ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sulla tutela cautelare monocratica richiesta con «flaggatura» (note critiche a T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. I, decr. 31 dicembre 2020, n. 503)
di Angelo Giuseppe Orofino e Andrea Panzarola
Sommario: 1. La questione - 2. Sul generale potere di qualificazione della domanda giudiziale da parte del giudice amministrativo - 3. Segue: l’individuazione per relationem delle domande formulate - 4. Alcune conclusioni.
1. La questione
Queste brevi osservazioni traggono origine dalla lettura di un decreto cautelare[1] con il quale il Tar bolognese ha ritenuto che la semplice spuntatura di una casella del modulo adoperato per il deposito telematico del ricorso e dei suoi allegati, sarebbe idonea a manifestare la volontà del ricorrente di chiedere tutela cautelare monocratica, mai domandata nell’atto processuale notificato alle controparti, né con altro atto versato in giudizio anche in tempo successivo alla notifica.
Le argomentazioni addotte dal Tribunale per supportare la conclusione accolta possono essere così sintetizzate: a) la «flaggatura» della casella per mezzo della quale, con il modulo di deposito, si indica di aver chiesto tutela cautelare monocratica, sarebbe equivalente ad una domanda cautelare ex art. 56 c.p.a.[2] e sarebbe chiara, ancorché non espressa, manifestazione dell’intenzione della parte di richiedere misure urgenti anticipate; b) in tal senso si pone la normativa, comunitaria e nazionale, che consente la adozione, anche senza contraddittorio, di strumenti cautelari di urgenza per la tutela delle situazioni giuridiche dei soggetti che si confrontino con una pubblica amministrazione.
Alla luce di queste argomentazioni, il Tar ha ritenuto ammissibile la richiesta monocratica formulata con la sola spunta della casella del modulo di deposito a ciò dedicata, salvo poi reputarla infondata per mancanza dell’urgenza qualificata che deve sussistere ai fini della concessione di un provvedimento presidenziale ex art. 56 c.p.a.
Qui non interessa tanto stabilire se sia, o meno, condivisibile l’affermazione secondo cui è possibile concedere misure cautelari non precedute dalle forme conoscitive richieste dall’art. 56, commi 2[3] e 5[4], c.p.a.
Come tutti sanno, l’art. 61 c.p.a. consente adesso, a somiglianza della soluzione da tempo accolta nel processo civile, la pronunzia di misure cautelari anteriori alla causa[5], vale a dire prima della notificazione del ricorso introduttivo. La norma pone condizioni stringenti[6] per questa forma di tutela cautelare ante causam, incentrate sulla comprovata sussistenza di una ipotesi di eccezionale gravità ed urgenza che non permetta neppure la previa notificazione del ricorso[7].
Nel caso di specie non si è a fronte di una richiesta formulata ante causam, ai sensi dell’art. 61 c.p.a., visto che l’istanza è stata rinvenuta dal Tar all’interno del modulo di deposito di un ricorso previamente notificato.
Il che lascia intendere che la regola iuris alla luce della quale avrebbe dovuto essere esaminata la vicenda è (non già quella deducibile dall’art. 61 c.p.a., ma) quella recata dall’art. 56 c.p.a., il quale richiede la previa notifica della «domanda cautelare».
Si badi bene, non di una istanza purchessia, ma di una istanza che possegga i requisiti di forma-contenuto di una vera e propria «domanda cautelare», con la quale, per ripetere il testo dell’art. 56 comma 1, c.p.a., il ricorrente esteriorizzi gli estremi tanto oggettivi quanto soggettivi di una «domanda» per una tutela urgente, giustificandola con la circostanza che la «”estrema gravità” che contraddistingue la controversia non consente “neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”».
2. Sul generale potere di qualificazione della domanda giudiziale da parte del giudice amministrativo
In questo contesto la parte del decreto che suscita fatalmente maggiore interesse è quella in cui il Tribunale afferma che la semplice spunta di una casella di testo del modulo predisposto per il deposito degli atti nel processo telematico sarebbe di per sé idonea a manifestare la volontà del ricorrente di chiedere una domanda di tutela monocratica, non espressamente formulata nell’atto processuale notificato alle controparti.
Il TAR ha, dunque, ritenuto che le indicazioni espresse con il deposito del modulo fossero idonee ad integrare la domanda svolta dal ricorrente che – secondo quanto è dato comprendere dalla lettura del provvedimento in esame – non conteneva nessuna esplicita richiesta di tutela cautelare monocratica.
Si può immaginare che, provvedendo nel modo descritto, il Tar abbia inteso far prevalere la sostanza sulla forma[8], magari nella auspicata prospettiva di garantire una più ampia effettività della tutela del ricorrente[9], così equiparando la mera spuntatura della casella di un modulo predefinito ad una «domanda cautelare» (quella «domanda cautelare» prescritta dall’art. 56 cit.).
Il tema specifico merita di essere collocato in un quadro più ampio.
In termini generali è risaputo che, perseguendo un approccio sostanzialistico e volto all’ampliamento delle forme di tutela, si è fatta spazio nella giurisprudenza amministrativa l’idea secondo la quale il compito del giudice è anche quello di procedere ad interpretare il gravame ed i motivi con esso proposti[10] in base all’effettiva volontà del ricorrente, quale è desumibile dal tenore complessivo dell’impugnativa e dal contenuto delle censure ivi dedotte[11], sicché il giudice può individuare dal contesto del ricorso il significato delle doglianze e la tipologia di domande formulate dalla parte[12].
Tale potestà del giudice è stata espressamente ricondotta alla necessità di garantire la pienezza della tutela giurisdizionale[13]: costituisce – si dice – una articolazione del principio di effettività la circostanza che il giudicante possa (e debba) procedere ad una interpretazione del petitum e della causa petendi facendo perno, non solo sulle argomentazioni chiaramente esplicitate nel testo dell’atto processuale, ma anche su quelle che emergono dall’intero contesto del gravame[14].
Connesso con il potere di interpretazione della domanda è quello di conversione ex art. 32 c.p.a.[15]: l’organo giurisdizionale potrà disporre la conversione dell’azione solo dopo aver proceduto ad una qualificazione della domanda[16], basandosi sulle ragioni esposte dal ricorrente e sulle richieste da egli formulate, se del caso convertendola in quella che ritiene appropriata, ove ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma: ciò al fine di soddisfare immanenti esigenze di economia processuale e di dar seguito al principio di effettività della tutela giurisdizionale[17].
E, però, la potestà di qualificazione offerta al giudice incontra un evidente limite recato dal necessario rispetto del principio dispositivo che, pur non espressamente richiamato tra i principi enunciati nel capo I del titolo I del libro I del Codice del processo amministrativo, dedicato ai «principi generali», trova un riconoscimento nell’art. 34, comma 1, c.p.a. dove si stabilisce l’obbligo del giudice di pronunciarsi «nei limiti della domanda» e, comunque, negli artt. 99 e 112 c.p.c., espressamente applicabili al processo amministrativo[18] anche in ragione del rinvio esterno operato dall’art. 39 c.p.a.[19]
Tale principio è evidentemente violato quante volte il giudice alteri petitum e causa petendi pronunciandosi in merito ad un bene diverso da quello richiesto, che non sia nemmeno implicitamente compreso nella domanda, o qualora ponga a fondamento della decisione fatti o situazioni estranei alla materia del contendere[20].
L’interpretazione e la qualificazione della azione è, dunque, consentita con una certa elasticità, ma con la preclusione di esaminare questioni non espressamente formulate dalle parti.
Ovviamente, è compito del giudice quello di interpretare la domanda (o le domande) proposte, tenendo presente il loro contenuto sostanziale quale desumibile dagli atti del giudizio e dalle allegazioni delle parti, ma sempre nel rispetto del divieto di ultra o extra petita.
3. Segue: l’individuazione per relationem delle domande formulate
Nello svolgere i compiti qualificatori e interpretativi delle azioni proposte dalle parti, il giudice dovrà attenersi agli atti prodotti in giudizio, non essendo possibile trarre dagli allegati indicazioni utili per la precisazione della domanda ma, al più, per la dimostrazione degli elementi fattuali che la sottendono.
Appare, quella appena illustrata, una esplicitazione della regola espressa dall’art. 40 c.p.a., comma 1, lett. f), secondo cui il ricorso deve contenere distintamente l’indicazione dei provvedimenti (evidentemente, anche cautelari) richiesti al giudice.
Analoga regola è contenuta, per il giudizio di appello, dall’art. 101 c.p.a.[21].
Non sono, dunque, ammissibili censure svolte per relationem, né in primo grado[22], né in seconde cure[23], né, a maggior ragione, in sede di revocazione[24].
È, quella appena esposta, una articolazione amministrativistica del principio di autosufficienza, impiegato (con interpretazione altrettanto pacifica, quanto discutibile) dalla Cassazione che lo ha dedotto dall’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c.[25].
Un principio, questo, che viene ritenuto applicabile anche nel giudizio innanzi al g.a.[26], seppur nella forma attenuata innanzi richiamata e, cioè, facente perno sull’onere della parte di specificare negli atti processuali le censure e le domande.
Tale onere è espressamente riaffermato anche con specifico riferimento agli atti con cui si chiedano misure interinali, come chiaramente evincibile vuoi dall’art. 55, comma 3, vuoi dall’art. 56, comma 1, c.p.a., che presuppongono che la domanda di misure cautelari debba essere contenuta in apposito atto notificato alle controparti.
Anche l’art. 61 (come detto inconferente nel caso di specie), con riferimento alla cautela ante causam, prescrive che sia presentata una domanda apposita nella quale vengano esplicitate le ragioni di eccezionale gravità ed urgenza che fondano la richiesta.
La mancata indicazione di tali ragioni nel testo del gravame con il quale la istanza è veicolata ha portato a ritenere inammissibile la richiesta di misure cautelari monocratiche[27].
4. Alcune conclusioni
È giunto il momento di verificare in che modo l’insegnamento giurisprudenziale sul generale potere di qualificazione della domanda spettante al giudice amministrativo si rifletta nel caso di specie.
Non pare dubbio che da tale generale potere di qualificazione – dai suoi limiti quali forgiati in giurisprudenza – non si possono trarre elementi che giustifichino la soluzione assunta con il decreto annotato. Il quale, anzi, si pone in contrasto con quei medesimi limiti.
Non convince, in altri termini, la tesi volta a conferire alla semplice spunta di un modulo per il deposito degli atti nel processo telematico, il ruolo di strumento idoneo a manifestare la volontà delle parti processuali e di mezzo utile per chiarire quali siano le domande da essi proposte.
Vi ostano le regole ed i principi innanzi richiamati.
Lo impedisce altresì il dato testuale ricavabile dall’art. 56 c.p.a. il quale, come evidenziato, vuole che la richiesta di tutela cautelare urgente non sia rinvenibile in una attività materiale purchessia (la spunta di una casella di un modulo, per l’appunto), ma sia esteriorizzata in una vera e propria «domanda cautelare», espressione di una attività intellettiva declinata in un discorso giustificativo che manifesti univocamente così l’oggetto della richiesta, come i presupposti che ex lege debbono accompagnarla.
Insomma, per nessuna ragione è permesso omologare quoad effectum una mera attività materiale ad una «domanda cautelare» con quei requisiti di forma-contenuto.
Se i concetti tramandati da una lunga tradizione hanno ancora un senso (se le parole hanno un senso, verrebbe da aggiungere), altro è la spunta di una casella, altro il contenuto dichiarativo di una «domanda» giudiziale[28] (quale che sia, senza dubbio anche «cautelare»).
Va da sé, poi, che non sempre l’opzione sostanzialistica è quella che garantisce maggiore tutela[29], ed anzi in taluni casi si può ritorcere in danno della parte e presentare persino dei gravi rischi, quando dall’adozione del provvedimento derivino precise conseguenze, come accade in materia di appalti pubblici dove, al riscontro negativo della richiesta di cautela accidentalmente proposta, consegue il venir meno del periodo di stand still[30].
La vocazione creativa della giurisprudenza ha certamente giovato alla evoluzione del diritto amministrativo[31], anche di quello processuale. E tuttavia è auspicabile ponderatezza e senso del limite nel giudicare, e anche nel giudicare del senso e della portata delle norme processuali, tanto più quando esse siano di adamantina chiarezza.
[1] T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. I, decr. 31 dicembre 2020, n. 503.
[2] La prima parte dell’art. 56, comma 1, stabilisce, come noto, che «prima della trattazione della domanda cautelare da parte del collegio, in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio, il ricorrente può, con la domanda cautelare o con distinto ricorso notificato alle controparti, chiedere al presidente del tribunale amministrativo regionale, o della sezione cui il ricorso è assegnato, di disporre misure cautelari provvisorie».
[3] Tra l’altro, il comma 2 esige che il giudice adito verifichi, prima di provvedere con decreto motivato, «che la notificazione del ricorso si sia perfezionata nei confronti dei destinatari o almeno della parte pubblica e di uno dei controinteressati».
[4] Il comma 5 dispone che – se la parte si avvale della facoltà di cui al secondo periodo del comma 2 – «le misure cautelari perdono efficacia se il ricorso non viene notificato per via ordinaria entro cinque giorni dalla richiesta delle misure cautelari provvisorie».
[5] R. LEONARDI, La tutela cautelare nel processo amministrativo. Dalla L. 205/2000 al Codice del processo amministrativo, Milano, 2011, 249. Circa l’influenza della giurisprudenza comunitaria sull’evoluzione della tutela ante causam, cfr. M.V. LUMETTI, Processo amministrativo e tutela cautelare, Padova, 2012, 30.
[6] Sul punto v. M.A. SANDULLI, La fase cautelare, in Dir. proc. amm., 2010, 1130 e spec. 1150, dove viene fatto notare che le limitazioni al principio del contraddittorio attentano alla realizzazione di un processo giusto anche in fase cautelare.
[7] A. PANZAROLA, Il giudizio cautelare, in B. SASSANI, R. VILLATA (a cura di), Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, vol. I, Torino, 2012, 813 e spec. 826.
[8] R. TISCINI, Prevalenza della sostanza sulla forma e sue recenti applicazioni, in Riv. dir. proc., 2018, 465.
[9] M.A. SANDULLI, Giurisprudenza creativa e digitalizzazione: una pericolosa interazione che accresce i rischi di incertezza sulle regole processuali, in Federalismi, n. 1, 2021.
[10] Cfr. V. DOMENICHELLI, Il principio della domanda nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2020, 27 e spec. 30: «Sebbene il rispetto dei motivi di ricorso venisse considerato la massima espressione del principio dispositivo nel giudizio di impugnazione e di annullamento, il giudice non si è sentito mai troppo vincolato ad essi, non perché ritenesse addirittura di poter individuare motivi che non erano stati fatti valere dal ricorrente, quanto perché poteva, si perdoni l’espressione, “manipolarli”, individuando motivi se non inespressi, espressi per implicito, in quanto contenuti in altri più ampi, o sviluppandone altri non adeguatamente sviluppati o esplicitati in termini solo embrionali».
[11] Cons. Stato, sez. IV, 20 ottobre 1992, n. 910; Id., sez. V, 9 ottobre 2003, n. 6070; Id., sez. IV, 10 dicembre 2003, n. 8117 ; Id., sez. V, 21 giugno 2007 n. 3474; Id., sez. V, 7 maggio 2013 n. 2464.
[12] Cons. Stato, sez. II, 30 novembre 2016, n. 2669/2016.
[13] Sul punto v. le osservazioni di M. NIGRO, Processo amministrativo e motivi di ricorso (1975), ora in ID., Scritti giuridici, tomo II, Milano, 1996, 1113 e spec. 1115: «Sono convinto che l’impianto e il corso del processo amministrativo debbano essere guidati da tecniche più elastiche, tecniche che consentano la maggiore possibile aderenza del processo alle situazioni concrete, la cui realizzazione o protezione è il fine reale di esso».
[14] Cons. Stato, sez. IV, 18 novembre 2014, n. 5662.
[15] F. FOLLIERI, Qualificazione e conversione dell’azione alla prova del principio della domanda, in Dir. proc. amm., 2013, 177.
[16] La conversione presuppone la necessaria qualificazione della azione intrapresa: G. CORSO, Art. 32, in A. QUARANTA, V. LOPILATO (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011, 326.
[17] Cons. Stato, sez. V, 22 ottobre 2015, n. 4844; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 25 gennaio 2021, n. 982.
[18] M. NIGRO, Domanda (principio della). Diritto processuale amministrativo (1989), ora in ID., Scritti giuridici, tomo III, Milano, 1996, 2005.
[19] Cons. Stato, Ad. Plen, 13 aprile 2015, n. 4. In argomento v. A. TRAVI, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel processo amministrativo, in Foro it., 2015, III, 286; M. TRIMARCHI, Principio della domanda e natura del processo secondo l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 2015, 1101; G. GALLONE, Processo dispositivo e processo dirigistico, in E. FOLLIERI, A. BARONE (a cura di), I principi vincolanti dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato sul codice del processo amministrativo (2010-2015), Padova, 2015, 747.
[20] Cons. Stato, sez. V, 11 aprile 2016, n. 1419.
[21] Sull’attenzione dedicata dal c.p.a. ai requisiti formali degli atti processuali v., in generale, F. FRANCARIO, Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, in Dir. proc. amm., 2018, 129.
[22] T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, 21 febbraio 2019, n. 305: «L’atto introduttivo, nonché gli eventuali motivi aggiunti, devono contenere l’esposizione dei motivi su cui il gravame si fonda, per cui sono inammissibili i motivi di impugnazione dedotti per relationem, e cioè mediante il semplice richiamo alle censure dedotte in altro e diverso atto».
[23] Cons. giust. amm., 1 luglio 2019, n. 609: «Il rinvio per relationem ai motivi di primo grado non ha alcuna valenza, atteso che l’atto di appello deve contenere in sé l’elencazione dei motivi di censura».
[24] Cons. Stato, sez. II, 24 settembre 2020, n. 5607.
[25] La letteratura sul punto è assai vasta. Si v., per tutti, F. SANTANGELI, Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc., 2012, 607. È risaputo che, a seguito della adozione dei noti protocolli, il principio di autosufficienza dovrebbe essere interpretato nella sua versione c.d. «mite» (onerando il ricorrente del compito di indicare puntualmente atti e documenti richiamati nel ricorso). Si sa, però, che, a dispetto del protocollo, non mancano tuttora pronunzie della Suprema Corte che intendono il principio di autosufficienza in «senso forte», ponendo a carico del ricorrente l’ulteriore onere di trascrizione, nel corpo del testo, del contenuto degli atti e documenti richiamati.
[26] Cons. Stato, sez. IV, 18 luglio 2018, n. 4375; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. III, 17 febbraio 2020, n. 386. Di diverso avviso Cons. Stato, sez. III, 18 luglio 2018, n. 4378: «Contrariamente a quanto afferma la parte ricorrente, il Codice del processo amministrativo più volte riprende il principio di sinteticità degli atti. In particolare al riguardo si ricorda che: - l’articolo 3, comma 2, del c.p.a. prevede il cardine fondamentale per cui “il giudice e le parti redigono gli atti in materia chiara e sintetica”; - l’articolo 74 consente in linea di principio, secondo i casi, “un sintetico riferimento al punto di fatto e di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”; - l’art. 88, comma 1, che disciplina specificamente la motivazione della sentenza, tra l’altro, prevede alla lett. d) “la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi”. Dunque non si rinviene nell’ordinamento processuale amministrativo alcun “principio di autosufficienza”».
[27] Cons. Stato, sez. III, decr. 5 luglio 2013, n. 2536, dove si legge: «- che al momento del deposito del ricorso in appello, l’Ufficio Ricevimento Ricorsi del Consiglio di Stato, presumibilmente in conformità ad una segnalazione verbale del depositante, ha rubricato il ricorso stesso come contenente, fra l’altro, una istanza di “misure cautelari provvisorie”, intendendosi per tali il decreto monocratico di cui agli artt. 56 e 98 c.p.a.; - che peraltro può apparire dubbio che la richiesta di decreto cautelare monocratico sia effettivamente contenuta nell’appello: ed invero, nelle conclusioni del ricorso si legge soltanto che la parte chiede “l’accoglimento dell’appello ... previa sospensione, anche con provvedimento anteudienza, dell’efficacia della sentenza”, espressione di per sé equivoca, in quanto propriamente parlando anche l’ordinanza collegiale cautelare è pronunciata “anteudienza”, ossia in camera di consiglio; inoltre manca ogni riferimento al carattere monocratico (e non collegiale) del provvedimento richiesto, laddove l’art. 56 c.p.a. vuole che il provvedimento cautelare urgente sia espressamente richiesto “al presidente... della sezione cui il ricorso è assegnato”; - che a maggior ragione appare dubbio che in concreto vi sia l’intenzione della parte di ottenere il provvedimento urgente di cui all’art. 56 c.p.a., dato che secondo la medesima norma sarebbe un elemento essenziale della relativa istanza la prospettazione delle specifiche ragioni di una urgenza “tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”, mentre nella fattispecie le supposte ragioni di urgenza non sono neppure accennate; - che tuttavia, volendo tutto concedere alla tutela giurisdizionale, anche cautelare, della parte, si può accedere ad interpretare il ricorso come rivolto appunto ad ottenere, fra l’altro, anche un decreto monocratico (presidenziale) cautelare; - che però anche in tale ipotesi la relativa istanza appare inammissibile, siccome sfornita di qualsivoglia motivazione riguardo alle esigenze cautelari, d’urgenza o meno».
[28] Sul punto si rinvia alla esemplare voce di C. CONSOLO, Domanda giudiziale, in Dig. disc. priv., Sez. civ., vol. VII, Torino, 1991, 44.
[29] R. TISCINI, Prevalenza della sostanza sulla forma, cit., 465.
[30] Come autorevolmente osservato da M.A. SANDULLI, Giurisprudenza creativa e digitalizzazione, cit.: «La regula iuris teoricamente affermata con il decreto in oggetto può essere estremamente pericolosa nel contenzioso in materia di aggiudicazione dei contratti pubblici. È noto, infatti, che il rigetto della domanda cautelare – collegiale o monocratica – determina la cessazione dell’effetto sospensivo automatico prodotto dalla sua proposizione, il che rende, all’evidenza, inopportuna la formulazione di istanze monocratiche. Quid iuris se, per errore materiale, la segretaria “flagga” la relativa casella?»
[31] A. SANDULLI, il giudice amministrativo e la sua giurisprudenza, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 1363.
Bruno Capponi intervista Bruno Sassani
Lo scorso novembre il prof. Bruno Sassani ha cessato, per raggiunti limiti di età, l’insegnamento di ruolo del diritto processuale civile presso l’Università degli Studi di Roma 2 - Tor Vergata. Studente a Perugia, era stato indirizzato verso la non facile materia da due grandi giuristi: Alessandro Giuliani e Nicola Picardi.
È autore di un manuale adottato in molte Università ed è stato tra i primi a capire le potenzialità del web fondando Judicium. Il processo civile in Italia e in Europa, in assoluto una delle nostre prime riviste elettroniche e di certo oggi una delle più diffuse.
Bruno Sassani non ama le chiacchiere e non fa chiacchiere, come dimostrano le risposte che leggiamo di seguito, ognuna delle quali è un distillato del suo pensiero.
Oralità, concentrazione, immediatezza: cosa ti sembra sia rimasto della forza di tali principi, che continuiamo a trasmettere agli studenti come fossero le stigmate del processo civile “moderno”?
Praticamente nulla. Tutto si regge su una bugia mantenuta per la fascinazione di un mito fondativo che ci lusinga e nobilita. Si salva solo il procedimento cautelare. Fino a poco tempo fa funzionavano discretamente i procedimenti in camera di consiglio che oggi però sono diventati più lenti e improduttivi. Il rito ordinario è un’agonia, tanto in primo grado che in appello. E anche l’incremento dell’uso della procedura dell’art. 281-sexies esprime sempre più spesso la volontà di trattare cause complesse banalizzandole in modo da proteggersi dal gravoso lavoro di sciogliere i nodi. Nodi che così vengono tagliati, quando non evitati: la cultura della motivazione “per precedenti” aiuta moltissimo.
Cosa pensi degli ultimi pronunciamenti della Cassazione sulla giurisdizione, che hanno aperto una nuova linea di conflitto con il Consiglio di Stato coinvolgendo la Corte di giustizia UE?
Mi viene in mente la mossa dei signori rinascimentali che, in guerra tra loro, chiamavano in proprio aiuto il re di Francia o di Spagna. Certamente la decisione del Consiglio di Stato che ha originato la vicenda è una bestemmia, ma le SU avrebbero avuto tutti i mezzi per cassarla senza tante storie, al più spiegando come i limiti di principio posti dalla sentenza della Corte costituzionale ne giustificavano una disapplicazione nel caso di specie. Non solo invece hanno voluto regolare i conti con il Consiglio di Stato, ma hanno chiesto alla Corte di Giustizia di dare una lezione alla stessa Corte costituzionale, cioè all’ordinamento costituzionale italiano che viene presentato come non compliant con l’ordinamento comunitario.
Non vorrei essere nelle vesti del povero Avvocato dello Stato alle prese con il conflitto interno a Lussemburgo.
Più in generale, cosa pensi dell’attuale funzionamento della Corte di Cassazione quale “organo della nomofilachia”?
Posso appellarmi al V emendamento? Se non posso, come mi pare, mi limito a dichiarare che non sono convinto che si tratti di una esperienza positiva. Per molte ragioni che ho cercato di spiegare più volte nei luoghi opportuni (a partire dal grande equivoco sull’idea di “precedente”). Ormai però il treno è partito e – motus magis velocior – non si vede chi lo possa fermare. Non linee di pensiero dissenzienti nella magistratura (non ne vedo); non la nobile dottrina del processo civile che, salvo poche eccezioni, pensa ad altro; non la classe forense, divisa, disinteressata e inconcludente (si è fatta espellere dalla partecipazione alla Camera di consiglio senza fiatare, anzi collaborando alla sua eliminazione con appositi Protocolli).
Cosa pensi dell’attuale orientamento sul “pregiudizio effettivo”, allorché si faccia questione di violazione delle norme processuali?
Discorso delicato. Senza mediazioni culturali, il tradizionale vizio formalistico della nostra giurisprudenza è stato doppiato (doppiato, non soppiantato, intendiamoci) dall’inebriamento per un vago antiformalismo. Nelle sue espressioni generalizzanti, proprie delle massime correnti, l’orientamento è pericoloso, laddove il rimedio all’abuso sta piuttosto nell’art. 156 c. 3 del codice di rito e nella consapevole degradazione di molte pretese nullità a vizi non invalidanti.
Quale pensi sia stato il contributo degli studiosi della tua generazione allo studio del processo civile?
Anche questa è una domanda scivolosa, anche essa da V emendamento. Ma in definitiva mi consolo immaginando che non ci sia stata una “mia generazione”. Sono portato a porre idealmente fuori nella generazione precedente quei giuristi come (exempla nominis) Francesco Luiso o Nicolò Trocker che – loro sì – hanno segnato un progresso rispetto alle generazioni precedenti, ancora impregnate di costruttivismo sistematico senza ripudiarne il cospicuo lascito (per il primo, penso alla liberazione del contraddittorio dalle pastoie dell’efficacia riflessa in cui giurava il suo stesso mondo culturale; per il secondo penso alla forza che dato alla dimensione costituzionale ed europea della tutela giurisdizionale). Altri della stessa fascia temporale non hanno “fatto generazione” (se mi si consente) nel senso che potrebbero ben brillare accanto agli esponenti delle generazioni a cui debbono la cattedra.
Dopodiché la dottrina del “diritto processuale” oggi si accontenta di recitare il ruolo di “formante secondario” (si passi l’orrido termine di Sacco), dal momento che “formante primario” è diventata (più che la giurisprudenza) la c.d. “dottrina delle corti”. E questo malgrado il grande dispendio di cultura, passione e intelligenza di moltissimi dei più giovani.
Che valutazione dai dell’attuale normativa emergenziale sul COVID-19 e dei provvedimenti “normativi” che sono stati adottati da vari Uffici giudiziari? Cosa pensi dell’udienza da remoto sulle piattaforme informatiche?
Normativa, appunto, emergenziale: tutti abbiamo trovato buchi da rammendare ma sarebbe ingeneroso guardarla al microscopio. Questo vale anche per la legiferazione fiorita negli uffici giudiziari, talora unilaterale ma spesso frutto di protocolli concordati con gli Ordini forensi. L’importante è che la applichi senza fanatismi e rigorismi, del tutto inappropriati.
Non vedo di malocchio né l’udienza scritta, né quella da remoto che, paradossalmente, permette a mio avviso una migliore partecipazione dell’avvocato.
Restando sull’uso delle piattaforme, cosa pensi dei corsi universitari impartiti da remoto?
Meglio che niente: ancora dieci anni fa avremmo chiuso e basta. Distinguerei, comunque. Molti studenti giudicano positivamente l’esperienza: la lezione può essere seguita in una situazione comoda e la registrazione dà la possibilità di riprendere il filo e di calarsi nel flusso della lezione. Per il docente è una posizione innaturale: la mancanza di una platea viva rende tutto più difficile. Abituato a parlare a braccio, aiutato da un pubblico reattivo, ho sentito ben presto il bisogno di un testo completo da seguire (e quindi da preparare ad hoc), pena la perdita della concentrazione. È stancante, comunque.
Che idea hai della sinteticità degli atti processuali e degli strumenti idonei a perseguirla?
Dell’atto sintetico, tutto il bene possibile; in genere la lunghezza non è approfondimento e il suo miglior destino è far da barriera a chi sa di aver torto. Naturalmente il problema non può essere affrontato con il sistema metrico decimale, e la ragionevolezza del caso concreto dovrebbe regnare sovrana.
Quanto alla sinteticità della decisione, si tratta spesso di una comoda scappatoia, in un contesto che mira a premiare la motivazione pigra, più che la motivazione puntuale. E una motivazione pigra è sovente il sintomo di scelte mal difendibili. Ma la crisi oggi investe lo stesso concetto di motivazione.
Quali dovrebbero essere le caratteristiche di chi, oggi, si appresta a studiare il processo civile?
La pazienza e l’umiltà. Quelli che hanno cominciato quando io ho cominciato, erano stati attratti tanto dalla bellezza della costruzione, che sembrava mettere alla prova l’ingegno di chi vi si avvicinava, quanto dalla forza morale delle parole d’ordine ricordate nella prima domanda, quanto ancora dalle nuove sfide sociali che si affacciavano (erano gli anni del “nuovo processo del lavoro”). Dunque, orgoglio e prospettiva di ricompensa intellettuale.
Qualità, queste, che deve certo possedere il neofita, ma con l’avvertenza che, per esercitarle e trarne una gratificazione, deve avere anche la consapevolezza che il diritto del processo è ormai altrove, non tanto – e mi ripeto – nella giurisprudenza (che sarebbe cosa buona e giusta) ma nella c.d. dottrina delle corti, che è altra cosa (meno buona e meno giusta).
Il principio dell’affidamento nei confronti della pubblica amministrazione riflessi sul riparto tra le giurisdizioni alla luce dei nuovi orientamenti della giurisprudenza
di Maddalena Filippi, Presidente TAR Veneto
Sommario: 1. Il tema – 2. Le obiezioni della dottrina – 3.La giurisprudenza della Cassazione successiva alle ordinanze gemelle - 4. La lesione dell’affidamento in assenza di provvedimento – 5. Un’ipotesi di sconfinamento?
1. Il tema
Il tema è quello della tutela dell’affidamento del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, alla luce dei nuovi orientamenti della giurisprudenza.
Con una recente ordinanza[1], le Sezioni Unite della Cassazione hanno confermato il principio - affermato nelle tre ordinanze gemelle del 2011 (nn. 6594, 6595 e 6596) - con riguardo all’individuazione del giudice competente a decidere dei danni conseguenti al rilascio di un provvedimento favorevole, poi annullato in via di autotutela o dal giudice amministrativo.
Con quelle decisioni le Sezioni Unite hanno ritenuto che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda con cui il destinatario di un provvedimento illegittimo, ampliativo della sua sfera giuridica, chieda il risarcimento del danno subito a causa dell’emanazione dell’atto favorevole (illegittimo) e del successivo (legittimo) annullamento di tale provvedimento, in sede giurisdizionale o a seguito dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio da parte dell’amministrazione che ha emanato l’atto.
E’ il caso, tutt’altro che raro, del beneficiario di un titolo edilizio annullato - d'ufficio o su ricorso di altro soggetto - in quanto illegittimo, che chieda il risarcimento dei danni subiti per avere confidato nella apparente legittimità del titolo (ord. nn. 6594 e 6595); è il caso, tutt’altro che raro, dell’impresa che chieda il risarcimento lamentando la lesione dell'affidamento ingenerato dal provvedimento di aggiudicazione di una gara apparentemente legittimo, poi legittimamente annullato (ord. n. 6596). Si trattava dunque di controversie concernenti materie di giurisdizione esclusiva.
In queste ipotesi – hanno rilevato le Sezioni Unite – la competenza non appartiene al giudice amministrativo perché la domanda autonoma di risarcimento non riguarda l'accertamento dell’illegittimità del titolo edilizio o dell'aggiudicazione (illegittimità che, semmai, la parte avrebbe avuto interesse a contrastare nel giudizio amministrativo promosso dal controinteressato).
La domanda ha invece ad oggetto l’accertamento del comportamento illecito dell’amministrazione per aver ingenerato, nel cittadino come nell’impresa, il convincimento di poter legittimamente realizzare l’intervento edilizio assentito o di poter legittimamente eseguire l’appalto aggiudicato.
Al giudice ordinario si chiede dunque di accertare l’avvenuta violazione del principio del neminem laedere, cioè di quell’insieme di doveri di comportamento il cui contenuto prescinde dalla natura pubblicistica o privatistica del soggetto che ne è responsabile, insieme di doveri di comportamento che anche l’amministrazione, come qualsiasi privato, è tenuta a rispettare.
2. Le obiezioni della dottrina
Non si può non ricordare che le tre ordinanze gemelle sono state emanate a pochi mesi dall’entrata in vigore del codice del processo amministrativo. Tanto è vero che nei primi commenti si parlò di decisioni “perturbatrici” del lodo raggiunto in ordine al riparto di giurisdizione. In effetti, la formulazione degli articoli 7 e 30 del codice recepisce - nel rispetto della summa divisio scolpita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 204 del 2004 – una sorta di accordo raggiunto tra i vertici delle giurisdizioni nel corso dei lavori della Commissione incaricata di predisporre il testo del primo codice del processo amministrativo. Accordo secondo cui, con riguardo all’azione risarcitoria, la linea di confine tra le due giurisdizioni va collocata nella riconoscibilità – o meno – di un collegamento, mediato o immediato, tra l’evento individuato come fonte del danno e l’esercizio di un potere amministrativo.
Una parte della dottrina evidenziò subito come il principio affermato dalla Cassazione con le richiamate ordinanze gemelle non fosse coerente con la scelta compiuta dal codice del processo amministrativo, chiarissima – quest’ultima - nel senso di attribuire alla cognizione del giudice amministrativo tutti gli strumenti processuali idonei a tutelare la posizione lesa dall’esercizio dei pubblici poteri di cui è titolare l’amministrazione[2].
Si è osservato, in particolare, come la circostanza che il danno non sia immediatamente cagionato dal provvedimento – che appare legittimo – ma emerga solo dopo l’annullamento dell’atto, sia questione che attiene esclusivamente al piano cronologico. Si tratta di circostanza che invece non incide sulla ricollegabilità diretta del pregiudizio - sul versante eziologico, rilevante ai sensi dell’art. 1223 c.c. - all’adozione del provvedimento amministrativo.
Sicché - sotto il profilo della giurisdizione - azione caducatoria e azione risarcitoria sono da considerarsi equipollenti in quanto entrambe volte a contestare il cattivo esercizio del potere a fronte di posizioni di interesse legittimo.
In questo senso, dunque, il principio affermato dalla Cassazione in punto di tutela dell’affidamento nei confronti della pubblica amministrazione – specie con riguardo alle ipotesi ricadenti nell’ambito della giurisdizione esclusiva – doveva ritenersi non del tutto coerente con il criterio fondamentale di riparto individuato dalla Corte costituzionale nella inerenza dell’azione amministrativa all’esercizio di un potere pubblico.
Nei primi commenti alle ordinanze gemelle si è d’altra parte sottolineato come la lesione di un interesse legittimo si configuri anche quando l’amministrazione illegittimamente rilasci al cittadino un provvedimento favorevole che ben può costituire la fonte di una lesione a tale posizione di interesse legittimo. Tanto che – sotto il profilo della tutela – si è addirittura dubitato della necessità di scomodare la figura dell’affidamento per risarcire un tale tipo di danno[3].
3. La giurisprudenza della Cassazione successiva alle ordinanze gemelle
L’orientamento affermato dalla Cassazione nel 2011, con riguardo alla giurisdizione sui danni arrecati dall’annullamento di un provvedimento favorevole ma illegittimo, è stato successivamente confermato in diverse pronunce[4] (anche del Consiglio di Stato)[5].
E’ da ricordare, in particolare, l’ordinanza 4 settembre 2015, n. 17586[6], perché la motivazione che sorregge la decisione dimostra l’attenzione con cui la Cassazione ha seguito il dibattito della dottrina e le perplessità suscitate dal principio affermato sul punto.
Con questa ordinanza la Cassazione ha sottolineato come il principio riguardi ipotesi nelle quali l’esercizio del potere amministrativo (l’autotutela), o comunque l’annullamento giurisdizionale del provvedimento, rilevano non in sé, ma per l’efficacia causale del danno evento da affidamento incolpevole.
Ciò che viene messo in luce, in questa prospettazione, non è la modalità di esercizio del potere, ma il diritto soggettivo - di colui che ha ottenuto il provvedimento favorevole - a mantenere nel proprio patrimonio la consistenza sostanziale di questo diritto.
La lesione dell’affidamento creato dal provvedimento favorevole è dunque fonte di una responsabilità che - nella ricostruzione operata dalle Sezioni Unite con l’ordinanza del 2015 – è ricondotta nell’ambito delle “responsabilità da comportamento” dell’amministrazione.
Il danno considerato ai fini dell’accertamento della responsabilità non viene in rilievo come conseguenza del provvedimento, pur illegittimo, perché non deriva dal cattivo esercizio di un potere autoritativo. Dunque tale accertamento non richiede alcuna verifica in ordine alla legittimità degli atti posti in essere dall’amministrazione, non richiede il previo annullamento di questi atti, ma pone il baricentro nella fase di contatto tra il privato e l’amministrazione: il solo presupposto su cui si fonda tale responsabilità viene individuato nella lesione dell’affidamento in questa fase di contatto.
Così inquadrata la fattispecie di responsabilità – ed esclusa ogni possibile riconduzione nell’ambito del perimetro segnato dall’articolo 7 del codice del processo amministrativo - le Sezioni Unite confermano il principio affermato con le ordinanze gemelle del 2011, rilevando come il diritto al risarcimento del danno da lesione dell’affidamento non appartenga alla giurisdizione del giudice amministrativo anche quando tale affidamento si sia formato in una materia che rientri nella giurisdizione esclusiva dello stesso giudice amministrativo.
Da tale impostazione deriva che il privato, quando agisce in giudizio per il risarcimento del danno da lesione del legittimo affidamento, non porta come causa petendi l’illegittimità del provvedimento (da cui deriverebbe la giurisdizione del giudice amministrativo), ma fa valere la lesione di una nuova situazione di diritto soggettivo – il diritto alla conservazione dell’integrità patrimoniale - restando irrilevante ogni collegamento con il provvedimento e con l’esercizio autoritativo del potere dell’amministrazione.
La giurisdizione non può dunque essere attribuita al giudice amministrativo perché la lesione dell’affidamento del privato, e quindi del diritto soggettivo all’integrità patrimoniale, deriva dal realizzarsi di una fattispecie complessa rispetto alla quale l’illegittimo esercizio del potere da parte dell’amministrazione ha costituito solo uno, sia pure importante ma non necessario, dei fattori che hanno leso l’integrità patrimoniale del privato. Il provvedimento, sottolineano le Sezioni Unite, ha rappresentato soltanto “l’occasione” per ledere la sfera del privato.
Da ultimo, con l’ordinanza del 21 settembre 2020, n. 19677, le Sezioni Unite ribadiscono – sempre con riguardo ad analoghe fattispecie - che la domanda di risarcimento esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo in ragione della causa petendi.
In quel caso, in particolare, la società attrice non aveva messo in discussione l'illegittimità dell’atto ampliativo della sua sfera giuridica, annullato ope iudicis (si trattava dell’aggiudicazione di una gara); né aveva rimproverato all’amministrazione l'esercizio illegittimo di un potere consumato nei suoi confronti. La parte attrice aveva lamentato la lesione del proprio affidamento sulla legittimità dell'atto annullato e aveva domandato il risarcimento del danno (ovvero la condanna al pagamento dell'indennizzo o alla restituzione dell'indebito) per avere orientato le proprie scelte negoziali e imprenditoriali confidando, fino all'annullamento, nella legittimità dell’atto (e per avere sostenuto spese di esecuzione del contratto di appalto stipulato a seguito della gara).
Il Tribunale adito[7] aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a favore del giudice amministrativo sul rilievo che la posizione soggettiva dell’impresa di fronte all'esercizio illegittimo dell'attività provvedimentale non può considerarsi una fattispecie suscettibile di metamorfosi a seconda della diversa tutela - caducatoria o risarcitoria - invocata, ma mantiene una sostanziale unitarietà che rileva ai fini del riparto di giurisdizione. Con la conseguenza che - qualora la parte invochi, pure in via autonoma, la tutela risarcitoria per un danno cagionato dallo scorretto esercizio del potere - la posizione soggettiva lesa deve comunque ritenersi di interesse legittimo, considerata la riconducibilità della fattispecie nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Il giudice della giurisdizione ha invece confermato il principio secondo cui per predicare la sussistenza della giurisdizione amministrativa occorre che il danno del quale si chiede il risarcimento nei confronti della pubblica amministrazione sia causalmente collegato all’illegittimità dell’atto: in quel caso – come evidenziato dalla causa petendi - il risarcimento veniva chiesto non in relazione al danno provocato dall’illegittimità del provvedimento amministrativo, bensì come conseguenza della lesione dell’affidamento ingenerato dall’atto di aggiudicazione apparentemente legittimo.
4. La lesione dell’affidamento in assenza di provvedimento
Con l’ordinanza 28 aprile 2020, n. 8236[8], le Sezioni Unite hanno aggiunto un segmento ulteriore al principio affermato, a partire dal 2011, in tema di tutela dell’affidamento nei confronti della pubblica amministrazione: la Cassazione si è infatti pronunciata sulla domanda di risarcimento del danno da lesione dell’affidamento nel caso in cui non venga in gioco alcun provvedimento illegittimamente ampliativo, poi annullato in autotutela o in sede giurisdizionale.
Il caso è stato affrontato dalle Sezioni Unite in sede di regolamento preventivo di giurisdizione proposto da un Comune a seguito della domanda di risarcimento dei danni presentata da un’impresa di costruzioni che lamentava il falso affidamento ingenerato dal comportamento “ondivago” dell’amministrazione. Il danno prospettato riguardava la sola condotta dell’amministrazione, indipendentemente da ogni connessione con invalidità provvedimentali e, addirittura, indipendentemente dalla stessa esistenza di un provvedimento.
In particolare, nell’atto di citazione davanti al giudice ordinario, la parte attrice aveva evidenziato come - a fronte della presentazione di un progetto di massima per la realizzazione di un complesso alberghiero su un terreno di proprietà dell’impresa - il Comune avesse dapprima riconosciuto la rilevanza, sotto il profilo dell’interesse pubblico, dell’intervento progettato, senza però consentire, a distanza di anni, la favorevole conclusione del procedimento.
Nel frattempo era stata infatti adottata una variante urbanistica che, anche per effetto delle osservazioni regionali accolte dal Comune, l’impresa aveva ritenuto eccessivamente limitativa quanto alle potenzialità edificatorie.
Per oltre quattro anni – si lamentava – il Comune aveva interloquito e dialogato con l’impresa attraverso rassicurazioni in ordine all’esito favorevole del procedimento, richieste di integrazione documentale, suggerimenti di soluzioni migliorative, pareri anche favorevoli, per poi giungere all’esito del tutto insoddisfacente per l’interessata: un tale comportamento ondivago doveva ritenersi rilevante non solo sotto il profilo della violazione dei termini di conclusione del procedimento, ma soprattutto in punto di lesione dell’affidamento al rilascio del titolo richiesto per la realizzazione dell’intervento.
Proprio in relazione al doppio profilo contestato dall’impresa con la domanda di risarcimento, il Comune ha proposto il regolamento di giurisdizione ritenendo che sulla questione fosse competente il giudice amministrativo. Tanto la fattispecie del danno da ritardo per violazione dei termini procedimentali, quanto la fattispecie del danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa in materia edilizia ed urbanistica – ha rilevato la parte convenuta - rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[9].
In effetti, in questo senso ha concluso il Procuratore Generale che, condividendo quanto sostenuto dal Comune, si è espresso per l'affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo. In particolare il Procuratore Generale ha ritenuto che i principi enunciati nelle ordinanze gemelle non fossero applicabili alla vicenda in quanto essi “postulano l'esistenza di un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato, sulla cui legittimità il medesimo privato abbia fatto affidamento e che successivamente sia stato caducato, in via di autotutela o in sede giurisdizionale”. Provvedimento che nella specie non era stato adottato[10].
Le Sezioni Unite ritengono invece che il caso rientri nella giurisdizione ordinaria e propongono una lettura ancora più dilatata del principio di affidamento.
Il piano di valutazione non è quello dell’invalidità (di diritto pubblico) del provvedimento, ma quello, distinto, della sua conformità ai principi civilistici e alle clausole generali[11].
Prima, tra queste “clausole generali” del sistema ordinamentale, la clausola della buona fede oggettiva che abbraccia sia un dovere negativo di evitare comportamenti scorretti, informazioni sbagliate, reticenze, sia un dovere positivo di comportamento collaborativo.
Un dovere di comportamento collaborativo che – alla luce dell’articolo 2 della Costituzione[12] – interpreta il dovere di solidarietà sociale come “dovere di protezione” quando tra i consociati si instaurano “momenti relazionali” socialmente o giuridicamente “qualificati” tali da generare ragionevoli affidamenti sulla condotta corretta e protettiva altrui[13].
Ciò che viene in rilievo non è, dunque, l’inerzia o il ritardo da parte dell’amministrazione rispetto all’obbligo di concludere il procedimento, ma - al contrario - un comportamento positivo e generatore di aspettative poi deluse, rispetto ad un rapporto tacito di fiducia tra le parti che si svolge interamente sul “piano paritario” e che per questo non può che essere affidato al giudice ordinario.
E’ interessante rilevare come le Sezioni Unite, riprendendo una distinzione già sottolineata da una parte della dottrina, pongano l’accento sulla non sovrapponibilità della nozione di affidamento propria della disciplina dell'annullamento d’ufficio del provvedimento illegittimo rispetto alla nozione di affidamento a cui si fa riferimento nelle tre ordinanze del 2011, e nelle successive pronunce che alle stesse si sono uniformate.
L’affidamento tutelato dalla disciplina dettata dall'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio “prescinde da considerazioni legate all'elemento soggettivo della condotta dell'amministrazione e delle parti private (colpa, diligenza, buona fede etc.) e si risolve nella verifica della legittimità degli atti formali attraverso cui si esprime il potere discrezionale dell'amministrazione di ponderare l'interesse pubblico alla rimozione di un atto illegittimo con gli interessi privati del beneficiario di tale atto e degli eventuali controinteressati”.
Al contrario, il modello di tutela che viene in rilievo nelle ordinanze gemelle è “una situazione autonoma, tutelata in sé, e non nel suo collegamento con l'interesse pubblico, come affidamento incolpevole di natura civilistica, che si sostanzia, secondo una felice sintesi dottrinale, nella fiducia, nella delusione della fiducia e nel danno subìto a causa della condotta dettata dalla fiducia mal riposta; si tratta, in sostanza, di un'aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell'amministrazione fondata sulla buone fede”.
Ne deriva, dunque, una chiara distinzione tra la nozione di affidamento legittimo e quella di affidamentoincolpevole[14].
L'affidamento legittimo, secondo questa ricostruzione, trova protezione nel rapporto amministrativo: la struttura del procedimento è preordinata a prevenire la lesione dell’affidamento attraverso una serie di regole la cui violazione dà luogo all’invalidità provvedimentale (regole che impongono lo svolgimento di una istruttoria adeguata nel rispetto del contraddittorio; che richiedono la considerazione degli interessi dei destinatari del provvedimento come dei controinteressati; che fissano limiti temporali al potere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti illegittimi; che prevedono un indennizzo in caso di revoca di un atto che rechi pregiudizio agli interessati).
Ma la Suprema Corte ha osservato come – quando tali regole siano state rispettate e quindi risulti legittimo l’annullamento in sede di autotutela dell’atto amministrativo favorevole – sia configurabile la lesione del diverso affidamento che derivi non dalla invalidità di diritto pubblico del provvedimento, ma dalla mancata conformità ai principi civilistici e alle clausole generali del comportamento tenuto dall’amministrazione.
Il modello di tutela che viene in rilievo a fronte di una situazione di affidamento incolpevole – mette in luce l’ordinanza - muove da un piano di valutazione diverso che pone al centro il dovere di correttezza e di buona fede oggettiva, configurabile in capo all’amministrazione anche prima e a prescindere dall’adozione di qualsiasi provvedimento, o dall’esistenza di trattative tra le parti, perché si colloca in una dimensione relazionale[15].
Questo affidamento secondo buona fede – perché inteso come fiducia riposta nella correttezza altrui - non assume rilevanza giuridica se non nel momento in cui l'affidamento è stato deluso.
Con riguardo all’oggetto della lesione, le Sezioni Unite puntualizzano che – contrariamente a quanto affermato dalla stessa Corte a partire dalle ordinanze gemelle - la situazione soggettiva lesa dalla delusione delle aspettative generate dal comportamento della pubblica amministrazione non va individuata nel diritto soggettivo alla conservazione dell'integrità del patrimonio, ma “si identifica nell'affidamento della parte privata nella correttezza della condotta della pubblica amministrazione”[16].
Il danno consegue dunque non alla violazione di un dovere di prestazione, come si verifica in caso di lesione dell’affidamento legittimo, ma alla violazione di un “dovere di protezione”, il quale sorge non da un contratto, ma dalla relazione che si instaura tra l’amministrazione ed il cittadino nel momento in cui quest’ultimo entra in contatto con la prima.
Si tratta quindi di una forma responsabilità che grava sulla pubblica amministrazione nei confronti di un cittadino che si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione, solidarietà e tutela dell’affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo.
Dunque – affermano le Sezioni Unite - la natura di tale forma di responsabilità della pubblica amministrazione non può che essere ricondotta nell’ambito della responsabilità contrattuale da contatto sociale qualificato, il cui elemento qualificante va individuato non nella colpa, bensì nella violazione della buona fede che, sulla base dell’affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti[17].
5. Un’ipotesi di sconfinamento?
Come è stato recentemente suggerito[18], l’orientamento delle Sezioni Unite in tema di responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento[19] potrebbe aprire una prospettiva più ampia circa la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo che si presta ad essere estesa ad altre ipotesi - oltre a quella degli interventi amministrativi di secondo grado - sino a comprendere la generalità delle ipotesi in cui sia denunciabile la lesione della buona fede oggettiva[20].
La considerazione può senz’altro essere condivisa. Ma il punto è l’individuazione del giudice chiamato ad occuparsi di questa tutela.
Può ritenersi che - per attribuire la giurisdizione al giudice ordinario – sia sufficiente il richiamo al parametro della buona fede oggettiva o la riconduzione della responsabilità dell’amministrazione nell’ambito della responsabilità da contatto qualificato?
È vero che un numero sempre maggiore di norme di matrice privatistica è diventata regola del diritto amministrativo. Basti pensare alla recente consacrazione dei principi della collaborazione e della buona fede come cardini del procedimento[21].
Non v’è dubbio, d’altra parte, che la vicenda oggetto della richiamata ordinanza delle Sezioni Unite sia emblematica di una esperienza comune a tanti cittadini e a tante imprese: è infatti frequente che, dopo essersi rivolti all’amministrazione - per dare avvio ad un’attività economica, per realizzare un intervento edilizio o un progetto di trasformazione urbanistica – cittadini e imprese abbiano confidato nella favorevole conclusione del procedimento sulla scorta dell’affidamento ingenerato dal comportamento propulsivo dell’amministrazione e dalla positiva valutazione da questa espressa con riguardo al rilievo dell’iniziativa, per poi trovarsi di fronte, a distanza di tempo, ad un orientamento conclusivo del tutto diverso.
E dunque non v’è dubbio che l’apprezzamento – affidato al giudice dei diritti – del comportamento dell’amministrazione sotto il profilo del rispetto dei principi civilistici e delle clausole generali, prima fra tutte quella della buona fede oggettiva, potrebbe costituire un modello di tutela particolarmente efficace a fronte di lesioni arrecate all’affidamento ingenerato dall’amministrazione in situazioni come quelle appena richiamate.
Un tale apprezzamento – appunto perché muove dall’assunto che la controversia escluda qualsiasi collegamento, anche mediato, con l’esercizio del potere – è limitato alla considerazione di comportamentimeri.
A ben vedere, proprio l’esame della fattispecie cui si riferisce l’ordinanza delle Sezioni Unite n. 8236 del 2020 induce a chiedersi se l’orientamento affermato non rischi di affrontare la questione su un piano eccessivamente astratto.
In effetti, tenuto conto della vicenda descritta e in particolare del dialogo e delle interlocuzioni tra le parti, la decisione sembra operare – in modo quasi chirurgico – lo scorporo di alcuni comportamenti da un contesto complesso e articolato che ha visto l’amministrazione dare avvio ad un iter procedimentale (o pre-procedimentale), funzionalmente preordinato all’esercizio del potere.
In altre parole, l’approccio seguito dalla Suprema Corte sembra prendere in esame singoli comportamenti considerati in sé, nel loro aspetto statico.
Ma non si può non tener conto del contenuto dell’affidamento tradito: il danno di cui l’impresa chiede il risarcimento viene prospettato in relazione alla lesione di un’aspettativa sorta da comportamenti, iniziative e attività preliminari dell’amministrazione che hanno indotto a confidare nel favorevole esercizio di un potere amministrativo. Comportamenti, iniziative e attività preliminari che, appunto, sono (o dovrebbero essere) volte alla verifica della sussistenza dei presupposti per il favorevole esercizio di tale potere.
E sotto questo profilo vi è un altro aspetto che deve essere considerato e che riguarda un dato ontologico del potere amministrativo, quello della sua inesauribilità[22]: l’amministrazione investita di un potere ha per ciò stesso il potere di esercitarlo nuovamente.
E’ sufficiente il richiamo alla ri-esercitabilità del potere per cogliere come la considerazione segmentata e statica dell’attività procedimentale (o pre-procedimentale) quale comportamento mero di una amministrazione, finisca per trascurare un elemento che non può essere trascurato: la discrezionalità di cui – pur con margini molto diversi - è investita l’amministrazione nell’esercizio del potere. Discrezionalità che è certamente rilevante anche nell’attività pre-procedimentale, in quanto preordinata all’esercizio del potere.
Di qui una perplessità in ordine alle modalità di apprezzamento del comportamento dell’amministrazione secondo la clausola della buona fede oggettiva: proprio con riferimento alla vicenda in esame, concernente l’atteggiamento ondivago nell’attività preordinata al rilascio dell’autorizzazione per la realizzazione del complesso alberghiero, sembra infatti difficile valutare il comportamento dell’amministrazione – in punto di coerenza, di correttezza, di buona fede - scorporandolo dal contesto complessivo entro il quale quell’attività si inserisce, senza tener conto dei mutamenti intervenuti con riguardo all’assetto degli interessi pubblici alla cui realizzazione è preordinato il potere non ancora esercitato.
Nel caso di specie, l’intervento progettato dall’impresa non è stato più realizzabile (nelle dimensioni proposte) per il contrasto con i limiti introdotti da una variante urbanistica adottata dopo la presentazione della domanda, nel corso della lunga fase interlocutoria.
Non v’è dubbio che - dal punto di vista dell’impresa - quella variante possa rappresentare un comportamento scorretto e incoerente, tale da arrecare una lesione dell’affidamento sotto il profilo della violazione del principio generale della buona fede oggettiva.
Ma – dal punto di vista dell’interesse pubblico - il richiamo al c.d. postulato della inesauribilità del potere induce a ritenere che l’apprezzamento della buona fede richieda necessariamente una valutazione in ordine alle ragioni sottese alla scelta di procedere all’adozione della variante. In effetti, l’amministrazione, quando si pronuncia sulla domanda del privato, è tenuta a fare riferimento al regime normativo vigente non all’epoca di presentazione della domanda, ma nel momento in cui essa provvede, perché l’ultima disciplina adottata è (o dovrebbe essere) quella che garantisce la più adeguata valutazione dell’interesse pubblico attuale.
A questo proposito non può non richiamarsi il fondamentale studio di Fabio Merusi[23] che - con grande anticipo – aveva intuito che la verifica giudiziale in ordine alla buona fede dell’amministrazione avrebbe dovuto affidarsi a parametri come la ragionevolezza dell’affidamento asserito, la ragionevole prevalenza dell’interesse pubblico sopraggiunto rispetto alla situazione di affidamento in precedenza determinata[24].
Parametri tradizionalmente utilizzati dal giudice amministrativo attraverso la lente di ingrandimento del vizio della funzione che consente ora, nella più moderna declinazione delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere, di assicurare al processo amministrativo una giurisdizione “piena”, con l’accesso diretto del giudice al fatto e al materiale probatorio[25].
È vero, come ha ricordato l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato - che i doveri di correttezza, buona fede e lealtà non sono incompatibili con l’esercizio di poteri lato sensu autoritativi dell’amministrazione[26]; ma da questa affermazione non può farsi derivare l’assunto secondo cui la violazione di tali doveri comporta necessariamente la lesione di una posizione di diritto soggettivo e non di interesse legittimo.
Non può bastare l’accertamento di un comportamento dell’amministrazione contrario ai canoni della correttezza e della buona fede per escludere la giurisdizione del giudice amministrativo quando tale comportamento - considerato non in sé, ma nel contesto della vicenda in cui si inserisce - sia riconducibile, sia pure mediatamente, nell’area dell’esercizio del potere (e quindi nell’ambito di una inerenza a una vicenda in cui l’amministrazione agisce come autorità, circostanza sufficiente per attribuire la giurisdizione al giudice amministrativo in quanto giudice, non dell’atto amministrativo, ma dei pubblici poteri[27]).
Sicché, in ipotesi come quella esaminata, sembra difficile contestare che la posizione soggettiva lesa, pur riferibile all’ambito dell’affidamento tradito, abbia natura di interesse legittimo[28]. Con la conseguenza che la tutela risarcitoria dovrebbe spettare al giudice amministrativo.
La circostanza che i comportamenti tenuti dall’amministrazione non siano confluiti nell’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento (nel caso esaminato, prima dell’instaurazione del giudizio risarcitorio) non dovrebbe dunque rilevare in punto di qualificazione della posizione soggettiva.
Del resto, la vicenda su cui si sono pronunciate le Sezioni Unite mette in luce come sia riduttivo ricondurre le iniziative e le attività poste in essere dall’amministrazione, nel corso della lunga interlocuzione con l’impresa, nell’ambito di comportamenti meri. Risulta infatti che in quel caso, insieme a numerosi incontri informali tra i diversi uffici coinvolti nel procedimento autorizzativo, vi siano stati anche atti formali - seppure infra o pre-procedimentali - come la richiesta di acquisizione e la successiva espressione del parere da parte della Commissione urbanistica, la richiesta di parere alla Regione in ordine alla compatibilità dell’iniziativa con il Piano per l’Assetto Idrogeologico Regionale, a seguito della rielaborazione del progetto suggerita all’impresa dallo stesso Comune in esito alle interlocuzioni con le diverse amministrazioni interessate.
A ben vedere, più che di comportamenti meri, sembra trattarsi di segmenti procedimentali o pre-procedimentali. Anzi, per riprendere la storica definizione sandulliana, sembra proprio trattarsi di “una serie di atti […] e di operazioni […], posti in essere da un unico o da diversi agenti, solitamente culminanti in un provvedimento, e strutturalmente e funzionalmente collegati dall’obbiettivo avuto di mira, e perciò appunto coordinati in procedimento”[29].
Dunque, la mancata adozione del provvedimento conclusivo del procedimento non sembra impedire una considerazione unitaria di quell’insieme di atti, dialoghi, interlocuzioni, unificati dall’essere – tutti – preordinati all’esercizio del potere invocato nella domanda rivolta all’amministrazione.
Con la conseguenza che, con riguardo al caso di specie, la posizione soggettiva dell’impresa – la quale, con la propria iniziativa, ha dato avvio a quel complesso di attività, comunque funzionale al perseguimento dell’interesse pubblico – ben potrebbe essere qualificata come interesse legittimo procedimentale[30].
Sotto questo profilo va anzi rilevato come proprio la riconducibilità della responsabilità da lesione dell’affidamento nell’ambito della responsabilità da contatto qualificato – affermata dalle Sezioni Unite - sembra necessariamente presupporre una relazione, un rapporto, dunque un contesto quasi-procedimentale, piuttosto che una serie di comportamenti meri, considerati singolarmente e non nel loro aspetto dinamico e d’insieme.
In ogni caso, anche a voler ipotizzare che, in vicende come quella esaminata, la lesione dell’affidamento abbia natura di diritto soggettivo, dovrebbe ritenersi che – nelle materie di giurisdizione esclusiva - la tutela spetti comunque al giudice amministrativo.
Ma non v’è dubbio che una distinzione in punto di giurisdizione con riguardo al medesimo comportamento – attribuita al giudice ordinario ove la lesione dell’affidamento sia lamentata sotto il profilo della violazione della buona fede oggettiva, attribuita invece al giudice amministrativo ove tale lesione sia lamentata sotto il profilo della violazione delle norme che disciplinano il corretto esercizio del potere cui il comportamento sia mediatamente riconducibile – finirebbe per incidere fortemente sul principio di concentrazione della tutela giurisdizionale.
Come è stato autorevolmente osservato[31], la regola della concentrazione delle tutele costituisce applicazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale - di cui all’articolo 24 della Costituzione - e cioè del principio che più di ogni altro, sul piano generale, ha contribuito negli ultimi anni all’evoluzione della giurisdizione amministrativa ed alla sua nuova configurazione. È in nome del principio di effettività – si sottolinea - che la Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimità dell’attribuzione al giudice amministrativo di poteri risarcitori, indicando, nel criterio della concentrazione delle tutele, una modalità di attuazione dell’effettività.
E dunque - soprattutto con riferimento ai casi di annullamento del provvedimento favorevole illegittimo - l’orientamento seguito dalle Sezioni Unite non solo potrebbe tradursi in un vulnus al principio della concentrazione delle tutele, ma renderebbe più frequente il rischio di contrasto tra giudicati, se si considera il consistente numero di contenziosi che nascono dall’annullamento in autotutela di provvedimenti favorevoli (concernenti per lo più il caso della revoca dell’atto di aggiudicazione di una gara o quello dell’annullamento del titolo edilizio, oggetto entrambi delle richiamate ordinanze del 2011).
Del resto, come si è osservato acutamente[32], il diritto amministrativo sembra ormai orientato a riconoscere che – anche nei rapporti amministrativi – l’affidamento possa essere fonte di obbligazioni patrimoniali a carico dell’amministrazione. L’approdo finale del principio di affidamento nel diritto amministrativo – si sottolinea - “non è la garanzia di un risultato favorevole al cittadino in conseguenza dell’affidamento, ma è l’introduzione di una variabile specifica nell’esercizio di un potere discrezionale”. Con la conseguenza che l’affidamento – da ricercarsi non sul piano sostanziale ma su quello procedimentale – si risolve attraverso la ponderazione e il bilanciamento degli interessi. Una tale tecnica consente di mettere a confronto la garanzia del potere amministrativo (e quindi anche del suo riesercizio) con le ragioni dell’affidamento del privato, che mirano alla conservazione della posizione di vantaggio già riconosciuta dall’amministrazione.
Infine un ultimo profilo: quello degli effetti extra processuali del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno arrecato da un comportamento ritenuto contrario alla clausola della buona fede oggettiva alla stregua di una verifica condotta in astratto, senza considerazione per l’intreccio degli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda.
E’ tutt’altro che improbabile che i dirigenti degli apparati – per evitare il rischio di essere chiamati a rispondere dei danni cagionati da un comportamento che, scorporato da un tale complesso contesto, possa essere ritenuto ondivago o disorientante – preferiscano proteggersi con un ritorno alla burocrazia difensiva[33].
In altre parole - soprattutto di fronte a progetti di notevole rilevanza economica, fortemente incidenti in materia ambientale o storico-paesaggistica e che dunque richiedono istruttorie particolarmente complesse – potrebbe prevalere la scelta del percorso procedimentale più sicuro. Percorso che certamente non coincide con quello dell’attuazione sostanziale, e non solo formale, dei principi della partecipazione procedimentale.
Verrebbe in questo senso abbandonata ogni iniziativa, da parte dei responsabili degli uffici, volta ad avviare in via informale - in una sorta di leale collaborazione con cittadini e imprese, e spesso con le altre amministrazioni coinvolte dall’iniziativa – una pre-verifica ai fini della valutazione delle diverse soluzioni possibili, in vista della conclusione del procedimento (eventualmente, anche attraverso la definizione concordata del contenuto del provvedimento, ai sensi dell’articolo 11 della legge n. 241 del 1990).
Con il rischio, se così fosse, di tradire una delle prime finalità della legge sul procedimento, proprio al compimento del suo trentesimo compleanno.
[1]. Cass. Civ., SS.UU., ord. 21 settembre 2020, n. 19677.
[2]. Cfr., M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni, in Federalismi.it, n. 7/2011. Cfr., altresì, R. Villata che - in Spigolature “stravaganti” sul nuovo codice del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 857 ss. - osserva come la mancata estensione della giurisdizione amministrativa alle controversie risarcitorie tramite il riconoscimento di un’ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva abbia consentito alla Cassazione di tentare di riappropriarsi della giurisdizione su questioni risarcitorie collegate all’esercizio del potere.
[3]. Cfr., A. Travi, Annullamento del provvedimento favorevole e responsabilità dell’amministrazione, in Foro It., 2011, I, 2398.
[4]. Cfr., in particolare, le ordinanze delle Sezioni Unite 4 settembre 2015, n. 17586; 22 maggio 2017, n. 12799; 22 giugno 2017, n. 15640; 2 agosto 2017, n. 19171; 23 gennaio 2018, n. 1654; 2 marzo 2018, n. 4996; 24 settembre 2018, n. 22435; 13 dicembre 2018, n. 32365; 19 febbraio 2019, n. 4889; 8 marzo 2019, n. 6885 e 13 maggio 2019, n. 12635. In senso contrario, invece – anche se con riguardo alle sole materie di giurisdizione esclusiva – Cass. Civ., SS.UU., ord., 21 aprile 2016, n. 8057, e Cass. Civ., SS.UU., 29 maggio 2017, n. 13454, secondo cui, in tali materie, la giurisdizione sulle domande di risarcimento del danno da lesione dell'affidamento riposto sulla legittimità dei provvedimenti successivamente annullati appartiene al giudice amministrativo.
[5]. Cfr. VI, 27 settembre 2016, n. 3997.
[6]. Si richiamano, in proposito, le argomentazioni critiche di C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 2016, 547 ss. e di G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it – Dottrina, 2016.
[7]. Cfr. sentenza n. 404 del 2009 del Tribunale di Civitavecchia.
[8]. Si richiamano, in particolare, gli approfonditi commenti di G. Tulumello, “Le Sezioni Unite e il danno da affidamento procedimentale: la “resistibile ascesa” del contatto sociale”, in www.giustizia-amministrativa.it - Dottrina, 2020; di V. Neri, La tutela dell’affidamento spetta sempre alla giurisdizione del giudice ordinario?, in Urbanistica e Appalti, 6/2020 e di G. Tropea, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o., in Giustizia insieme, 2020.
[9]. Ai sensi, rispettivamente, dell’art. 133, comma 1, lettera a), n.1 e dell’art. 133, comma 1, lettera f), cod. proc. amm..
[10]. Il preavviso di rigetto in ordine al provvedimento conclusivo del lungo procedimento (diniego di rilascio del permesso di costruire in deroga) è stato infatti comunicato all’impresa quando già era stata avviata l’azione risarcitoria nei confronti del Comune davanti al giudice ordinario.
[11]. Così F. Volpe, in “Una nuova geografia delle tutele? Risarcimenti, annullamento e buona fede alla luce dei nuovi orientamenti e delle riforme”, relazione introduttiva al convegno Le giurisdizioni “sconfinate”, webinar, 13 novembre 2020.
[12]. Si richiama, a questo proposito, quanto in precedenza affermato dalla stessa Suprema Corte (Cass. Civ., SS.UU., 15 novembre 2007, n. 23726): “viene in rilievo l’ormai acquisita consapevolezza della intervenuta costituzionalizzazione del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., che a quella clausola generale attribuisce all’un tempo forza normativa e ricchezza di contenuti, inglobanti anche obblighi di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale”.
[13]. La garanzia costituzionale del principio di affidamento, secondo l’orientamento della Corte costituzionale, va invece individuata nell’articolo 3 Cost. (ex multis, Corte cost. 27 giugno 2017, n. 149).
[14]. In ordine alla diversità - “per funzione e per struttura” – delle due figure, si rinvia all’approfondito studio di F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, in Dir. proc. amm., 2018, 3, 827.
[15]. Sul punto, l’ordinanza in esame richiama la decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 4 maggio 2018, n. 5. Questa sentenza - riprendendo quanto rilevato in dottrina con riguardo alla possibilità che una responsabilità da comportamento scorretto sussista nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento - rileva come “in questi casi il provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un mosaico connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativa dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico", aggiungendo come si tratti di “una responsabilità da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale”.
[16]. Sul punto la decisione in commento chiarisce che “La nozione di ‘diritto alla conservazione dell'integrità del patrimonio’ risulta … priva di consistenza autonoma, risolvendosi in una formula descrittiva che unifica in una sintesi verbale la pluralità delle situazioni soggettive attive che fanno capo ad un soggetto”.
[17]. Così, Cass. Civ., I sez, n. 14188 del 12 luglio 2016, con cui la Suprema Corte ha rimeditato l’inquadramento della responsabilità precontrattuale ai sensi degli articoli 1337 e 1338 del codice civile.
[18]. Cfr., in particolare, F. Volpe, in “Una nuova geografia delle tutele?” cit., relazione introduttiva al convegno Le giurisdizioni “sconfinate”, webinar, 13 novembre 2020.
[19]. Orientamento confermato, da ultimo, da Cass. Civ., SS.UU., sent. 15 gennaio 2021, n. 615.
[20]. Cfr., in particolare, F. Volpe, in “Una nuova geografia delle tutele?” cit., relazione introduttiva al convegno Le giurisdizioni “sconfinate”, webinar, 13 novembre 2020.
[21]. Il nuovo comma 2 bis, aggiunto all’art. 1 della legge n. 241 del 1990, stabilisce che “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”. Il comma - aggiunto dall’art. 12, comma 1, lett. 0a), del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120 – rende esplicito il principio cui si ispirano tutte le disposizioni del Capo III della legge n. 241 del 1990 sulla partecipazione al procedimento amministrativo.
[22]. A. Travi, La tutela dell’affidamento del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. pubbl., 2018, 126.
[23]. L’affidamento del cittadino, Milano, 1970.
[24]. Si vedano sul punto le considerazioni di G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento, cit., che, con riguardo a tale azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento, rileva come risulti “evidente l’estraneità dell’attrezzatura processuale del giudice civile in un giudizio siffatto”.
[25]. Cfr., F. Patroni Griffi, Le giurisdizioni “sconfinate”, relazione al convegno Le giurisdizioni “sconfinate”, webinar, 13 novembre 2020.
[26]. Cfr., Cons. St., Ad. Pl. n. 5 del 2018 cit., ove si osserva come anche nella fase ad evidenza pubblica, che precede l’aggiudicazione della gara, «non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto)».
[27]. Cfr. Corte Cost., sentenze n. 204 del 6 luglio 2004 cit. e n. 191 dell’11 maggio 2006.
[28]. Come osserva autorevolmente F.G. Scoca - L’interesse legittimo, storia e teoria, Torino, 2017, 255 - sembra difficile ricostruire come diritti soggettivi “pretese, o ‘facoltà’, partecipative” che “sono strumenti di sostegno, e di esercizio, nel procedimento, dell’interesse legittimo, di cui sono titolari i privati”.
[29]. A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Jovene Editore, Napoli 1974.
[30] Sulle diverse ricostruzioni elaborate dalla dottrina in ordine alla natura giuridica degli interessi legittimi procedimentali, si rinvia a F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, XIII Edizione, 2020, Parte I, Sezione I, Capitolo 1.
[31]. Così A. Quaranta, Il processo amministrativo - Commentario al D. lgs. 104/2010, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, Introduzione, 58.
[32]. A. Travi, La tutela dell’affidamento cit., in Dir. pubbl., 2018, 131.
[33]. Cfr., G. Tulumello, “Le Sezioni Unite e il danno da affidamento procedimentale” cit.
L’abuso del diritto “altrui”. Riflessioni a margine di un lavoro monografico.
Fabio Francario intervista Domenico Fiordalisi
Domenico Fiordalisi è magistrato della Corte di Cassazione autore di diverse pubblicazioni in materia penale, tra le quali si possono ricordare, edite per i tipi della Giappichelli, Una clausola generale: pericolo di danno grave alla salute (2016), Giudicato progressivo e recidiva (2008), Efficacia giuridica e falso. Per una concezione normativa della fede pubblica (2010) e Abuso di facoltà legittime ed impedibilità degli atti antigiuridici (2008). Riprendendo riflessioni già in nuce in precedenti pubblicazioni, nel 2020 ha recentemente pubblicato un nuovo lavoro monografico sul tema dell’abuso del diritto (Abuso del diritto altrui. Una figura formale di qualificazione giuridica, Giappichelli, Torino 2020). Giustizia Insieme lo ha invitato ad illustrare i contenuti di quest’ultimo lavoro monografico nell’intervista curata dal Prof. Fabio Francario, che pubblichiamo di seguito.
I. Il libro svolge un ragionamento complesso sulla figura dell’abuso del diritto, analizzandone presupposti e limiti di applicazione e soprattutto interrogandosi sulla ratio dell’istituto. L’esperienza maturata come magistrato porta naturalmente a svolgere il pensiero muovendo dal concreto dell’esperienza del fatto storico alle categorie dommatiche del diritto, in uno scambio continuo che rivela una naturale inclinazione didattica che impronta l’intera trattazione.
Il primo chiarimento d’ordine concettuale che viene operato è che la figura può trovare cittadinanza solo in un ordinamento giuridico evoluto. Anzi, tanto più è evoluto il livello di civiltà giuridica dell’ordinamento, tanto più l’istituto potrebbe avervi cittadinanza. Se non si abbandona l’idea della “difesa privata e violenta del proprio diritto”, il problema teorico dell’abuso del diritto nemmeno può porsi. Il problema si pone nel momento in cui l’ordinamento abbandona la consuetudine e avoca a sé la produzione del diritto imponendo il primato della legge.
Può illustrarci meglio questo che sembra essere il punto di partenza di tutto il ragionamento giuridico svolto nella monografia?
La vis di ogni potere privato, inteso come contenuto di un diritto e, in particolare, l’idea della forza illimitata, che era ben riconoscibile nell’antica Roma nello ius vitae ac necis del pater familias e nella manus iniectio del creditore insoddisfatto è in minima parte presente nel modo illimitato di concepire l’esercizio del diritto individuale nei sistemi giuridici successivi.
Alla fine del ‘700, l’esigenza di garanzia dei diritti ha dato centralità alla legge scritta rispetto al diritto consuetudinario, incentrato sulla normalità dei rapporti giuridici, ma ha sentito subito la necessità di trovare dei temperamenti all’uso di un diritto di fonte legislativa, che non poteva trovare più in tale “normalità” un sicuro criterio oggettivo di conformazione del potere privato.
Sicché già negli artt. 6 e 7 della dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino nella Costituzione della Repubblica Francese del 22 agosto 1795 veniva distinto chi «viola apertamente le leggi» da «chi senza infrangerle le elude con freddezza ed astuzia, ferendo gli interessi di tutti e rendendosi così indegno della loro benevolenza e della loro stima».
È nata così, contemporaneamente all’affermarsi del primato della legge, la necessità di un rimedio all’uso distorto del diritto soggettivo di fonte legislativa, per non accordargli la protezione giuridica dello Stato.
II. L’originalità rispetto agli studi già esistenti e che potrebbero essere definiti “classici” (Giorgianni, Natoli, Gambaro, Bianca, Rescigno) è chiaramente rivelata sin dal titolo, che racchiude e condensa l’idea che l’abuso del diritto va visto non come un limite immanente, connaturato al diritto soggettivo, “interno” alla sua struttura, alla forma o ai contenuti del diritto, ma come un limite esterno che promana dal “diritto altrui” e origina un dovere giuridico di rispetto ad esso correlato. Lei sostiene come sia “fondamentale comprendere che assume rilevanza l’interesse “altrui”, “esterno al soggetto agente”, che in quanto tale “non può fungere da limite interno del potere stesso, perché non fa parte della struttura del potere al momento dell’iniziale coesistenza giuridica del potere e di un dovere siffatto” ovvero che “Tra limite e dovere c’è una differenza fondamentale; il secondo è qualcosa di più di un limite, perché ha un contenuto attivo “.
Ci può illustrare meglio questa differenza tra limite e contenuto attivo?
Il ricorso all’abuso del diritto si è affermato come necessario temperamento dei modi di uso di ogni diritto in contrapposizione concreta a interessi legittimi di diritto privato, nei casi di conflitto concreto tra il potere privato, esercitato in forza della norma attributiva del diritto soggettivo che lo contiene, e il dovere di solidarietà, dettato da una norma costituzionale che ha carattere precettivo e non solo programmatico e che ha la sua radice più forte nel principio di uguaglianza tra diritti in conflitto.
Si tratta di un temperamento che, al di là del generico e insufficiente riferimento al carattere sociale di ogni diritto, deve trovare nell’attenta descrizione giurisprudenziale delle forme del dovere giuridico di solidarietà, il rispetto effettivo del principio di uguaglianza e, quindi, la strada più oggettiva che consente di conformare a tali forme le singole modalità di esercizio di un potere o di una facoltà inutilmente lesive del diritto altrui.
L’interesse altrui fa parte del contenuto del dovere, tuttavia presenta un carattere di elevata genericità nella fase di costituzione e attribuzione del potere privato, sicché non può fungere da limite interno al potere stesso, perché non fa parte della sua struttura al momento dell’iniziale coesistenza giuridica del potere attribuito all’agente e del dovere, che contiene appunto l’interesse altrui.
Quest’ultimo ha bisogno, molto spesso, di eventi determinativi, che permettano la specificazione del valore dell’azione realizzatrice del dovere della sua tutela, puntualizzandosi su soggetti individuali, cioè su singole persone portatrici di interessi reali, che consentono di definire, solo dopo il prodursi di tali eventi concreti, in modo preciso, il criterio effettivo di conformazione dei comportamenti del titolare del potere, durante le articolate fasi di esercizio del diritto.
Salvo che un chiaro limite interno non sia espressamente indicato nella norma e tramite essa nel titolo costitutivo del diritto, in tutti gli altri casi - quindi in modo generale - il principio di uguaglianza e il dovere di solidarietà si posizionano all’esterno della fattispecie parziale di esercizio di un diritto. Possiamo parlare di abuso del diritto, quindi, per la violazione di un limite o di un dovere che originariamente è esterno al diritto, perché si riferisce ad un valore che viene specificato soltanto nel corso della vita del rapporto giuridico concreto tra chi esercita il suo potere privato e il terzo portatore di un interesse privato in conflitto.
Infatti, la norma non pone solo dei limiti all’esercizio di un diritto, bensì anche dei doveri ad esso connessi (cfr. l’art. 832 cod. civ.); l’indeterminatezza iniziale di limiti e doveri, come il dovere di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., al momento della coesistenza col diritto sorto in capo al soggetto titolare, e il fatto che essi non costituiscono la ragione (o una delle ragioni) in considerazione della quale la norma attribuisce quel diritto al soggetto collocano i medesimi limiti e doveri al di fuori della struttura costitutiva del diritto, sicché rimangono esterni alla sua fattispecie giuridica parziale.
I doveri, anche sotto forma di oneri, a differenza dei limiti, hanno un contenuto attivo, perché impongono una condotta cioè la scelta tra più modalità di azione, che permette di realizzare e salvaguardare il valore indicato in modo precettivo dalla norma all’agente.
Più è elevata l’importanza del valore (si pensi al livello in cui va collocato il valore della persona umana, sotto il profilo della dignità e della salute), più è intenso e preminente il dovere giuridico della sua tutela, imposto da una norma in base agli eventi determinativi con i quali l’agente si confronta in concreto.
III. Veniamo al profilo della ricostruzione dommatica della figura giuridica. Lei sostiene che, affinché possa configurarsi, l’abuso del diritto richiede sempre la violazione di un preciso dovere giuridico imposto da una norma, che però protegge un interesse che è estraneo alla fattispecie costitutiva del diritto esercitato. Ciò porta ad affermare che si risolve in una figura unitaria di secondo grado: è necessaria una doppia qualificazione del contegno come esercizio del diritto e violazione del dovere.
Può illustrarci cosa intende quando fa riferimento alla necessità di questa doppia qualificazione?
Ciò che rileva nella fattispecie dell’abuso è il pericolo di danno al diritto altrui, per la violazione oggettiva (da parte del soggetto agente che esercita il potere) del dovere di tutelare l’altrui interesse, che rischia di essere inutilmente compresso o addirittura soppresso da siffatta attività. Tale dovere di tutela, non legato alla ratio della norma attributiva del potere a quel soggetto, rimane estraneo alla fattispecie del diritto soggettivo esercitato. Questi risulta integrata in modo indipendente come fattispecie parziale, per esempio, nei riguardi dei terzi che non vengono lesi. Ma il riscontro concreto dell’avvenuta violazione del dovere di solidarietà e del diritto altrui si presenta come un elemento negativo, che si colloca all’esterno di detta fattispecie giuridica parziale del diritto esercitato, sicché l’effetto che normalmente ne sarebbe derivato, non può prodursi, atteso che le concrete modalità di esercizio di quel diritto lo rendono immeritevole di protezione giuridica.
L’abuso del diritto è riconoscibile, quindi, in una qualificazione giuridica di secondo grado, in base alla fattispecie completa composta dalla ordinaria fattispecie del diritto esercitato (costituita dagli elementi oggettivi e soggettivi dettati dalla norma attributiva) più l’elemento estraneo a questa, consistente nella violazione del dovere di tutela dell’interesse altrui, che gli eventi determinativi intervenuti (come la stessa libera scelta di particolari modalità concrete, che di fatto interferiscono con esso) hanno specificato.
Vi sono pertanto due norme, due fattispecie, due qualificazioni giuridiche. La norma di tutela del diritto di chi agisce e quella che tutela il diritto altrui.
Vi è la fattispecie parziale di esercizio del diritto e la fattispecie completa, che contiene la prima più l’elemento ad esso esterno, che viene specificato in base alla violazione del limite o del dovere di tutela attivo dell’interesse altrui, che non ha costituito né ha fatto parte della ragione di attribuzione del potere al titolare del diritto esercitato.
L’istituto permette sia la qualificazione giuridica in termini di «esercizio del diritto», che mantiene in ogni caso la sua validità ed efficacia giuridica verso i terzi non lesi ingiustamente, sia la qualificazione giuridica complessiva di “abuso del diritto”, che ha rilevanza limitata al terzo, il cui interesse doveva essere tenuto in considerazione e salvaguardato dall’agente: questi ha scelto modalità sproporzionate e irrazionali, lesive o pericolose della posizione giuridica di un terzo, con la conseguenza ordinaria dell’inefficacia relativa dell’atto o degli atti posti in essere e della possibilità, per il terzo il cui interesse è leso o messo in pericolo, di esperire quantomeno un’azione inibitoria di ulteriori atti lesivi.
IV. Nel libro si sostiene che l’eventuale abuso è riferito sempre ad un potere in senso lato, anche – ma non solo - quando questo costituisce contenuto di un diritto soggettivo, sottolineando che poteri giuridici sono anche i poteri pubblicistici e gli interessi legittimi.
Nel diritto amministrativo l’esigenza di tutela dell’interesse altrui è però connaturata alla struttura del potere, è immanente, non esterno alla costruzione del potere giuridico.
Si può ugualmente ricostruire l’abuso del diritto come figura generale o nel diritto amministrativo la figura è surrogata da quella dell’eccesso di potere?
Sono convinto che anche nel diritto pubblico vi sono forme di abuso del diritto inteso in senso stretto, laddove l’interesse altrui non sia stato preso in considerazione dalla norma come ragione dell’attribuzione del potere giuridico al soggetto agente, sicché la lesione o messa in pericolo di tale interesse costituisce elemento esterno alla fattispecie giuridica parziale di esercizio del potere, come nel caso già qualificato in termini di “abuso del diritto” dalla Corte costituzionale, con la sentenza del 23 aprile 1998 n. 140, che ha considerato atto arbitrario del pubblico ufficiale quello posto in essere con modi maleducati, aggressivi, vessatori, inurbani ed arroganti, poiché l’atto da lui compiuto, pur essendo sostanzialmente legittimo, viene compiuto con modalità scorrette, offensive o comunque sconvenienti, in quanto la convenienza e l’urbanità dei modi, esplicitamente imposte a determinate categorie di pubblici ufficiali, debbono ritenersi doverose finanche in difetto di esplicita disposizione legislativa, ponendosi come «limite esterno» ad ogni potere giuridico, derivante direttamente dalla necessità giuridica di tutelare la dignità della persona altrui.
V. Volendo scegliere una frase o una espressione in cui condensare i contenuti dell’intero lavoro, mi verrebbe in mente quella che compare in apertura del lavoro, secondo la quale «Il diritto a volte è come un’arma carica. E’ necessaria ogni cautela quando la si impugna per farne uso. Non ogni modalità di utilizzo è consentita».
Il concetto ritorna ben esemplificato a metà dell’opera, quando afferma che «se ho due strade per esercitare il mio diritto e, seguendone una, ledo il diritto e la libertà altrui e con l’altra no, ho l’onere di scegliere la seconda strada» e mi pare ripreso anche nelle conclusioni, con la citazione del Presidente Mariano D’Amelio: «il diritto non è un concetto assoluto. Esso è proporzione e come tale ha un limite. Oltre questo limite non è più operante come forza protetta dall’autorità dello Stato e se agisce e cagiona danno ad altri, non merita più protezione».
Il principio di proporzionalità, in quanto funzionale al sindacato sull’esercizio di poteri discrezionali, di scelta tra condotte astrattamente possibili, può essere impiegato al di fuori dell’ambito elettivo del diritto pubblico e consentire la costruzione di una figura teorica generale al di là delle singole specificità settoriali?
Ritengo che il livello di complessità e di maturità del nostro sistema giuridico ponga il principio di proporzionalità in tutte le forme di potere, privato o pubblico, che vengono esercitate spesso in delicate situazioni di contrapposizione di interessi.
Il parametro della proporzionalità, sia quando deve essere valutato di volta in volta sia quando deve reputarsi esistente in base a precise circostanze legalmente previste, è immanente in tutto l’art. 52 cod. pen. sulla legittima difesa dei propri diritti, nel caso estremo dell’impossibilità di un tempestivo intervento delle autorità preposte.
Nel diritto pubblico il principio di proporzionalità è uno dei criteri più importanti per misurare la legittimità delle scelte del soggetto agente e trova le più evidenti declinazioni nelle forme di eccesso di potere riconosciute dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale.
L’abuso del diritto altrui è, pertanto, l’istituto nel quale, in modo ormai sempre più evidente, trova applicazione detto principio, che permea ogni modalità di esercizio di un potere.
A tale conclusione, si perviene non solo all’esito di un esame, con gli strumenti della dommatica, dei vari fenotipi posti dall’ordinamento nei vari settori (pensiamo all’artt. 2 e 3 Cost, all’art. 54 della Carta di Nizza, all’art. 833 cod. civ., agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., alla particolare disciplina dell’abuso in materia tributaria, ai casi di abuso riconosciuti in modo sempre più attento dalla giurisprudenza nell’ambito del processo civile e del processo penale), bensì guardando gli stessi con la lente del genotipo: la figura formale di qualificazione giuridica dell’abuso del diritto, la cui caratteristica specifica consiste proprio nella doppia qualificazione del contegno, come esercizio del diritto e, al tempo stesso, come violazione del dovere di solidarietà, che impone all’agente di tutelare l’interesse altrui. Due qualificazioni, quindi, che formalmente convivono e possono essere messe a fuoco con una doppia fattispecie, una parziale e l’altra completa.
Dubbi di legittimità costituzionale sul sistema elettorale dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura secondo il "ddl Bonafede"*
di Antonio Mondini
Sommario: 1. Premessa - 2. Il nuovo sistema elettorale dei membri togati - 3. I dubbi di legittimità costituzionale.
1. Premessa
Il disegno di legge di iniziativa governativa presentato alla Camera il 28 settembre 2020 (atto Camera 2681) contiene disposizioni di delega al governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare e disposizioni immediatamente precettive in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura.
Queste ultime disposizioni, di modifica della legge n.195 del 1958 (recante Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), sono contenute nel Capo IV del disegno, composto dagli articoli da 20 a 38.
La riforma incide sulla composizione, sull’organizzazione (art. 20-27), sulla costituzione, cessazione e scioglimento del Consiglio (articoli da 28 a 34), sulla posizione giuridica dei suoi componenti e sul loro ricollocamento in ruolo (articoli 35. 36 e 37). Il capo si chiude con le disposizioni per l’attuazione e il coordinamento del nuovo sistema elettorale (articolo 38).
2. Il nuovo sistema elettorale dei membri togati
L’articolo 29 del ddl., sostituendo l’articolo 23 della legge 24 marzo 1958, n.195, introduce un nuovo sistema di elezione dei componenti togati, il cui numero è aumentato da 16 a 20 [1].
L’attuale art.23 stabilisce che i 16 membri togati sono eletti con criterio maggioritario a turno unico, in tre collegi nazionali: uno per consiglieri di Cassazione e i magistrati della Procura generale presso la Corte di Cassazione, in cui sono eletti 2 componenti; uno per i magistrati con funzioni giudicanti di merito in cui sono eletti 10 componenti, ed uno per i magistrati con funzioni requirenti di merito in cui sono eletti 4 componenti [2].
Ogni elettore può esprimere una sola preferenza per ciascuna delle tre categorie.
Con il nuovo art. 23, in luogo dei tre collegi elettorali nazionali per categorie funzionali e ad elettorato attivo aperto (nel senso che, come appena detto, ogni elettore vota per i candidati di ciascuna delle tre categorie), vi sono diciannove collegi elettorali -due speciali e diciassette territoriali- per categorie definite solo dall’appartenenza al collegio e ad elettorato attivo chiuso (nel senso che ogni elettore vota solo per i candidati del proprio collegio).
Più in dettaglio.
Dei due collegi speciali, uno è composto dai magistrati della Corte di Cassazione, della Procura generale presso la stessa Corte e del Tribunale superiore delle acque pubbliche. In questo collegio sono eletti due consiglieri. L’altro è costituito dai magistrati della corte d’appello di Roma, della DNA, dell’ufficio del massimario e dai magistrati fuori ruolo. Tra i magistrati di questo collegio è eletto un consigliere.
I diciassette collegi territoriali sono individuati con decreto del ministro della giustizia almeno tre mesi prima del giorno fissato per le elezioni. In ogni collegio territoriale è eletto un consigliere.
In luogo del vigente sistema maggioritario a turno unico, viene introdotto un sistema maggioritario a doppio turno; come oggi, vi sono candidature individuali e non di lista.
L’elettore esprime fino a quattro preferenze progressivamente ordinate e numerate, con obbligo di alternanza di genere.
Nei collegi diversi da quello di Cassazione, nel quale nessuno può essere eletto al primo turno, viene eletto il candidato che ottiene almeno il sessantacinque per cento dei voti di preferenza validamente espressi al primo posto sulla scheda.
Se nessun candidato ha ottenuto al primo turno la maggioranza necessaria, il secondo giorno successivo al completamento delle operazioni di scrutinio, si procede al secondo turno a cui accedono i quattro candidati che al primo turno hanno ottenuto il maggior numero di voti di preferenza calcolati attraverso un meccanismo di percentuali da applicarsi in riduzione per voti indicati sulla scheda al secondo, terzo e quarto posto [3].
Al secondo turno ciascun elettore può esprimere sino a due preferenze sempre con alternanza di genere. Risulta eletto il candidato che ha ottenuto più voti. I voti di seconda preferenza sono computati con una riduzione percentuale.
Per il collegio della Cassazione il sistema è diverso perché nessuno è eletto al primo turno. I quattro magistrati che al primo turno ottengono il maggior numero di voti passano al secondo turno. Anche qui, con il ridetto meccanismo dei coefficienti di riduzione per i voti di seconda, terza e quarta preferenza. Solo al secondo turno si ha l’elezione dei due candidati. I voti di preferenza indicati al secondo posto nella scheda sono percentualmente ridotti [4].
3. I dubbi di legittimità costituzionale
Il sistema elettorale definito dal ddl. di riforma pare si esponga a dubbi di legittimità costituzionale. In più numerosi hanno riferimento all’art.104, comma 4, prima parte, secondo cui i componenti togati “sono eletti … da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie”.
Riguardo a questa disposizione valgono tre ordini di considerazioni.
Il primo: l’elettorato attivo è riferito a tutti i magistrati. Tutti concorrono ad eleggere i consiglieri [5]. La categorizzazione è riferita solo all’elettorato passivo. In riferimento alla previsione contenuta nella legge istitutiva del Consiglio per cui ciascun magistrato poteva votare solo per i componenti appartenenti alla propria categoria (l. 24 marzo 1958 n. 195, art. 23, terzo comma) ([6]), la prevalente dottrina, fedele alla lettera e all’interpretazione storica della disposizione, ritenne la limitazione illegittima([7]); l’opinione contraria espressa dalla Corte costituzionale con sentenza 12 dicembre 1963, n.168([8]), è basata su uno (pseudo)argomento in conflitto con la lettera della disposizione e con la volontà dei costituenti: “se è vero che la Costituzione prevede la distinzione per categorie con riferimento soltanto all’elettorato passivo, da ciò non può derivare, come si assume, la illegittimità delle norme di attuazione per il fatto che agli stessi criteri di ripartizione si è attenuto per la formazione dei collegi elettorali. Giacché la rispondenza fra questi e le condizioni di eleggibilità (come si è del resto già rilevato nella ricordata sentenza 111 del 1963) non può ritenersi ingiustificata, anche in questo caso, dato lo speciale carattere dell’organo elettivo, preposto dalla Costituzione al governo della Magistratura e per garantirne l’indipendenza”([9]).
Il secondo ordine di considerazioni è il seguente: il riferimento costituzionale a “le varie categorie”, come sottolineato in dottrina, impedisce al legislatore di stabilire che magistrati appartenenti a determinate categorie funzionali non possono essere eletti e siano così esclusi dal Consiglio ([10]); nella sentenza 10 maggio 1982, n.87 ([11]), la Corte rilevò (punti 4 e 5 della motivazione) che il riferimento dell’art.104 alle categorie non esaurisce il proprio significato in quell’impedimento ma vincola, in positivo, il legislatore a dare un qualche rilievo all’articolazione degli eleggibili per categorie onde possa essere soddisfatta l’ “esigenza che all’esercizio dei delicati compiti inerenti al governo della magistratura contribuiscano le diverse esperienze di cui le singole categorie sono portatrici”.
Infine, il terzo ordine di considerazioni: il concetto di categoria non è precisamente determinato; dal combinato disposto degli artt.104, comma 4, e 107, comma 3, Cost. (secondo cui i magistrati si distinguono tra loro «soltanto per diversità di funzioni») risulta che debba essere legato alla funzione ([12]) ma ciò non consente di superare l’indeterminatezza giacché il fuoco si sposta sul concetto di funzione e, come rilevato dalla Corte Costituzionale, con la già citata sentenza n.87 del 1982 (punto 5 della motivazione), “… stabilire quali e quante siano le categorie dei magistrati destinate a riflettersi sulla composizione del Consiglio superiore…” spetta al legislatore. Tuttavia “il legislatore non è completamente libero, senza doversi attenere a criteri di sorta, costituzionalmente rilevanti”. Il legislatore deve infatti, in primo luogo, dare rilievo alla fondamentale distinzione, costituzionalmente imposta, fra legittimità e merito ([13]) e, oltre, tener conto dell’imprescindibile correlazione, “desumibile da tutto il complesso dei lavori preparatori svoltisi in seno alla Costituente”, delle singole categorie “alle classificazioni dei magistrati configurate dalle leggi che concorrono a formare la normativa sull’ordinamento giudiziario”; in dottrina, analogamente, è stato evidenziato che la scelta del legislatore è “subordinata al generale principio di ragionevolezza, nel senso che comunque dovrà fare riferimento a categorie che assumono un rilievo sulla base dei principi costituzionali o delle norme sull’ordinamento giudiziario” ([14]).
Alla luce di quanto precede appaiono di dubbia legittimità:
l’intero sistema di articolazione dell’elettorato attivo per categorie (corrispondenti a quelle dell’elettorato passivo) in conseguenza del quale gli appartenenti al collegio di legittimità possono eleggere solo due tra loro e non possono votare per gli appartenenti alla categoria dei magistrati di merito né per gli appartenenti a quella dei magistrati del collegio speciale riservato ai magistrati collocati fuori ruolo, ai magistrati dell’ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione, ai magistrati della corte d’appello di Roma e della procura generale presso la medesima corte e ai magistrati della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo; gli appartenenti al predetto collegio speciale non possono votare per altri che per gli appartenenti al proprio collegio; i magistrati dei 17 collegi elettorali territoriali non possono contribuire all’elezione dei due consiglieri del collegio speciale di legittimità né all’elezione del consigliere dell’altro collegio speciale. Il dubbio non è certo escluso dalla ricordata sentenza 168 del 1963. Essa costituisce un precedente ingombrante. Il riferimento, tuttavia, non può che essere alla Carta non ad una errata interpretazione della Carta;
il comma 3 del nuovo articolo 23 della l.195/58, secondo cui un collegio è costituito dai magistrati collocati fuori ruolo e dai magistrati della corte d’appello di Roma e della Procura generale presso la medesima Corte, dai magistrati dell’ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione, dai magistrati della corte d’appello di Roma e della Procura generale presso la medesima Corte e dai magistrati della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Come si legge nella relazione di accompagnamento al ddl, questo collegio è stato costruito in considerazione di “peculiarità dimensionali e di composizione del distretto della corte d’appello di Roma e degli uffici nazionali in esso compresi”, sulla base di “ragioni di omogeneità dimensionali” rispetto al collegio di legittimità. La previsione normativa in esame individua una differenziazione fra magistrati non derivante da diversità di funzioni. In altri termini, tale previsione non ha riferimento ad alcuna categoria funzionale, ad alcuna classificazione “che assuma un rilievo sulla base dei principi costituzionali o delle norme sull’ordinamento giudiziario”;
la eliminazione della differenziazione della categoria dei pubblici ministeri. Riguardo alla categoria dei magistrati di cassazione, la Consulta, nella sentenza n.87 del 1982, sul richiamo alla coeva sentenza n.86, ebbe ad affermare trattarsi di categoria della quale il legislatore ordinario “non può disporre” perché essa ha un preciso rilievo nella Carta. Mutati i riferimenti a quest’ultima -per i magistrati di legittimità la Corte evocò il disposto degli artt. 106, comma 3, e 135, comma 1 e 2, Cost., art. 111 Cost.; per la funzione requirente potrebbe evocarsi il disposto degli artt.107, ultimo comma, e 104, comma 3, l’affermazione di principio dovrebbe valere anche per la categoria dei magistrati del pubblico ministero ([15]).
Il nuovo articolo 23 della l.195 del 1958 pare esporsi ad un ulteriore dubbio di legittimità nella parte in cui stabilisce che i collegi elettorali territoriali sono individuati, prima di ogni elezione, dal ministro della giustizia. Per la precisione ai sensi dei riformati commi 4 e 5, il ministro, con il doppio limite per cui ogni collegio deve comprendere in via tendenziale un diciassettesimo del corpo elettorale e deve essere formato, “ove possibile”, nel rispetto del principio di continuità territoriale, può definire i collegi anche accorpando “più distretti di corte d’appello, ai quali, ove necessario sono sottratti o aggregati i magistrati appartenenti a uffici di uno o più circondari”[16]. Il potere ministeriale di modificare la mappa elettorale si traduce nel potere di influire sulla composizione, e quindi potenzialmente sull’attività, dell’organo garante dell’autonomia ordinamentale della magistratura [17]. Il dubbio si pone in riferimento all’art.104 della Carta, il cui primo comma enuncia il principio per il quale la magistratura costituisce ordine autonomo da ogni altro potere dello Stato [18] [19].
*L’articolo è stato pubblicato su judicium il 22 gennaio scorso, http://www.judicium.it/wp-cont...
[1] L’art. 20 del disegno di legge stabilisce altresì che i membri eletti dal Parlamento salgono a 10, in luogo degli attuali 8. I componenti elettivi si uniscono al Presidente della Repubblica che presiede il Consiglio (art.104, comma 2 Cost.) e al primo presidente e al procuratore generale della Corte di cassazione (art. 104, comma 3 Cost.).
[2] Ai sensi dell’art.24 della l. 195/1958 come modificato dall’art.6 della l. 28 marzo 2002, n.44, l’elettorato attivo è riconosciuto a tutti i magistrati con la sola esclusione degli uditori giudiziari ai quali, al momento della convocazione delle elezioni, non siano state conferite le funzioni giudiziarie, e dei magistrati che, alla stessa data, siano sospesi dall’esercizio delle funzioni per ragioni disciplinari. La norma non è stata aggiornata. A seguito della l. 30 luglio 2007, n.111, l’espressione “uditori giudiziari ai quali … non siano state conferite le funzioni giudiziarie”, deve essere intesa come riferita ai magistrati ordinari in tirocinio. L’elettorato passivo è riconosciuto a tutti i magistrati tranne che a coloro che al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie o siano sospesi dalle medesime per ragioni disciplinari, ai magistrati di tribunale che al momento della convocazione delle elezioni non abbiano compiuto almeno tre anni di anzianità nella qualifica; ai magistrati che al momento della convocazione delle elezioni abbiano subito sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento, salvo che si tratti della sanzione della censura e che dalla data del relativo provvedimento siano trascorsi almeno dieci anni senza che sia seguita alcun’altra sanzione disciplinare; ai magistrati che abbiano prestato servizio presso l’Ufficio studi o presso la Segreteria del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni; ai magistrati che abbiano fatto parte del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni.
[3] Nella relazione di accompagnamento si legge che i voti sono “diversamente «pesati» secondo l’ordine di indicazione del voto di preferenza sulla scheda”. E’ stato detto (Dal Canto, La riforma elettorale del CSM, relazione Seminario Annuale Associazione “GRUPPO di PISA”, 23 ottobre 2020, Il Consiglio Superiore della Magistratura: snodi problematici e prospettive di riforma, in www.gruppopisa.it) “che il meccanismo con il quale vengono contati i voti espressi a favore dei candidati, sia al primo che al secondo turno, caratterizzato dal fatto di attribuire agli stessi un peso via via degradante a seconda del posizionamento nell’ordine delle preferenze, sembra ideato appositamente per rendere più difficile – ma non impossibile – ogni calcolo a monte: la sensazione che si ricava è che, pur di sbarrare la strada all’azione delle correnti – con accorgimenti che probabilmente si riveleranno inefficaci – si sia preferito approntare un sistema la cui “cifra” più caratterizzante è la sua “indecifrabilità”, senza una vera scelta di campo, senza una vera visione: per dirla con una battuta, un’idea non così lontana da una sorta di “sorteggio” travestito”. Se così fosse, il nuovo sistema elettorale si porrebbe in contrasto con il comma 4 dell’art.104 della Costituzione, che, con il prevedere che i membri togati (non di diritto) sono “eletti da tutti i magistrati tra gli appartenenti alle diverse categorie”, esclude ogni forma di sorteggio (sul punto, v. oltre allo stesso Dal canto, op. cit.; Zanon Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2019, 5 ed., pag.40 s.; Tamburino, CSM, Sistema elettorale, Sezione disciplinare, in Giustizia Insieme, n.1-2/2011, 105; Luciani, Il sistema di elezione dei componenti togati del CSM, Relazione al Convegno “Voltare pagina. La riforma del sistema elettorale del CSM”, Roma, 23 giugno 2020, in www.questionegiusitizia.it2020; Rossi, Il punto (provvisorio) sui progetti di riforma del Consiglio superiore della magistratura, in Questione giustizia, n. 1, 2002, pag. 41 e ss.; Scarselli, Il Consiglio superiore della magistratura, in Dieci anni di riforme dell’ordinamento giudiziario (a cura di Romboli), in Foro it., 2016, parte V, col.157; Santalucia, I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, in www.giustiziainsieme.it. Con particolare riguardo all’ipotesi di previsioni introduttive di sorteggio “a monte” della votazione, ad un sistema cioè in cui l’elezione avvenisse tra un certo numero di sorteggiati, v. in particolare, D’Amico, I difetti dell’attuale sistema elettorale: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura, in Migliorare il CSM nella cornice costituzionale (a cura di Bernabei e Filippi), Padova, 2020, pag. 37: “Non vi è dubbio – almeno a mio parere – che siffatte previsioni, se fossero approvate nei termini anzidetti, si esporrebbero al rischio di essere dichiarate incostituzionali. A poco varrebbe osservare che l’art. 104 Cost. fa un generico riferimento, quanto all’elettorato passivo, agli «appartenenti alle varie categorie» e non a “tutti”, dovendosi piuttosto ritenere che questa previsione non possa non essere interpretata in senso onnicomprensivo, cioè di ritenere eleggibili tutti i magistrati e non solo una percentuale estratta a sorte”.). In realtà, la differenziazione del “peso” delle preferenze non ha niente a che fare con la sorte. Il candidato risulta eletto o non, a seconda del numero delle preferenze complessivamente espresse dai votanti. Con un metodo di ponderazione prestabilito, le preferenze, in base all’ordine in cui sono espresse, hanno un diverso valore.
[4] Quanto ai requisiti di elettorato attivo e passivo, il ddl. lascia i primi immodificati. Interviene invece sui secondi. Con l’art.30, modifica l’art.24 della l.195/58 sotto tre profili: innalzando l’anzianità minima per conseguire il diritto di elettorato passivo dagli attuali tre anni dalla attribuzione delle funzioni di magistrato di tribunale alla “terza valutazione di professionalità”: introducendo un limite di sei mesi per l’ineleggibilità dei magistrati che abbiano prestato servizio presso l’ufficio studi o la segreteria del Consiglio superiore della magistratura; introducendo una nuova ipotesi di ineleggibilità per coloro che fanno parte del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura o ne hanno fatto parte nel quadriennio precedente alla data di convocazione delle elezioni.
[5] Le limitazioni sono quelle previste dall’art.24 della l.195 del 1958, riportato alla precedente nota 2. La esclusione dall’elettorato attivo dei magistrati in tirocinio è conseguente al fatto che non essi non esercitano funzioni. Non pare quindi che detta esclusione sollevi dubbi di legittimità. Lo stesso può dirsi riguardo riguardo alla esclusione dei magistrati sospesi dalla funzioni.
[6]Ai sensi dell’art.23, primo comma, i componenti togati erano così ripartiti in base alla loro categoria: sei magistrati della Corte di cassazione (dei quali due con ufficio direttivo); quattro magistrati di Corte d’appello; quattro magistrati di tribunale. Vi erano: un collegio nazionale dei magistrati di cassazione (al tempo, precisamente, con qualifica di magistrato di cassazione anche se non con effettive funzioni. La illegittimità costituzionale dell’art. 23, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195, come sostituito dall’art. 3 della legge 22 dicembre 1975, n. 695, nella parte in cui prevedeva che i posti riservati ai magistrati di cassazione potessero essere assegnati a “magistrati che abbiano conseguito la rispettiva nomina, ancorché non esercitino le rispettive funzioni”, fu dichiarata con la sentenza 10 maggio 1982, n.87); quattro collegi territoriali dei magistrati di appello e quattro collegi territoriali dei magistrati di tribunale (artt. 25 e 26).
[7]Apponi, L’indipendenza interna ed esterna, in Magistrati o funzionari? (a cura di Maranini), Milano, 1962, pag. 20, s. “Ora è evidente … che l’elettorato attivo è costituito da « tutti i magistrati », per cui tutti i magistrati debbono eleggere tutti i magistrati eleggibili nel Consiglio superiore; mentre «gli appartenenti alle varie categorie» sono l’elettorato passivo. La legge sul Consiglio superiore, invece, comincia con il rompere la pariteticità tra le categorie dei magistrati”; Bonifacio Giacobbe, La magistratura, in Commentario della Costituzione, (a cura di Branca), Tomo II (artt.104-107), Bologna-Roma, 1986, sub art. 104, pag.63; Viesti, Gli aspetti incostituzionali della legge sul Consiglio superiore della magistratura, in Rassegna di diritto pubblico, 1958; Amato, L’uguaglianza dei giudici e l’indipendenza della magistratura di fronte alla Corte Costituzionale, nota alla sentenza -di cui subito nel testo- n.168 emessa dalla Corte Costituzionale il 23 dicembre 1963, in Democrazia e diritto, pag.137 s. il quale dopo aver sottolineato che “la lettera dell’art. 104, il quale prevede l’elezione ad opera di «( tutti » i magistrati … suggerisce, come sua ovvia implicazione, l’idea di un corpo elettorale unitario e indiscriminato”, espone che “Ciò è rafforzato … dagli stessi lavori preparatori dai quali risulta che la formulazione poi adottata per questa parte dell’art. 104 venne preferita ad una diversa, la quale avrebbe invece suggerito la settorializzazione degli elettori, poi ripresa dal legislatore ordinario. Unitamente al testo della Commissione – «gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari secondo le norme dello ordinamento giudiziario)- vennero posti in votazione due emendamenti: uno (emendamento Scalfaro ed altri), che sostituiva «secondo le norme dell’ordinamento giudiziario» con «fra gli appartenenti alle diverse categorie; l’altro emendamento (Targetti-Amadei), che, oltre a ciò, precisava “in rappresentanza di ciascuna di queste” Il Presidente, nel proporli all’Assemblea, sottolineò correttamente che l’emendamento Targetti-Amadei poneva condizioni sia per l’elettorato passivo che per quello attivo; ed in effetti, l’aggiunta sopra riferita comportava necessariamente che ogni magistrato fosse ammesso a votare per i rappresentanti della sua categoria soltanto. L’Assemblea, fortunatamente, respinse l’emendamento Targetti-Amadei, e subito dopo, approvò quello Scalfaro, che divenne cosi parte dell’art.104”; Mazziotti, Questioni di costituzionalità della legge sul Consiglio Superiore della Magistratura, nota a Corte Costituzionale n.168/1963, cit. in Giur. cost., 1963, II, pag. 1644 e ss., in part.1661 s.; contra Capaccioli, Forma e sostanza dei provvedimenti relativi ai magistrati ordinari, nota a Corte Cost.168/1963, cit, in Riv. it. dir. proc. pen., 1964, 265, sulla base della apodittica e fugace affermazione per cui, riguardo alla ripartizione o non ripartizione dell’elettorato attivo in categorie, “il legislatore ordinario godeva (e gode, in sede di eventuali modifiche) di una notevole sfera di discrezionalità applicativa e che la scelta che [il legislatore] ha fatto, con la legge del 1958, è una di quelle legittimamente possibili … il punto della suddivisione dell’elettorato in categorie o invece dell’unicità del corpo elettorale tocca la questione (di grande importanza) se si voglia evitare o invece conseguire il risultato di far dipendere l’intero esito delle votazioni (per gli eletti di tutte le categorie) dai soli magistrati di tribunale, che sono soverchianti per numero e per lo più maggiormente suscettibili di inquadramento organizzativo unitario ai fini elettorali, avrebbero presumibilmente influenza decisiva nell’ipotesi del corpo elettorale unico”; Torrente, voce Consiglio superiore della magistratura, voce dell’ Enciclopedia del diritto, vol. IX, Varese, 1961, p. 331.
[8] La sentenza è pubblicata, oltre che nelle Riviste citate alla nota precedente, in Foro it., 1964, I, 3 con nota di richiami; in Giust. civ., III, 1964, 3 e 30, con nota di Abbamonte; in Diritto e giurisprudenza, 1964, 50, con nota di Correale; in Giur. it, 1964, I, 1, 251; in Foro amm., 1964, I, 1, 74; in Giust. pen., 1964, I, 70 e in Temi nap., 1964, I, 3.
[9]Il virgolettato è tratto dal punto 6 della motivazione. Il conflitto con la lettera dell’art.104 comma 3, è evidente: il comma dice quello che dice e non solo non dice che i membri togati sono “eletti dalle varie categorie dei magistrati … tra gli appartenenti alle stesse categorie” né che“sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari votanti ciascuno per i componenti della propria categoria” (Apponi, ibidem, pag.21), ma riferisce la categorizzazione solo agli eleggibili dopo aver stabilito che “tutti” i magistrati eleggono i due terzi dei membri consiglio. Il conflitto con la volontà del costituente emerge dai lavori dell’Assemblea, su cui v. Amato, L’uguaglianza dei giudici e l’indipendenza della magistratura di fronte alla Corte Costituzionale, cit. alla precedente n. 5, nonché Zanon Biondi, Il sistema costutizionale della magistratura, Bologna, 2019, quinta ed., pag. 63: “la Costituzione, nel riferirsi … [alle categorie], non voleva delineare un C.S.M. “corporativo” (quale risulterebbe da un’elezione nella quale i pubblici ministeri possono votare solo per i pubblici ministeri, i giudici per i giudici ecc.), imponendo essa di tenere conto della distinzione solo per ciò che riguarda l’elettorato passivo”. L’insostenibilità dell’affermazione fatta dalla Corte, dovuta al segnalato, irriducibile conflitto con la Carta, assorbe il rilievo per cui la seconda parte della frase riportata tra virgolette, che dovrebbe spiegare detta affermazione, è inidonea allo scopo data l’incomprensibilità, nel contesto, dell’espressione “speciale carattere” del Consiglio. Resta da osservare che con la sentenza 111 del 1963 lga Corte affrontò una questione del tutto diversa da quella della legittimità, rispetto all’art.104, comma 3, di una disposizione limitativa dell’elettorato attivo dei magistrati ordinari per l’elezione dei componenti del Consiglio Superiore. La questione era infatti quella della legittimità, rispetto al disposto dell’art.135, comma 1, della Carta secondo cui un terzo dei giudici costituzionali sono eletti dalle “supreme magistrature ordinaria e amministrative”, dell’art.2, lett.c), della legge 11 marzo 1953, n.87, che, col prevedere che del collegio per l’elezione del giudice costituzionale riservata alla Corte dei Conti fanno parte soltanto il presidente, i presidenti di Sezione, il procuratore generale, i consiglieri e i vice procuratori generali (tranne coloro tra essi che fossero in posizione di aspettativa o di fuori ruolo per esercitare funzioni non d’istituto), esclude dal collegio i primi referendari e i referendari della Corte medesima. La Consulta dichiarò la questione infondata sul motivo che la limitazione dell’elettorato attivo ai soli vertici della magistratura contabile era giustificata dall’ “alto compito” assegnato al collegio elettorale “di designare un terzo dei componenti della Corte costituzionale, l’organo a cui è affidato il compito di controllare la costituzionalità delle leggi e l’ordinata ed equilibrata convivenza degli organi costituzionali, tra i quali si suddivide l’esercizio della sovranità statale”. Aggiunse che la conformità all’art.135,comma1, di detta limitazione, legata a quell’alto, “gravoso” compito ed al ruolo della Consulta, trovava “conferma [nel]la norma contenuta nel secondo comma del medesimo art. 135 della Costituzione, strettamente collegata col primo, al quale dà e dal quale riceve luce, che, ispirata al medesimo intento, limita l’eleggibilità ai magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori, ai professori ordinari di università in materie giuridiche e agli avvocati dopo venti anni di esercizio: categorie, per prestigio ed esperienza, omogenee tra loro e con quelle che concorrono a costituire i collegi elettorali”. Dunque, mentre la sentenza 168/63 ha avuto ad oggetto una norma che introduceva una limitazione dell’elettorato attivo non assoluta ma corrispondente e correlata a categorie di eleggibili e a fronte di una disposizione costituzionale che riconosce l’elettorato attivo a “tutti i magistrati ordinari” e prevede categorie solo per gli eleggibili, la sentenza 111/63 ebbe ad oggetto una legge che, a fronte di una disposizione costituzionale limitativa dell’elettorato attivo alle supreme magistrature e seguita da altra disposizione costituzionale direttamente istitutiva di una limitazione “omogenea” per gli eleggibili, definiva gli elettori con assoluta esclusione di alcuni magistrati dalla partecipazione al collegio elettorale.
[10] Fiumanò, A proposito di un recente messaggio del Presidente della Repubblica, in Foro it., 1977, V, 192; Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia, 2017, fasc. 4.
[11] La sentenza è pubblicata in Foro it., 1982, I, 1497, con nota di Pizzorusso; in Giust. civ., 1982, I, 1697, con nota di Stella Richter; in Cons. Stato, 1982, II, 625; in Cass. pen., 1982, 893, con nota di Lattanzi; in Giur. it., 1982, I, 1473, con nota di Longo; in massima in Giur. it., 1983, I, 1, 1 con nota di Annunziata e in Giur. costit., 1982, I, 863.
[12] Bessone Carbone, Consiglio superiore della Magistratura, voce Digesto disc. pubb., aggiornamento 2012, che parlano di “categorie di stampo funzionale”.
[13] La sentenza n. 87 del 1982 richiama la coeva sentenza n.86 (punto 6 della motivazione). Per questo vincolo, in senso adesivo, in dottrina, Bonifacio Giacobbe, op.cit., pag. 59 s.: “Nel quadro della giurisdizione quale emerge dal disegno costituzionale … emergono esplicitamente due funzioni: quella di merito e quella di legittimità, collegate, l’una all’altra, dall’art.111 della Costituzione che impone il controllo della prima da parte della seconda, sul terreno appunto della ricerca della conformità a legge delle decisioni di merito”. La sentenza n.86/1982 è pubblicata unitamente alla sentenza n.87. Si richiamano le indicazioni di cui alla superiore nota 11.
[14] Zanon, Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, V ediz., Bologna, 2019, p.35 ss.
[15] V. infatti Bonifacio Giacobbe, op. cit., pag.60: “Una prima fondamentale distinzione, dunque, può essere affermata, coerentemente con il dettato costituzionale, tra merito e legittimità. D’altra parte, la stessa Costituzione assegna un ruolo autonomo alla funzione requirente come emerge in modo chiaro ed inequivoco dall’ultimo comma dell’art.107 ed in modo implicito dal terzo comma dell’art. 104 …. Conseguentemente, nel sistema costituzionale, la funzione requirente presenta una sua autonomia. Coordinando i dati dianzi reperiti sembra possa legittimamente affermarsi che, nella identificazione delle categorie di eleggibili, il legislatore ordinario debba procedere utilizzando la classificazione tra merito e legittimità e. nell’ambito di questa classificazione, tra funzione requirente e funzione giudicante”. A fronte di quanto precede non pare possa darsi rilievo alla frase contenuta nel punto 6 della motivazione della sentenza n.86 del 1982, secondo cui “la sola categoria funzionale di magistrati che assuma un preciso rilievo costituzionale” sarebbe quella dei magistrati di cassazione. L’affermazione si scontra con la realtà del dato normativo ed è il probabile frutto (errato) dell’avere la Corte esaminato il disposto della Carta nella prospettiva di stabilire se fosse o meno legittimo, rispetto agli artt. 97, primo comma, 105 e 107, terzo comma, l’art. 7 della legge 20 dicembre 1973, n. 831, che preveda “un sistema di nomina a magistrato di cassazione … caratterizzato dalla scissione dell’attribuzione della qualifica dalla assegnazione dei corrispondenti uffici”.
[16] Art. 23, comma 4 e 5.
[17]In base alla lettera del comma 4, il ministro, da un lato, non può aggregare ad un distretto o sottrarre da un distretto e quindi ad o da un collegio, singoli magistrati, dall’altro, può aggregare o sottrarre “uffici”. Quindi può traslare, ai fini dell’elezione, un ufficio giudicante di un tribunale da un distretto ad un altro distretto e lasciare l’ufficio requirente del medesimo tribunale nel distretto di appartenenza o viceversa. Il che potrebbe assumere notevole rilevanza in considerazione del fatto che dall’eliminazione della differenziazione tra la categoria dei magistrati giudicanti e quella dei magistrati requirenti, è probabile derivi, proprio nei collegi territoriali, una preponderanza delle candidature “forti” dei pubblici ministeri dovuta alla loro maggiore “esposizione mediatica” rispetto ai magistrati giudicanti.
[18]Nell’ambito della formulazione dell’art.104, comma 1, si è fatto riferimento al principio di autonomia e non anche a quello di indipendenza in adesione al rilievo di Bonifacio Giacobbe, op. cit., pag.10, 12, 13 s. e, in particolare, pag. 32 40, secondo cui i due principi, pur correlati, devono essere tenuti distinti dato che “mentre il primo si riferisce in via esclusiva alla magistratura, intesa nel suo aspetto organizzatorio (ordine), rappresentato dalla complessa articolazione (e distribuzione) dei giudici secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, e distingue – sarebbe improprio dire contrappone – cotesto ordine rispetto agli altri “ordinamenti” espressivi degli altri poteri dello Stato, il secondo -quello che si esprime attraverso la indipendenza – più che all’ordine nel suo complesso (la cui tutela rispetto agli altri poteri dello Stato risulta realizzata attraverso l’autonomia) concerne più specificamente la posizione del singolo giudice, nel concreto esercizio della giurisdizione”. Sul ruolo del Consiglio come organo garante della autonomia della Magistratura, in modo incisivo, Daga, Il Consiglio Superiore della Magistratura, Milano, 1973, passim e, in particlare, p.284: “L’art.104 della Costituzionale, dopo avere solennemente definito la magistratura un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, passa a dare immediatamente le norme fondamentali sulla struttura del C.S.M. Appare immediatamente chiaro come il Costituente abbia voluto configurare nel Consiglio Superiore l’organo cui è attribuito la concretizzazione del principio di autonomia ed indipendenza della Magistratura (strumentale all’indipendenza della funzione) dagli atri poteri dello Stato”; in termini, di recente v. “al quale la Costituzione attribuisce la funzione di esprimere e di attuare l’autonomia dell’ordine giudiziario”, v., anche per essenziali riferimenti alla giurisprudenza della Corte Costituzionale e alla dottrina, Erbani, Il ruolo costituzionale del Csm, in Foro it. 2019, V, col.19 ss.
[19] Il dubbio è condiviso da Grosso, Brevi note sulle possibili linee di una riforma della legge elettorale del CSM, in wwwconsultaonline, secondo cui il “rischio … è che si realizzino – per mano del ministro – i ben noti fenomeni di “gerrymandering” nella determinazione dei collegi, con evidente pregiudizio per lo stesso principio costituzionale di autonomia e indipendenza della magistratura”. L’Autore ricorda “che, ai tempi in cui [con la l. 12 aprile 1990, n. 74, ai sensi della quale vi era un collegio unico nazionale per l’elezione dei due magistrati con funzioni di legittimità, e per i diciotto membri scelti fra magistrati con funzioni di merito, vi erano quattro collegi territoriali] era previsto [che questi ultimi fossero formati mediante] l’accorpamento di diversi distretti di Corte di appello in circoscrizioni elettorali territoriali che venivano di volta in volta individuate ad ogni elezione, [l’accorpamento] avveniva per sorteggio, e non certo per discrezionale decisione del ministro”. Il dubbio in parola sta sullo sfondo sia della considerazione che si legge nella “scheda di sintesi” relativa al ddl di riforma, facente parte dello studio Sistema elettorale del Csm. Quale riforma, in wwwquestione.giustizia.it, secondo cui “la formazione dei collegi, affidata di volta in volta a un decreto ministeriale, consente che i collegi siano composti in modo tale da favorire questo o quel candidato”, sia della considerazione svolta da Dal Canto, op.cit., pag. 23, secondo cui “la previsione di affidare ad un decreto ministeriale la formazione dei collegi per ogni elezione, [può favorire], in ipotesi, la possibilità di definire gli stessi sulla base di situazioni e aspettative contingenti”.
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