un forte contrasto da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati e del Consiglio Superiore della Magistratura e un dibattito molto acceso in sede dottrinale. Il 27 giugno 2017, poche settimane dopo la presentazione del Memorandum al Quirinale, la Sezione Cassazione dell’ANM approvò un documento nel quale - proprio con specifico riguardo al tema dei conflitti di giurisdizione, ripreso nella proposta di legge Bartolozzi - si affermava che, a Costituzione invariata, la finalità di armonizzazione della funzione nomofilattica perseguita dal Memorandum non avrebbe potuto «in alcun modo riguardare, alla luce del disposto dell’ultimo comma dell’articolo 111 Cost., le questioni inerenti alla giurisdizione». Di analogo tenore furono le critiche mosse al Memorandum nel documento approvato del Comitato Direttivo Centrale dell’ANM in data 13 gennaio 2018[1] e nella risoluzione adottata dal Consiglio Superiore della Magistratura in data 24 gennaio 2018 [2].
Le posizioni assunte dalla dottrina sul Memorandum sono state, per contro, molto diversificate, andando dal duro dissenso all’entusiastico consenso, anche trasversalmente rispetto ai settori disciplinari - diritto costituzionale, diritto amministrativo o diritto processuale civile - dei diversi autori che si sono occupati del tema[3].
Le considerazioni da svolgere sulla proposta di legge Bartolozzi non possono che riproporre i rilevi che già vennero avanzati con riferimento al Memorandum delle tre giurisdizioni; sono rilievi che si muovono, per un verso, sul terreno della compatibilità del Tribunale dei conflitti con il testo vigente della Costituzione e, per altro verso, sul terreno dell’opportunità dell’introduzione di tale Tribunale nella complessiva architettura del sistema della tutela giurisdizionale dei diritti.
2. La compatibilità della proposta di legge con la costituzione.
Per svolgere una riflessione sulla compatibilità con la Costituzione dell’ipotizzato Tribunale dei conflitti conviene partire dal testo dei commi settimo ed ottavo dell’ articolo 111 della Costituzione, i quali recitano:
«Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra .
Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione».
La disposizione che prevede il «ricorso in Cassazione», per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, presuppone necessariamente, a mio avviso, la reciproca alterità tra tali consessi. Se la Costituzione prevede che le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti si impugnino in Cassazione, infatti, il giudice dell’impugnazione è necessariamente la Cassazione; non può essere, “per la contradizion che nol consente”, un giudice composto da consiglieri della Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.
Né mi sembra che tale ostacolo possa essere superato con l’argomento - ricorrente tra i sostenitori dell’introduzione del Tribunale dei conflitti - che l’inserimento, nella Cassazione, di magistrati provenienti da altre giurisdizioni non farebbe venir meno la suddetta alterità. Tale argomento pone l’enfasi sulla differenza tra l’individuazione normativa di un giudice e la individuazione normativa della relativa composizione. Secondo i fautori di questa tesi, infatti, l’introduzione del Tribunale dei conflitti non sarebbe incompatibile con il disposto dell’ultimo comma dell’articolo 111 Cost., perché, pur dopo tale introduzione, il giudice dell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, resterebbe pur sempre la Cassazione, presso la quale tale Tribunale verrebbe istituito e della quale il medesimo costituirebbe una sorta di sezione specializzata. Per contro, la Costituzione non conterrebbe alcun impedimento alla potestà del legislatore ordinario di dettare una disciplina particolare in ordine alla composizione in cui la Cassazione debba pronunciarsi sulle questioni di giurisdizione.
L’assunto non convince. E’ ben vero che nessuna norma costituzionale detta regole relative alla composizione dei collegi della Cassazione, e, quindi, nessuna norma costituzionale disciplina la composizione dei collegi che devono pronunciarsi sulle questioni di giurisdizione (la cui devoluzione alle Sezioni Unite discende dalla legge ordinaria e, precisamente, dall’articolo 374 del codice di procedura civile); ma, quali che siano le regole che il legislatore voglia dettare per disciplinare la composizione di un collegio della Cassazione, tali regole non possono comunque prescindere dalla necessità che i collegi della Cassazione vengano composti da magistrati della Cassazione, vale a dire da magistrati organicamente incardinati in detto ufficio (sia pure onorari, come i magistrati ausiliari di cui all’articolo 1, comma 962, della legge 27.12.2005, o non muniti delle funzioni di consiglieri di cassazione, come i magistrati del Massimario temporaneamente applicati ai collegi giudicanti ai sensi dell’articolo 1 del decreto legge 31 agosto 2016 n. 168, convertito in legge con la legge 25 ottobre 2016, n. 197). Mi sembra infatti indubitabile che il Costituente, quando ha menzionato la Cassazione, non poteva riferirsi ad altro che all’ufficio previsto dall’articolo 65 dell’ ordinamento giudiziario, ossia un ufficio costituito da magistrati ordinari; magistrati, cioè, che, per usare le parole del primo comma dell’articolo 102 Cost., sono «istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario».
Neppure appare persuasiva la tesi, pure avanzata dai fautori dell’introduzione del Tribunale dei conflitti, che individua la base di legittimazione costituzionale di quest’ultimo nella seconda parte del secondo comma dell’articolo 102 Cost., laddove si consente di istituire «presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura».
Anche a prescindere dalla innegabile forzatura semantica insita nella pretesa di qualificare «la risoluzione delle questioni di giurisdizione» (art. 1, comma 1, lett. “a”, della proposta di legge in esame) come una “determinata materia” ai sensi dell’articolo 102 Cost. e dalla singolarità della omologia, che tale forzatura implica, tra i consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte dei conti e i «cittadini idonei estranei alla magistratura» di cui al ripetuto articolo 102 Cost., appare assorbente la considerazione che l’ipotesi di qualificare il Tribunale dei conflitti come una sezione specializzata della Corte di cassazione si infrange contro il rilievo che le sezioni specializzate si distinguono dai giudici speciali in quanto sono soggette - esse e i magistrati, anche onorari, che le compongono - al governo autonomo della magistratura affidato dalla Costituzione al Consiglio Superiore della Magistratura. Illuminanti, sul punto, sono le parole che si leggono in Corte cost. 14.1.86 n. 4, § 6, ove si chiarisce come il rapporto di soggezione al Consiglio Superiore della Magistratura degli organi giudiziari e dei magistrati che li compongono «assume il valore di sicuro indice di riconoscimento della giurisdizione ordinaria. Esso consente, insomma, di affermare che appartengono alla giurisdizione ordinaria gli organi giusdicenti riconducibili al Consiglio superiore della magistratura».
In definitiva, l’ipotesi di configurare il Tribunale dei conflitti come una sezione specializzata della Cassazione appare incompatibile con l’insegnamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui le sezioni specializzate si caratterizzano - distinguendosi in ciò dai giudici speciali - perché i magistrati che le compongono devono essere soggetti al governo del Consiglio Superiore della Magistratura, tale essendo il tratto distintivo della loro appartenenza alla giurisdizione ordinaria. Per contro, un giudice formato da magistrati dei quali alcuni siano soggetti al governo del Consiglio Superiore della Magistratura ed altri - i consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte dei conti - non lo siano non può essere qualificato come una sezione specializzata e, pertanto, va inevitabilmente qualificato come un giudice speciale, l’ istituzione dei quali è vietata dalla prima parte del secondo comma dell’articolo 102 Cost.[4]
3. La distonia della proposta di legge con il sistema italiano di tutela giurisdizionale.
A prescindere dai dubbi di legittimità costituzionale, a mio parere macroscopici, destati dall’ipotesi di introdurre un Tribunale dei conflitti nel nostro ordinamento giurisdizionale, mi sembra utile svolgere alcune ulteriori considerazioni di sistema.
3.1 Giudici o arbitri ?
L’idea di affidare la risoluzione delle questioni di giurisdizione ad un giudice di vertice a composizione mista tradisce una concezione “arbitrale” del ruolo di tale giudice; concezione che, del resto, viene chiaramente esplicitata nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge, nella quale si fa riferimento (quintultimo capoverso) alla «esigenza di individuare un “arbitro imparziale” della giurisdizione composto da giudici provenienti dalle diverse giurisdizioni».
Ma concepire il Tribunale dei conflitti come un collegio investito di funzioni arbitrali (non tra le parti in causa, ma) tra le giurisdizioni postula inevitabilmente che tra le diverse giurisdizioni possano immaginarsi conflitti di interessi (o di potere) e che i magistrati che concorrono alla composizione del Tribunale dei conflitti vengano chiamati a dirimere quei conflitti svolgendo una qualche funzione di rappresentanza, anche soltanto culturale, delle rispettive Corti di provenienza.
Questa idea, che anima sotto traccia lo spirito della proposta di legge Bartolozzi (e già animava lo spirito del Memorandum delle tre giurisdizioni) non mi sembra accettabile, per una duplice ragione.
In primo luogo, leggere il rapporto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali come una sorta di “lotta tra le giurisdizioni”[5] può forse rispondere a suggestioni di carattere sociologico e storico, tutte peraltro da verificare, ma non ha alcun fondamento giuridico. Tutti i plessi giurisdizionali, infatti, debbono esercitare la giurisdizione non per tutelare prerogative e potere dei magistrati che li compongono, ma per realizzare, ciascuno nel perimetro assegnatogli dalla legge, un’amministrazione della giustizia che garantisca ai cittadini celerità di tutela e prevedibilità delle decisioni. Come è stato perspicuamente rilevato, il riparto della giurisdizione non può essere concepito in termini di salvaguardia delle sfere di attribuzione dei giudici, ma va concepito in termini di strumentalità alla realizzazione del programma di completezza e di adeguatezza della tutela inscritto nell'articolo 24 della Costituzione[6].
In secondo luogo, l’ipotesi che i consiglieri della Corte di cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti che andrebbero a comporre il Tribunale dei conflitti possano ritenersi implicitamente investiti di una funzione di rappresentanza dei rispettivi plessi giurisdizionali di provenienza non mi pare in alcun modo predicabile con riferimento a componenti di un collegio giudicante, i quali, per il disposto dell’articolo 101, secondo comma, Cost., sono soggetti soltanto alla legge.
La decisione sulle questioni di giurisdizione, in definitiva, non deve essere presa da «un “arbitro imparziale” della giurisdizione», come si sostiene nella relazione alla proposta di legge, ma da un giudice. Ed il fatto che la Costituzione abbia indicato tale giudice in quello ordinario non è casuale; come scriveva Eugenio Cannada-Bartoli, « non tanto la giurisdizione ordinaria è tale perché è ad essa attribuito il giudizio sulla giurisdizione ma tale giudizio è stato riservato alla suddetta giurisdizione in quanto ordinaria, ossia competente su diritti soggettivi. Il giudizio sui limiti della giurisdizione ordinaria rispetto a quella amministrativa è giudizio sui limiti dei diritti soggettivi, e dunque la sua attribuzione alla stessa giurisdizione ordinaria corrisponde al sistema. Nel giudizio sulla giurisdizione il giudice ordinario decide nei limiti della propria competenza.»[7] Ho ben presente quanto il panorama ordinamentale sia mutato nel mezzo secolo che ci separa dall’epoca in cui Cannada-Bartoli scriveva tali parole; è intervenuta la sentenza della Cassazione n. 500 del 1999, si è grandemente estesa l’area della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, è stato emanato il codice del processo amministrativo; tuttavia il nucleo della riflessione di Cannada-Bartoli resta, a mio parere, ancora attuale, giacché, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004, deve «escludersi che dalla Costituzione non si desumano i confini entro i quali il legislatore ordinario, esercitando il potere discrezionale suo proprio (più volte riconosciutogli da questa Corte), deve contenere i suoi interventi volti a ridistribuire le funzioni giurisdizionali tra i due ordini di giudici» (§ 3). [8]
3.2. Riparto di giurisdizione e nomofilachia.
La proposta di legge Bartolozzi pare muovere dall’implicito presupposto che la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti siano corti equiordinate; «da qui l'idea che il legislatore ordinario possa discrezionalmente incidere sulla loro composizione ed introdurre forme e meccanismi di cogestione delle loro funzioni»[9]. Il presupposto della equiordinazione delle tre corti, tuttavia, se può trovare riscontri empirici nell’analisi storica del peso concretamente assunto nella società italiana dai giudici speciali - e, segnatamente, dal Consiglio di Stato, soprattutto in virtù della sinergia tra le funzioni consultive e quelle giurisdizionali al medesimo attribuite - sul piano giuridico si scontra contro la duplice considerazione che, per un verso, ai sensi dell’articolo 111, ultimo comma, Cost., la Cassazione è il giudice dell’impugnazione, ancorché per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti; per altro verso, che solo alla Cassazione compete la funzione di nomofilachia disegnata nell’articolo 65 ord. giud..
Intendiamoci, non è qui in discussione la pari dignità delle tre corti, del tutto ovvia, ma la diversità delle rispettive funzioni. Né, d’altra parte, intendo negare che anche il Consiglio di Stato e la Corte dei conti orientino la giurisprudenza dei rispettivi plessi giurisdizionali e dunque - non essendo le loro sentenze impugnabili per violazione di legge - svolgano anch’essi una funzione lato sensu nomofilattica nell’ambito di tali plessi[10]. Il punto centrale è un altro: non è per un caso, bensì per una ineludibile esigenza di coerenza sistematica con il disposto dell’articolo 65 ord. giud., che soltanto il giudizio davanti Corte di cassazione si conforma al modello cassatorio (i giudizi davanti al Consiglio di Stato ed alla Corte dei conti, come è noto, si conformano al modello del giudizio di appello). L’organizzazione del giudizio secondo il modello cassatorio - che tende al controllo di legalità della sentenza impugnata, non alla cognizione dell’oggetto della controversia - è proprio ciò che connota il giudizio davanti alla Corte di cassazione come l’unico giudizio di legittimità del nostro ordinamento; giudizio nel quale, si noti, il Procuratore Generale conclude nell’interesse della legge. In altri termini, considerando la questione da un punto di vista non strutturale ma funzionale, soltanto il giudizio davanti alla Corte di cassazione tende a tutelare, accanto alla tutela dello jus litigatoris, la tutela dello jus constitutionis.
D’altra parte, come è stato puntualmente rilevato, se la Corte costituzionale ha riconosciuto che «il presidio costituzionale - il quale è testualmente rivolto ad assicurare il controllo sulla legalità del giudizio (a ciò riferendosi, infatti, l'espresso richiamo al paradigmatico vizio di violazione di legge) - contrassegna il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema, cioè il diritto al processo in cassazione» (così Corte cost. 28 luglio 2000, n. 395) non può che concludersi che l’articolo 65 ord. giud. è stato “costituzionalizzato” dall’articolo 111 Cost.[11] Ma, allora, se si conviene sull’affermazione che la funzione nomofilattica compete alla Cassazione (e al riguardo, del resto, a prescindere dalla “costituzionalizzazione” dell’articolo 65 ord. giud., è sufficiente rilevare che la legge delega non contempla alcuna modifica del disposto di tale articolo) risulta del tutto irragionevole, a mio avviso, affidare ad un altro giudice la regolazione del riparto di giurisdizione. La scissione tra la titolarità della funzione nomofilattica, che permarrebbe in capo alla Cassazione, e la titolarità della funzione di regolazione del riparto di giurisdizione, che verrebbe assegnata all’ipotizzato Tribunale dei conflitti, risulterebbe infatti - anche a prescindere dai corposi dubbi sopra enunciati in ordine alla sua legittimità costituzionale - foriera di complicazioni, teoriche e pratiche, senza fine.
Detta scissione certamente non favorirebbe il conseguimento dell'obiettivo, enunciato nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge, di «trovare il punto di equilibrio fra le esigenze di celebrazione di un giudizio conforme a giustizia e quelle, altrettanto rilevanti, di un processo celere e spedito», giacché non si vede come la modifica della composizione del collegio che giudica sulle questioni di giurisdizione potrebbe influire sulla celerità del processo in cui tali questioni insorgano; né favorirebbe il conseguimento dell'altro obiettivo, pure enunciato nella relazione di accompagnamento, della formazione di «orientamenti certi, nitidi e chiari che possano fugare, sin dal suo insorgere, questioni sulla pertinenza della giurisdizione del giudice competente ad amministrare la giustizia nel caso concreto». Tale scissione, infatti, aprirebbe la strada alla concreta possibilità che nel tempo si vengano a formare orientamenti divergenti tra le Sezioni Unite della Cassazione ed il Tribunale dei conflitti in materia di ricognizione e qualificazione di posizioni giuridiche soggettive; con il che l'obiettivo di «fugare, sin dal suo insorgere, questioni sulla pertinenza della giurisdizione», lungi dall'avvicinarsi, si allontanerebbe, e non di poco.
In conclusione, anche con riferimento alla proposta di legge Bartolozzi, mi pare si possano e si debbano usare le potenti parole scolpite da Andrea Proto Pisani e Giuliano Scarselli a chiusura del loro commento sul Memorandum delle tre giurisdizioni:
«Non si tocchi la Corte di cassazione. La si lasci nel ruolo che i nostri padri costituenti le hanno assegnato, integra nei suoi giudici, libera nello svolgimento delle sue funzioni, indipendente dal potere politico e da interessi economici. La si lasci lavorare così come fino ad oggi ha lavorato, nell'interesse della giustizia e di tutti i cittadini, che ad essa, con totale fiducia e rispetto, si sono rivolti in questi anni per la tutela dei diritti, in base a quanto previsto dall'art. 111 Cost.. La si lasci svolgere la sua funzione di nomofilachia, perché la legge e la storia della giustizia hanno affidato ad essa, e non ad altri giudici, detta superiore funzione, quale unico ufficio giudiziario di pura legittimità, che opera con l'apporto della procura generale che conclude nell'interesse della legge.»[12]
[1] Lo si può leggere in http://www.associazionemagistrati.it/doc/2867/lanm-sul-memorandum-relativo-ai-rapporti-tra-i-magistrati-delle-tre-corti-superiori.htm
[2] La si può leggere in https://www.csm.it/documents/21768/87321/Risoluzione+sui+temi+oggetto+del+Memorandum+delle+tre+giurisdizioni+superiori/d4b0be78-7d94-7e3a-69b7-d268d96b01a1
[3] Alcune delle posizioni espresse in dottrina sono raccolte in un “focus” specificamente dedicato al Memorandum delle tre giurisdizioni pubblicato sul Foro italiano nel numero di febbraio 2018 (parte V, col. 57 e segg.).
[4] Definitive, sul punto, sono le cristalline parole spese da Aldo Travi in Rapporti fra le giurisdizioni e interpretazione della Costituzione. Osservazioni sul Memorandum dei presidenti delle tre giurisdizioni superiori, in Foro it. 2018, V, 109: «La giurisdizione ordinaria, di cui è componente primaria la Corte di cassazione, è qualificata dall'assoggettamento dei magistrati che la compongono alla legge sull'ordinamento giudiziario (art. 102, 1° comma, Cost.); condizioni diverse di status valgono invece, secondo i rispettivi ordinamenti, per i giudici delle giurisdizioni speciali (cfr. art. 108, 2° comma, Cost.). Anche la partecipazione al collegio giudicante in Cassazione è esercizio della «funzione giurisdizionale» nell'ambito della giurisdizione ordinaria, rispetto alla quale, come è testimoniato appunto dall'art. 102, 1° comma, Cost., condizione essenziale è l'assoggettamento a uno specifico stato giuridico. La Costituzione ammette che alla funzione giurisdizionale, esercitata dagli organi di giurisdizione ordinaria, possano partecipare «cittadini idonei estranei alla magistratura» (art. 102, 2° comma, Cost.), ma in una logica (quella della partecipazione dei cittadini alla funzione giudiziaria) che è ben diversa da quella del Memorandum. Prevede infine che all'ufficio di consigliere di Cassazione, «per meriti insigni», possano essere chiamati professori universitari e avvocati con particolari requisiti (art. 106, 3° comma, Cost.): in questo modo essi diventano però a tutti gli effetti magistrati ordinari. L'inserimento di giudici speciali nei collegi della Cassazione esorbita, pertanto, dal quadro costituzionale che, da parte sua, risulta puntuale, anche per quanto attiene all’esercizio della funzione».
[5] L’espressione si legge in B. Sordi, Interesse legittimo in Enciclopedia del diritto, Annali, II, tm. II, Milano, 2008, 729.
[6] A. Corpaci, Note per un dibattito in tema di sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Dir. pubb., 2013, 346.
[7] E. Cannada-Bartoli, Giurisdizione (conflitti di) voce dell’Enciclopedia del diritto, 1970, XIX, § 11.
[8] Si vedano, in tema, le penetranti osservazioni di A. Corpaci: «La disciplina dei conflitti, e la allocazione in capo alle Sezioni Unite della competenza a decidere in materia, hanno, come unanimemente riconosciuto, una valenza politico-istituzionale di grandissima rilevanza. … Dovendosi così apprezzare, aggiornata ai nuovi valori, la funzione di rilevanza costituzionale che l'ultimo comma dell'articolo 111 assegna alla Cassazione, per altro a conferma di una riconduzione ad unità al vertice, presente anche prima del 1948», op. cit., 353.
[9] Così, a proposito del Memorandum sulle giurisdizioni, A. Lamorgese, Note a margine al Memorandum sulle giurisdizioni, in Foro it. 2018, V, 82
[10] In questo senso, valorizzando il ruolo di vertice svolto dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti nell’ambito dei rispettivi plessi giurisdizionali, A. Pajno in Nomofilachia e giustizia amministrativa, in Rassegna forense, 3-4 2014, 641 e segg., reperibile anche on line al link:
[11] Così, infatti, concludono A. Carratta, G. Costantino e G. Ruffini in Per la salvaguardia delle prerogative costituzionali della Cassazione in Foro it. 2018, V, 76: «È infatti evidente che, se al ricorso per cassazione “per violazione di legge” viene riconosciuto valore costituzionale, coerenza vuole che alla stessa Cassazione venga attribuita la funzione di assicurare l'esatta e uniforme interpretazione della legge. Ciò che in più occasioni ha riconosciuto la stessa Corte costituzionale, parlando della Cassazione come del “massimo organo di nomofilachia” (Corte cost. 18 luglio 2013, n. 210, rel. G. Lattanzi, id., Rep. 2013, voce Giudizio abbreviato, n. 43) o come organo giudiziario cui, ai sensi dell'art. 111, 7° comma, Cost., «compete il magistero della nomofilachia» (così Corte cost. 30 novembre 1982, n. 204, rel. V. Andrioli, id., 1982, I, 2981; e 23 maggio 1986, n. 129, rel. V. Andrioli, id., 1986, I, 2102) o «la filachia delle norme sottordinate» (Corte cost. 5 novembre 1986, n. 231, rel. V. Andrioli, id., 1987, I, 2356)».
[12] A. Proto Pisani e G. Scarselli: La strana idea di consentire ai giudici amministrativi di comporre i collegi delle sezioni unite in Foro it. 2018, V, 62
Brevi considerazioni sul nuovo rito civile in Cassazione e sui suoi riflessi sull'organizzazione della Sezione Lavoro [1]
di Vincenzo Di Cerbo
La legge 25 ottobre 2016 n. 197, di conversione del decreto-legge 31 agosto 2016 n. 168, recante, in particolare, “misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di Cassazione” ha introdotto alcune norme che incidono profondamente non solo sul processo civile presso la Corte di legittimità ma anche sull’organizzazione della Corte.
Sommario: 1.Premessa.- 2. Ius constitutionis e ius litigatoris. - 3. Brevi cenni sugli effetti della riforma sull’attività delle sezioni civili della Corte di cassazione.- 4. Riflessi della riforma del 2016 sull’organizzazione della sezione lavoro.
1.Premessa. La legge 25 ottobre 2016 n. 197, di conversione del decreto-legge 31 agosto 2016 n. 168, recante, in particolare, “misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di Cassazione” ha introdotto alcune norme che incidono profondamente non solo sul processo civile presso la Corte di legittimità ma anche sull’organizzazione della Corte.
La principale novità introdotta dalla nuova legge consiste certamente nella distinzione tra giudizi aventi rilevanza nomofilattica, che sono destinati alla trattazione in pubblica udienza, e quelli che sono privi della suddetta rilevanza, che vengono trattati nella camera di consiglio non partecipata. Si è affermato in proposito (PUNZI[2]) che con la riforma del 2016 viene invertito il rapporto esistente nel codice del 1940 tra la trattazione in pubblica udienza, che trova la sua conclusione in una decisione in forma di sentenza, e la trattazione in camera di consiglio con decisione in forma di ordinanza. Con la nuova formulazione dell´art. 375 c.p.c. la trattazione in camera di consiglio e la decisione con ordinanza sono divenute la forma ordinaria laddove la trattazione in pubblica udienza costituisce la forma eccezionale di svolgimento del procedimento dinanzi alla Corte di cassazione (concorda con quest’ultima affermazione, in particolare, COSTANTINO [3]).
Le considerazioni che seguono riguardano, in particolare, gli effetti di questa novità sull’organizzazione della Sezione lavoro della Corte di cassazione.
2. Ius constitutionis e ius litigatoris. Appare utile premettere che, come è stato più volte sottolineato, non solo in dottrina, la nostra Costituzione (art. 111) attribuisce alla Corte di cassazione un duplice compito: quello di custode della nomofilachia per cui la Corte deve assicurare, come stabilito dall´art. 65 ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941, n. 12), “l’uniforme interpretazione della legge, l´unità del diritto oggettivo nazionale” e quello del giudice dello ius litigatoris, al quale è demandato di controllare la legalità del caso singolo. È stato esattamente sottolineato (LOMBARDO[4]) che si tratta di compiti affatto diversi: il controllo di legalità della sentenza riguarda il caso singolo e la sua soluzione giuridica non supera il recinto della fattispecie concreta e dell’interesse delle parti. La funzione nomofilattica ha un respiro molto più ampio: partendo dalla soluzione del caso concreto essa mira a dettare un principio di diritto idoneo a diventare precedente destinato ad indirizzare gli altri giudici nella soluzione di future, analoghe controversie.
La diversità delle suddette funzioni comporta altresì che mentre la prima (il controllo di legalità delle sentenze) comporta l’obbligo della Corte di pronunciarsi tutte le volte che venga richiesto il suo intervento, la funzione nomofilattica implica la necessità di una previa selezione, finalizzata ad individuare le questioni che, per il loro carattere paradigmatico, possono essere rilevanti come precedente per le future interpretazioni giurisprudenziali.
La riforma del 2016 nasce dalla consapevolezza del legislatore della necessità di prendere atto delle difficoltà in cui si trova la Corte di cassazione ad assolvere con lo stesso rito le due funzioni sopra indicate, difficoltà rese evidenti dal sempre crescente numero dei nuovi ricorsi proposti anno dopo anno nel settore civile [5] e dal crescente numero delle cause pendenti nonostante il netto miglioramento dell’efficienza della Corte nella decisione dei ricorsi[6]. Difficoltà che sono state risolte solo parzialmente dalla precedente riforma del 2009 (legge 18 giugno 2009 n. 69) che ha istituito l´” apposita sezione” (art. 47, comma 1, lett. b, che ha modificato l´art. 376, primo comma, cod. proc. civ.) col compito di decidere con rito camerale i ricorsi inammissibili, o “manifestamente infondati” o “manifestamente fondati”.
La nuova legge, pur mantenendo la speciale sezione prevista dall´art. 376 c.p.c., (la sesta sezione civile), della quale ha tuttavia parzialmente modificato il rito, ha imposto alle sezioni civili ordinarie l’adozione di un nuovo modello processuale e organizzativo.
Il fatto di aver previsto, con la nuova formulazione dell´art. 375 cod. proc. civ., che la trattazione in udienza pubblica riguarda solo quei ricorsi per i quali sussiste una “particolare rilevanza della questione di diritto” sulla quale la Corte è chiamata a pronunciare, implica, come si è in precedenza accennato, che la trattazione camerale diventa la modalità più comune e diffusa del processo civile di cassazione, modalità che si caratterizza, in particolare, per il fatto che il rito è più veloce e la decisione viene adottata con ordinanza.
Nel disegno del legislatore della novella del rito di legittimità, pertanto, l'udienza pubblica (art. 379 cod. proc. civ. come modificato dalla citata legge n. 197 del 2016) è il "luogo" dedicato all’esercizio della funzione nomofilattica, luogo cioè in cui si assume la decisione sulla “questione di diritto” di “particolare importanza”. Decisione destinata a costituire un precedente e ad incidere, pertanto sulla evoluzione della giurisprudenza successiva.
Coerentemente alla scelta della pubblica udienza, che consente, o meglio, implica la discussione orale della causa, preceduta dalle conclusioni del pubblico ministero, il legislatore ha stabilito che l’esito decisorio deve avere forma di sentenza, provvedimento che, anche se redatto in forma sintetica (così come, del resto, previsto dal combinato disposto degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ.), consente il pieno dispiegarsi del percorso logico-giuridico che è posto alla base del principio di diritto espresso dalla decisione. Principio di diritto che, per le ragioni sopra indicate, esprime l’interesse generale alla funzione nomofilattica.
Ove la questione sottoposta all’esame della Corte abbia unicamente una valenza individuale, a tutela dello ius litigatoris, la relativa trattazione avviene in camera di consiglio senza l’intervento del pubblico ministero e delle parti. La nuova disciplina prevede che della fissazione dell’udienza in camera di consiglio viene data comunicazione agli avvocati delle parti e al Pubblico Ministero almeno quaranta giorni dalla data stabilita; il P.M. può depositare le sue conclusioni scritte non oltre venti giorni prima dell’adunanza in camera di consiglio e le parti possono depositare le loro memorie successivamente e, in particolare, nel termine di dieci giorni prima dell’adunanza stessa. Coerentemente è previsto per la decisione la forma dell’ordinanza che, come è stato condivisibilmente affermato in dottrina (LOMBARDO, op cit. 38) si distingue dalla sentenza soprattutto in relazione al contenuto della motivazione (rispettivamente, artt. 134 e 132, n. 4, cod. proc. civ.). La motivazione dell’ordinanza può ridursi a meri enunciati di risposta alle questioni sottoposte, potendo limitarsi a richiamare i precedenti già affermati dalla Corte di legittimità; la motivazione della sentenza esige un percorso argomentativo, ancorché sintetico, completo ed esaustivo che esamina tutti gli argomenti sottoposti all’esame del collegio decidente.
L’opzione per il rito camerale e la forma dell’ordinanza adottata dal legislatore per le relative decisioni puntano evidentemente alla velocizzazione del giudizio di cassazione e quindi all’aumento della capacità della Corte di esaurire i processi pendenti.
3. Brevi cenni sugli effetti della riforma sull’attività delle sezioni civili della Corte di cassazione. Con riferimento all’intero settore civile nel corso del 2018 le pervenienze (e cioè il numero dei nuovi processi iscritti a ruolo) ammontano (al 31 dicembre) a complessive 36.881 unità. Nello stesso periodo dell’anno precedente le pervenienze erano arrivate a complessive 30.298 unità. Dobbiamo registrare pertanto un incremento delle pervenienze di 6.583 unità. Incremento che ha riguardato sostanzialmente la prima sezione civile (+ 4.899 rispetto all’anno precedente) e la sezione tributaria (+ 1.114).
Negli stessi periodi sono stati eliminati con provvedimento definitivo pubblicato rispettivamente: a) nel 2018 n. 32.477 ricorsi, dei quali 21.511 nelle sezioni civili ordinarie (ivi comprese le Sezioni Unite) e 10.966 nella Sesta sezione civile. Deve pertanto registrarsi un saldo negativo di 4.404 ricorsi con conseguente ulteriore aggravio delle pendenze complessive pervenute alla cifra record di 111.275 ricorsi; b) nel 2017 n. 30.255, dei quali n. 18.013 nelle sezioni civili (ivi comprese le Sezioni Unite) e n. 12242 nella Sesta sezione civile.
Da questi dati emerge una prima osservazione, a mio avviso di notevole interesse: nel 2018 le sezioni civili hanno aumentato la loro produttività rispetto al corrispondente periodo (+ 2.222) e il saldo negativo è riconducibile pertanto esclusivamente agli incrementi delle pervenienze sopra descritti.
Ciò trova conferma nel fatto che l’indice di ricambio (eliminazioni/pervenienze) delle sezioni seconda, terza e quarta (su quest`ultima si rinvia al paragrafo successivo), e cioè di quelle sezioni che hanno avuto un numero di pervenienze sostanzialmente stabile è positivo, laddove quello delle sezioni prima e tributaria è negativo.
L’indice di ricambio di tutte le sezioni civili è pari a 0,88. (Se non si fosse registrato il suddetto incremento delle pervenienze e quindi immaginando invariato il numero delle stesse rispetto a quelle risultanti al 31 dicembre 2017, l’indice di ricambio di tutto il settore civile sarebbe positivo: 1,07).
A mio avviso tale risultato è stato reso possibile, oltre che dal costante impegno dei magistrati della Corte, anche, in qualche misura, dagli effetti dei miglioramenti organizzativi indotti in tutto il settore civile dalla riforma del 2016.
4. Riflessi della riforma del 2016 sull’organizzazione della sezione lavoro. La riforma in esame si inserisce in uno schema organizzativo già precedentemente adottato in sezione lavoro e che nel corso dell’anno 2017 aveva già cominciato a produrre lusinghieri risultati. Schema organizzativo basato sulla ripartizione dei Collegi in tre aree specialistiche (Area 1: impiego pubblico privatizzato, Area 2: previdenza e assistenza, Area 3: rapporto di lavoro privato).
Nella condivisa convinzione che il numero delle sopravvenienze annue ed il peso delle cause pendenti impongono l’adozione di misure efficaci per la gestione del contenzioso, e al fine di garantire, nei limiti del possibile, il rispetto dei principi del giusto processo da un lato e della ragionevole durata del processo dall’altro, la Sezione lavoro ha valorizzato, specialmente negli ultimi anni, l’attività dell’esame preliminare dei ricorsi (c.d. spoglio) consapevole che solo la previa conoscenza, sia pure schematica, del contenuto degli stessi e delle problematiche giuridiche che essi sottopongono alla valutazione della Corte di legittimità, consente una loro gestione ottimale.
E’ stata di recente all’uopo creata una nuova struttura (SCO), acronimo di Struttura di Coordinamento Organizzativo della quale fanno parte, oltre i componenti dell’Ufficio spoglio sezionale (3 consiglieri; 6 magistrati addetti al massimario), anche gli stagisti avviati al periodo di formazione teorico-pratica presso la Corte ai sensi dell’art. 73 del d.l. n. 69 del 2013 (convertito dalla l. n. 98 del 2013) e i tirocinanti di cui all’art. 37, commi 4 e 5, del d.l. n. 98 del 2011 (convertito in l. n. 111 del 2011), nonché un consigliere incaricato di collaborazione interna destinato al supporto del Presidente titolare nel coordinamento delle attività delegate alle singole aree ed ai Presidenti non titolari.
Il tutto in conformità con le previsioni delle Tabelle di organizzazione dell’ufficio tuttora vigenti, che contengono anche indicazioni sulla elaborazione del “programma di spoglio/selezione degli affari pendenti” di competenza del Presidente titolare (Tabelle, § 31.bis 1), sulle direttive all’Ufficio spoglio del Presidente titolare (Tabelle, § 31. 3 e 31.bis 3), sul coordinamento delle attività di collaborazione dei Presidenti non titolari nelle attività funzionali sia all’esercizio della nomofilachia che all’organizzazione della sezione (Tabelle, § 10). L’apporto degli stagisti e dei tirocinanti, da affiancare altresì alla partecipazione alle udienze, è corrispondente alle previsioni dettate dal Regolamento di questa Corte per lo svolgimento dei tirocini formativi e dal bando 2017 per il relativo reclutamento, provvedimenti che prevedono una presenza in ufficio per almeno due giorni lavorativi a settimana.
Compito della nuova struttura è quello di procedere non solo all’esame preliminare dei ricorsi ma anche quello di individuare ed accorpare, con l’aiuto dello strumento informatico (e, più in particolare, sfruttando al massimo, la tecnologia del SIC) quei ricorsi che presentino problematiche analoghe. Ciò al fine di consentire una gestione del contenzioso che, anche in deroga al tradizionale criterio della trattazione dei processi secondo l’ordine cronologico stabilito dalla data di presentazione del ricorso, consenta l’agevole accorpamento delle cause sulla base dell’identità delle questioni giuridiche trattate, delle materie affrontate e delle relative problematiche. Ciò in coerenza, del resto, con le indicazioni contenute nelle Tabelle ove viene esplicitamente espresso un orientamento favorevole ad un modello organizzativo che privilegi, nell’ambito della singola sezione, oltre alle udienze seriali, anche le udienze monotematiche.
La sezione lavoro ha cercato di cogliere le potenzialità gestionali offerte dalla legge 26 ottobre 2016 n. 197, aumentando l’impegno relativo all’esame preliminare dei ricorsi garantito dall’Ufficio spoglio sezionale, in stretto coordinamento con quello sotto sezionale corrispondente presso la Sezione Sesta, e all’inserimento dei relativi risultati nel sistema informatico della Corte.
In particolare è stata ripensata l’attività di spoglio nel senso che questa, non è finalizzata unicamente a individuare le specifiche questioni da trattare, a indicare il numero dei motivi di ricorso (principale e/o incidentale) ed a provvedere a eventuali accorpamenti, ma deve fornire anche una indicazione per il presidente o per il magistrato delegato alla formazione dei ruoli di udienza circa la natura del singolo ricorso al fine di indirizzarlo all’udienza pubblica (ove lo stesso meriti una pronuncia rilevante dal punto di vista nomofilattico) o all’adunanza camerale (negli altri casi).
5. Effetti concreti delle misure organizzative adottate. L’evoluzione dei dati numerici concernenti la Sezione lavoro può, a mio avviso, essere considerata positiva e dimostra un costante miglioramento via via che le misure organizzative alle quali ho accennato hanno esplicato la loro efficacia.
Ed infatti, a fronte di complessivi n. 5.574 nuovi ricorsi iscritti nel corso dell’anno 2018, sono stati eliminati con provvedimento definitivo pubblicato n. 7.300 ricorsi, dei quali n. 5233 in sezione e 2.067 nella corrispondente sottosezione della Sesta sezione civile. Deve pertanto registrarsi un saldo positivo di 2067 ricorsi. L’indice di ricambio (che esprime il rapporto fra numero dei ricorsi eliminati e il numero delle sopravvenienze nel corso dell’anno) si attesta quindi a 1,31. I processi pendenti al 31 dicembre 2018 ammontano a complessivi 18.724, dei quali 12.942 in sezione, 2.803, presso la sottosezione lavoro della sesta sezione civile e 2.979 presso la cancelleria centrale civile.
Analogo risultato positivo deve registrarsi nel corso del 2017, primo anno di vigenza della riforma, nel corso del quale, a fronte di un numero di pervenienze sostanzialmente analogo (5.527 nuovi ricorsi iscritti a ruolo) sono stati eleminati nello stesso anno ben 7.282 ricorsi, con un indice di ricambio pari a 1,31. I processi pendenti al 31 dicembre 2017 ammontavano a complessivi 20.378.
Nel corso del 2016, e cioè nell’anno immediatamente precedente l’entrata in vigore della riforma (che di fatto ha cominciato a produrre i suoi effetti soltanto a partire dai primi mesi del 2017) le pervenienze sono state pari a 5.615 ricorsi; i ricorsi eliminati sono stati 6.877 (dei quali 4.575 in sezione e 2.302 nella sottosezione della Sesta sezione civile). L’indice di ricambio è stato pari a 1,22. I processi pendenti al 31 dicembre 2016 ammontavano a 22.226.
In sostanza nel corso di due anni, e cioè dal 31 dicembre 2016 al 31 dicembre 2018 i processi pendenti in Corte di cassazione concernenti la sezione lavoro sono calati di 3.502 unità.
Il progresso dei dati appare ancora più evidente ove vengano considerati esclusivamente il numero dei provvedimenti emessi in sezione (al netto cioè di quelli emessi dalla sottosezione della sesta sezione civile); come si è prima accennato, infatti, la riforma ha riguardato più direttamente l’organizzazione e il rito della sezione ordinaria. Si è passati da1 4.575 provvedimenti definitivi emessi nel corso del 2016, ai 4.758 emessi nel corso dell’anno 2017 e, infine, ai 5233 emessi nel corso del 2018.
Particolarmente significativo per la presente trattazione è il rilievo concernente le modalità con le quali la Sezione lavoro ha applicato la riforma del 2016 (al netto di quanto fatto in sede di sottosezione presso la Sesta sezione civile).
Nel corso del 2018 il numero dei ricorsi decisi con ordinanza (all’esito di adunanza camerale) è stato superiore a 2.600 e quindi ha nettamente superato quello dei ricorsi decisi con sentenza (meno di 2.500) all’esito di udienza pubblica. Nel corso dell’anno 2017 le ordinanze avevano superato di poco le 1.700 unità a fronte di quasi 3.000 sentenze. (Le differenze rispetto ai totali dei procedimenti decisi è data, quasi interamente, dai decreti emessi ai sensi dell´art. 391 cod. proc. civ. nei casi ivi previsti di rinuncia al ricorso).
Queste cifre inducono ad alcune considerazioni.
Il numero delle adunanze camerali (e conseguentemente il numero dei ricorsi decisi con ordinanza) è in progressiva crescita, ed è destinato ad aumentare considerevolmente nel corso del 2019; tale crescita è stata finora attuata (e lo sarà anche nel corso del 2019) in modo graduale. Il numero delle cause decise in sede camerale, dimostra la prudenza con la quale sono stati fissati i ruoli in sede di prima applicazione della legge. Prudenza suggerita dal fatto che occorre realizzare un mutamento culturale che riguarda in primo luogo i giudici della Corte di cassazione che devono adeguare la loro attività alle importanti novità processuali e organizzative introdotte dalla riforma; il mutamento culturale riguarda, in particolare, i giudici addetti allo “spoglio” ai quali viene affidato, come si è in precedenza accennato, anche il compito di selezionare, nella massa dei ricorsi, quelli che, avendo valore nomofilattico, devono essere decisi in pubblica udienza.
Tale gradualità appare inoltre opportuna per superare perplessità manifestate dal Foro, e che hanno trovato notevoli riscontri anche in dottrina, concernenti i più rilevanti aspetti della riforma. In estrema sintesi le perplessità riguardano: la mancanza di pubblicità che caratterizza l'adunanza camerale, e che impedisce la difesa orale; la forma dell'ordinanza che autorizza, secondo le tesi alle quali ho prima accennato, una motivazione sintetica. In sostanza la velocizzazione e semplificazione del giudizio affidate alla trattazione camerale inciderebbe direttamente sulla qualità delle decisioni della Suprema Corte e quindi sulla loro persuasività e autorevolezza. A mio avviso l’esperienza maturata nel corso di questa fase di prima applicazione della riforma legittima il superamento delle suddette perplessità. Da un lato il deposito delle memorie consente alle parti e al pubblico ministero di sviluppare pienamente le loro tesi; dall´altro la camera di consiglio dell´adunanza camerale non è qualitativamente meno approfondita e articolata di quella che segue l´udienza pubblica, le uniche differenze dipendendo dalla diversità dei ricorsi e delle problematiche giuridiche che devono essere affrontate per la decisione; di fatto ciascun ricorso viene esaminato e discusso con le stesse modalità adottate per la trattazione a seguito di udienza pubblica. Del resto la lettura delle ordinanze dimostra con assoluta evidenza il livello di approfondimento posto a base delle decisioni.
Sotto altro profilo è stato del resto più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad esempio, Cass. n. 8869 del 2017) che il procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice, disciplinato dall´art. 380 bis.1 cod. proc. civ. è pienamente rispettoso sia del diritto di difesa delle parti, le quali, tempestivamente avvisate entro un termine adeguato del giorno fissato per l’adunanza, possono esporre compiutamente i propri assunti, sia del principio del contraddittorio, anche nei confronti del P.G., sulle cui conclusioni è sempre consentito svolgere osservazioni scritte.
Le cifre sopra indicate dimostrano inoltre che trova piena applicazione il principio secondo cui ogniqualvolta, nel corso dell’adunanza camerale, emerga il carattere di “particolare rilevanza” ai sensi dell´art. 375 cod. proc. civ. della questione sottoposta al collegio, la causa viene rinviata in pubblica udienza. Deve ricordarsi in proposito che, come affermato, da ultimo, da Cass. n. 19115 del 2017 e Cass. n. 5533 del 2017, ciò non è impedito dalla circostanza per cui il ricorso sia stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, potendosi fare applicazione analogica dell'art. 380-bis, comma terzo, cod. proc. civ. e, comunque, non essendo il Collegio vincolato dalla valutazione sulla rilevanza della questione operata dal Presidente della sezione. La trattazione in pubblica udienza, oltre che disposta di ufficio, può essere richiesta inoltre anche dalle parti con le memorie previste dal citato art. 380 bis.1 o dal pubblico ministero in sede di conclusioni scritte ai sensi della norma da ultimo citata.
Un’ultima considerazione si impone.
L’ampliamento delle possibilità di gestione del contenzioso, già previsto dalle Tabelle e certamente potenziato dalla riforma del 2016, consente di operare ed attuare scelte suggerite dal diverso rilievo, oltre che nomofilattico, anche sociale delle tipologie del contenzioso.
Così, sotto un primo profilo, si è realizzato un canale di comunicazione con la corrispondente sottosezione della Sesta sezione civile chiamata a trasmettere in sezione immediatamente, segnalando l’opportunità di una sollecita decisione, tutti quei ricorsi che presentino interesse nomofilattico e la cui soluzione possa avere un interesse deflattivo anche per i giudici di merito.
Sotto altro profilo ha consentito di affrontare con priorità alcune materie di specifico impatto sociale. Ad esempio, in materia di licenziamento non solo sono state affrontate alcune importanti questioni attinenti all’interpretazione della legge Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92), fissando alcuni importanti principi di diritto, in particolare in tema di processo e soprattutto in materia di conseguenze derivanti dall’illegittimità del recesso, ma sono stati sostanzialmente eliminati tutti i ricorsi iscritti a ruolo negli anni 2015, 2016 e 2017. Ciò ci consente, in questi primi mesi del 2019, di decidere ricorsi in tema di licenziamento iscritti a ruolo nel corso dell’anno appena trascorso nel rispetto dei vincoli temporali imposti dalla legge Fornero, ma avendo previamente eliminato pressoché tutti i licenziamenti intimati prima dell´entrata in vigore della suddetta legge.
[1] Relazione riveduta e aggiornata tenuta all’incontro di studio del 30 ottobre 2018 dal titolo “Il nuovo rito civile e i riflessi sull’organizzazione degli uffici della Corte e della Procura Generale” organizzato dalla Formazione decentrata presso la Corte di cassazione.
[2] PUNZI, La nuova stagione della Corte di cassazione e il tramonto della pubblica udienza, Riv. Dir. Proc., 2017, 4 ss.
[3] COSTANTINO, Note sulle misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, Foro it., 2017, V, 9.
[4] LOMBARDO, La nomofilachia nel giudizio di cassazione riformato, Giust. Civ., 2017, 1, pagg. 1 ss.
[5] Il numero complessivo dei ricorsi depositati nell’anno 2016 nell’intero settore civile ammontava a 29.693; nel 2017 il numero è salito a 30298; nel 2018 sono stati depositati complessivamente 36.881 ricorsi (dati ricavati dal Sistema informativo della Corte di cassazione - SIC).
[6] Le pendenze relative al settore civile, che, al 31 dicembre 2016 ammontavano a 106.885, sono arrivate alla cifra record di 111.275 al 31 dicembre 2018, nonostante il costante progresso, in termini numerici, del numero dei processi esauriti con provvedimento definitivo (nel 2016: 27.382; nel 2017: 30.255; nel 2018: 32.477; dati tratti dal SIC).
GREEN BOOK
Una recensione di Dino Petralia
L’alternanza degli opposti allerta l’attenzione e la converte nella sintesi della sfida.
Questo lo slogan che intesta il verde libro di un Farrelly al cospetto di una storia (vera) di poco e molto, di brutalità e delicatezza, di bianco e nero.
Tony Lip e Don Shirley, crudo buttafuori il primo, raffinato pianista di colore il secondo, per l’imponderabile della vita s’imbattono l’un l’altro in un limbo metropolitano di esigenze antitetiche ma convergenti: Tony, a corto di soldi e senza più lavoro, accetta malvolentieri il ruolo di autista tuttofare per il facoltoso musicista; questi, attratto dalla sfida per l’ideale libertario dei neri d’America, spinge il suo tour fino agli Stati meridionali intrisi di pregiudizio razziale e di rischi personali. La rudezza risolutrice di Lip soddisfa il bisogno di sicurezza del pianista; l’affidabile munificenza di Shirley risolve l’ansia di sopravvivenza familiare del neo autista. Inizia così, agli albori degli anni sessanta, un percorso al maschile di un “Thelma e Luise” trasfigurato nei volti e negli eventi ma allineato nell’analogo compito di liberazione esistenziale.
Un compito che illumina il tramite rendendolo gradevole e condivisibile agli occhi dello spettatore.
Un compito che, nel contrappunto di storie e stili umani dei due dialoganti, sfuma a sfondo nobile ma non per questo meno evidente, incorniciando il viaggio in un’armonia di ambiguità e contrasti destinati a risolversi nell’unisono umano di un pranzo di Natale dal sapore, però, un pò troppo favolistico e sdolcinato.
Ma l’uguaglianza tra bianco e nero inizia a consumarsi già prima dentro il percorso, con l’effetto di una comune catarsi dagli scrupoli dell’anima e del corpo, un’emenda dalle proiezioni pulsanti di un preconcetto razziale e culturale abilmente dipinto con la delicata ruvidità di Lip e l’insolente eleganza di Shirley.
Il tocco pittorico dei due profili li fa essere già predisposti all’armistizio sociale.
A ben vedere, infatti, Tony non avverte un razzismo culturale limitandosi a replicare l’uso di termini e simboli beceri (eloquente il cogliere con due dita i bicchieri di due operai di colore giunti a casa sua per delle riparazioni, gettandoli nell’immondizia); dalla sua il pianista di colore, intriso di manierismo borghese, disilluso sulla potenza di una tolleranza vincente che non riesce a superare, si affida al buttafuori per esaudire la sua sfida.
Gli opposti di colore, cultura, gusto e contegno tendono così ad una sintesi liberatoria che nelle sequenze filmiche transita per un continuo e grazioso interscambio tra autista e passeggero: il primo impone con successo al secondo un inedito (per lui) pollo fritto mangiato con le mani e lo converte al popolare sound di Little Richard fino a convincerlo a suonare un improbabile pianoforte in un localino di periferia, suscitando vibrazioni corali di assenso; il colto Shirley, a sua volta, addestra Tony a sottrarsi alla banalità dei suoi scritti alla moglie, introducendolo ad uno stile più vero del cuore, ma soprattutto emancipandolo dal solo rozzo linguaggio del corpo e avviandolo ad una lenta cosmesi di un’anima che c’è, primitiva e inabissata dal bisogno e tuttavia dolcemente levigata di un’umanità vincente.
Consumata così la conversione tra reciproche censure e contrattuali difese in una tenera e solidale comunanza umana tra Tony e Shirley, il progetto etico si compie accarezzando con la storica voce di Robert Plant un’ideale fusione cromatica del bianco e del nero, e pure dei verdi del book e delle luccicanti Cadillac, nelle mille tinte incolori dell’anima.
DIMINUISCE IL RISARCIMENTO PER GLI INVALIDI SUL LAVORO
(una storia già vista) di Roberto Riverso
La riforma del TU 1124/65 in materia di danni differenziali per i lavoratori e di azione di regresso dell’INAIL si pone nel solco della riduzione dei diritti del lavoratore e dell’ampliamento delle prerogative delle imprese, secondo un modello che è ormai dominante nelle scelte di politica del lavoro degli ultimi trent’anni; tra la tutela del diritto alla salute e all’assistenza adeguata dei lavoratori invalidi e gli interessi imprenditoriali ad una riduzione del costo del lavoro, la legge di bilancio 2019 opta per garantire i secondi (ed in maniera indiscriminata). Ancora una volta.
Sommario: 1. Premessa. - 2. Danni differenziali - 3. Comparazione delle poste - 4. Danni complementari 5. Da quando si applicala nuova normativa. 6. Conclusione
1.Premessa
La legge di bilancio n. 145 del 2018 è intervenuta novellando il testo degli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 in materia di danno differenziale e di azione di regresso dell’INAIL, nonché il testo dell’art. 142 del codice delle assicurazioni in tema di azione di surroga dell’INAIL nei confronti dell’impresa di assicurazione.
Lo scopo e l’oggetto dell’intervento è stato quello di rapportare il raffronto tra l’entità dell’importo del danno differenziale spettante al lavoratore e quello dell’azione di regresso e surroga spettanti all’INAIL ad un calcolo per voci complessive ovvero per sommatoria, rispetto al sistema di calcolo precedentemente in vigore che, secondo l’interpretazione della giurisprudenza prevalente, andava operato invece per voci distinte (Cass. n. 1322 del 2015; n. 17407 del 2016; n. 3296 e n. 21961 del 2018)
L’operazione di novellazione è avvenuta attraverso la ripetuta interposizione all’interno dei testi di legge dell’avverbio “complessivamente” (e dell’aggettivo “complessivo”) sia con riferimento al risarcimento dovuto al lavoratore che per la rendita da rapportare ai fini del calcolo; sia per l’azione di regresso che per quella surroga.
Non c’è dunque alcun dubbio su quale sia la portata e l’esito dell’intervento riformatore.
Il legislatore ha voluto ricondurre le operazioni di risarcimento del danno del lavoratore e di recupero dell’indennizzo da parte dell’INAIL (anche nei confronti del terzo responsabile e del suo istituto assicuratore grazie al contemporaneo intervento di novellazione sull‘art. 142 del codice delle assicurazioni) ad una logica puramente matematica, determinata entro il tetto civilistico: posto che, appunto, secondo la regola base risultante dal testo del comma sesto dell’art 10 che è oggi in vigore “ Non si fa luogo al risarcimento qualora il giudice riconosca che questo complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo non ascende a somma maggiore delle indennità che a qualsiasi titolo ed indistintamente, per effetto del presente decreto è liquidata all’infortunato o i suoi aventi diritto.”
Occorrerà chiedersi anzitutto quale sia la cifra politica di tale sorprendente riforma e se essa presenti aspetti di illegittimità costituzionale; soprattutto perché diminuisce certamente la tutela riparatoria del lavoratore il quale all’interno di un sistema composito di tutele, siccome ricostruito dalla giurisprudenza fin qui in vigore, poteva puntare ad ottenere una riparazione diversificata e più vantaggiosa in caso di infortunio o malattia professionale in quanto rapportata ad un computo dei danni per voci distinte.
2. Danni differenziali
Va rimarcato però che tutto ciò vale ancora solo ed esclusivamente per le voci di danno strettamente “differenziali”, posto che lo stesso intervento di riforma delimita il diffalco - appunto in senso complessivo - ai soli “pregiudizi oggetto di indennizzo” e quindi soltanto ai pregiudizi ricompresi nell’ambito della tutela riservata dal testo unico al lavoratore infortunato o affetto da malattia professionale.
Occorrerà dunque vigilare, ben più di prima, che non si determini alcuna confusione tra danno differenziale e danno complementare e si mantenga invece una netta distinzione tra voci di danno che molti invece ancora non distinguono, né in dottrina né in giurisprudenza; non fosse altro per il rispetto dei principi stabiliti dalla Corte cost., col doppio intervento del 1991, di cui alle sentenze n. 356 in tema di surroga e n. 485 in tema di regresso, con le quali in riferimento a danno differenziale e regresso, si è definitivamente chiarito che l’esonero datoriale e dunque il principio del danno differenziale operano solo e soltanto all’interno e nell’ambito dell’oggetto dell’assicurazione così come delimitata nell’ambito dei suoi presupposti oggettivi e soggettivi, con l’effetto che, non operando l’esonero, il danno, pur trovando origine dalla prestazione di lavoro, è disciplinato dal codice civile, senza i limiti posti dall’art. 10 (“mancando l’assicurazione, cade l’esonero”).
L’esonero riguarda perciò oggi soltanto il danno patrimoniale per invalidità temporanea, il biologico permanente dal 6%, il patrimoniale dal 16%, la rendita ai superstiti. Per converso esso non riguarda il danno che esula ab origine dalla copertura assicurativa INAIL (c.d. danno complementare, definito pure differenziale qualitativo) come il biologico temporaneo, il biologico in franchigia (fino al 5%,) il patrimoniale in franchigia (fino al 15%), il morale ed i pregiudizi esistenziali, il danno tanatologico o terminale o catastrofale; né il danno alla perdita parentale ( e quindi il danno da morte iure proprio e iure successionis), la personalizzazione (o ricadute soggettive del danno biologico); per ottenere i quali il lavoratore o suoi eredi possono agire nei confronti del datore secondo il diritto civile, azionando anche una domanda per responsabilità contrattuale (oltre che extracontrattuale), avvalendosi quindi se del caso dell’inversione dell’onere della prova della colpa, nella logica oramai assodata della responsabilità contrattuale ex artt. 2087 e 1218 c.c., senza neppure poter essere assoggettati ad alcun diffalco da parte dell’INAIL.
3. Comparazione delle poste.
Sapere quali pregiudizi mirano ad indennizzare le prestazioni INAIL è divenuto quindi di fondamentale importanza ai fini del problema della comparazione degli importi nei casi in cui al lavoratore venga liquidata dall’INAIL la rendita.
Nella liquidazione dei danni accertati come prodotti in conseguenza di un infortunio o malattia professionali con ricadute sulla capacità lavorativa del soggetto, occorre appunto detrarre l’indennizzo che il lavoratore ha ottenuto o avrebbe dovuto ottenere dall’INAIL e non dal datore per la stessa lesione. Come è noto l’INAIL indennizza oltre al danno biologico anche il danno alla capacità lavorativa generica in caso di invalidità permanente superiore al 15% attraverso una quota di rendita che si aggiunge a quella dovuta per danno biologico.
Il problema che si pone, in questi casi di rendita INAIL con duplice liquidazione (biologico patrimoniale) è come effettuare il calcolo del differenziale; andrà fatto su poste separate ed omogenee o va tenuto conto del complessivo importo erogato dall’INAIL? Il lavoratore deve pretendere come danno differenziale solo l’eventuale residuo rispetto all’importo complessivo delle erogazioni o può agire sulle singole poste? Si tratta di una questione che ha riflessi anche sull’oggetto della rivalsa INAIL la quale non può che operare entro i limiti complessivi del danno civilistico sulle stesse voci di danno oggetto di copertura e non potrà riguardare il danno complementare.
E’ chiaro che se il datore è tenuto ad indennizzare all’ INAIL il danno voce per voce, l’Istituto - a differenza del lavoratore - potrebbe essere pregiudicato rispetto al diverso ammontare delle prestazioni singolarmente erogate; operando la scomposizione delle singole voci indennizzate dall’INAIL in definitiva aumenta l’importo del danno differenziale riconosciuto al danneggiato e, conseguentemente, diminuisce l’importo riconosciuto all’INAIL in accoglimento della domanda di rivalsa (o di surroga).
Tutto questo dipende dal fatto che esistono differenze profonde tra sistema indennitario e sistema civilistico che conducono in base all’applicazione delle regole in vigore a risultati discordanti: il limite del danno civilistico vale rispetto al datore di lavoro; nei confronti dell’INAIL vale la liquidazione dell’indennizzo operata in conformità del T.U.; e se il lavoratore percepisce per le diverse poste ( patrimoniale e biologico ) quanto gli è dovuto in base al sistema civilistico ed assicurativo, non si può dire che abbia locupletato alcunché.
Vero è che aumentando il differenziale per il lavoratore sulle diverse poste, si restringeva l’oggetto delle rivalsa per l’INAIL; ma anche questo va visto come un risultato conforme al sistema dovendo l’INAIL sopportare il maggior costo dell’importo civilistico rispetto alla singola posta di danno piuttosto che il lavoratore percepire un indennizzo inferiore a quanto previsto dal sistema di protezione sociale.
D’altra parte l’INAIL non potrà mai intaccare il diritto del lavoratore di percepire l’integrale risarcimento del danno posta per posta, non essendo ammissibile, soprattutto in un sistema bipolare del danno, alcuna fungibilità tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale. Non si dovrebbe perciò confondere il danno patrimoniale con quello non patrimoniale.
In altri termini, tanto la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (che consente il completo ristoro del danno, necessariamente personalizzato conseguente alla lesione del bene salute), quanto la ricostruita netta bipolarità del sistema del danno alla persona (che impone la reductio ad unum del danno non patrimoniale, ma impedisce ogni fungibilità tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale), escludono che il diritto del lavoratore all’integrale risarcimento del danno non patrimoniale (differenziale) possa essere in qualche modo compresso dalle ragioni creditorie dell’ente assicuratore relative al costo sopportato per le conseguenze patrimoniali del sinistro.
Da ultimo la giurisprudenza si era assestata proprio su queste tesi, ( ex multis, Cass. civ., sez. III, 26.6.2015, n. 13222; n. 22862 del 09/11/2016) riconoscendo che il calcolo del c.d. danno differenziale deve avvenire sottraendo dal credito risarcitorio l'importo dell'indennizzo versato alla vittima dall'INAIL quando l'uno e l'altro abbiano ad oggetto il ristoro del medesimo pregiudizio.
4. Danni complementari.
Se dunque dopo questa riforma sarà possibile detrarre dal complessivo risarcimento civilistico spettante al lavoratore a titolo di danno biologico (permanente) e di danno patrimoniale quanto erogato dall’INAIL nell’ambito dell’assicurazione per le stesse voci di danno, e se per converso l’INAIL potrà aggredire in via di rivalsa e di regresso il complesso delle somme dovute al lavoratore per gli stessi titoli di danno biologico (permanente) e di danno patrimoniale, non sarà certamente possibile che il danno del lavoratore spettante a titolo di danno complementare possa subire decurtazione di sorta.
Il raffronto dei calcoli deve essere circolare e la circolarità deve tendere a garantire (almeno) l’integralità del risarcimento civilistico, secondo i noti principi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze prima citate.
E’ vero però che il lavoratore non potrà più cumulare quanto gli spetta a titolo di danno biologico civilistico con “il di più” ricevuto dall’INAIL per danno patrimoniale da invalidità permanente (che riguardando un danno presunto non ha corrispondenza nella liquidazione civilistica), perché secondo la nuova norma essendo entrambi i “pregiudizi oggetto di indennizzo” il differenziale va delimitato per sommatoria dei due danni che vanno sottratti dal computo “complessivamente”.
La distinzione tra danno differenziale e complementare, sia ai fini del risarcimento del danno che delle azioni di regresso e di surroga INAIL è già acquisita alla giurisprudenza di legittimità; ad es., per stare alla giurisprudenza più recente, Cass. n. 9166 del 10 aprile 2017, non solo distingue il danno differenziale da risarcire in presenza degli “estremi di un reato perseguibile di ufficio” dal danno complementare da risarcire secondo le comuni regole della responsabilità civile, ma chiarisce bene che soltanto dall’ammontare del primo occorre “detrarre quanto indennizzabile dall'Inail” in base ai parametri legali ed in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale.
Tale ovvia affermazione risulta ribadita anche nella giurisprudenza successiva ed è affermata dalla sentenza n. 4972 del 2 marzo 2018 e dall’ordinanza n. 20392 del 1° agosto 2018 le quali evidenziano come l'indennizzo erogato dall' INAIL ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 non copre il danno biologico da inabilità temporanea, atteso che sulla base di tale norma, in combinato disposto con l'art. 66, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 1124 del 1965, il danno biologico risarcibile è solo quello relativo all'inabilità permanente e che pertanto non si può porre in relazione alla stessa voce di danno alcun problema di danno differenziale né alcuna aggressione da parte dell’Inail in sede di rivalsa; così come alcun problema di raffronto o calcolo per poste o per sommatoria.
Ed il discorso fatto per il danno biologico temporaneo vale ovviamente per la c.d. personalizzazione, per il danno morale, per il danno esistenziale e , in caso di morte del lavoratore, per il danno terminale e per quello parentale, oltre che per qualsiasi altro danno correlato alla persona del lavoratore diverso da quello indennizzato dall’INAIL.
5. Da quando si applica la nuova normativa.
Occorre chiarire infine la questione dell’applicazione delle nuove regole sotto il profilo temporale.
La nuova legge si occupa di regolare il diritto al risarcimento del danno differenziale spettante al lavoratore assicurato in base al T.U. n. 1124 del 1965 ed il diritto dell’INAIL che agisca in regresso o con azione di rivalsa per il recupero delle somme erogate al lavoratore o agli eredi.
La regola introdotta per entrambi i diritti rapporta le stesse pretese a criteri di calcolo omogenei e circolari; essi devono perciò essere soggetti ad una medesima normativa e non possono conoscere alcuna sfasatura regolamentare sotto il profilo temporale, attesa la circolarità delle regole che vengono in applicazione (quello che è dell’INAIL non è del lavoratore e viceversa).
In materia di regolazione della legge nel tempo, com’è noto, l’art. 11 delle preleggi stabilisce il principio secondo cui la legge provvede per l’avvenire e non ha effetto retroattivo, salvo diversa previsione. In mancanza all’interno della medesima legge in questione di una previsione di natura retroattiva, rimane quindi il principio generale da cui discende che, secondo quanto avviene normalmente, la nuova normativa si applichi soltanto ai diritti del lavoratore ed ai diritti dell’INAIL maturati successivamente alla sua entrata in vigore; essa non può regolare quindi i diritti sorti (ed i relativi fatti generatori posti in essere) prima della sua entrata in vigore.
Come detto, le nuove norme costituiscono disposizioni di natura sostanziale che riguardano il risarcimento del danno e l’oggetto del regresso e della surroga esercitabili dall’INAIL; esse delimitano l’oggetto ed il quantum dei diritti in discorso nei due ambiti, ovvero la comparazione delle poste che è questione differente dai criteri di valutazione delle poste che i giudici devono applicare al momento della liquidazione e sul cui contenuto le modifiche in discorso non incidono punto. Se il totale delle poste di danno ammontava nei due ambiti a 100 prima della riforma continua ad ammontare a 100 dopo la riforma.
Non attenendo al potere valutativo o equitativo del giudice in materia di determinazione dei danni, non si possono applicare ad esse i principi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità (ad es. da Cass. n. 7272 del 2012 e n. 25485 del 2016), secondo cui se i criteri di valutazione del danno ovvero le "tabelle" applicate per la liquidazione del danno non patrimoniale cambino nelle more tra l'introduzione del giudizio e la sua decisione, il giudice ha l'obbligo di utilizzare i parametri vigenti al momento della decisione ( atteso che, in questi casi, la liquidazione effettuata sulla base di tabelle non più attuali si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo previsto dall’art. 1226 c.c.).
Né può rilevare in alcun modo il rilievo secondo cui la legge in questione non si occupi del fatto costitutivo (l’infortunio e la malattia) ma solo del risarcimento del danno delimitandone l’entità; poiché il risarcimento (ma anche l’azione di recupero dell’INAIL) è l’effetto del “fatto generatore” (l’infortunio , la malattia) che viene prima. Ed una legge che pretendesse di regolare gli effetti ancora in corso di un fatto verificatosi sotto l’imperio di una legge precedente non sarebbe meno retroattiva di una che intendesse regolare diversamente un fatto già esaurito. L’applicazione del criterio di comparazione delle poste attualmente in vigore agli infortuni verificatesi prima verrebbe a modificare gli effetti ovvero l’entità del risarcimento del danno spettante per un fatto del passato, finendo per disconoscere gli effetti di un fatto che si sono pure essi verificati (in tutto o in parte) nel passato, senza neppure costituire una situazione che possa essere presa in considerazione in sé stessa prescindendo dal collegamento con il fatto che l’ha generato.
Nella vicenda normativa che si esamina il diritto al risarcimento del danno differenziale nasce al momento dell’infortunio sul lavoro o della malattia professionale verificatesi appunto nel passato; si tratta di un effetto in corso di un fatto generatosi nel passato.
Del resto, l’applicazione di una nuova regola destinata ad applicarsi a cause in corso deve essere sempre interpretata con estremo rigore dal momento che rischia di essere in qualche misura compromesso lo stesso diritto di agire e difendersi in giudizio, che presuppone la possibilità per la parte di operare una ragionevole previsione sull’esito della sua iniziativa giudiziaria, fondata sull’aspettativa che quell’esito dipenderà dall’applicazione delle regole di diritto esistenti e conosciute nel momento in cui l’iniziativa giudiziaria è stata assunta.
Una lettura diversa da quella proposta potrebbe quindi esporre a rischi di incostituzionalità la normativa sotto il profilo della irragionevolezza e della violazione del principio del giusto processo; ed inoltre a rilievi da parte della Corte di Strasburgo assai severa nei confronti delle norme retroattive ( in base all’art. 6 CEDU, che sancisce il diritto ad un equo processo e, quale suo corollario, il principio di parità delle armi).
Non si tratta poi di disposizioni che abbiano natura meramente interpretativa posto che nella normativa emanata non vi è alcuna espressione diretta ad affermare che l’oggetto della intervento legislativo sia stato il chiarimento di una disposizione precedentemente in vigore. Ciò è testimoniato anche dalla tecnica normativa adoperata dal legislatore con l’interpolazione all’interno delle vecchia normativa di nuove espressioni sintattiche, attraverso uno strumento, quindi, dichiaratamente modificativo e non ricognitivo di una supposta regola precedentemente in vigore.
Le nuove regole troveranno pertanto applicazione unicamente ai fatti che hanno determinato un danno risarcibile e che risultano commessi dopo l’entrata in vigore della normativa, per il principio generale di irretroattività della legge di cui all’art. 11 preleggi c.c..
Per di più va considerato che la riforma in discorso altro non è che uno strumento attuativo della manovra finanziaria stabilita nella legge ed è stata dettata esclusivamente dalla necessità di garantire l'equilibrio economico-finanziario dell’INAIL in conseguenza della diminuzione degli oneri dovuti all’Istituto da parte delle imprese. La stessa legge (art. 1, comma 1126), infatti, espressamente prevede che le modifiche fin qui viste valgano con decorrenza dal 1° gennaio 2019 in relazione alla revisione delle tariffe. Pertanto anche da questo punto di vista, in mancanza di qualsiasi revisione delle tariffe per il passato, applicare i nuovi criteri anche per il periodo precedente al 1° gennaio 2019 costituisca una chiara violazione delle stessa legge.
6. Conclusione.
La nuova normativa diminuisce l’entità complessiva della riparazione monetaria che il lavoratore può ricevere a seguito di un infortunio o di una malattia professionale rispetto ai sistemi indennitario e civilistico precedentemente in vigore. Rimane ferma l’integralità del credito determinato in base al tetto civilistico rispetto al quale il lavoratore non può subire la decurtazione neppure di un centesimo. Così come rimane fermo l’indennizzo ricevuto dall’INAIL ove per ipotesi di importo superiore a quello maturato e determinato con criteri civilistici.
La tesi secondo cui anche il risarcimento civilistico dei danni del lavoratore (diversi da quelli indennizzati dall’INAIL) sarebbe stato intaccato dalla riforma non solo non risponde al tenore letterale della normativa, ma conduce la stessa normativa ad una aperta violazione della Costituzione, per cui, quand’anche avesse un qualche fondamento esegetico, sarebbe comunque da respingere in virtù del fondamentale criterio per cui, se fra più significati normativi possibili uno solo è conforme ai principi costituzionali, è a questo che l’interprete deve sempre dare preferenza.
Contenuti gli effetti della riforma nell’ambito del danno differenziale, come impone sia il dato letterale che una interpretazione costituzionalmente orientata della novella, l’oggetto della valutazione critica va spostato dall’ambito costituzionale al piano della politica del diritto e della discrezionalità legislativa. Ebbene, vista da questa diversa angolazione, la valutazione del cambiamento apportato dall’intervento legislativo in oggetto non può che suscitare forti critiche; non soltanto per il risultato oggettivamente realizzato con la riduzione del quantum spettante al lavoratore invalido sul lavoro, ma anche, e soprattutto, se si pensa che tale risultato è stato perseguito all’interno di una manovra finanziaria volta alla riduzione dei costi per le imprese e di pareggio di bilancio per l’INAIL siccome prevista dall’art.1. 1, comma 1126, della l. n. 145 del 2018 per i prossimi tre anni con la revisione delle tariffe, dei premi e contributi per l’assicurazione INAIL comportanti minori entrate (per circa un miliardo e 500 milioni di euro). Per far fronte a tali minori entrate la legge dispone, poi, la riduzione per ciascuno dei tre anni (2019, 2020 e 2021) delle risorse strutturali destinate dall'INAIL per il finanziamento dei progetti di investimento e formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, delle risorse destinate allo sconto per prevenzione, ed, infine, appunto, da una parte la diminuzione del risarcimento per i lavoratori e dall’altro l’aumento delle somme aggredibili dall’INAIL in sede di regresso e di surroga.
In questa partita di giro, quindi, quello sottratto dall’INAIL ai lavoratori, in termini di riparazione indennitaria e di maggiore spesa per la loro sicurezza, corrisponde a quanto viene risparmiato dai datori di lavoro che si pongono all’origine del danno di cui si è inteso ridurre il risarcimento.
La riforma si pone nel solco della riduzione dei diritti del lavoratore e dell’ampliamento delle prerogative delle imprese, secondo un modello che è ormai dominante nelle scelte di politica del lavoro degli ultimi trent’anni; tra la tutela del diritto alla salute e all’assistenza adeguata in caso infortunio o malattia professionale dei lavoratori e gli interessi imprenditoriali ad una riduzione del costo del lavoro, la legge di bilancio 2019 opta per garantire i secondi (ed in maniera indiscriminata). Ancora un volta.
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