Whatsapp e l’ordinamento militare tra interesse pubblico e privato (nota a TAR Emilia-Romagna, sez. I, 18 febbraio 2021 n. 124)
di Alessandro Cioffi
Il fatto è semplice, ma solo in apparenza. Un militare intraprende un’attività di piccolo commercio: vende cani sul web, cuccioli di razze pregiate. Pubblica l’offerta in un noto sito di vendite tra privati (“Subito.it”) e poi, quando riceve le offerte, passa a negoziare su whtasapp; lì, nel profilo, esibisce la sua foto in divisa, a prova della sua affidabilità, per rassicurare gli acquirenti. L’amministrazione militare se ne avvede e reagisce: procedimento disciplinare e sospensione dal servizio.
Nel ricorso, il militare fa valere la violazione della vita privata, evoca l’art. 2 Cost., ma, soprattutto, afferma che l’esibizione della divisa è avvenuta su whatsapp e non sul sito di vendite Subito.it. Di conseguenza, lamenta la discrasia tra fatto punito e fatto contestato: l’amministrazione infatti, nel procedimento, finiva per punire il fatto come se fosse un fatto di rilievo pubblico, giacché la sanzione della sospensione dal servizio si addice alla violazione di doveri e di interessi istituzionali, che riguardano il prestigio e l’immagine dell’amministrazione militare.
Su questo il militare sembra aver ragione, perché la sentenza accoglie il ricorso e annulla la sanzione. Difatti, dalla lettura della sentenza, viene fuori che in fondo il sindacato del giudice stigmatizza un solo fatto: l’amministrazione contesta la vendita di cuccioli, ma sfiora e non chiarisce il modo della vendita, cioè l’esibizione del militare su whatsapp e sul sito Subito.it, e difatti, nell’istruttoria procedimentale, il momento della esposizione sul sito Subito.it sfugge ad ogni prova e rimane “affermazione indimostrata”, mentre l’esibizione della divisa su whatsapp è contestata in un secondo momento, in giudizio (probabilmente perché questo fatto non sfugge alla disponibilità dell’amministrazione, giacché il numero usato dal militare su whatsapp appartiene all’Accademia di Modena); così, alla fine, l’amministrazione punisce il fatto con una sanzione che si addice al danno all’immagine dell’Amministrazione, come se il fatto fosse avvenuto in pubblico, sul sito Subito.it.
Qui immediatamente sorge il problema: si può punire come illecita esposizione al pubblico un’immagine che invece compare nel privato ?
E soprattutto: whatspp è privato ?
La risposta che si espone nella sentenza è chiara: la foto è esibita su whatsapp e whatsapp è considerato un “applicativo privato”- scrive infatti il giudice: è “strumento telematico di comunicazione a distanza di natura privata”.
Diverso sarebbe stato, secondo il giudice, se il militare si fosse esibito in divisa sul sito Subito.it, ma questa prova manca e il fatto resta “indimostrato” – precisamente, secondo la sentenza: “A diverse conclusioni si giungerebbe in ipotesi di avvenuta diffusione pubblica delle immagini del militare in uniforme al fine di promuovere l’attività di vendita di cani, in ipotesi certamente gravemente lesiva dell’immagine e del decoro delle Forze Armate … diffusione si ribadisce tuttavia non contestata in sede di addebito disciplinare né tantomeno dimostrata dall’Amministrazione.”
In conclusione: non si può punire un fatto che avviene in privato con una sanzione che si addice a un interesse pubblico. Qui si vede bene tutto il limite dell’ordinamento militare, il limite dell’interesse pubblico che vale solo dentro l’istituzione[1]. Quindi, non vale su whtsapp, che è vita privata, mentre potrebbe valere su Subito.it, che è social media, è vita pubblica. In termini istituzionali, diremmo interesse privato e interesse pubblico. E non si può sanzionare l’uno al posto dell’altro. Emerge così quella distinzione tra interesse pubblico e interesse privato che è sostanziale e ontologica, e che vale a separare le sfere e gli ordinamenti e, quindi, incide sulla validità dell’atto amministrativo: la sfera privata non è sfera pubblica e quindi l’una non può essere confusa con l’altra; dunque, punire come pubblico un fatto privato è illegittimo, o, meglio, come dice la sentenza, rivela una motivazione illogica e una valutazione inadeguata, sotto il profilo del sindacato di ragionevolezza.
Questo vizio, nella motivazione della sentenza, si riflette in un secondo vizio, il vizio del procedimento: se l’amministrazione punisce un fatto ma non lo contesta nel procedimento, viola il principio di corrispondenza tra addebito e sanzione. Ovvero, in fondo, per una certa lettura teorica, viola il principio del procedimento, il procedimento stesso. Difatti, l’esibizione su Subito.it è accaduta veramente, ma non è stata contestata e dimostrata, quindi non esiste nel procedimento. E ciò che non esiste nel procedimento non esiste nel mondo del diritto amministrativo. Riemerge così il valore di una formula antica: il procedimento è forma necessaria della funzione. Se la forma necessaria aveva e ha un senso, è proprio questo: dare rilevanza giuridica al fatto del procedimento e negare rilevanza a quanto sia fuori di esso. E poiché continuiamo a leggere la formula della forma di Benvenuti anche in pagine di manuali autorevoli e recenti, è naturale che anche la realtà effettuale della giurisdizione di annullamento utilizzi quella formula e le dia valore. Precisamente, come ragione giuridica dell’annullamento e come criterio di ragionevolezza dell’agire amministrativo.
Su questo punto, la ragionevolezza, vale la pena di spendere un’osservazione in più. Verte sul sindacato e sul riesercizio del potere. Nel giudizio, s’è visto, spicca un fatto solo: la non corrispondenza tra addebito e sanzione, ovvero la sostituzione, il trattare un fatto privato come fosse un fatto d’interesse pubblico, donde una sanzione inadeguata al fatto, e il vizio d’inadeguatezza della motivazione. Questo per il giudice è un vizio preciso, ma è anche altro: dice che il fatto non contestato ha una sicura rilevanza, è sicuramente illecito, ma sotto un altro profilo, da contestare e rivalutare; e questo lo dice all’amministrazione, per il futuro.
E’, questo, un vincolo al riesercizio del potere ?
Sembra di sì; il problema è che in questa indicazione il giudice vede un sindacato che, dice, è di “ragionevolezza” e si svolge “senza sostituirsi” all’amministrazione. Sembra invece che sia di merito. Difatti, il vincolo della sentenza cade non sul fatto ma sulla qualificazione del fatto. Quindi sembra che al riesercizio del potere amministrativo non resti molto spazio. Il giudizio di merito è quasi tutto esaurito. E la sanzione che ne verrà è già annunciata, per effetto dell’indicazione del giudice, del vincolo conformativo. Così, la sanzione disciplinare qui diventa un’altra cosa e altra cosa diventano la valutazione dell’amministrazione e il rapporto con il sindacato giurisdizionale. Si potrebbe dire che, a giustificare il nesso, siamo nel famoso “modello della integrazione” tra giurisdizione e amministrazione, per effetto del vincolo conformativo[2]; e che per virtù di quel modello la valutazione del giudice e la valutazione della p.a. vengano a saldarsi in un tutt’uno, con il giudice che dice che il fatto è sicuramente illecito e con l’amministrazione che viene chiamata a concludere quella valutazione, stabilendone la gravità. Sembra, quindi, per una certa lettura teorica della sostanza, che quel fatto, visto in sé, riveli la distinzione e l’assetto degli interessi, e in fondo il limite o l’attrazione nell’ordinamento militare; ma se davvero quel fatto rappresenta tutto questo, è, semplicemente, merito amministrativo. Dovrebbe finire nella sfera di autonomia dell’amministrazione e invece finisce sotto il nome della ragionevolezza e nel sindacato di legittimità. Così, sembra sempre più forte il sindacato del giudice e sembra sempre più sfumato il limite, che è dell’ordinamento, tra legittimità e merito, specie quando il giudice finisce per toccare la consistenza dell’interesse. Ma questa è un’altra storia.
[1] Sul punto specifico cfr. V. OTTAVIANO, Sulla nozione di ordinamento amministrativo e di alcune sue applicazioni, Milano, 1958.
[2] v. M. NIGRO, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, ora in Scritti giuridici, Milano, 1996, III, 1521 ss., 1536.