ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il ruolo del Pubblico Ministero nell'emersione tempestiva dell’insolvenza, tra legge fallimentare e nuovo codice della crisi di impresa e dell’insolvenza di Giorgio Orano
A diciotto mesi dalla entrata in vigore del nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, la prevista introduzione degli strumenti di allerta, al dichiarato scopo di contribuire alla tempestiva emersione della crisi di impresa, impone una riflessione sul ruolo che il P.M. e la magistratura nel suo complesso, avrebbero dovuto svolgere secondo l’impianto della legge fallimentare - tuttora vigente - e sui compiti e le prerogative che la riforma attribuisce agli Uffici di Procura quali garanti della legalità del sistema economico nel suo complesso.
Sommario: 1. Domani accadrà, e il domani è fra diciotto mesi. – 2. I sistemi di allarme ante litteram presenti nella Legge Fallimentare del 1942. – 3 Il ruolo del Pubblico Ministero nel nuovo codice della crisi e dell’insolvenza. – 4. Le procedure di allerta e il Pubblico Ministero.
1. Domani accadrà, e il domani è fra diciotto mesi.
Tanto ci separa dall’entrata in vigore del nuovo codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (prossima la pubblicazione in gazzetta); evidentemente il legislatore è convinto che le nuove regole avranno effetti significativi, se non dirompenti, sulla nostra realtà socio economica e dunque ha concesso a tutti i soggetti coinvolti, fra cui gli operatori del diritto, molto tempo per riflettere, e per organizzarsi.
Può sembrare molto, forse troppo tempo, per noi penalisti, dal momento che in fondo il diritto penale fallimentare, al netto di qualche modifica terminologica, esce dalla riforma sostanzialmente immutato, risultando di fatto trascritto, nel nuovo codice, nel titolo IX del nuovo codice (artt. 322 – 347) rubricato “Disposizioni Penali”.
Tuttavia, anche se la riforma non contiene alcuna modifica degli strumenti di contrasto al crimine economico è evidente che il nuovo codice presenti una novità molto importante, destinata ragionevolmente a cambiare, forse da subito, le strategie illecite dell’imprenditore disonesto e dunque il concreto atteggiarsi dei futuri delitti di bancarotta.
Il legislatore ha preso infatti le mosse dalla constatazione del diffuso e gravissimo ritardo con cui le imprese, in questi anni, hanno avuto accesso alle procedure concorsuali.
E’ fatto dolorosamente notorio che oggi i fallimenti siano procedure per lo più inutili, costose e di frequente chiuse per mancanza di attivo da ripartire. Quanto ai concordati, spesso i piani proposti dall’impresa prevedono percentuali di soddisfacimento dei creditori minime, se non irrisorie o si basano, nel caso della cosiddetta “continuità”, su irrealistiche previsioni di futuri flussi reddituali che, in assenza di assets prontamente liquidabili, dovrebbero consentire il pagamento dei debiti pregressi.
In sede penale, il ritardo nella dichiarazione di fallimento, o nell’accesso delle imprese al concordato, fa sì che le indagini sui reati fallimentari si svolgano a distanza di mesi, se non di anni, dalla commissione dei fatti di bancarotta oggetto di accertamento.
Ecco perché il nuovo codice ha messo in primo piano, fra i doveri del debitore di cui all’art. 3 del codice, quello della “tempestiva rilevazione dello stato crisi”, necessaria affinchè l’imprenditore assuma “senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte” anche attraverso l’adozione di un idoneo assetto organizzativo ai sensi del novellato art. 2086 del codice civile.
Ecco perchè l’obiettivo di una tempestiva emersione dell’insolvenza e della crisi, è perseguito nel codice attraverso il complesso sistema (Titolo II del Codice) delle “Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi” che, come detto, rappresentano l’aspetto veramente innovativo della riforma.
La composizione (il tentativo di soluzione concordata) della crisi è affidata ad un organismo istituito presso le Camera di Commercio cui pervengono le segnalazioni della crisi di impresa o da parte del debitore, a ciò incentivato anche con importanti misure premiali, o da parte dei creditori pubblici qualificati (Agenzia delle Entrate, I.N.P.S. e agente della riscossione) al superamento di prestabilite soglie di esposizione debitoria, o da parte degli organi di controllo societari, del revisore contabile e delle società di revisione.
L’attenzione degli interpreti è ovviamente concentrata sui tanti aspetti problematici della nuova disciplina, sia pure nella concreta speranza che la stessa vada a incidere in maniera virtuosa sui comportamenti e sulle scelte degli imprenditori, indirizzandoli verso un tempestivo e “leale” utilizzo degli strumenti di composizione della crisi d’impresa.
Personalmente ritengo invece importante volgere ancora per un attimo lo sguardo indietro, per chiedersi: il tema della tempestiva emersione dell’insolvenza era stato ignorato o sottovalutato nell’impianto dell’attuale legge fallimentare? In altri termini: le misure di allerta riempiono un vuoto legislativo o vanno a sostituire strumenti che già esistevano ma che, per qualche motivo, non hanno funzionato?
E se è così, cosa esattamente non ha funzionato?
2. I sistemi di allarme ante litteram presenti nella Legge Fallimentare del 1942
Si può partire da un dato. L’art. 217 L. F. (che vivrà nell’art. 323 del nuovo codice) punisce a titolo di bancarotta semplice l’imprenditore che ha aggravato il proprio dissesto “astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento”. Se pensiamo al fatto che solo la dichiarazione di fallimento interrompe il decorso degli interessi legali o convenzionali (art. 55 LF), si può dire che quasi sempre a un ritardo nella dichiarazione di fallimento consegue un aggravamento della situazione debitoria.
Dunque il legislatore aveva già nel 1942 ben presente l’importanza di una tempestiva rilevazione dell’insolvenza in primis da parte dello stesso debitore, solo che all’epoca decise di usare nei confronti dello stesso solo “il bastone”, criminalizzando la sua inerzia, mentre nel nuovo codice è contemplata anche “la carota” sotto forma di variegate misure premiali per l’imprenditore che accede senza ritardo agli strumenti di composizione della crisi.
Il legislatore del 1942, saggiamente, non ha fatto esclusivo affidamento sulla spontanea adesione da parte degli imprenditori al suddetto precetto, sia pure penalmente sanzionato, né ha lasciato che l’emersione della crisi d’impresa fosse rimessa alla decisione dei creditori di promuovere, a seconda del loro interesse particolare, istanza di fallimento piuttosto che di proseguire le azioni esecutive individuali nei confronti del patrimonio del debitore.
Ha invece attribuito il potere di iniziativa fallimentare anche ad un soggetto pubblico, privo di interessi patrimoniali propri da tutelare, ossia il Pubblico Ministero, onerandolo (art. 7 della Legge Fallimentare) di promuovere istanza di fallimento ogni qual volta l’insolvenza dell’imprenditore risultasse nel corso di un procedimento penale.
Nel medesimo articolo di legge ha previsto che il Pubblico Ministero attivasse il suo potere di iniziativa fallimentare anche sulla base di segnalazioni provenienti dal Giudice Civile, con ciò affidando anche a quest’ultimo il compito di “sentinella dell’insolvenza”.
Dunque nel piano del legislatore del 1942 l’insolvenza dell’impresa avrebbe dovuto, nella normalità dei casi, emergere con tempestività: o per ammissione dello stesso imprenditore, o per l’iniziativa dei creditori o nel corso di cause civili e procedimenti penali, conseguenza indefettibile di ogni crisi imprenditoriale.
Ed allora, posto che il sistema di allarme c’è anche nella vigente legge fallimentare, l’approccio ai nuovi strumenti di allerta non può prescindere, a mio parere, da una riflessione tesa a capire perché quel piano non abbia funzionato, ossia il motivo per cui la magistratura si sia dimenticata di svolgere il ruolo che la legge fallimentare le aveva assegnato.
La risposta più immediata è che l’analisi dei presupposti per la segnalazione della insolvenza (da parte del giudice civile) o per l’istanza di fallimento (da parte del Pubblico Ministero) costituisce, soprattutto in assenza di specializzazione, di apposite dotazioni informatiche e di facile accesso alle banche dati, un appesantimento significativo del lavoro quotidiano, percepito come insostenibile in realtà giudiziarie già impegnate in via ordinaria di un soverchiante numero di affari.
Credo tuttavia di non sbagliare se dico che in ben pochi Tribunali e Procure d’Italia, anche quelli meno gravati, il problema del ruolo dei magistrati nella emersione dell’insolvenza sia stato oggetto di una qualche attenzione e soprattutto abbia ispirato modifiche all’organizzazione interna, circolari, protocolli eccetera.
E allora forse la vera spiegazione è un’altra, ed è di natura culturale: di fronte ad una impresa in difficoltà, il magistrato vive l’iniziativa fallimentare pubblica come una sorta di accanimento, istintivamente assume un atteggiamento conservativo nei confronti di una realtà aziendale che percepisce composta, almeno in parte, di persone incolpevoli che lavorano e la cui sopravvivenza dipende, almeno nell’immediato, dalla prosecuzione della attività commerciale.
Peccato che fissare lo sguardo sulla vicenda particolare, in questo caso, sfochi la vista sul quadro generale.
Andrebbe infatti tenuto sempre presente che in assenza di una tempestiva instaurazione di procedure concorsuali, l’impresa in crisi assume solitamente decisioni lesive per la garanzia dei creditori; quasi sempre ai danni dell’insuccesso imprenditoriale si sommano pertanto quelli derivanti dalle illecite condotte dell’imprenditore, e questi danni tendono poi a colpire i soggetti più deboli e meno garantiti, a volte messi in ginocchio dal mancato recupero delle proprie spettanze e costretti a loro volta al fallimento.
E purtroppo non è tutto qui: gli imprenditori più furbi e disonesti hanno imparato a programmare e utilizzare ai propri fini, spesso all’interno di logiche di gruppo, le crisi di impresa e le procedure concorsuali, accumulando debiti – soprattutto verso l’Erario e gli Enti Previdenziali – per autofinanziarsi e alterare i meccanismi della concorrenza.
Lasciare sul mercato una impresa che ha perduto il suo patrimonio per perdite (magari abilmente occultate con un bilancio falso) o addirittura un’impresa cd “criminale” – ossia un soggetto economico sta sul mercato da sempre in maniera slealmente competitiva, violando le normative civilistiche, fiscali e contributive – costituisce una grave mancanza di responsabilità posto che pregiudica la possibilità di sopravvivenza sul mercato delle imprese sane e rispettose delle regole.
Insomma, questa sorta di “sindrome da plotone di esecuzione” che sembra affliggere i magistrati, impedisce loro di vedere che a morire, in questi anni, è stato il sistema economico nel suo complesso, ostaggio e vittima di condotte imprenditoriali illecite che si sono a tal punto diffuse da divenire “sistema” e regola distorta di fatto imposta a tutti.
Ecco perché a prescindere da quello che sarà l’impatto delle procedure di allerta, è fondamentale che giudici e pubblici ministeri prendano consapevolezza del loro ruolo e delle loro responsabilità, comprendendone a pieno l’importanza proprio a salvaguardia della tenuta complessiva di un tessuto socio economico che, a parole, tutti vorremmo vitale e pronto a premiare quella competitività sana (basata sul rispetto delle regole) che è peraltro il principale interesse del consumatore.
3. Il ruolo del Pubblico Ministero nel nuovo codice della crisi e dell’insolvenza
Un cosa a questo punto va detta chiaramente: le nuove disposizioni del Titolo II del Codice sulle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi – basate come accennato sulla imposizione di obblighi di segnalazione a carico di soggetti qualificati - non sono pensate come sostitutive del compito assegnato alla Autorità Giudiziaria in tema di tempestiva emersione dell’insolvenza, ma vanno piuttosto ad aggiungere un nuovo canale di emersione pronto, in ogni momento, a cedere il passo all’intervento pubblico. Il comma 9 dell’articolo 12 del nuovo codice prevede espressamente, infatti che: “la pendenza di una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza disciplinate dal presente codice fa cessare gli obblighi di segnalazione di cui agli artt. 14 e 15 e, se sopravvenuta, comporta la chiusura del procedimento di allerta e di composizione assistita della crisi.”
Peraltro l’art. 12 comma 4 e 5 del nuovo codice prevede una cospicua lista di esclusioni soggettive dall’applicazione degli strumenti di allerta, non applicabili ad esempio alle grandi imprese, ai gruppi di imprese di grandi dimensioni e alle società quotate.
In maniera del tutto coerente a questo disegno, il nuovo codice amplia notevolmente il potere di iniziativa del Pubblico Ministero in relazione al ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale prevedendo, al primo comma dell’art. 38, che il suddetto possa presentarlo “in ogni caso in cui ha notizia della esistenza di uno stato di insolvenza” dunque anche senza quello specifico collegamento, formale o sostanziale, con il procedimento penale richiesto dall’attuale art. 7 L.F..
Allo stesso modo, il secondo comma dell’art. 38, prevede che “l’autorità giudiziaria che rileva l‘insolvenza nel corso di un procedimento lo segnala al Pubblico Ministero". Colpisce anche in questo caso come il legislatore abbia utilizzato i termini più generici e onnicomprensivi che aveva a disposizione (ci si riferisce ad “autorità giudiziaria” e “procedimento”) allo scopo di coinvolgere l’intero sistema giustizia nel perseguimento dell’obbiettivo.
Nella relazione illustrativa del nuovo codice si legge, con riferimento al richiamato art. 38, che la disposizione “restituisce centralità al ruolo del p.m, coerentemente con il ruolo attribuito a tale organo nelle procedure di allerta”; tale passaggio veicola il messaggio consolatorio che qualcuno o qualcosa abbia voluto spogliare il p.m. del proprio ruolo, mentre è di tutta evidenza che l’art. 7 della legge fallimentare, in vigore da più di settant’anni, sia caduto nel dimenticatoio per le ragioni che prima ho cercato di delineare.
4.Le procedure di allerta e il Pubblico Ministero.
Quando il nuovo codice entrerà in vigore il Pubblico Ministero sarà ai sensi dell’art. 22 il destinatario, e non potrebbe essere altrimenti, delle segnalazioni di stato di insolvenza provenienti dall’Organismo di composizione della crisi di impresa (OCRI) e più precisamente dai collegi designati dal medesimo alla trattazione delle singole vicende imprenditoriali. In buona sostanza, tale segnalazione dovrebbe essere la conseguenza necessaria dell’eventuale fallimento dei tentativi di pervenire ad una soluzione concordata (con i creditori) della crisi d’impresa qualora, ciò nonostante, l’imprenditore non si determini a presentare domanda di accesso ad una procedura concorsuale.
Va rilevato che tale segnalazione segna il primo momento di coinvolgimento della autorità giudiziaria nella concreta vicenda imprenditoriale posto che, in precedenza, il Pubblico Ministero rimane all’oscuro finanche dell’esistenza della procedura di composizione della crisi presso l’OCRI, e che tale procedure è caratterizzata, nei limiti del possibile, da accorgimenti volti a garantirne la riservatezza e la confidenzialità.
Ai sensi del secondo comma dell’art. 22 “Il Pubblico Ministero, quando ritiene fondata la notizia di insolvenza, esercita tempestivamente, e comunque entro sessanta giorni dalla sua ricezione, l’iniziativa di cui all’art. 38 comma 1”
Di tale disposizione vanno a mio parere sottolineati due aspetti.
Il primo è che la norma fa esplicito riferimento ad un potere di valutazione da parte del Pubblico Ministero della “notizia di insolvenza”, non esplicitato nella norma a carattere più generale di cui all’art. 38 del nuovo codice, così come non lo era nell’art. 7 della legge fallimentare.
In altri termini l’art. 22 sembra concedere spazio logico giuridico ad una sorta di “archiviazione per infondatezza” della segnalazione di cui la norma generale non parla, ad esempio, con riferimento alle segnalazioni del giudice civile o per quelle che nel nuovo regime arriveranno al P.M. da qualsiasi autorità giudiziaria. Il che peraltro appare anche incongruo rispetto al fatto che le segnalazioni di cui all’art. 22 proverranno da un organo qualificato che ha avuto modo di conoscere in maniera particolarmente penetrante le ragioni e le dinamiche della crisi d’impresa oggetto del suo intervento.
Il secondo aspetto da rilevare, strettamente connesso al primo, è che la norma invita il P.M. ad esercitare i suoi poteri tempestivamente ed addirittura gli assegna un tempo massimo di 60 giorni per presentare la sua richiesta di apertura della liquidazione giudiziale.
Con tutta probabilità l’attribuzione anche al P.M. di un termine ultimativo è figlia della preoccupazione, da parte del legislatore, che le procedure di composizione della crisi si traducano in uno strumento dilatorio, utilizzato dalla imprese per prendere tempo piuttosto che per trovare concrete soluzioni alla crisi.
Questa novella legislativa, tuttavia, porta a riflettere ancora sulla doverosità e sui tempi dell’esercizio da parte del P.M. del suo potere generale di iniziativa fallimentare (ancora per diciotto mesi, possiamo usare questo termine), che come si è visto, a differenza di quello derivante dalla segnalazione di insolvenza dei collegi OCRI, non trova nel nuovo codice alcuna ulteriore disciplina.
Ritengo, per parte mia, che l’art. 22 citato contenga principi validi in ogni caso di segnalazione di insolvenza: il Pubblico Ministero è libero di valutarla e di decidere autonomamente sulla sussistenza dei presupposti della insolvenza, ma è poi obbligato a richiedere il fallimento senza indugio laddove tali presupposti siano da lui riscontrati (si pensi all’evidenza di una società con grave squilibrio fra attivo e passivo che sia già in liquidazione o che comunque abbia di fatto interrotto l’attività di impresa).
Di certo, una volta entrato in vigore l’art. 22, il Pubblico Ministero sarà tenuto, entro 60 giorni, onde evitare concreti profili di responsabilità, a depositare ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale o ad emettere un provvedimento motivato nel quale spieghi adeguatamente per quale motivo ritiene non sussistenti i presupposti dell’insolvenza.
Non è escluso che proprio quest’ultima previsione legislativa, in definitiva, sia in grado di stimolare negli uffici di Procura quel rinnovamento culturale, e l’adozione di quelle misure organizzative, che consentano ai singoli magistrati del Pubblico Ministero l’esercizio corretto e tempestivo delle loro prerogative in tema di controllo di legalità sulle dinamiche del sistema economico, favorendo ad un tempo il ripristino di reali meccanismi di concorrenza sul mercato, l’efficacia della attività investigativa sul crimine economico ed il recupero di dignità ed efficienza delle procedure concorsuali.
Osservazioni sullo stato della fase dibattimentale di primo grado dei Tribunali Ordinari
di Massimo Terzi
SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. Analisi dei flussi quantitativi; 3. L’ urgenza di intervenire; 4. Prime evidenze; 5. Verifica della natura dei flussi; 6. Le cause del dissesto; 7. Le proposte; 8. Conclusione.
1. Introduzione
Scopo del presente elaborato è di svolgere una breve analisi statistica sulla situazione del settore dibattimentale dei Tribunali Ordinari del primo grado, che rappresenta in qualche modo il core business dello sviluppo del processo penale. Analisi che, lungi dall’essere una rappresentazione burocratica o meramente efficientista della giustizia penale, da una parte rappresenta il punto di partenza per verificarne in concreto lo stato di salute, dall’altra il mezzo per individuare i possibili rimedi.
Invero la rappresentazione statistica numerica, come cercherò di evidenziare, consente anche una verifica della correttezza dei meccanismi normativi e una riflessione – come è ovvio che sia quando si parla di applicazione del diritto – del terreno culturale che di fatto ne genera l’applicazione materiale concreta.
Su queste premesse la prima istintiva riflessione, ufficializzata dallo stesso Ministero di Giustizia sul sito internet, è la assoluta inadeguatezza dei sistemi di rilevamento statistico nel settore penale, sia da un punto vista tecnico che qualitativo.
Inadeguatezza particolarmente grave in presenza di un nuovo processo organizzativo quale è, da un punto di vista strutturale aziendalistico, un nuovo codice di procedura il cui andamento avrebbe dovuto, quantomeno con l’avvento della informatica, essere monitorato costantemente al meglio onde prevenire in tempo utile la degenerazione.
Inadeguatezza che ci fa interrogare anche da un punto vista “storico”, a fronte dello sviluppo informatico e di gestione del dato nel settore civile.
2. Analisi dei flussi quantitativi
In occasione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2019 presso la Corte di Appello di Torino ho rappresentato i dati assoluti dello storico delle pendenze sul dibattimento in primo grado sul territorio nazionale negli ultimi dieci anni (dati ufficiali pubblici sul sito Ministero di Giustizia), sulla base dei quali ho concluso icasticamente che – anche basandoci su questi soli dati del dibattimento del primo grado – lo “spread” del processo penale va prezzato oltre 1000 rispetto ad un processo “nomale” con outlook negativo, e che una ipotetica agenzia di rating non potrebbe che qualificare i titoli rappresentativi della giustizia penale quali “titoli spazzatura”.
Tali dati evidenziano, già di per sé, la insostenibilità del sistema atteso il costante trend di crescita che porterebbe in 15 anni a circa 1.000.000 di pendenze nei procedimenti monocratici ed a circa 50.000 procedimenti collegiali.
Suddivisione dei procedimenti penali pendenti di Tribunale per tipo di rito. Dato nazionale. Anni 2008 - I semestre 2018 | ||
Anno | Trib. in composizione monocratica | Trib. in composizione collegiale |
2008 | 375.469 | 21.130 |
2009 | 395.842 | 22.215 |
2010 | 425.725 | 22.200 |
2011 | 450.613 | 22.024 |
2012 | 492.629 | 22.470 |
2013 | 521.874 | 23.021 |
2014 | 548.557 | 24.175 |
2015 | 567.602 | 25.523 |
2016 | 534.005 | 26.610 |
2017 | 578.758 | 27.459 |
I semestre 2018* | 592.902 | 27.749 |
3. L’ urgenza di intervenire
La situazione rappresentata evidenzia l’assoluta urgenza di intervenire. L’urgenza pone una precondizione di inammissibilità di qualsiasi intervento che non sia in grado di incidere non solo efficacemente, ma anche rapidamente sull’efficienza del processo penale. Il che non esclude, ovviamente, un piano strategico di miglioramento più generale; ma esclude che ci siano le condizioni per sviluppare interventi a medio lungo termine senza un previo intervento sulle cause strutturali endemiche di tale disastrosa situazione.
In tal senso, l’urgenza ed il gap tra sopravvenienze e definizioni annue portano ad escludere che al trend possa porsi rimedio con soluzioni meramente aziendalistiche incidenti sulla produttività selle singole risorse e/o sulla quantità delle risorse (id est, magistrati addetti al dibattimento).
Ed invero non sono ipotizzabili, da un punto di vista generale, ad ordinamento invariato, aumenti di produttività dei Giudici sia per la assoluta inesigibilità da un punto di vista “lavoristico”, sia per non incorrere in una deprecabile diminuzione di qualità della giurisdizione.
Parimenti è da escludersi che la soluzione possa rinvenirsi in un mero aumento di Giudici addetti al dibattimento di primo grado, atteso che, solo per stabilizzare il trend, dovrebbero essere assunti tra i 300 ed i 500 magistrati (a fronte degli attuali 1500 circa); con parallela necessità di adeguate strutture di personale e logistiche. Con l’attuale situazione di grave difficoltà soltanto a mantenere strutture giudiziarie accettabili giusta la cronica difficoltà finanziaria dello Stato, la soluzione, oltre che utopica, avrebbe comunque tempi non compatibili con l’urgenza della problematica. In ogni caso, tale soluzione non risolverebbe il problema strutturale creato dai flussi passati senza ulteriori ancor più fantasiose immissioni di risorse finanziarie.
4. Prime evidenze
I dati certificano semplicemente il fallimento del sistema a trent’anni anni dall’entrata in vigore del nuovo codice, e non sono altro che il riscontro statistico di quello che da anni viene indicato – giustamente – come uno dei problemi centrali della giustizia penale; e cioè la irragionevole durata del processo (e di rimando la prescrizione) tema di rilevanza costituzionale.
Se vi sono troppi processi da celebrare i tempi di durata non possono che allungarsi e, da un punto divista matematico, possiamo anche ufficializzare corsie preferenziali, come già è stato fatto; possiamo accantonare, come di fatto già si fa ma il monte dei processi da lavorare comunque continua inesorabilmente a crescere. Stiamo parlando pertanto del fulcro, dell’essenza della macchina e dobbiamo evitare more solito di allargare ora il discorso sulla necessità – che condivido pienamente – di una analisi e ristrutturazione dell’intero sistema penale. Oggi dobbiamo essere umili e pragmatici ed individuare le cause strutturali di tale fallimento e porre in essere in primo luogo rimedi che rimuovano tali cause.
La causa immediata ci sembra indiscutibile: vi è un flusso di procedimenti assolutamente non gestibile, punto. Appare dunque doveroso verificare se tali flussi siano fisiologici ovvero patologici; cioè se siano funzionali o meno allo scopo del processo penale.
5. Verifica della natura dei flussi
In mancanza di dati nazionali, la proiezione – probabilmente sottostimata – dei dati raccolti su alcuni circondari ci rappresenta un esito dei processi celebrati con rito ordinario sul primo grado del 50% di assoluzioni (nel merito) per il rito monocratico e del 35% nel rito collegiale. Tali dati non comprendono ovviamente le direttissime ed escludono anche i processi che si concludono a dibattimento per prescrizione o per altre cause di non doversi procedere ovvero definiti con riti alternativi.
Altro dato di rilevo è che, nei processi celebrati con rito ordinario, quelli definiti con riti alternativi che irrogano una pena (cioè, le applicazioni delle pene per patteggiamento ed i giudizi abbreviati con esiti di condanna) sono circa il 10%.
Senza uscire al momento dalla mera analisi statistica è del tutto evidente che, ove solo il 50% dei processi con esito assolutorio non fossero pervenuti a dibattimento, non si sarebbe posta una problematica di aumento di pendenze sul dibattimento a rito ordinario.
Il che non vuol dire che tutti i problemi sarebbero risolti, ma certamente vuol dire che – per recuperare la metafora che ho utilizzato in precedenza – lo “spread del processo penale” sarebbe molto, ma molto più basso e l’outlook sarebbe quantomeno stabile. Tradotto in termini di valori processali e costituzionali, la durata dei processi sarebbe stata molto più bassa e conseguentemente la problematica della prescrizione sarebbe stata assai meno rilevante.
Voglio dire, in buona sostanza, che se non fossero pervenuti a dibattimento il 50% di quei procedimenti esitati con assoluzione (nel merito) dal 2008 a oggi avremmo 450.000 procedimenti pendenti anziché 600.000 e cioè il 25% in meno. Posso suppore che, andando ulteriormente a ritroso dal 1989 matematicamente avremmo ad oggi una ulteriore progressiva riduzione delle pendenze del tutto fisiologica. La riduzione ipotizzata significherebbe comunque accettare come “normale” una percentuale del 20%/25% di assoluzioni nel merito; percentuale che non mi pare possa ritenersi eccessivamente restrittiva.
Credo, invece, che nessuna persona ragionevole possa ritenere che il numero di assoluzioni in primo grado possa ritenersi ad oggi fisiologico, solo che si ponga a mente che non è compatibile con un ordinamento democratico che subiscano un processo penale – che è una poena sine iudicio – milioni di persone che poi vengono assolte.
Credo inoltre che nessuno possa contestare gli esiti assolutori da un punto di vista generale numerico, atteso che in uno Stato di diritto l’esito è quello che decide il Giudice; a maggior ragione laddove l’ordinamento prevede altri due gradi di giurisdizione; ed a maggior ragione laddove all’esito delle impugnazioni le percentuali di assoluzioni complessive aumentano e non diminuiscono.
In tal senso la domanda che ho posto sopra, se cioè tali flussi da un punto di vista quantitativo e qualitativo siano funzionali allo scopo del processo penale, mi pare assolutamente retorica non potendosi che rispondere in senso negativo.
6. Le cause del dissesto
E’ evidente che, in presenza di un dissesto di un nuovo processo organizzativo, solo due, non necessariamente alternative, anzi spesso concorrenti, possono essere le cause a monte; e cioè, nel nostro caso, le ragioni che stanno dietro al numero irragionevolmente alto di procedimenti che giunge a dibattimento e che esita in assoluzioni di merito.
La prima è che il processo organizzativo è stato strutturato in modo erroneo; la seconda è che il processo organizzativo è stato applicato in modo erroneo.
Poiché non stiamo parlando di un normale processo organizzativo, ma di un processo organizzativo che è strutturato sulla base di norme e applicato espletando funzioni giurisdizionali, a mio avviso, specie in situazione emergenziale la questione è speciosa.
Dopo trent’anni (non tre giorni, tre mesi o tre anni) di applicazione di un sistema processuale, le regole di applicazione debbono assumersi come quelle applicate secondo la interpretazione che ne è stata data.
Ipotizzare, pertanto, un intervento – specie se urgente – che possa “recuperare il sistema”, anche con validissimi argomenti, con nuovi orientamenti interpretativi, cioè applicativi, a norme invariate ha certamente un senso, anche nobile, da un punto di vista culturale astratto; ma non ha un senso da un punto di vista pragmatico. E, aggiungo, al di là della nobiltà degli intenti, sarebbe di fatto una palese violazione dell’obbligo di adeguarsi all’art 111 secondo comma della Costituzione che non consente di aspettare i lunghi e faticosi tempi di incerti rinnovamenti culturali.
Dobbiamo tenere a mente partiti nell’analisi da freddi numeri, ma tramite quei numeri siamo arrivati ad un valore assoluto costituzionale: quello della ragionevole durata del processo.
L’ordinamento giuridico ha sempre avuto come “clausola di salvaguardia”, rispetto all’applicazione delle norme in senso contrario alla loro ratio, la possibilità di intervenire. Ed ove sono in gioco valori costituzionali, questa possibilità diventa un dovere per qualunque Governo e Parlamento di qualsiasi colore.
7. Le proposte
Le mie proposte si fondano sull’analisi numerica, ma anche sulla valutazione di quel che voleva essere il nuovo codice di procedura penale e quel che non è stato.
Tutti gli operatori sanno che la “scommessa” su cui si è impiantato il nuovo processo ed il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio si fondava, in un sistema ad azione penale obbligatoria, sul funzionamento dell’udienza preliminare e dei riti alternativi. La prima si è rilevata un fallimento genetico con una curva di progressione di insolvenza schizzata a livelli quasi inimmaginabili. L’udienza preliminare era stata pensata in primo luogo nella consapevolezza che il dibattimento non avrebbe potuto reggere l’indiscriminato arrivo dei processi rilevanti e, pertanto, era stata istituita allo scopo di esercitare un filtro penetrante e gestire anticipatamente i riti alternativi.
La funzione di filtro si è di fatto azzerata. La gestione anticipata dei riti abbreviati, salvo rare eccezioni, ha comportato un accesso minimale rispetto agli auspici. A ciò si aggiunga che questa sorta di quarta fase del processo (la prima cronologicamente rispetto alle successive avanti a Tribunale dibattimentale, Appello e Cassazione) ha ovviamente una durata (mediamente un anno) il cui costo – in termini di dispendio di energie dell’ufficio – aveva un senso solo se avesse assolto allo suo scopo originario, senza trasformarsi – come si è trasformata di fatto – in un ulteriore allungamento dei tempi processuali.
Il legislatore ci ha messo del suo, aumentando, inconsapevolmente ed assai poco diligentemente, il catalogo dei reati che passano per udienza preliminare con aumenti del massimo delle pene. Ma anche il generale accesso ai riti alternativi in sede di udienza preliminare è stato catastrofico rispetto alle previsioni.
E’ indiscutibile che tutto ciò riporta al tema di fondo delle presenti osservazioni; vale dire la questione dei criteri di esercizio dell’azione penale e, specularmente, il simmetrico vaglio giurisdizionale da parte del Giudice che deve convalidare il non esercizio. A questo livello di patologia (rectius di stato comatoso vegetativo) del processo non posso che insistere su due interventi da me già proposti:
- abolizione tout court dell’udienza preliminare (con recupero immediato senza oneri per lo Stato di Giudici-almeno 300- personale ed aule nella fase processuale ordinaria);
- previsione quale giudizio ordinario del rito abbreviato con inevitabile e conseguenziale, anche da un punto di vista sistematico, adeguamento del criterio di esercizio dell’azione penale alla sussistenza di elementi di prova certi per la condanna (con il rito abbreviato cioè sulla base degli atti); ovviamente, senza alcuna limitazione per l’imputato nel diritto di chiedere il vaglio dibattimentale.
8. Conclusione
Ritengo che le proposte da me avanzate dovrebbero essere sostenute sia dalla Magistratura, ed in primis dalle Procure, che dalla classe forense. Ed invero, per la Magistratura, ne sono convinto, è anche storicamente l’ultima occasione per preservarne l’unità riacquisendo normativamente, sistematicamente e quindi effettivamente, una comunanza di cultura giurisdizionale. Sono perfettamente consapevole che quanto sostengo può essere (per me è) una soluzione per la fase del giudizio , ma non risolve il problema delle capacità delle Procure di approfondire le indagini su tutte le notizie di reato, ma riverberare questa problematica sul processo non è una soluzione, ma un evidente tragico scaricamento del problema su tutta la giustizia penale. La soluzione pertanto non può che essere ricercata all’interno delle Procure senza “spostarla” nella fase del giudizio; e quanto propongo è un mezzo con cui questa soluzione può quantomeno essere grandemente agevolata.
Per l’Avvocatura, che svolge il delicato, essenziale e costituzionale ruolo della difesa delle persone, le mie proposte costituiscono l’occasione storica di affermazione della professionalità del proprio ruolo nel settore penale. E’ evidente che in un sistema che ha ingenerato nelle persone l’idea che, a fronte di una qualsiasi imputazione, tra assoluzioni e prescrizioni vi è il 70% di probabilità di non essere condannati, il ruolo di difensore è (giustamente) condizionato in modo determinante.
Ma non solo. Se dall’ottica dei professionisti ci si sposta alla prospettiva del comune cittadino, non si può non notare che, soltanto a partire da una riforma reale del codice di procedura penale, la comunità dei consociati potrebbe ricominciare ad avere fiducia nella Giustizia.
Chiederei pertanto a tutti di gettare il cuore oltre all’ostacolo, essendo certo che quanto propongo muterebbe completamente il quadro catastrofico e lo reincanalerebbe anche abbastanza rapidamente verso la normalità, curando in radice patologie devastanti, a cominciare dalla ragionevole durata del processo. Il tutto senza una lesione dei diritti sia dell’accusa che della difesa.
Chiederei comunque a chiunque voglia portare avanti altre proposte di confrontarsi con la realtà da me rappresentata e, se spinto da vera passione per l’interesse generale, verificarne, prima di proporle i concreti effetti sul quadro da me rappresentato in termini di efficacia, di tempi e di sostenibilità dei costi. Io l’ho fatto e sono pronto a confrontarmi analiticamente con chiunque ne fosse interessato.
I GIURISTI E LE RECENTI RIFORME DEL PROCESSO PENALE
Spunti di riflessione su un comune sentire anche in vista del prossimo futuro di Giuseppe Santalucia
La Legislatura precedente ha varato molte riforme nella materia della giustizia penale. Ciò nonostante, l’atteggiamento dei giuristi è stato di generale diffidenza, sempre in attesa di una revisione sistematica di ampio respiro che le condizioni politiche del Paese, da tempo non breve, non consentono neanche di ipotizzare.
Questo spirito di sostanziale conservazione, illuminato da ideali e nemmeno abbozzate costruzioni sistematiche, segna una lontananza dall’opera, non facile, del legislatore e non agevola il necessario ammodernamento delle strutture processuali.
Il lavoro di riforma, incapace di svolgersi in un unitario lasso temporale, deve necessariamente snodarsi nel tempo: sarebbe stato necessario non perdere il filo di alcuni progetti, per proseguire, condividendone l’obiettivo finale, su quella strada.
Non sta accadendo questo per una perdita di memoria che, forse, andava evitata.
Sommario: 1. Una premessa.- 2. La diffidenza dei giuristi. 3. L’aspettativa della grande riforma e la frustrazione che essa genera.- 4. L’assenza di una riforma di sistema: è questo il problema? - 5. Il processo che non c’è in mezzo ai troppi processi.- 6. Non è mancata una visione strategica. - 7. Per il futuro.
1. Una premessa. La XVII legislatura è stata, per la giustizia, una intensa stagione di riforme.
Per il settore penale sono stati tanti gli interventi normativi, che hanno riguardato soprattutto il processo.
L’ampiezza d’azione non ha avuto pari negli ultimi anni, trovando un termine di possibile comparazione soltanto nella XIII Legislatura, in cui operarono i Governi Prodi I, D’Alema, I e II, e Amato II, con i ministri della Giustizia prof. Flick, prof. Diliberto e on. Fassino.
Una spinta imponente è provenuta, in buona parte, dall’Unione europea.
Il debito normativo, se così può dirsi, era di grandi dimensioni: molte decisioni quadro e direttive attendevano da anni di essere recepite, e altre sono state prodotte proprio in quest’ultimo scorcio di tempo.
Dall’istituzione delle squadre investigative comuni, la cui decisione quadro risaliva al 2003, all’ordine di indagine europeo previsto da una direttiva di molti anni dopo, precisamente del 2016, il lavoro di recepimento dei nuovi strumenti di cooperazione e di reciproco riconoscimento ha proceduto a ritmi incalzanti.
Ma molto si è anche fatto all’interno di una cornice esclusivamente delineata sull’ordinamento nazionale.
Vanno ricordate, allora, la sospensione del processo con messa alla prova, l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, la riforma delle impugnazioni, sia dell’appello che del ricorso per cassazione, la riforma delle intercettazioni ed altri episodici interventi di novella, questi ultimi tutti contenuti nella legge n. 103 del 2017 qualificata anche da un’ampia delega per la riforma del sistema penitenziario.
Riforme, queste, che hanno cercato di deflazionare il carico di processi e di impugnazioni, nella convinzione che una macchina giudiziaria ingolfata rende un cattivo servizio non solo per le risposte che non riesce a dare ma anche per quelle che, tra mille difficoltà, in maniera affaticata consegna.
Di fronte a questa produzione, l’atteggiamento dei giuristi, teorici e pratici, è stato, quando non di decisa avversione, di timida approvazione e solo raramente di condivisione: comune denominatore delle varie posizioni è stato comunque l’uso di uno stesso modulo di lettura del novum, rivelatore di un comune sentire in pezzi importanti del ceto forense e giudiziario, oltre che accademico.
2. La diffidenza dei giuristi. Se si volesse indagare il merito delle valutazioni non si potrebbe prescindere dall’esame dei contenuti; ma l’interesse ora è di interrogarsi sul generale atteggiamento tenuto dal ceto dei giuristi.
Si rende così tangibile la frattura che corre tra il piano della produzione delle norme e quello della loro sistemazione e applicazione, che a sua volta riflette la lontananza tra il mondo della politica e quello dei tecnici.
Ed infatti, gli studiosi teorici raramente intervengono in senso propositivo nel dibattito riformatore, quasi in pregiudiziale diffidenza verso ciò che non viene incubato in lavori di ampio respiro e di lungo periodo di commissioni tecniche; e i giuristi pratici, dal canto loro, pur non mancando l’interlocuzione in corso d’opera, hanno lo stesso atteggiamento, privilegiando la sottolineatura di quel che poteva essere fatto e non è stato, con il richiamo costante all’importanza di ben altri fronti di intervento immancabilmente ignorati o solo superficialmente toccati.
3. L’aspettativa della grande riforma e la frustrazione che essa genera. La critica ricorrente, sostanzialmente corale, è che si è agito con modifiche particolari, se non di dettaglio, spesso attingendo a soluzioni già messe a punto dalla giurisprudenza di legittimità, al di fuori di un quadro ampio e sistematicamente coerente.
Molti, o meglio, tutti gli studiosi che fino ad ora hanno fatto sentire la loro voce non vedono il disegno unificante in interventi eterogenei, frammentari, ripetitivi di approdi delle Sezioni unite della Corte suprema, ancora impregnati di un tasso di inquisitorietà che inquina e scompagina vieppiù un sistema, messo a punto con la riforma epocale del 1988, stremato e stressato da una incessante catena di novelle, il più delle volte varate in nome di istanze securitarie e anticognitive.
La scena è segnata da tre poli: la categoria dei giuristi pratici, al suo interno divisa in due frange, tra l’Avvocatura, attenta ai diritti di libertà e di difesa dell’individuo dall’autorità prevaricante, e la Magistratura, sempre più attratta dalle istanze efficientiste e ossessionata dai carichi e dai numeri; e la categoria dei giuristi teorici, custodi di un sistema perennemente insidiato e maltrattato da un Legislatore che non ha vocazione e statura sistematica e che si mostra attento in misura spropositata ai bisogni di efficienza, che oggettivizza garanzie individuali, quali la ragionevole durata del processo, dimenticando che le garanzie della difesa e la pienezza dell’accertamento sono l’in sé del processo.
In questo modo si traccia la parabola di un declino, dai tempi della grande rivoluzione accusatoria del codice del 1988, che visse poco nella genuinità della prima forma e che nell’incontro e scontro con le esigenze dell’esperienza applicativa dovette cedere a scelte novellistiche compromissorie e di complicazione.
A questo quadro a tinte fosche non vengono opposte rappresentazioni diverse e la diversità di opinioni conquista spazi soltanto quando l’analisi si concentra sul merito delle riforme.
La cornice segnata da una decisa critica è comune in tutti i commenti, siano essi accademici, forensi o giudiziari, probabilmente perché la discussione è, come è ovvio che sia, fortemente orientata e influenzata dalla più robusta riflessione accademica.
La coralità della rappresentazione erige un muro talmente alto da rendere pressoché impossibile che si affacci un diverso approccio.
Se, però, si prova ad assumere un altro punto di osservazione, si può tentare una riflessione volta a cogliere le cause più profonde della situazione, evitando di individuarle soltanto nella superficialità di approccio del legislatore del nostro tempo.
Questo sforzo potrà rivelarsi utile, perché il dibattito sulle riforme non può certo concludersi qui ed è bene che prosegua, se possibile, con qualche consapevolezza in più.
4. L’assenza di una riforma di sistema: è questo il problema? Una prima considerazione riguarda la denunciata assenza di respiro sistematico ed è, se si vuole, anche banale nella sua evidenza.
Un intervento di sistema implica un legislatore capace di una visione unitaria e coerente, portatore di una forte omogeneità culturale e irrobustito da una stessa sensibilità di approccio.
Non è dubbio che questo tipo di legislatore manca da un bel po’ di tempo dalla scena e che certo non ha caratterizzato la XVII legislatura, nata e vissuta da un accordo politico tra forze contrapposte, che si erano fronteggiate durante la competizione elettorale e che, ciò nonostante, sono riuscite, pur tra non poche difficoltà, a condurre a termine il quinquennio con una imprevedibile fecondità riformatrice.
Se si fosse seguita l’aspirazione dichiarata dei giuristi, in costante attesa di una riforma di sistema, con ogni probabilità la legislatura si sarebbe conclusa con una sostanziale infertilità normativa.
Sarebbe stato un bene? Quel poco (molto) che è stato prodotto ha risposto a reali bisogni, ha migliorato la situazione pregressa, o è stato soltanto un buco (l’ennesimo) nell’acqua?
C’è una terza via tra l’intervento sistematico ampio e l’immobilismo riformatore?
Oppure, visto che il quadro politico di questi anni fa rimpiangere epoche di maggiore coesione (ma a quali anni bisogna risalire con la memoria per trovare consolazione?), occorre rassegnarsi e attendere che il mondo migliori?
Queste domande hanno già, in gran parte, una risposta nei fatti.
Pur in assenza della palingenesi sistematica, le riforme varate sono state capaci di produrre qualche buon frutto, tra difficoltà innegabili e sbavature che potevano essere evitate.
Il lavoro di riassetto sistematico di ciò che è stato prodotto, a volte ma non sempre con qualche eccesso di frammentazione, è però affidato ai giuristi non per una distorta supplenza in favore di un legislatore indebolito, quanto per loro vocazione, verrebbe da dire di tipo istituzionale.
Non è il legislatore che deve curarsi della compatibilità sistematica nel momento in cui dà vita ad un nuovo prodotto, perché, seguendo questo ragionamento, si finirebbe con l’introdurre una forma di condizionamento di “quel che è già” su “quel che dovrà essere”.
Occorre certo che anche il legislatore tenga conto della realtà, ma essa non può trasformarsi in una palla al piede capace di frenare, di attutire le modifiche, che ben possono essere ardite o eccentriche se il decisore politico così le matura, ovviamente nel rispetto dei vincoli di compatibilità costituzionale e sovranazionale.
Il sistema, a ben vedere, è più compito e cura dei giuristi che preoccupazione del legislatore, che può intervenire anche in modo episodico e su settori di materia tra essi slegati, perché spetta a costoro, tradizionalmente, la cetegorizzazione sistematica.
Certo, sarebbe auspicabile una maggiore attenzione alla coerenza della norma di nuova fattura con il tessuto che la riceve, ma la cura di tipo dogmatico non è una precondizione dell’opera del legislatore se non in una visione scarsamente democratica che finisce col condizionare l’opera dei parlamenti alle costruzioni dei tecnici.
L’impegno dogmatico, inteso come attività chiarificatrice di implicazioni e connessioni delle norme che vengono incasellate nel precedente assetto, è al servizio e non alla guida del legislatore democratico; segue e non precede il lavoro normativo.
Il vero è, sembra di poter dire, che la legislazione, quella processuale, deve essere giudicata per la sua utilità, per la capacità di avviare a soluzione nodi di inefficienza e di insufficiente tutela di situazioni soggettive, e non per una sua originaria attitudine sistematica.
Se si accoglie questa chiave di lettura, il rapporto tra legislatore e giuristi si rafforza nei termini di una maggiore fattiva cooperazione, sostituendo alle critiche di posizione il raccordo operativo, nella consapevolezza, volta al bene collettivo, che la sistemazione e l’interpretazione portano naturalmente a completamento il percorso di produzione delle leggi e non ne sono soltanto il banco di prova di una intrinseca pretesa bontà.
Può anche essere accaduto che una legge non abbia tracciato con chiarezza la linea da seguire, magari perché nel confronto parlamentare la spinta riformista ha ceduto forza e potenza dinnanzi alle esigenze di definizione compromissorie sul risultato finale, in ossequio alle regole della maggioranza. Qui però entrano in gioco le competenze dei giuristi che, di fronte a leggi di non buona fattura ma dal nucleo costituzionalmente compatibile, non si limitano a coglierne e fotografarne i difetti ma ne lavorano interpretativamente i contenuti alla luce delle disposizioni costituzionali, cercando di portare a termine quel che, fors’anche per necessità delle logiche del confronto democratico in un dato contesto politico, è rimasto in ombra.
5. Il processo che non c’è in mezzo ai troppi processi. Se si fa attenzione al discorso dei giuristi, specie a quello che si articola sul tema delle garanzie, è assai raro cogliere un riferimento che non sia al processo inteso e osservato in una sorta di aulica unicità.
Non si ha modo di percepire in quel ricco argomentare che il processo, in tal modo definito, nella realtà non esiste e che la realtà, più miseramente, si caratterizza per una molteplicità di processi.
La conseguenza è che, mentre il giurista guarda e studia il processo, il legislatore, che della realtà non può fare a meno, si misura con i molti, moltissimi, troppi processi; questa semplice osservazione rende ragione della distanza, che diventa incomprensione, tra giuristi, specie teorici, e legislatore.
Gli uni analizzano e approfondiscono una costruzione concettuale che sublima, nell’ambiente rarefatto di una biblioteca, un fenomeno colto in una dimensione atemporale, e riescono a offrire contributi di riflessione utilissimi sia nel momento applicativo che, all’opposto, in quello poietico, godendo del privilegio di poter trascurare che il processo è invero calato in una realtà segnata da tanti faldoni e poche strutture.
L’altro deve far tesoro dei suggerimenti e delle critiche ma, al contempo, deve fare molta attenzione a non perdere di vista ciò che accade nelle aule e nei palazzi di giustizia, perché altrimenti, incamminandosi lungo i sentieri battuti dai giuristi teorici con la pretesa di allontanare, al pari loro, lo sguardo dal fenomeno per incentrarsi sul concetto, rischia di apparire di una disarmante ingenuità.
Il pensiero corre ad una disposizione del codice del 1988, sopravvissuta negli anni, il cui nitore concettuale è pari alla sua ineffettività pratica.
Essa è contenuta nell’articolo 477 c.p.p., sulla durata e prosecuzione del dibattimento, e prescrive che “quando non è assolutamente possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente dispone che esso venga proseguito nel giorno seguente non festivo”.
Se ci si volge al sistema e alle sue definizioni teoriche, la norma è lodevole, perché immagina e persegue la concentrazione temporale del dibattimento, valore di un processo realmente accusatorio; ma occorre chiudere gli occhi alla realtà per evitare di stigmatizzarne duramente la sostanziale pressoché totale ineffettività.
Il rinvio al giorno successivo non festivo suona come una ingenuità che fa sorridere e non come una prescrizione da osservare o, quanto meno, una direttiva da utilizzare come criterio orientativo.
Quale è allora la misura d’equilibrio tra considerazione della realtà e traduzione normativa della volontà di trasformazione?
Il compito del legislatore è certamente arduo.
Deve fare i conti con la realtà ma non divenirne schiavo; deve guardare ad essa per modificarla ma non esserne prigioniero; deve essere capace, coniugando realismo e visione riformatrice, di non restare schiacciato, e sostanzialmente inerme, tra elaborazioni teoriche, da un lato, e prassi che prendono luogo delle norme profittando della loro scarsa capacità di attecchimento nel reale, dall’altro.
6. Non è mancata una visione strategica. Con la consapevolezza della complessità dell’impegno riformatore, si può convenire che, seppure non costruendo un nuovo sistema, il legislatore ha comunque mostrato di avere una visione strategica, diretta, tra l’altro e soprattutto, a rendere flessibile la domanda di processo nella riaffermazione dell’intangibilità del principio di obbligatorietà dell’azione, gravido di attuali significati di garanzia ma, al contempo, fattore potenziale di inefficienza compulsiva se vissuto senza il necessario grado di flessibilità.
Ecco che istituti come la messa alla prova o l’archiviazione per particolare tenuità, spesso criticati per il pericolo di svilimento del processo e dell’accertamento che ne è il nucleo vitale – dato che lo si evita pur quando si applica una (cripto) pena (messa alla prova) o si riscontra l’esistenza di un fatto tipico penalmente rilevante (particolare tenuità) –, possono essere rivisitati come strumenti di contenimento intelligente del carico giudiziario.
In quella strategia, che alla visione di sistema ha preferito l’attenzione all’effettività del sistema esistente, i menzionati istituti hanno rappresentato le risorse ultime che il consenso in funzione derogatrice del contraddittorio e la discrezionalità controllata del pubblico ministero possono offrire al tentativo di scongiurare gli effetti della lenta ma inesorabile forza deformatrice della quantità dei processi sull’architettura costituzionale del processo.
Il passaggio al tema delle garanzie è immediatamente conseguente.
Come l’obbligatorietà dell’azione può essere salvaguardata nei tempi attuali soltanto dotando il sistema di meccanismi capaci di indebolirne, nella contaminazione con la realtà giudiziaria, le rigidità esasperate, così le garanzie processuali possono essere assicurate soltanto all’interno di una politica del processo capace di recuperare a maggiore efficienza i molti processi, facendo a meno di quelli che, per le ragioni che partitamente dovrebbero essere esaminate, si rivelino inutili o troppo dispendiosi.
La riduzione calibrata dei processi non è allora un atteggiamento antigarantista, come non lo è la più rigorosa selezione delle impugnazioni, specie di merito, o la restrizione dell’area della ricorribilità per cassazione anche attraverso l’eliminazione, in alcuni casi, del controllo sui difetti di motivazione.
L’obiettivo dell’efficienza è, infatti, esso stesso un aspetto dell’attenzione strategica per i diritti delle parti, illuminata dalla convinzione che l’eccessivo carico non solo causa ritardi irragionevoli nella risposta ma rischia di abbassare la qualità della giurisdizione svilendo, a volte, il senso stesso delle garanzie, in una progressiva burocratizzazione affaticata del lavoro processuale.
È utile, ancora una volta, far ricorso ad un esempio tratto proprio dalle recenti riforme.
L’aggravamento degli oneri di specificità nella proposizione degli appelli, che è criticato proprio da quanti intendono scorgere in questo un abbassamento delle garanzie, risponde al bisogno di intercettare sin da subito, per eliminarli alla radice con la dichiarazione di inammissibilità, quelli meramente pretestuosi, che non rivelano una reale domanda di giustizia e che danneggiano così non soltanto l’organizzazione giudiziaria quanto gli imputati, e le parti in generale, degli altri processi, che subiscono danno quantomeno in termini di vistosi rallentamenti.
Una severità, dunque, che non è fine a se stessa, che non mortifica gli imputati e le loro prerogative di giustizia, ma che tiene conto dell’ovvio, a cui prima si è fatto cenno, ossia che una riforma del processo deve sempre muoversi nella consapevolezza che occorre incidere su realtà fatte da una moltitudine di processi.
Del resto, se la cifra fosse stata quella del rigore antigarantista, non si sarebbe riservato l’appello incidentale soltanto all’imputato, questo sì indice importante dell’assenza di un’involuzione del sistema: l’appello incidentale del pubblico ministero era stato infatti introdotto e mantenuto sostanzialmente come minaccia di eliminazione del divieto della reformatio in peius per l’imputato tentennante tra l’acquiescenza e l’impugnazione, e pertanto, una volta che il filtro delle impugnazioni pretestuose è stato affidato a meccanismi diversi e preferibili, se ne è potuto fare a meno, proprio in una prospettiva di contemperamento equilibrato di efficienza e garanzie, non come termini contrapposti ma come aspetti di un unico fenomeno.
7. Per il futuro. E però, l’incapacità di realizzare una grande riforma non è immune da costi. Infatti, i vantaggi di una visione sincronica vengono persi e possono essere recuperati soltanto attraverso una sostenuta attenzione, di tipo diacronico, sulle indicazioni strategiche che gli interventi settoriali hanno potuto soltanto abbozzare ma non attuare.
Occorre allora che la memoria giochi un ruolo importante e, a tal fine, acquista ancora una volta centralità l’impegno dei giuristi.
A condizione che, ovviamente, i giuristi non soffrano di quei mali che, in forme simili, impediscono di varare grandi riforme, ossia l’eccessiva frammentazione dei punti di vista degli attori, la mancanza di una comune e condivisa elaborazione di progetti, la contrapposizione sclerotizzata, e soprattutto la preoccupazione per le ricadute corporative delle riforme con le conseguenze di un diffuso timore per il nuovo.
L’ultimo esempio per dare consistenza a queste considerazioni sparse può essere riservato al giudizio di cassazione.
Da anni si parla del sovraccarico di ricorsi, tanto che un convegno dell’associazione degli studiosi del processo penale fu anni fa intitolato proprio alla Corte assediata.
Sono note le implicazioni che il carico ha sulla effettività delle funzioni di una Corte suprema, che non regge il confronto con le Corti supreme di altri ordinamenti sia per i carichi di lavoro che per l’organico dei giudici.
La passata legislatura ha tratteggiato un disegno riformatore, prima sommariamente richiamato, che potrebbe essere sviluppato se non completato.
Al numero crescente di ricorsi si è pensato di intervenire selezionando, per oggetto e per prospettazione di vizi, le impugnazioni che meritano l’accesso al controllo di legittimità.
La direttrice di marcia non può dirsi esaurita con quelle leggi, perché potrebbe ancora fruttare in termini di sfoltimento del carico in settori ove la Corte non riesce ad offrire complessivamente un penetrante controllo di garanzia.
Il riferimento è, ancora una volta esemplificativamente, al vizio di motivazione nel giudizio cautelare personale.
Quella finestra aperta sul fatto, attraverso la deduzione di un difetto della motivazione, costringe la Corte ad affacciarsi su una materia in divenire, consapevole che la sua veduta è parziale e inevitabilmente collegata ad una situazione che, nei termini fotografati, con ogni probabilità non è più al momento in cui essa interviene.
Da qui la prudenza (a volte eccessiva) con cui si accosta all’apprezzamento del vizio che, quando rilevato, conduce ad annullamenti (quasi) sempre con rinvio, e quindi con assai scarsa capacità di incidenza sul diritto soggettivo coinvolto, la libertà personale.
Non è ora la sede per approfondire il tema: valga solo come indicazione di uno dei possibili territori ove si potrebbe sperimentare la riduzione ai vizi della violazione di legge, dopo aver attentamente vagliato il rapporto tra i costi che ne deriverebbero in termini di garanzia per i singoli (pochi, molto pochi, sembra di poter dire) e i vantaggi che si avrebbero sul piano del recupero di efficienza nelle funzioni di Corte suprema (tanti, anche qui secondo una prognosi non eccessivamente ottimistica), che si tradurrebbe in una opportuna resistenza alla tentazione, altrimenti scarsamente evitabile, di enfatizzare il ruolo delle Sezioni unite, quasi da farne il vero organo supremo in luogo della Corte nella sua interezza.
Ma pare che ci si è già avviati in altra direzione.
La legge di bilancio per il 2019 ha aumentato l’organico della magistratura di legittimità di ben settanta unità, preferendo affrontare il problema in modo opposto alle scelte del legislatore precedente: si insegue la domanda di giustizia di legittimità e non la si governa, senza pensare che una Corte di cassazione ancora più numerosa dell’attuale, già scarsamente comparabile con le vere e proprie Corti supreme di altri Paesi, vedrà crescere i rischi di frammentazioni interpretative al suo interno, con inevitabile rafforzamento della primazia delle Sezioni unite. Si produrrà qualche decisione in più, aumentando una produttività già considerevole, ma si diminuirà l’apporto in termini di prevedibilità delle decisioni, fattore più importante dell’organico dei magistrati nel fronteggiare il numero di ricorsi e, in generale, di domande di giustizia.
Sarebbe assai utile sentire (anche) su questo tema la voce dei giuristi.
Giuseppe Santalucia
Se lo dice il Papa!
di Roberto Giovanni Conti
Sovrapposizione, conflitto tra leggi diverse, antiche e recenti, nazionali e sovranazionali e vuoti legislativi richiedono al magistrato un’assunzione di responsabilità che va oltre le sue normali mansioni. La giustizia è tale se realmente ed autenticamente indipendente.
Quella resa alla presenza dell’Associazione Nazionale Magistrati è, forse, la riflessione più articolata di Papa Francesco sul tema della giustizia italiana.
Essa sembra il frutto di una meditata presa di posizione, propiziata da una sorta di risonanza magnetica alla quale è stato sottoposto il nostro ‘sistema giustizia’ per offrire alla Giunta esecutiva dell’ANM – e, si vedrà, non solo ad essa - indicazioni, auspici e moniti che, per la chiarezza con la quale sono stati esposti e pur nella mirabile sinteticità del messaggio, meritano massima considerazione.
Una premessa, credo, debba essere fatta ed è che la trama delle riflessioni del Pontefice è intrisa di una forte laicità, non ravvisandosi punti di caduta capaci di orientare (e ridurre) la riflessione verso il mondo cattolico.
Il Papa ha inteso parlare al mondo giudiziario italiano nel suo complesso e ad esso si è rivolto, offrendo il suo pensiero sul ruolo della giustizia nella società.
Tre i destinatari del messaggio l’ANM, quale organo rappresentativo di circa il 90 per cento dei magistrati, i giudici e la società.
Il Pontefice riconosce il ruolo proattivo svolto dall’ANM nel corso degli anni, lodandone il Codice etico e la capacità di vigilare sull’indipendenza dei magistrati, ma anche di fare memoria dei magistrati morti per mano criminale nell’esercizio delle funzioni.
Ma il messaggio va diritto verso i giudici, tutti i giudici, offrendo la visione della giustizia secondo la visuale di Papa Francesco.
Una giustizia che è, al contempo, garanzia indispensabile per il corretto funzionamento della vita pubblica e sociale, ma anche della serena convivenza dei singoli e, prima ancora, presidio ineludibile per conseguire e mantenere la pace.
Una dimensione tutta dinamica, in divenire, nella quale il corpo magistratuale al quale è affidata tale virtù cardinale ‘in modo del tutto speciale’ non può limitarsi a realizzarla nel caso singolo, ma deve aspirare ad ‘un traguardo verso il quale tendere ogni giorno’, mancando il quale ‘tutta la vita sociale rimane inceppata, come una porta che non può più aprirsi, o finisce per stridere e cigolare, in un movimento farraginoso’.
Al centro della giustizia sta l’uomo e la sua dignità o, meglio, la carne viva delle persone, soprattutto di quelle più indigenti. L’invito che Papa Francesco rivolge ai giudici, ricordando le parole contenute nell’art.9 dello Statuto dell’ANM, è dunque quello di essere capaci di garantire sempre, a qualunque persona, senza discriminazioni e pregiudizi di sesso, di cultura, di ideologia, di razza, di religione, la sua dignità non dimenticando che la peculiare condizione di chi versa in situazioni di estrema debolezza e di indigenza impone, a volte, di adottare dei correttivi al canone del suum cuique tribuere, in modo da offrire e garantire una giustizia ‘con uno sguardo di bontà’, ‘sempre più inclusiva, attenta agli ultimi e alla loro integrazione’.
Compito per niente agevole, anzi spinoso e complesso, anche perché ‘ostacolato nella sue efficacia dalla carenza di risorse per il mantenimento delle strutture e per l’assunzione del personale’ oltre che ‘per la crescente complessità delle situazioni giuridiche’.
Il discorso si fa, a questo punto, apparentemente tecnico senza perdersi tuttavia in tecnicismi o parabole. La magmatica proliferazione delle leggi può causare ‘una sovrapposizione o un conflitto tra leggi diverse, antiche e recenti, nazionali e sovranazionali’ al quale si contrappone, spesso, l’esistenza di ‘vuoti legislativi in alcune importanti questioni, tra le quali quelle relative all’inizio e alla fine della vita, al diritto familiare e alla complessa realtà degli immigrati’.
Che fare dunque? Ritirarsi dal conflitto, assecondare la complessità senza offrire risposte appaganti, attendere che il legislatore provveda a chiarire i dubbi o colmi le lacune?
La risposta è di tutt’altra fattura, netta ed univoca: Queste criticità richiedono al magistrato un’assunzione di responsabilità che va oltre le sue normali mansioni, ed esige che egli constati gli eventi e si pronunci su di essi con un’accuratezza ancora maggiore.
Questa, dunque, la mission che Papa Francesco affida ai giudici, caricandoli di un ‘continuo sforzo di aggiornamento’, capace non solo di favorire il ‘dialogo con i diversi saperi extra-giuridici, per comprendere meglio i cambiamenti in atto nella società e nella vita delle persone’, ma anche di ristabilire la realtà e verità dei fatti, in un’epoca assai proclive a valorizzare finte verità sulla base di ‘informazioni fugaci’.
Ma il messaggio, innervato da un principium cooperationis fra chi, dentro e fuori dalla giurisdizione, intende condividere quest’idea di giustizia non si ferma affatto a queste già straordinarie riflessioni, invitandosi i giudici ‘ad essere in grado di attuare con sapienza, ove necessario, un’interpretazione evolutiva delle leggi, sulla base dei principi fondamentali sanciti dalla Costituzione’. Sapienza alla quale viene poco prima accostata la necessità di perseguire la giustizia con ‘prudenza, che aiuta ad applicare i principi generali di giustizia alle situazioni concrete’ – corsivi aggiunti –.
Magistrati che, proprio in ragione della delicatezza delle funzioni attribuite e della centralità della persona, sono ‘ben più che funzionari, ma modelli di fronte a tutte la cittadinanza e in particolare nei confronti dei più giovani’.
Quale giudice può perseguire in maniera credibile gli ideali di giustizia che Papa Francesco tratteggia? Ancora una volta, viene scelta la via dei testi scritti e, in particolare, dello Statuto dell’ANM, più volte richiamato nei suoi articoli 1 e 2, per sottolineare che una giustizia credibile è tale se realmente ed autenticamente indipendente. Papa Francesco esorta a che ‘l’indipendenza esterna…tenga lontana da voi i favoritismi e le correnti, che inquinano scelte, relazioni e nomine’. Un giudice che può essere dunque percepito come giusto dalla società soltanto se non ricada nella ricerca di vantaggi personali e sia capace di respingere le pressioni destinate ad influire sui modi di amministrare la giustizia.
Ma qual è la società nella quale opera il giudice? Quanto essa persegue la virtù della giustizia? Anche su questo punto Papa Francesco è molto diretto, non nascondendo che le tensioni e lacerazioni dell’attuale contesto favoriscono un ‘ripiegamento nel privato che spesso genera disinteresse e diventa terreno di coltura dell’illegalità’ A questo si affianca un sentimento che istintivamente è rivolto a pretendere e rivendicare ‘una molteplicità di diritti, fino a quelli di terza e quarta generazione connessi alle nuove tecnologie’ senza alcuna percezione dei propri doveri. Dunque una proliferazione di diritti associata spesso ‘a una diffusa insensibilità per i diritti primari di molti, persino di moltitudini di persone’. Queste, dunque, le tragiche contraddizioni dell’oggi, rispetto alle quali il valore primario della giustizia può e deve costituire un argine invalicabile.
Fin qui il discorso del Pontefice.
Più che provare a commentare il messaggio ed i suoi contenuti sembra utile evidenziarne alcuni punti qualificanti.
Vi è, sopra tutto, la necessità di mettere al centro dell’azione giudiziaria la persona umana, soprattutto quando si trova in condizioni di fragilità e vulnerabilità. Il ruolo ed il fine ultimo del giudiziario non può che realizzarsi offrendo protezione e garanzia di tutela agli ultimi, ai più indigenti e per ciò stesso ai più indifesi e dimenticati.
Il canone dell’eguaglianza sostanziale permea il messaggio papale, superando l’idea di giustizia equa in quanto capace di garantire sempre e solo ‘ad ognuno ciò che è suo’. Una giustizia giusta deve quindi farsi parte attiva e militante per salvaguardare la dignità dei più deboli e per promuovere l’attuazione dei principi costituzionali in funzione evolutiva del sistema, in vista del perseguimento della massima tutela possibile dei diritti fondamentali dell’uomo.
Una giustizia che, dunque, si alimenta attraverso – e persegue – la convergenza fra le libertà individuali ed i diritti con il dovere di solidarietà, cogliendone in modo mirabile il suo fine costituzionale.
Per altro verso, l’accento dedicato alla dignità delle persone ed alla carnalità delle vicende umane che scorrono in vivo davanti ai giudici (soprattutto di merito), oltre ad evocare le riflessioni di Paolo Grossi sulla dimensione fattuale del diritto è, ancora una volta, testimonianza autorevole di una ‘fame di dignità’ che, come già abbiamo provato a rappresentare in altra sede (v. Bioetica e biodiritto. Nuove), si delinea soprattutto rispetto ai temi eticamente sensibili come autentico baricentro sul quale fare convergere le migliori energie del sistema giudiziario.
Accanto a questo, un messaggio che rende indissolubile la centralità ed indispensabilità della giurisdizione – capace di muoversi sui fronti plurimi nei quali essa è chiamata ad operare, a contatto con variegate e multiformi fonti scritte e viventi – e con essa la moralità ed eticità del suo essere ed apparire linda, trasparente, apolitica, non opaca, non parziale, non orientata a logiche ‘di parte’ o ‘di corrente’.
Non basta – recte, non serve –, dunque, amministrare la giustizia in modo accurato ed approfondito se non si sa essere giusti nel proporsi all’esterno come istituzione innervata da quegli stessi valori che il giudiziario promuove.
Resta solo da chiedersi se la chiarezza e semplicità del discorso papale potrà fare da volano ad una rinnovata attenzione e riflessione su temi spesso sminuiti e sottovalutati o, peggio, trattati con sufficienza, erodendo occasioni preziose di crescita culturale e professionale per quelle nuove generazioni dei magistrati, ai quali occorre spiegare quanti essi dovranno essere sempre meno funzionari e sempre più giudici.
DA ‘SUD FONDI’ A ‘GIEM’, PASSANDO PER ‘VARVARA’: CONTINUA L’ODISSEA DELLA CONFISCA URBANISTICA
La sentenza ‘Giem’ contro Italia, del 28 giugno 2018, della Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto la compatibilità con i principi della convenzione europea della confisca urbanistica disposta con sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato. Essa solo apparentemente pone fine ad un tormentato decennio nei rapporti tra Cedu e Giudice interno, in quanto le indicazioni fornite dalla Corte con riferimento alla tutela del terzo e ai presupposti di ‘proporzionalità’ e ‘strumentalità’ della confisca, evidenziano il rischio di possibili disarmonie nell’ambito del contesto normativo nazionale.
Sommario: 1. Premessa - 2. Compatibilità della lottizzazione abusiva con l’art. 1 Prot. Add. CEDU - 3. La differente tutela del terzo in confisca ed ordine di demolizione
1.Premessa
Nel firmamento giuridico esiste la confisca da lottizzazione abusiva che può essere disposta anche con sentenze diverse da quelle di condanna (art. 44 D.P.R. n. 380/01, secondo comma, già art. 19 L. 47/85) ma è una stella che ha avuto una vita travagliatissima e che, da oltre trent’anni, vaga alla ricerca di una stabile collocazione.
In origine e per lungo tempo, la confisca ha gravitato nell’orbita della sanzione amministrativa ‘reale’ - applicabile nei confronti di tutti i proprietari dei terreni lottizzati e delle opere ivi esistenti, ancorché imputati prosciolti o terzi in buona fede - e le posizioni più garantiste che ne mettevano in discussione persino i natali, ritenendo che la norma fosse la conseguenza di un malinteso avvenuto nelle fasi della promulgazione[1], si sono infrante contro le sentenze della Corte di Cassazione che avevano escluso ogni incompatibilità con i principi della Costituzione[2].
Poi, nel 2008, la sentenza della Corte europea ‘Sud Fondi contro Italia’, che ha riscontrato nella confisca i tratti tipici della sanzione penale, ha dato la stura ad un dibattito che si è riversato a cascata in plurime direzioni. La Corte ha censurato la rigorosa impostazione tradizionale della Cassazione, per contrasto con l’art. 7 della CEDU e con l’art. 1 del Protocollo 1 della CEDU, ponendola, di fatto, in rotta di collisione con l’art. 117, 1° comma, della Costituzione che prevede il rispetto delle norme internazionali pattizie ed ha indotto il Giudice interno a riposizionare le tessere del mosaico dirottando la confisca verso la categoria della sanzione amministrativa tuot court, con il fine di recuperarne la dimensione personalistica, senza, tuttavia, spostarla nel terreno della sanzione penale del cui perimetro rimaneva e rimane geloso custode[3].
La mossa non ha convinto la Corte europea che, nel 2013, con la sentenza ‘Varvara contro Italia’, sembrava avere escluso ogni possibilità di mediazione con il Giudice interno, in quanto, richiamando gli stessi articoli della convenzione, aveva escluso la possibilità che la confisca fosse abbinata ad una sentenza diversa da quella di condanna.
A giugno del 2018, a dieci anni dalla sentenza ‘Sud Fondi’, con l’attesa sentenza ‘Giem’ contro Italia, la Grande Camera ha definitivamente certificato la compatibilità con i principi della convenzione, della misura ablatoria disposta con sentenza di proscioglimento, limitando l’apertura della forbice alle ipotesi di prescrizione, e solo all’esito di un giudizio di merito che avesse accertato i profili di responsabilità dell’imputato.
Il “dialogo tra le Corti”, costituito dalla reciproca cessione di spazi nella interpretazione dei diritti fondamentali, ha così consentito di comporre il contrasto, tuttavia l’odissea della confisca - che continua ad essere collocata nell’ambito della sanzione penale dalla Corte europea ed in quello della sanzione amministrativa dal Giudice interno - sembra destinata a proseguire e gli aspetti problematici che ‘Giem’ lascia in eredità, chiamano la Suprema Corte, nel prossimo futuro, a prendere posizioni impegnative.
2.Compatibilità della lottizzazione abusiva con l’art. 1 Prot. Add. CEDU
Le criticità maggiori derivano dalla trasposizione delle garanzie che presidiano il diritto di proprietà, previste dall’art.1 del Protocollo Addizionale della CEDU, nel nostro ordinamento, saldamente ancorato al principio della funzione sociale della proprietà.
Secondo la ‘Giem’ la confisca è una sanzione particolarmente afflittiva che non rispetta il rapporto di proporzionalità tra il pregiudizio arrecato al titolare dalla privazione del diritto di proprietà e le finalità pubbliche perseguite, in quanto non può essere graduata in ragione della intensità dell’elemento psicologico o delle modalità della condotta e, soprattutto, non differenzia le aree edificate da quelle non edificate.
La Corte europea aveva rimarcato con forza questo aspetto di criticità già in ‘Sud Fondi’, rilevando che, nel caso sottoposto al suo esame (la nota vicenda della lottizzazione ‘Punta Perotti’ a Bari, di cui la vertenza ‘Giem’ è una costola), il carattere punitivo della misura ablativa non era giustificato da un reale danno al paesaggio, essendo rimasto inedificato l’85% dei terreni e che rimedio più ‘proporzionato’ doveva ritenersi la demolizione dei manufatti abusivi.
Questi parametri di valutazione, però, non appaiono compatibili con la fattispecie lottizzatoria che può riguardare anche terreni rimasti inedificati e che non va confusa con l’edificazione del manufatto abusivo.
La lottizzazione abusiva è un istituto di lunga e, talvolta, controversa elaborazione giurisprudenziale che costituisce una sorta di microcosmo dal quale la confisca non può essere stralciata, pena l’impossibilità di apprezzarne i tratti che la caratterizzano rispetto a tutte le altre (molteplici) misure ablatorie presenti nel nostro ordinamento. Il requisito della ‘proporzionalità’ della confisca rispetto agli interessi perseguiti, pertanto, deve essere filtrato attraverso i principi che scolpiscono la fattispecie criminosa della lottizzazione abusiva, di cui la confisca costituisce una propaggine.
Occorre premettere che, nella materia urbanistica, il terreno rileva sotto il profilo della sua naturale vocazione a costituire un’area ‘urbana’ poichè la destinazione ad un certo tipo di fruizione (agricola, residenziale ecc.) lo connota, detta il suo statuto e ne condiziona la oggettiva liceità; ne consegue che solo se non sono intraprese opere di trasformazione, è possibile isolare concettualmente il terreno, nella sua ‘materialità’, dal tipo di destinazione che potrebbe acquisire, in quanto il terreno rimane una res indifferente dal punto di vista della sua liceità, allo stesso modo di una materia prima, dalla quale potrà ricavarsi un oggetto lecito o illecito. Ma se una porzione di territorio è oggetto di trasformazione effettiva, la specifica destinazione assunta in concreto dal terreno sarà da ritenersi lecita o illecita a seconda della sua rispondenza alle previsioni della pianificazione urbanistica. In tal caso, nell’ambito di quella porzione di territorio, anche i terreni rimasti inedificati saranno funzionali alla lottizzazione in termini di indice volumetrico, di strade, di spazi che segnano le distanze tra gli edifici, di servizi, di altre opere di urbanizzazione, ecc..
L’equilibrio urbanistico è paragonabile ad un mosaico in cui ogni tessera deve essere collocata al suo posto, sicchè se un terreno è destinato ai servizi per le residenze limitrofe (scuole, chiese, spazi verdi ecc.), la lottizzazione che gravasse con altre residenze quel terreno, avrà privato dei servizi le residenze limitrofe ed avrà realizzato altre abitazioni che, a loro volta, avranno necessità di altre aree destinate a servizi, così determinando uno sconvolgimento difficile da ricomporre. Al netto della percentuale di ‘terreni costruiti’, la lottizzazione avrà impresso una destinazione, alla tessera, tale, da compromettere la realizzazione dell’intero mosaico, così arrecando un danno all’ambiente che trascende l’ atteinte rèelle au paysage inteso, evidentemente, dalla Corte europea, quale edificazione del manufatto abusivo. In questo quadro la confisca costituisce rimedio consono e ‘proporzionato’, poiché solo il passaggio in mano pubblica dell’intera porzione del territorio lottizzato abusivamente, permette di garantirne la destinazione secondo le previsioni di piano. La casistica giudiziaria consente di apprezzare la peculiarità dell’illecito lottizzatorio che, evidentemente, non può rimanere ingabbiato nel binomio manufatto abusivo/demolizione. Si pensi al caso delle residenze turistico alberghiere (R.T.A.), in cui il diverso assetto urbanistico è impresso all’area non con la realizzazione di nuovi complessi di edifici, ma con la modifica della destinazione d’uso di un complesso immobiliare già edificato, da turistico alberghiera a residenziale per uso abitativo privato. In tal caso appare evidente l’inadeguatezza della sanzione della demolizione del manufatto abusivo in quanto l’unico modo per ripristinare la destinazione lecita dei manufatti è quello di sottrarli a chi li utilizza indebitamente per fini di lucro. D’altra parte, la stessa Corte europea, dopo avere salvaguardato il principio personalistico, escludendo la possibilità di applicare la misura ablatoria senza un accertamento di responsabilità di chi la subisce, non ha potuto disconoscere la dimensione ripristinatoria della confisca che solo giustifica il suo abbinamento ad una sentenza di proscioglimento.
Altro discorso è, evidentemente, quello che riguarda i limiti culturali che storicamente caratterizzano la gestione della cosa pubblica da parte di molti Comuni italiani e che inducono la Corte europea ad avanzare dubbi sulla ‘strumentalità’ della confisca rispetto all’interesse perseguito. Nella parte della sentenza ‘Giem’ che ha riguardato le società Hotel Promotion s.r.l. e R.I.T.A. Sarda s.r.l., la Corte si chiede, infatti, “in che misura la confisca della proprietà dei beni abbia effettivamente contribuito alla tutela dell’ambiente”, avendo il Comune deciso di utilizzare gli alloggi abusivi piuttosto che demolirli. E’ noto che spesso le grandi speculazioni edilizie beneficiano del contributo determinante delle Pubbliche amministrazioni che rilasciano i titoli abilitativi, senza i quali difficilmente gli imprenditori investirebbero cospicue somme di danaro per edificare imponenti complessi edilizi. In questi casi l’acquisizione in mano pubblica dei suoli e delle opere abusive, in forza di una decisione giudiziaria, spesso dà luogo ad inerzie imbarazzanti da parte dell’Autorità pubblica o a soluzioni discutibili come quelle che sono entrate nel mirino della Corte europea. Questo cortocircuito istituzionale è determinato da una gestione del territorio finalizzata a calamitare consenso elettorale piuttosto che a perseguire l’interesse pubblico ed implementare la qualità della vita della comunità e, in questo senso, la Corte offre uno spunto di riflessione che merita senz’altro di essere coltivato. La confisca, infatti, presuppone che i Comuni siano attrezzati sotto il profilo culturale, prima ancora che operativo, nella difficile gestione di situazioni che impongono decisioni impopolari come quelle di demolire o convertire manufatti, destinati a civile abitazione, talvolta imponenti e persino esteticamente apprezzabili.
In ogni caso, l’incapacità di utilizzare la confisca secondo lo spirito della norma, non può avere ricadute sull’impianto normativo, nel senso di depotenziare uno strumento concepito dal legislatore come un’arma indispensabile per dare scacco alle forme più gravi di abusivismo che pregiudicano il corretto sviluppo del territorio.
3.La differente tutela del terzo in confisca ed ordine di demolizione
Quanto alla tutela dei terzi, la Corte europea ha evidentemente escluso la possibilità di disporre la confisca a loro carico, diversamente configurandosi, in aperta violazione dell’art. 7 della Convenzione, una sanzione irrogata per responsabilità altrui e senza avere dato la possibilità di prendere parte al processo.
La posizione del terzo, però, induce ad un confronto con l’ordine di demolizione.
La Corte di Cassazione ha, sino ad oggi, respinto le numerose istanze di estendere i principi del sistema sanzionatorio penale alla demolizione del manufatto abusivo rappresentandone la natura di sanzione amministrativa ‘reale’ applicabile, in seguito a sentenza di condanna, anche a carico di persona diversa dall’autore dell’illecito. La funzione meramente ripristinatoria della demolizione esclude che possa configurarsi una ‘pena’ ai sensi dell’art. 7 della Convenzione europea e che, sotto questo profilo, possa ipotizzarsi un percorso analogo a quello della confisca.
Tale differenziazione, però, evidenzia una possibile disarmonia sul versante del bene giuridico compromesso dai reati che costituiscono il presupposto delle due misure poste a confronto. Gli interessi urbanistici compromessi dal reato cui consegue l’ordine di demolizione (esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso di costruire di cui alla lett. b, art. 44 DPR 380/01), infatti, sono meno pregnanti rispetto a quelli coinvolti dal reato di lottizzazione abusiva che attiene ad una forma di intervento ben più incisiva, in quanto idonea a compromettere la programmazione edificatoria del territorio. La diversa gravità delle due fattispecie spiega, secondo la stessa Corte Costituzionale (ordinanze n. 148 del 21/4/94 e n. 107 del 16/3/89), la disciplina normativa delle cause di estinzione del reato, previste solo per il reato meno grave, di cui alla lett. b art. 44 DPR 380/01, come effetto del rilascio in sanatoria del permesso di costruire, in senso stretto (art. 36 DPR 380/01) o mediante oblazione (condoni edilizi di cui agli artt. 31 L.47/85, 39 L.n.724/94 e 32 D.L.269/03). Soprattutto spiega perché il legislatore aggancia alla sentenza di condanna solo l’ordine di demolizione e non la confisca che, invece, è prevista per la mera sussistenza del fatto. Nel primo caso, infatti, quando l’imputato è prosciolto pur sussistendo il fatto, l’abuso edilizio, potrà, comunque, essere ‘assorbito’ nell’ambito della programmazione edificatoria della P.A. che non ne rimane irrimediabilmente pregiudicata; nel secondo, invece, il fatto consiste proprio nel pregiudizio della pianificazione del territorio e, pertanto, la sua gravità non consente di limitare la misura ripristinatoria alle pronunce di condanna.
In tale contesto risulta, allora, distonica la tutela del terzo in buona fede che risulta garantita nell’ipotesi criminosa con un elevato indice di offensività (la lottizzazione abusiva accertata, indifferentemente, con sentenza di condanna o di proscioglimento) ed a costo della definitiva rinuncia alla corretta programmazione edificatoria del territorio, e non per il reato che consegue alla realizzazione di un singolo manufatto abusivo (accertato con sentenza di condanna), inidoneo a pregiudicare, allo stesso modo, la pianificazione del territorio.
[1] La tesi è riportata nella ordinanza del 9/4/2008 con cui la Corte di Appello di Bari ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 dor 380/01, in Cass Pen 2008, n. 11 p. 4326.
[2] Cass. pen., Sez. III, 27/01/2005, n.10037, Vitone, .; Cass. pen., Sez. III, 15/02/07, n. 6396, Cieri, Cass. N. 236076; Cass., sez. III, 29 maggio 2007, n. 21125, Licciardello, Cass. pen., Sez. III, 2/10/2008, n. 37472, Belloi,.
[3] L’inversione di rotta è avvenuta ad opera di Cass Sez. III n. 42741/08, Silvioli, in Cass pen 2009 n. 6 p. 2553
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