ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Spunti per la riforma della giustizia tributaria nella relazione della Commissione interministeriale del 30 giugno 2021
di Francesco Pistolesi
Sommario: 1. Premessa - 2. La specializzazione dei giudici tributary - 3. Il contraddittorio preprocessuale e l’autotutela - 4. Gli strumenti deflativi del contenzioso tributario - 5. La giustizia predittiva - 6. L’indipendenza dei giudici tributari - 7. Le difese processuali - 8. Il giudizio di legittimità - 9. Conclusioni.
1. Premessa
La relazione finale del 30 giugno 2021 della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria[1] offre molti interessanti spunti di riflessione e discussione.
Prima di esaminare nel dettaglio le proposte avanzate in detta relazione, credo sia doveroso esprimere apprezzamento per l’atteggiamento pragmatico e libero da condizionamenti mostrato dalla Commissione. Essa ha individuato con puntualità le criticità dell’attuale assetto del processo tributario e ne ha delineato una possibile riforma, che appare sostanzialmente idonea ad assicurarne maggiori efficienza e celerità.
Forse, qualche ulteriore accorgimento avrebbe potuto prospettarsi per cercare di assicurare anche una maggiore aderenza di questo giudizio al principio, di rango sovranazionale e costituzionale, del “giusto processo”, ma avrò occasione di segnalarlo nello svolgimento di queste note di commento alla menzionata relazione finale.
2. La specializzazione dei giudici tributari
La relazione individua sette direttrici di azione per la possibile riforma del processo tributario.
Esse consistono:
1) nell’intervenire sui procedimenti tributari, ampliando il contraddittorio e il ricorso all’autotutela;
2) nel migliorare l’offerta complessiva di giustizia, con correttivi agli strumenti deflativi del contenzioso e, in specie, alla conciliazione giudiziale;
3) nel colmare il deficit di informazione sulla giurisprudenza tributaria;
4) nel rafforzare la specializzazione dei giudici tributari;
5) nel consolidare l’indipendenza dei medesimi giudici;
6) nell’apprestare migliori difese processuali degli interessi in gioco;
7) nel migliorare l’offerta di giustizia nel contesto del giudizio di legittimità.
Tutte le illustrate direttrici sono condivisibili e, come anticipato, lo sono pressoché tutte le proposte avanzate dalla Commissione con riferimento a esse.
Peraltro, su una delle direttrici più significative – quella concernente la specializzazione dei giudici tributari – la relazione prospetta due diverse opzioni, rimettendo la scelta su quale perseguire al Governo, prima, e al Parlamento, poi.
Le due soluzioni enunciate, seppur significativamente diverse (l’una consistente nella creazione di un corpo di giudici speciali tributari a tempo pieno che abbiano superato un pubblico concorso e l’altra volta alla conservazione della magistratura tributaria onoraria, seppur prevedendo – nella fase di appello e per le controversie più rilevanti – l’introduzione di sezioni composte da magistrati ordinari, amministrativi o contabili che optino per l’esercizio a tempo pieno delle funzioni giurisdizionali tributarie e da avvocati, commercialisti e docenti che si dedichino prevalentemente a tali funzioni), sono entrambe in grado di realizzare il fine di incrementare la specializzazione dei giudici tributari.
Infatti, tale specializzazione è raggiungibile, oltre che con l’istituzione di una magistratura speciale selezionata per concorso, anche grazie all’impegno in via esclusiva o prevalente degli odierni componenti delle Commissioni Tributarie.
Seppure a chi scrive appaia preferibile la prima opzione[2], non può sottacersi che la seconda consente di meglio preservare l’esperienza degli attuali giudici tributari, che non merita di essere dispersa.
Tant’è che, nell’immaginare la creazione di un corpo di giudici speciali tributari a tempo pieno vincitori di un pubblico concorso, si sarebbe forse potuto prevederne l’assunzione in misura tale da colmare, con cadenza annuale, le carenze di organico degli odierni giudici tributari da qualsivoglia ragione determinate. Per dirla semplicisticamente, tanti giudici “entrano” quanti ne “escono”. Così si otterrebbe un ordinato turn over nei ranghi dei giudici tributari, prevedendo una lunga fase transitoria con la compresenza dei nuovi giudici con gli attuali, che risulterebbero “in esaurimento”. Compresenza che potrebbe consentire una proficua condivisione di esperienze, nel segno al contempo dell’incremento della specializzazione dei componenti delle Commissioni Tributarie e dell’auspicata condivisibilità delle relative decisioni.
Tuttavia, come anticipato, la scelta fra le due soluzioni è eminentemente politica, ma – quale essa sia – è ragionevole attendersi che potrà conseguirsi l’auspicata migliore preparazione dei giudici tributari. E con essa l’indipendenza e la terzietà di costoro, che inevitabilmente ne discendono.
In ogni caso, e per concludere sul punto, occorrerà che i giudici tributari svolgano una costante e obbligatoria attività di formazione e aggiornamento, che è essenziale nella nostra materia e che ben potrà essere promossa e verificata dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria.
3. Il contraddittorio preprocessuale e l’autotutela
La prima delle direttrici segnalate riguarda l’ampliamento del contraddittorio preprocessuale e dell’autotutela.
L’introduzione nello Statuto dei diritti del contribuente di una norma generale che riconosca il “diritto del contribuente al contraddittorio” è senz’altro positiva.
Per come tale norma è formulata, si prospetta una tutela del contraddittorio preprocessuale particolarmente spiccata.
Da un lato, il comma 1 dell’ipotizzato art. 6-bis dello Statuto, secondo cui “il contribuente ha diritto di partecipare al procedimento amministrativo diretto alla emissione di un atto di accertamento o di riscossione dei tributi”, consente di affermare che il contraddittorio si esplichi non solo prima che l’ente impositore o l’agente della riscossione notifichino l’atto che hanno adottato, ma anche in quella istruttoria. Quindi, in una fase in cui la giurisprudenza europea non riconosce il diritto al contraddittorio[3].
Dall’altro lato, il comma 2 dello stesso art. 6-bis, prevedendo che “l’atto emesso in violazione del comma precedente è nullo”, esclude la cosiddetta “prova di resistenza” richiesta dal vigente comma 5 dell’art. 5-ter del D.L.vo n. 218/1997. Ciò, di nuovo, diversamente da quanto sostenuto dalla giurisprudenza europea[4].
Il primo dei profili evidenziati merita incondizionata condivisione. Il confronto nel momento in cui si forma il materiale istruttorio adducibile a sostegno dell’atto impositivo può rivelarsi proficuo per entrambe le parti del rapporto tributario. Sono numerose le occasioni nelle quali vengono compiute – pur in assenza di accesso nei locali ove opera il contribuente – attività istruttorie che, per la loro natura, palesano l’opportunità di un confronto fra l’organo procedente e il privato. Si pensi al rilascio di dichiarazioni da parte di soggetti terzi, al controllo dei dati bancari o ad altre attività in ordine alle quali l’anticipazione del confronto nella fase di raccolta degli elementi probatori può essere preziosa sia per l’ente impositore che per il contribuente.
Diversamente, possono avanzarsi dei dubbi sull’opportunità di escludere la menzionata “prova di resistenza”. È innegabile, difatti, come essa dissuada, indirettamente ma efficacemente, il privato da un approccio formalistico e strumentale al contraddittorio.
In subordine, la Commissione – forse conscia della profonda portata innovativa del menzionato art. 6-bis e delle resistenze che la sua approvazione potrebbe incontrare – suggerisce una modifica del comma 2 dell’art. 5-ter, restringendo più che opportunamente la deroga all’operatività del contraddittorio preventivo ai soli avvisi di accertamento parziale “fondati esclusivamente su dati in possesso dell’anagrafe tributaria”[5].
Anche l’approdo nello Statuto di una norma che renda obbligatoria l’autotutela è più che apprezzabile, oltre a risultare un’opzione del tutto legittima come ha riconosciuto pure la Corte Costituzionale con la sentenza n. 181 del 13 luglio 2017.
Opportuna anche la previsione di un termine, per così dire, di “sbarramento” al doveroso esercizio dell’autotutela (in caso di atti definitivi, decorsi due anni dal giorno dell’intervenuta definitività o, se posteriore, da quello in cui si è verificato il presupposto per la proposizione dell’istanza di autotutela da parte del privato). Ciò soddisfa la ben comprensibile esigenza di certezza dei rapporti giuridici nella materia tributaria.
Parimenti, appare perfettamente coerente con i principi che governano il processo tributario la necessità di impugnare il rifiuto espresso o tacito all’esercizio dell’autotutela in caso di atti definitivi. La previsione della tutela giurisdizionale rende effettiva la rilevata doverosità dell’autotutela.
Inappuntabile si rivela altresì l’estensione del termine di impugnazione del rifiuto tacito di rimborso (il ricorso può proporsi decorsi novanta giorni dalla presentazione della relativa istanza e finché il diritto alla restituzione non è prescritto) al rifiuto parimenti tacito di avvalersi dell’autotutela da parte dell’ente impositore o dell’agente della riscossione.
4. Gli strumenti deflativi del contenzioso tributario
La seconda direttrice concerne gli strumenti deflativi del contenzioso tributario.
Preliminarmente, è da condividere la scelta di non modificare l’odierno assetto del reclamo e della mediazione.
La creazione di un organo “terzo” cui rimettere detta mediazione, di cui da più parti si era segnalata l’opportunità, avrebbe creato più problemi di quanti ne avrebbe potuti risolvere.
Prescindendo dalle difficoltà applicative e dagli oneri che tale scelta avrebbe determinato, si sarebbe spezzato l’essenziale nesso sussistente fra questo istituto e l’autotutela.
Il reclamo non potrebbe essere accolto da un organo diverso dall’ente impositore poiché ciò ne lederebbe le prerogative, volte ad assicurare il rispetto dei principi di legalità nella materia tributaria e di capacità contributiva. Prerogative che devono, però, essere esercitate con massime equanimità e trasparenza, al fine di evitare inaccettabili disparità di trattamento fra i privati e perché si possa realizzare un efficace filtro all’accesso alla giustizia tributaria.
Ben si comprende, quindi, perché il comma 4 dell’art. 17-bis del D.L.vo n. 546/1992 affidi la gestione del reclamo e della mediazione a strutture “diverse ed autonome” da quelle che hanno consentito l’adozione degli atti reclamabili.
Obiettivo, questo, agevolmente raggiungibile per le Agenzie fiscali, in virtù delle relative dimensioni organizzative, ma non per molti enti locali – si pensi ai tanti piccoli Comuni presenti in Italia – chiamati ad accertare i tributi di propria spettanza.
Sarebbe pertanto auspicabile, per questi ultimi enti, la creazione di consorzi o l’affidamento delle funzioni di accertamento, liquidazione e riscossione ai soggetti contemplati dall’art. 53 del D.L.vo n. 446/1997[6], se dotati di adeguate autonome ripartizioni di competenze al loro interno.
Ciò potrebbe valorizzare la mediazione, che ha comunque consentito un significativo abbattimento delle liti tributarie e, soprattutto, ha stimolato un più diffuso ricorso all’autotutela.
La Commissione, invece, propone di intervenire sulla disciplina della conciliazione.
Scelta opportuna poiché è esperienza diffusa che le soluzioni stragiudiziali intervengono più diffusamente grazie alla mediazione che non alla conciliazione. Quindi, è da salutare con favore il tentativo di rafforzare questo istituto.
Le proposte formulate sono convincenti: l’aggravio della condanna alla refusione delle spese di lite in caso di ingiustificato rifiuto dell’ipotesi conciliativa e la possibilità, per le cause soggette alla disciplina del reclamo e della mediazione, che il giudice formuli alle parti una proposta conciliativa favoriranno un maggior ricorso alla conciliazione.
Si sarebbero, però, potute prendere in considerazione anche altre iniziative, parimenti tese a rendere più efficienti gli istituti deflativi del nostro contenzioso. In particolare:
a) si potrebbe prevedere la possibilità di conciliare le cause tributarie anche nella fase di legittimità: ne risulterebbe favorito l’abbattimento dell’enorme mole delle controversie fiscali pendenti di fronte alla Corte Suprema;
b) si potrebbero estendere alla conciliazione e all’accertamento con adesione i criteri di stampo squisitamente transattivo previsti per la mediazione (allorché l’ente impositore o l’agente della riscossione si risolva a formulare un’ipotesi di mediazione può far riferimento, stando al comma 5 dell’art. 17-bis del D.L.vo n. 546, “all’eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell’azione amministrativa”). Si eliminerebbe così una palese incoerenza del vigente sistema di soluzione stragiudiziale dei rapporti tributari perché con riferimento alla stessa obbligazione, interessata ad esempio da un atto di accertamento, il contribuente ha tre opzioni per evitare la lite o per porvi fine: in ordine di successione temporale, l’accertamento con adesione, la mediazione e la conciliazione. Di tali istituti solo la mediazione, l’unico obbligatorio a differenza dell’accertamento con adesione e della conciliazione, offre la possibilità di impiegare criteri transattivi, pur nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità e correttezza che sempre devono caratterizzare l’operato, ai sensi dell’art. 97 Cost., dell’ente impositore e dell’agente della riscossione;
c) si potrebbe eliminare la sovrapposizione fra accertamento con adesione e mediazione, riservando quest’ultima ai soli atti impositivi e della riscossione non interessati dal procedimento di accertamento con adesione o per i quali detto procedimento non si è in concreto svolto. Non ha senso rinnovare il tentativo di soluzione stragiudiziale allorché quello intrapreso con l’accertamento con adesione è appena naufragato. Una volta radicato il processo, potrà eventualmente farsi ricorso alla conciliazione. Ovviamente, se si perseguisse questa iniziativa, occorrerebbe rivedere la misura dell’abbattimento delle sanzioni, prevedendo che spetti la riduzione contemplata per l’accertamento con adesione qualora si pervenga alla soluzione stragiudiziale in sede di mediazione.
5. La giustizia predittiva
La terza direttrice attiene alla necessità di colmare il deficit informativo, anche nell’ottica della cosiddetta “giustizia predittiva”.
Di nuovo, possono sposarsi senza remore le considerazioni e la raccomandazione svolte dalla Commissione interministeriale, che collimano pure con quanto si legge in ordine alla riforma della giustizia tributaria nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (in seguito, PNRR).
Si può solo osservare che anche i giudici tributari possono essere all’oscuro delle prese di posizione degli altri collegi all’interno della medesima Commissione Tributaria, oltre che delle altre Commissioni.
Ben vengano, dunque, le iniziative che il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e le Agenzie fiscali adotteranno per rendere conoscibili a tutti gli operatori del nostro processo le pronunce di merito.
6. L’indipendenza dei giudici tributari
Della quarta direttrice, relativa alla specializzazione dei giudici tributari, si è già detto.
La quinta prospettiva di riforma ha per oggetto il consolidamento dell’indipendenza dei giudici tributari.
La Commissione non reputa necessario suggerire la collocazione dei giudici tributari presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri o il Ministero della Giustizia.
Risulta, così, confermata la dipendenza, ovviamente dal punto di vista organizzativo, delle Commissioni Tributarie dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che retribuisce anche i magistrati tributari.
Tuttavia, ciò non concorre a consolidare l’indipendenza dei giudici tributari, in considerazione del fatto che il Ministero dell’Economia e delle Finanze controlla e indirizza l’attività delle Agenzie fiscali, che sono parti del nostro giudizio.
È indubbio che detto Ministero non eserciti alcuna forma di condizionamento dei giudici, ma il solo fatto che da esso ne dipenda la retribuzione getta un’ombra sugli organi del contenzioso tributario. Ombra che si potrebbe agevolmente dissipare prevedendo appunto che l’organizzazione delle Commissioni Tributarie e la retribuzione dei relativi membri competa alla Presidenza del Consiglio dei Ministri o al Ministero della Giustizia.
Viceversa, sono assolutamente da apprezzare i rilievi e le raccomandazioni, esposti dalla Commissione, sulle concrete modalità di determinazione dei compensi dei giudici tributari, sulla creazione di un apposito ruolo di dirigenti e impiegati al servizio del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e sul reclutamento e sulla formazione professionale del personale amministrativo addetto alle Commissioni Tributarie.
7. Le difese processuali
La sesta direttrice attiene all’introduzione di migliori difese processuali degli interessi in giuoco.
Probabilmente, è l’argomento su cui – a giudizio di chi scrive – la Commissione avrebbe potuto avanzare maggiori proposte.
Ma procediamo con ordine, esaminando anzitutto i suggerimenti recepiti nella relazione finale.
Il primo si sostanzia nel prospettato inserimento del comma 4-bis nell’art. 7 del D.L.vo n. 546/1992, in base al quale “Le Commissioni tributarie non possono porre a fondamento della propria decisione elementi di prova acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale”.
Sostanzialmente, la Commissione recepisce l’indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione, secondo cui le sole prove acquisite in spregio di fondamentali principi costituzionali sono inutilizzabili[7].
Si tratta di una soluzione comprensibile, frutto del bilanciamento fra interessi contrapposti, quello volto ad assicurare la legittimità del procedimento istruttorio e la tutela dei diritti del privato, da una parte, e quello teso ad accertare la verità dei fatti controversi, dall’altra, in un processo – qual è quello tributario – avente a oggetto rapporti di decisiva rilevanza economica e sociale e in cui, conseguentemente, è spiccato l’anelito ad appurare detta verità.
Non può, peraltro, nascondersi come questa opzione presenti un inconveniente. Essa finisce per assecondare le condotte illegittime nel corso dell’istruttoria fiscale, beninteso diverse da quelle che si traducono nella lesione dei rammentati “diritti fondamentali di rango costituzionale”. Non vi sarà più alcun dubbio, per esempio, sul lecito impiego degli esiti delle indagini finanziarie svolte indebitamente.
V’è solo da esprimere l’auspicio che il giudice, pur ammettendo le prove acquisite illecitamente, evidenzi e stigmatizzi il contegno contra legem. Così risulterebbe almeno stimolata l’applicazione di misure disciplinari a carico dei verificatori che hanno violato le regole che sovrintendono la raccolta dei dati istruttori.
Inoltre, sarebbe opportuno che le Commissioni Tributarie, qualora dovessero respingere le tesi del privato valendosi di tali prove, evitassero di addossargli le spese processuali.
La seconda proposta della Commissione riguarda la non impugnabilità degli estratti di ruolo.
Essa è frutto della contingente e recente esperienza della sospensione delle notifiche delle cartelle di pagamento a causa dell’emergenza sanitaria, che ha determinato un eccezionale proliferare dei ricorsi avverso detti estratti.
Ad ogni modo, la norma suggerita è formulata in termini più che ragionevoli, poiché ammette il ricorso contro tali estratti quando obiettivamente si rende necessario tutelare le ragioni del contribuente, ossia per evitare l’esclusione da una procedura di appalto o per non incorrere nel blocco dei pagamenti da parte di soggetti pubblici.
Pure il terzo suggerimento che si legge nella relazione finale merita di essere condiviso. L’estensione della possibilità di difesa tecnica ai Centri di Assistenza Fiscale (CAF) per le liti di valore fino a 3.000 euro, anche se non riguardanti adempimenti dei propri assistiti, va nell’apprezzato senso di consentire un’assistenza adeguata e non particolarmente onerosa per le controversie di minor rilievo economico. E, sempre con riferimento al tema dell’assistenza tecnica, merita di essere sviluppata l’idea esposta dal Prof. Franco Gallo, audito dalla Commissione, di imporre a chiunque sia abilitato al patrocinio innanzi alle Commissioni Tributarie di rispettare una sorta di “codice etico”, ossia regole deontologiche idonee a indirizzare un contegno probo e leale dei difensori nei rapporti con i propri assistiti, con le controparti e con il giudice.
Grazie al quarto consiglio si prospetta finalmente l’abrogazione dell’inaccettabile vigente divieto di assunzione della prova testimoniale nel processo tributario.
Non rinnovo qui l’indicazione delle ragioni che militano contro tale divieto[8]. Ed esprimo, perciò, sincero apprezzamento per il fatto che la Commissione abbia assunto l’iniziativa volta a elidere questa anomalia del nostro processo.
Al contempo, però, segnalo che si sarebbe potuto osare di più.
Vero è che, nella gran parte dei casi, la necessità della prova per testi emerge allorché nell’istruttoria condotta dall’ente impositore o dalla Guardia di Finanza vengono rese dichiarazioni da parte di soggetti terzi rispetto al contribuente.
Tuttavia, l’esigenza di assumere una testimonianza può sorgere anche in altre circostanze. Si faccia il caso in cui l’Agenzia delle Entrate contesti la fittizietà di determinate fatture adducendo – come di frequente avviene – la mancanza di struttura organizzativa del venditore dei beni o servizi e/o la non congruenza dei prezzi praticati. In un contesto del genere, potrebbe essere importante chiamare a teste il dipendente della parte acquirente che ha seguito le operazioni contestate e/o l’agente che ha messo in contatto i contraenti e/o un esperto operatore del settore merceologico cui sono riconducibili dette operazioni. Gli esempi potrebbero proseguire, ma non credo sia arduo rendersi conto che, una volta intrapresa la meritoria strada della soppressione del divieto di acquisizione della prova testimoniale, sarebbe stato preferibile non porre una limitazione del genere di quella che si legge nell’ipotizzato nuovo comma 4 dell’art. 7 del D.L.vo n. 546/1992[9].
Appaiono, invece, ragionevoli le scelte di utilizzare la testimonianza in forma scritta ex art. 257-bis cod. proc. civ., in quanto sicuramente più adatta all’assetto del giudizio tributario in cui manca una vera e propria fase istruttoria, e di riservare la prova per testi al contribuente, dal momento che l’ente impositore – se vuole – può, nel corso dell’istruttoria che precede l’adozione degli atti impositivi, assumere informazioni e dichiarazioni da parte del contribuente medesimo e dei terzi.
Comunque, se la norma suggerita nella relazione finale vedesse effettivamente la luce, vi sarebbe ragione di esserne lieti. Il divieto di prova testimoniale ha mostrato una tale resistenza, che sarebbe in ogni caso un risultato importante l’averne ottenuto l’eliminazione, seppur con la rilevata nota critica sulla compressa estensione di siffatto mezzo istruttorio.
Infine, la Commissione formula una condivisibile raccomandazione sul miglioramento del processo tributario telematico[10]. Non solo ne è apprezzabile il contenuto, ma è meritevole di segnalazione la più che opportuna attenzione mostrata su uno dei profili più importanti – e, a mio avviso, più positivi – dell’odierno regime del nostro processo. Semplificare e ottimizzare il funzionamento del giudizio telematico ha un rilievo decisivo per rendere più accessibile, celere ed efficiente la tutela giurisdizionale nella materia tributaria.
A questa nota positiva deve, peraltro, accompagnarsene una di diverso tenore.
Infatti, la Commissione avrebbe potuto considerare altri aspetti funzionali ad assicurare migliori difese processuali degli interessi in giuoco.
Anche alla luce della rilevanza assunta dal principio europeo e costituzionale del “giusto processo”, avrebbero potuto trovare spazio fra le ipotesi di riforma i profili di seguito succintamente illustrati:
a) l’art. 47 del D.L.vo n. 546/1992 contempla solo la sospensione dell’atto impugnato, di modo che per gli atti a contenuto negativo tale inibitoria è inutile. Si pensi al rifiuto, espresso o tacito, del rimborso dei tributi o al diniego di un’agevolazione (ma non la sua revoca, che ben può essere sospesa) o, ancora, al rigetto della domanda di definizione agevolata di rapporti tributari o all’istanza di dilazione di pagamento dei tributi. Per essi la tutela cautelare postula l’adozione di una misura sostitutiva del provvedimento negativo, ossia, nei casi fatti, l’atto che riconosce il diritto al rimborso e ne dispone l’erogazione e l’atto che concede l’agevolazione o accoglie la domanda di “condono” o quella di rateazione. Siccome detta misura sostitutiva fuoriesce dall’ambito di operatività dell’art. 47 cit., ne sarebbe apparsa opportuna la revisione. Ciò al fine di assicurare la tutela cautelare, che è componente essenziale del diritto di tutela giurisdizionale, anche nelle cause vertenti sui menzionati provvedimenti negativi;
b) la preclusione, sancita dall’art. 32, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973 e dall’art. 52, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972, all’impiego in sede contenziosa dei documenti non forniti dal privato nel corso dell’istruttoria fiscale, in assenza di cause di forza maggiore, non assicura la pienezza del diritto di difesa. Questa preclusione, pur potendosi spiegare invocando il principio di collaborazione e lealtà ex art. 10, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, contrasta con il principio del “giusto processo” e con l’affermazione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per cui è espressione di detto principio anche il “diritto al silenzio” del soggetto interessato dalla verifica tributaria[11]. Il divieto sancito dalle norme sopra indicate lede altresì il principio di proporzionalità, sempre di matrice europea, poiché sanziona in termini eccessivi detta mancata collaborazione. In tal senso, oltretutto, depone la recente sentenza n. 81 del 30 aprile 2021 della Corte Costituzionale, che ha sancito l’illegittimità della norma che sanzionava colui che si rifiutava di fornire alla CONSOB risposte che avrebbero potuto far emergere la sua responsabilità per un illecito punibile in via amministrativa o penale. Pertanto, la Commissione sarebbe potuta intervenire per eliminare questa preclusione;
c) l’art. 23, comma 3, del D.L.vo n. 546/1992 prevede che la parte resistente, nelle proprie controdeduzioni, proponga le eccezioni non rilevabili d’ufficio e ivi faccia istanza per la chiamata di terzi in causa. Secondo la giurisprudenza[12], queste attività devono essere eseguite presentando tempestive controdeduzioni, ossia nel termine di sessanta giorni dalla ricezione del ricorso. Qualora il resistente non intenda svolgere eccezioni non rilevabili d’ufficio e chiamare terzi in causa, sempre la giurisprudenza[13] ritiene che la costituzione in giudizio possa avvenire – senza incorrere in alcuna preclusione – anche oltre il termine di sessanta giorni. Siccome le eccezioni riservate all’iniziativa della parte nel nostro processo sono solo quelle di prescrizione e di compensazione, si comprende come il resistente possa, nella gran parte dei casi, determinarsi a costituirsi tardivamente. Se si aggiunge che la decadenza dal diritto di rimborso azionato dal contribuente è rilevabile d’ufficio, ex art. 2969 cod. civ., poiché integra una causa di improponibilità dell’azione giudiziaria in materia sottratta alla disponibilità della parte pubblica, qual è quella tributaria[14], e che la chiamata di terzi non ricorre frequentemente, si ha conferma che il resistente può fare affidamento sulla costituzione tardiva. Sennonché, ciò non è apprezzabile per due ragioni: perché contraddice i principi di speditezza e concentrazione cui si ispira il giudizio tributario e poiché introduce una disparità di regime fra le parti, stante la perentorietà del termine di costituzione in giudizio per il solo ricorrente, non giustificata alla luce del principio di parità delle armi, ritraibile dal canone del “giusto processo”[15]. Le stesse considerazioni valgono per la costituzione nel giudizio di appello, ove la parte appellata è tenuta a rispettare il termine di sessanta giorni decorrente dalla notifica dell’atto di impugnazione solo qualora intenda proporre appello incidentale. Sarebbe stato, quindi, apprezzabile se la Commissione si fosse fatta latrice della proposta di rendere perentorio il termine per la costituzione in giudizio della parte resistente in primo grado e della parte appellata in secondo grado;
d) La Commissione avrebbe potuto farsi promotrice della riforma della L. n. 89/2001 affinché anche il processo tributario figuri fra quelli che danno titolo a ottenere un’equa riparazione in caso di relativa eccessiva durata. Infatti, la ragionevolezza del tempo di svolgimento di ogni processo è sancita dall’art. 111, comma 2, Cost. e si ritrae, di nuovo, dal principio del “giusto processo”.
8. Il giudizio di legittimità
La settima e ultima direttrice attiene al giudizio di legittimità, sul quale fra l’altro si concentra il principale obiettivo indicato nel PNRR con riferimento alla riforma della giustizia tributaria[16].
La Commissione avanza delle proposte “tecniche” assolutamente condivisibili. Il rinvio pregiudiziale, espressamente contemplato nel PNRR, e il ricorso nell’interesse della legge del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione[17] potrebbero consentire di anticipare la formazione di autorevoli indirizzi interpretativi, idonei a orientare le scelte dei contribuenti nell’intraprendere o meno il contenzioso e a confortare le decisioni dei giudici di merito. Ciò con indubbie positive ricadute in termini di riduzione delle liti pendenti e di uniformità delle pronunce delle Commissioni Tributarie.
Anche i suggerimenti volti a favorire una maggiore permanenza dei magistrati nella sezione tributaria della Corte di Cassazione e l’assegnazione a quest’ultima dei giudici addetti all’ufficio del Massimario della medesima Corte sono del tutto apprezzabili.
In specie, la limitazione del turn over dei giudici della sezione tributaria, oltre a consentirne l’affinamento della preparazione e dell’esperienza, contribuirebbe a stabilizzare la giurisprudenza della sezione stessa, accrescendone così l’autorevolezza.
Per contro, penso che potrebbe avere una minor incidenza nell’abbattere il considerevolissimo stock dei giudizi pendenti nella fase di legittimità l’introduzione – sulla falsariga di quanto avviene nei processi amministrativo e contabile – della necessità, decorso un dato termine dalla proposizione dei ricorsi, di ribadire l’interesse alla relativa decisione. Già gli istituti dell’autotutela e della rinuncia al ricorso per cassazione possono adeguatamente sovvenire in proposito.
Infine, nella relazione si ipotizza anche il ricorso a un “condono” per le controversie rimesse all’esame della Corte Suprema.
Trattasi di una scelta squisitamente “politica”, le cui controindicazioni – dal punto di vista etico, della parità di trattamento fra i contribuenti, del rispetto del principio di capacità contributiva, dell’effettività della tutela giurisdizionale offerta dal nostro ordinamento, della frustrazione degli sforzi compiuti dagli enti impositori per assicurare il rispetto della disciplina fiscale e via discorrendo – sono talmente note che non v’è bisogno di attardarsi al riguardo.
Tuttavia, come si suol dire, “a mali estremi, estremi rimedi”. Credo che questa massima di buon senso, unitamente alla constatazione dell’impossibilità o comunque dell’estrema difficoltà di assorbire in tempi ragionevoli l’enorme arretrato pendente dinanzi alla sezione tributaria della Corte di Cassazione, abbia indotto la Commissione a formulare l’ipotesi della “definizione agevolata delle liti” ivi in attesa di decisione.
In ogni caso, quale che sia la scelta che il Governo e il Parlamento effettueranno, i termini di detta “definizione agevolata delle liti” suggeriti nella relazione finale appaiono, sotto il profilo “tecnico”, equilibrati e più che ragionevoli.
9. Conclusioni
Concludo queste brevi note permettendomi di avanzare qualche ulteriore ipotesi di intervento sulla disciplina del processo tributario.
In sintesi:
a) si potrebbe pensare di istituire un giudice monocratico in primo grado per controversie di valore contenuto e, di regola, “seriali”: si pensi a quelle in materia di tributi regionali, provinciali e comunali e di contributi spettanti ai consorzi di bonifica. Il giudice monocratico andrebbe individuato fra i giudici tributari appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa o contabile o fra quelli nominati a seguito di concorso, qualora si perseguisse questa opzione riformatrice. Introducendo una soglia di valore più elevata (ad esempio, di euro 25.000) rispetto a quella (di euro 3.000) proposta da una parte della Commissione per l’eventuale istituzione di un “giudice onorario monocratico”, si potrebbe ridurre il carico di lavoro dei collegi giudicanti in primo grado e velocizzarne i tempi di decisione delle liti. E ciò, stante la natura “specialistica” e “seriale” delle cause che verrebbero rimesse al giudice monocratico, senza ragionevolmente pregiudicare la qualità delle sentenze che sarebbero rese;
b) si potrebbe armonizzare il regime del procedimento cautelare pro Fisco previsto dall’art. 22 del D.L.vo n. 472/1997 con quello regolato dall’art. 47 del D.L.vo n. 546/1992, disciplinandolo nel contesto del medesimo D.L.vo n. 546 e, soprattutto, eliminando la previsione secondo cui esso si conclude con l’adozione di una sentenza (anziché di un’ordinanza, com’è previsto per il procedimento cautelare in favore del contribuente);
c) si potrebbe pensare di regolare il regime della cosiddetta “impugnazione facoltativa”, frutto di un’ormai consolidata interpretazione giurisprudenziale, prevedendo le conseguenze che ne discendono laddove all’atto impugnabile “facoltativamente” faccia seguito quello impugnabile “necessariamente”, secondo quanto stabilito dall’art. 19 del D.L.vo n. 546/1992. Ciò andrebbe a beneficio della certezza del diritto di azione giurisdizionale in materia tributaria e ne determinerebbe un indubbio rafforzamento. Non solo, in detto contesto, si potrebbe pure immaginare di rendere “facoltativamente” impugnabile la risposta alla domanda di interpello ex art. 11, comma 1, lett. a), dello Statuto dei diritti del contribuente, quando l’ente impositore risolva un dubbio interpretativo su una norma tributaria o qualifichi una fattispecie e, in relazione al concreto caso prospettato, non occorra svolgere alcuna attività istruttoria. La possibilità di agire contro questa risposta eviterebbe l’adozione dell’atto “necessariamente” impugnabile, di cui all’art. 19 del D.L.vo n. 546, ove il contribuente disattenda la tesi dell’ente impositore o la domanda di rimborso qualora il privato si adegui al responso ricevuto ma intenda comunque rimettere al giudice la soluzione della controversa questione interpretativa o della dibattuta qualificazione di fattispecie. In tal modo, entrambe le parti del rapporto tributario conseguirebbero anticipatamente la sentenza idonea ad assicurarne l’auspicata certezza.
Insomma, il lavoro svolto dalla Commissione è di stimolo per ipotizzare anche altri interventi di riforma dell’odierno assetto del giudizio tributario.
A questo punto, v’è solo da auspicare che il Governo e il Parlamento, consapevoli di quanto sia importante assicurare l’efficienza e la celerità del processo tributario in ogni fase unitamente al suo pieno adeguamento al principio del “giusto processo”, intervengano sollecitamente per realizzare questi obiettivi.
[1] La relazione è consultabile sul sito www.fiscooggi.it. Sull’argomento, v. A. Marcheselli, Aspettando Godot. Note minime e minoritarie a margine della proposta di riforma della Giustizia tributaria, in questa Rivista, 12 luglio 2021.
[2] Come, anche di recente, ho avuto occasione di precisare in “Il processo tributario”, Torino, 2021, pp. 8-9.
[3] V., in particolare, Corte Giust. Eur., 22 ottobre 2013, causa C-276/12, Sabou.
[4] V., in specie, Corte Giust. Eur. 3 luglio 2014, causa C-129/13, Kamino.
[5] Sul punto sia consentito rinviare ai più approfonditi rilievi che ho svolto in “Il contraddittorio generalizzato”, in Giur. imp., 2019, n. 2, pp. 147 ss.
[6] Ossia i soggetti privati abilitati a effettuare attività di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi e delle altre entrate di Comuni e Province e iscritti in apposito albo istituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
[7] V., per esempio, Cass., sez. V, 22 febbraio 2013, n. 4498, concernente l’inviolabilità del domicilio.
[8] Mi permetto di rinviare ancora a “Il processo tributario”, cit., pp. 127-128.
[9] Secondo la proposta della Commissione, il nuovo comma 4 dell’art. 7 cit. risulta così formulato: “Non è ammesso il giuramento. Su istanza del ricorrente il giudice può autorizzare la prova testimoniale assunta in forma scritta ai sensi del codice di procedura civile su circostanze oggetto di dichiarazioni di terzi contenute in atti istruttori”.
[10] Il contenuto di tale raccomandazione è il seguente: “La Commissione auspica un intervento legislativo diretto alla estensione e al miglioramento del processo tributario telematico, con la finalità di semplificare per tutti i soggetti del processo tributario l’esercizio delle rispettive attività, eliminando adempimenti superflui e prevedendo per quelli indispensabili, meccanismi automatici o semplificati di esecuzione. Il tutto nell’ambito di una omogeneizzazione e semplificazione dei diversi processi telematici esistenti, finalizzate ad un dialogo tra i vari sistemi con collegamenti tra le relative banche dati”.
[11] V. la sentenza “Chambaz” del 5 aprile 2012.
[12] V. Cass., sez. V, 2 aprile 2015, n. 6734.
[13] V., nuovamente, Cass. n. 6734/2015, nonché Cass., sez. VI, 6 febbraio 2020, n. 2876.
[14] In tal senso, cfr. Cass., sez. VI, 26 settembre 2017, n. 22399.
[15] Di diverso avviso, però, è la Corte Costituzionale, che con l’ordinanza n. 273 del 13 dicembre 2019 ha escluso tale disparità di trattamento, senza tuttavia soffermarsi sull’art. 111 Cost. In passato, si era comunque ipotizzato che l’omessa sanzione per la costituzione tardiva del resistente comportasse una violazione degli artt. 3 e 111 Cost., ma la Consulta lo aveva negato con l’ordinanza n. 144 del 7 aprile 2006.
[16] Si legge, infatti, nel PNRR che gli interventi riformatori “… sono rivolti a ridurre il numero dei ricorsi alla Cassazione, a farli decidere più speditamente, oltre che in modo adeguato”. Il PNRR individua quali “modalità di attuazione” del menzionato obiettivo: a) “… un migliore accesso alle fonti giurisprudenziali”; b) “… il rinvio pregiudiziale per risolvere dubbi interpretativi, per prevenire la formazione di decisioni difformi dagli orientamenti consolidati della Corte di Cassazione”; c) allo scopo di smaltire l’arretrato presso la Corte Suprema, “… il rafforzamento delle dotazioni di personale”, anche tramite adeguati incentivi economici.
[17] Su questi argomenti, v. L. Salvato, Verso la riforma del processo tributario: il “rinvio pregiudiziale” ed il ricorso del P.G. nell’interesse della legge, in questa Rivista, 19 luglio 2021.
Giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie risarcitorie per danno da omessa vigilanza sanitaria su dispositivi medici: Il caso (nota a Tar Lazio, Sez. III, 13.1.2021 n. 485)
di Maria Grazia Della Scala
Sommario. 1. Il caso. - 2. La responsabilità della P.A. da omessa vigilanza. - 3. Comportamenti omissivi, provvedimenti delle autorità di vigilanza e riparto della giurisdizione. - 4. L’omessa vigilanza tra comportamento ed esercizio della funzione. - 5. Il comportamento omissivo illecito e l’illegittima violazione del dovere di provvedere. – 6. Riparto della giurisdizione e situazione giuridica soggettiva risarcibile. – 7. Riflessioni conclusive.
1. Il caso.
Con la pronuncia in esame il TAR del Lazio declina la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda di risarcimento del danno promossa da alcuni cittadini e due associazioni per la tutela dei diritti degli utenti e dei consumatori, nei confronti del Ministero della Salute e del Ministero dello Sviluppo Economico, per omessa vigilanza sulla circolazione, commercializzazione ed utilizzo di dispositivi medici difettosi: protesi mammarie prodotte dall’azienda francese Poly Implant Prothèse, costituita nel 1991, che ha distribuito nell’arco di un ventennio circa due milioni di set in varie parti del mondo.
Nel corso del 2010, a seguito di molteplici segnalazioni di incidente derivanti dall’impianto delle protesi, l’Agence française de sécurité sanitaire des produits de santé, in occasione di un’ispezione presso lo stabilimento di produzione, rilevava che dal 2001 tali dispositivi venivano realizzati con materiali differenti rispetto a quelli indicati nel procedimento di autorizzazione all’immissione in commercio e difformi dagli standard internazionali; lo comunicava dunque anche al Ministero della Salute italiano. Quest’ultimo disponeva a distanza di due giorni la sospensione della commercializzazione di tutte le protesi, invitando il distributore a ritirarle dal mercato.
Sulla base del parere reso dal Consiglio Superiore di Sanità, emanava una comunicazione con cui raccomandava ai medici di contattare le proprie pazienti per un follow up ravvicinato, invitandole a recarsi presso la struttura presso la quale la protesi era stata impiantata per verificare il relativo produttore e sottoporsi a controllo. A distanza di ulteriori sei mesi, dopo ulteriore istruttoria, il Ministero emanava un’ordinanza di necessità e urgenza in cui si stabiliva che alle portatrici di protesi che manifestavano segni di rottura, contrattura, essudazione, infiammazione, andasse proposto l’espianto a carico del SSN, rimettendosi al medico curante la valutazione e proposta dello stesso a fronte di ragionevole preoccupazione di rottura, o a fini di solo benessere psichico della persona.
Tale ordinanza veniva impugnata nella misura in cui non definiva le modalità di addebito al SSN degli interventi medico/chirurgici realizzati a fronte di indicazione clinica specifica alla rimozione e/o sostituzione delle protesi e alle cure, nonché laddove, - si assumeva -, discostandosi dalle ordinanze di altri Ministeri, comunitari e non, non ordinava la rimozione delle protesi per tutte le donne cui erano state impiantate, indipendentemente dai motivi dell’impianto stesso e dalla struttura, pubblica o privata, convenzionata o accreditata, che lo avesse effettuato, mancando anche la previsione dell’assistenza psicologica in ogni caso a carico del SSN.
Veniva altresì impugnato l’accordo concluso ai sensi dell'art. 4, d.lgs. n. 281 del 1997, tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano sul documento recante “Linee guida di carattere clinico ed organizzativo per la gestione clinica dei casi di persone portatrici di protesi mammarie prodotte dalla ditta Poly Implant Prothese (P.i.p.)”, dal contenuto sostanzialmente non difforme dalla predetta ordinanza.
Si assumeva poi illegittima un’ulteriore ordinanza ministeriale che, limitando il percorso organizzativo assistenziale per le pazienti alle risorse disponibili, nulla prevedeva in merito ai casi di non immediato rischio di rottura e agli interventi di tipo estetico.
Il TAR Lazio, Sez. III, con sentenza dell’11/12/2012, n.10296, riteneva le censure infondate, considerato che non spetterebbe a un’ordinanza d’urgenza stabilire le modalità di addebito al SSN, già disciplinate dal diritto positivo, e che gli atti impugnati non contrasterebbero con la definizione dei livelli essenziali di assistenza definiti con dpcm 29 novembre 2001, ai sensi dell'art. 1, d.lgs. n. 502 del 1992.
I consumatori e le medesime associazioni presentavano, dunque, al TAR domanda di risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per omessa o ritardata vigilanza da parte delle amministrazioni resistenti, per aver le medesime violato gli specifici obblighi previsti dal d.lgs. 46/1997 e dalla direttiva CE 93/42, regolanti l’immissione in commercio dei dispositivi medici, anche considerando che le protesi mammarie sono state inserite nella classe III, di massima pericolosità e di massimo controllo dall’art. 1 della dir. CE 2003/12.
Le amministrazioni sarebbero venute comunque meno agli obblighi di natura generale su esse gravanti ai sensi del principio del neminem laedere, non conformandosi altresì al principio di precauzione enunciato dall’art. 174 del Trattato CE.
Si sottolineava che le medesime conoscevano o avrebbero dovuto conoscere la pericolosità e inidoneità delle protesi de quibus molto prima del loro effettivo intervento, avendo il produttore ricevuto già nel 2000 una warning letter della Food and Drug Administration per alcune irregolarità delle protesi saline, dal 1992 al 2006 pertanto escluse dal mercato statunitense.
Il TAR del Lazio, con la sentenza n. 485/2021 in esame declina la propria giurisdizione rilevando la sussistenza in capo ai ricorrenti di situazioni di diritto soggettivo, non venendo in rilievo (in via diretta) poteri amministrativi.
Quelli contestati sarebbero “comportamenti doverosi” delle Autorità di controllo del settore previsti a favore di coloro che fruiscono dell’attività oggetto di vigilanza che, dunque, sarebbero tenute a rispondere verso gli utenti “delle conseguenze della violazione dei canoni comportamentali della diligenza, prudenza e perizia, nonché delle norme di legge e regolamentari relativi al corretto svolgimento dell’attività di vigilanza, quali espressione del principio generale del neminem laedere”.
2. La responsabilità della P.A. da omessa vigilanza.
La pronuncia è occasione per una breve riflessione sulle incertezze che circondano il riparto di giurisdizione sulle controversie risarcitorie promosse nei confronti della p.a., particolarmente a fronte di comportamenti omissivi[1]; controversie che, in linea di principio, seguono le ordinarie regole di riparto[2] prima facie basate, secondo la formulazione dell’art. 7 del codice del processo amministrativo, all.1 d.lgs.n.104/2010, sulla consistenza delle situazioni giuridiche soggettive lese, con l’eccezione delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva[3].
La decisione muove anzitutto dall’assimilazione della vigilanza sanitaria a quella esercitata da Consob e Banca d’Italia sull’attività di banche e intermediari finanziari a tutela del mercato e degli investitori, in relazione alla quale le Sezioni Unite hanno più volte riconosciuto che le controversie promosse in ragione della relativa omissione sono di competenza del giudice ordinario, stante l’asserita carenza, in capo ai risparmiatori/investitori, di una relazione diretta con il potere amministrativo.
I dubbi sulla giurisdizione sono stati tuttavia, risolti solo nel tempo dalle Sezioni Unite, come lo stesso Tar del Lazio ricorda[4].
Fino a pochi decenni fa, non si rinveniva in capo ai risparmiatori, a fronte di condotte negligenti delle autorità di vigilanza, alcuna situazione soggettiva giuridicamente qualificata e suscettibile di tutela giurisdizionale, sulla base dell’estraneità al potere di controllo, il quale, pur funzionale all’interesse generale della tutela del risparmio, era considerato diretto verso soggetti altri, banche e intermediari finanziari. Risparmiatori e investitori erano considerati titolari di interessi di mero fatto[5].
Parte della dottrina sottolineava, tuttavia, come l’impossibilità di configurare interessi legittimi, legittimanti il ricorso al giudice amministrativo[6], avrebbe potuto non escludere una tutela risarcitoria davanti al giudice ordinario ove fosse stato possibile rinvenire gli elementi della responsabilità extracontrattuale, a partire dalla titolarità di una situazione giuridica di diritto soggettivo e da una condotta colposa dell’amministrazione[7].
Se un primo superamento di queste posizioni derivava dall’evoluzione della legislazione che, nel meglio disciplinare i poteri di vigilanza, avrebbe consentito un riconoscimento in capo agli investitori di posizioni di interessi legittimo di tipo pretensivo, si assumeva che il diritto positivo non ne consentisse, allora, una tutela risarcitoria[8].
Agli inizi degli anni 2000 la giurisprudenza, anche delle Sezioni Unite, inizia a percepire in capo ai beneficiari dell’attività di vigilanza la titolarità di un diritto soggettivo di credito, quale species del diritto all’integrità del proprio patrimonio, suscettibile di tutela risarcitoria in ragione, in una con la maggiore “legificazione” delle finalità istituzionali delle autorità di vigilanza, del progressivo ampliamento delle situazioni giuridiche soggettive risarcibili[9] attraverso una interpretazione estensiva del “diritto soggettivo”, infine apparentemente comprensive dell’interesse legittimo (Sez.Un. 500/99)[10].
Il primo revirement del giudice della giurisdizione operava considerazioni importanti: il potere discrezionale o tecnico-discrezionale delle autorità non esclude la configurabilità di diritti soggettivi, suscettibili di essere lesi dall’esercizio, come dal mancato esercizio dei medesimi.
I principi di diligenza, prudenza, correttezza delimitano il potere, anche discrezionale, definendone i confini e integrando gli elementi della colpa dell’amministrazione; colpa anche desumibile dalla violazione di quelle più puntuali norme che regolano specificamente i poteri di vigilanza.
La violazione del vincolo interno costituito dal fine d’interesse generale che le autorità di vigilanza devono perseguire istituzionalmente e che impone loro di attivarsi in determinate circostanze, non esclude la violazione del vincolo esterno costituito dalla regola del neminem laedere[11].
Tali posizioni erano a ben vedere avanzate nel panorama europeo e non imposte dal diritto sovranazionale in materia di vigilanza prudenziale, essendo frutto di una maturazione tutta domestica delle forme di tutela nei confronti dell’amministrazione[12].
Dunque il TAR del Lazio fa proprie tali considerazioni, peraltro già abbracciate dal Consiglio di Stato[13], ritenendo l’utilizzatore delle protesi in questione titolare, in virtù di norme dell’ordinamento generale, di un diritto soggettivo alla salute e all’integrità fisica, suscettibile di lesione da un comportamento negligente dell’amministrazione sanitaria. Riconosce, così, implicitamente che quest’ultima esercita poteri di vigilanza verso soggetti diversi dagli utenti, nella specie produttori, commercializzatori, distributori di dispositivi medici, esulando il relativo diritto soggettivo dall’ambito di esplicazione del potere pubblico.
3. Comportamenti omissivi, provvedimenti delle autorità di vigilanza e riparto della giurisdizione.
Tali assunti appaiono coerenti con l’usuale riconoscimento, da parte della giurisprudenza, della giurisdizione ordinaria sulle domande di risarcimento danno avanzate nei confronti del Ministero della Salute per lesioni derivate da emotrasfusioni di sangue infetto e da emoderivati[14] o sulle domande di ristoro di danni derivanti da vaccinazioni[15], anche quando volte a ottenere gli indennizzi previsti dalla legge, prima e a prescindere dal fatto che la disciplina positiva abbia previsto espressamente che i medesimi debbano essere corrisposti dal Ministero della Salute. Discorsi rispetto ai quali appare non assorbente l’argomento del diritto fondamentale[16], pur utilizzato, assumendo rilievo la natura di diritto soggettivo dell’interesse leso, unitamente alla consistenza delle regole giuridiche violate.
La prospettiva appare diversa quando il soggetto che lamenti un danno a causa del ritardo o dell’inerzia dell’amministrazione sia titolare di un interesse disponibile dal potere amministrativo. Così, ad esempio, in materia urbanistica, si riconosce la giurisdizione del g.a. a fronte di una domanda risarcitoria connessa all’inerzia dell’amministrazione nel ripianificare un’area in precedenza disciplinata da un vincolo preordinato all’esproprio scaduto; ipotesi nella quale l’interessato, sebbene non legittimato tipicamente all’avvio di un procedimento, lamenta il mancato esercizio di un potere naturalmente destinato a produrre effetti nella relativa sfera giuridica[17]; così, sulle domande risarcitorie avanzate da terzi titolari di situazioni differenziate, segnalanti abusi edilizi, a fronte del mancato o tardivo ordine di demolizione[18].
La realtà delle cose si manifesta più complessa laddove i poteri vigilanza siano esaminati nel loro risvolto attivo. Basti pensare che gli stessi soggetti che hanno promosso l’azione risarcitoria contro i Ministeri vigilanti nel caso in esame sono stati in precedenza considerati implicitamente legittimati all’impugnazione degli atti amministrativi che hanno definito le modalità di tutela dei soggetti interessati dall’impianto delle protesi a carico del SSN, con l’eccezione di un’associazione non iscritta nell’elenco delle associazioni di consumatori e utenti istituito dall’art. 137, comma 1, del codice del consumo, d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206[19].
Diversamente, le Sezioni Unite affermano la giurisdizione ordinaria, in materia di vigilanza finanziaria, “non solo rispetto ai comportamenti silenziosi, ma anche nel caso di comportamenti tradottisi in atti presi nei confronti dei soggetti abilitati, quando si postula dai risparmiatori che dagli uni o dagli altri sia derivato un danno”[20]. Soluzioni non pianamente conciliabili.
Complesse sono, invero, anche le vicende relative alla responsabilità per danni da emotrasfusioni e da vaccinazioni non solo obbligatorie, riguardo alle quali, le Sezioni Unite hanno di recente sostenuto che, ferma la giurisdizione ordinaria sulla domanda di risarcimento fondata sulla lesione del diritto soggettivo alla salute, anche per omessa vigilanza sanitaria, spetterebbe al giudice amministrativo giudicare sulla legittimità del ritardo nell’emanazione da parte della p.a. dei decreti ministeriali previsti dalla legge, che definiscono le procedure e condizioni di ammissione ai moduli transattivi, come sul rifiuto dell’ammissione alla procedura finalizzata alla stipula della transazione, ritenendo, poi, questione di merito la valutazione circa la titolarità in capo agli interessati di un effettivo interesse legittimo o di un interesse semplice[21]; decreti intesi come esercizio di potere autoritativo. Con ciò si contraddicono le posizioni del Consiglio di Stato che, mutando il suo precedente indirizzo, aveva riconosciuto la giurisdizione ordinaria, ravvisando atti amministrativi meramente esecutivi della legge, che “per definizione” non potrebbero incidere sui diritti soggettivi coinvolti, almeno per i profili della disciplina della transazione, della prescrizione, del risarcimento e della responsabilità”, regolata e regolabile unicamente dalla legge[22], potremmo aggiungere, da norme dell’ordinamento generale che disciplinano i rapporti tra soggetti dell’ordinamento.
Se in quest’ultimo caso, gli indugi provengono da evidenti perplessità sull’interpretazione delle norme attributive all’amministrazione di compiti volti al soddisfacimento di diritti soggettivi pacificamente lesi, denunciando la mancata adesione a un solido e comune quadro teorico, nelle altre ipotesi, il positivo esercizio del potere sembra necessariamente misurarsi con la titolarità di interessi legittimi[23]. Non esulerebbe, dunque, aprioristicamente dall’ambito esercizio del potere amministrativo l’interesse del proprietario aspirante a una nuova pianificazione dell’area non necessariamente a lui favorevole, come del risparmiatore in riferimento all’attività di vigilanza creditizia, come dell’utilizzatore di un dispositivo medico rispetto alla vigilanza sanitaria.
4. L’omessa vigilanza tra comportamento ed esercizio della funzione.
Le esitazioni sulla giurisdizione in relazione ai comportamenti omissivi della p.a. affiorano anche dall’analisi della stessa giurisprudenza in materia di responsabilità da omessa vigilanza bancaria e creditizia, chiamata, in ragione della formulazione dell’art. 133 cpa a individuare più precisamente il confine tra giudice ordinario e giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ovvero tra comportamento mero e comportamento mediatamente collegato all’esercizio del potere[24].
Già sotto il vigore dell’art. 7 della l. 205/2000, la Cassazione aveva affermato che le controversie in esame esulavano dalla giurisdizione esclusiva mancandone il presupposto dell’esercizio di poteri autoritativi[25], e ancor più di recente la medesima è negata sulla base del dato testuale degli artt. 7 e 133 cpa[26]. Non mancano, tuttavia, recenti posizioni della giurisprudenza ordinaria in cui tali liti sono ascritte alla materia di vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare espressamente contemplate dall’art. 133 cpa lett.c). Da sottolineare è che, in questi casi, la posizione giuridica vantata dall’investitore rispetto a detti organismi di controllo, viene qualificata di interesse legittimo, in quanto – si osserva – “i poteri di vigilanza non mirano a tutelare specifici interessi individuali, ma l'interesse pubblico al corretto andamento del mercato, per la cui tutela l'ente è dotato di discrezionalità nell'uso dei mezzi a sua disposizione”[27]. Se appare improprio il riferimento alla discrezionalità, sembra meritevole di riflessione la considerazione dell’esistenza di un potere amministrativo funzionale a interessi generali che implica la possibilità di una tutela dell’interesse individuale unitamente all’interesse pubblico.
Le stesse Sezioni Unite della Cassazione, avevano peraltro, solo qualche anno fa riconosciuto che la pretesa azionata in via cautelare dai titolari delle azioni di una società quotata nei confronti della Consob, avente ad oggetto non il risarcimento del danno ma la condanna dell’autorità ad esercitare i poteri di vigilanza alla stessa attribuiti dall'ordinamento per assicurare la correttezza e la trasparenza dei mercati finanziari, rientrerebbe nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo “non essendo qualificabile come diritto soggettivo, ma eventualmente come interesse legittimo”. Spetterebbe, poi, al giudice amministrativo – si afferma - stabilire, “in concreto e nel merito, se l'interesse del privato volto ad ottenere o a conservare un bene della vita quando esso viene a confronto con un potere attribuito dalla legge all'Amministrazione non per la soddisfazione proprio di quell'interesse individuale, ma di un interesse pubblico che lo ricomprende (corsivi nostri) e per la cui realizzazione è dotata di discrezionalità nell'uso dei mezzi a sua disposizione, costituisca un interesse meritevole di tutela ovvero rientri tra gli interessi di mero fatto”[28]. La discrezionalità, ridotta a discrezionalità nel quomodo, non costituisce, dunque, chiaramente criterio di riparto della giurisdizione, mentre la previsione della giurisdizione esclusiva potrebbe perfino rivelarsi superflua, ravvisandosi interessi legittimi coinvolti dall’esercizio/mancato esercizio di un potere pubblico[29].
Tali argomenti danno certamente conto della difficoltà di individuare, se non in alcune specifiche ipotesi,[30] il comportamento mediatamente collegato all’esercizio del potere nella misura in cui, a fronte del potere della P.A. finiscono per configurarsi naturalmente interessi legittimi - ponendo così in dubbio la stessa utilità della giurisdizione esclusiva come oggi conformata[31]. Ad ogni modo, l’analoga struttura dei rapporti tra paziente e Ministero della Salute rispetto a quelli tra risparmiatore e Consob/Banca d’Italia consente in effetti ragionamenti analoghi, alla luce dell’alternativa, emersa nella giurisprudenza, tra esistenza del potere/suo cattivo esercizio in relazione a comportamenti omissivi e ritardi dell’amministrazione, pur a fronte della dichiarata individuazione del discrimen delle giurisdizioni nella natura dell’interesse sostanziale leso[32].
- 5. Il comportamento omissivo illecito e l’illegittima violazione del dovere di provvedere.
La giurisprudenza sopra menzionata ricorda, in effetti, che l’omesso esercizio di un comportamento doveroso, può rilevare come comportamento illegittimo[33], così come il ritardo, sanzionati dagli artt. 2 e 2 bis della l. n. 241/1990[34]. Perché possa configurarsi un cattivo esercizio del potere, tuttavia, deve sorgere in capo all’amministrazione un dovere di provvedere imposto da norme sull’esercizio della funzione, esito di un’iniziativa considerata dall’ordinamento amministrativo idonea ad attivare l’esercizio del potere amministrativo[35]. Il che può verificarsi anche laddove poteri d’ufficio siano stimolati da terzi, in posizione differenziata, che rappresentino circostanze tali da rendere l’azione vincolata, nell’an e nel quando, per il perseguimento dell’interesse generale e, eventualmente e mediatamente, di quello individuale, anche solo strumentale[36].
Se questo può sembrare germe di confusione tra le giurisdizioni, così non è ove si consideri come le medesime sono storicamente ordinate non sulle situazioni giuridiche soggettive individuali ma sull’esercizio del potere dell’amministrazione[37], che condiziona l’applicazione di norme di relazione ovvero di norme di azione[38]; distinzione talvolta respinta[39], ma il cui abbandono mostra tutta la sua pericolosità quando si guardi alle oscillazioni sulla giurisdizione in materia di sostegno agli studenti disabili[40], o si pensi alle questioni che investono i limiti interni della giurisdizione amministrativa[41].
Con una precisazione, utile a offrire ordine anche con riferimento alle controversie risarcitorie in relazione ad azioni positive delle autorità di vigilanza, promosse dai relativi beneficiari: in primo luogo, che il potere amministrativo può dirsi sussistente in quanto una norma dell’ordinamento generale abbia attribuito all’amministrazione la capacità di disporre delle situazioni giuridiche degli amministrati[42]; che il potere dell’amministrazione non può essere apprezzato in astratto ma nella sua relazione con l’interesse individuale; non può essere considerato nel suo aspetto statico ma in quello dinamico[43]. E l’interesse legittimo, chiariscono la dottrina più autorevole e la giurisprudenza ormai consolidata, non sorge a fronte di un provvedimento amministrativo, di una decisione finale ma di un potere in atto, nel suo esercizio o mancato esercizio, suscettibile di produrre effetti nella sfera giuridica dell’interessato, anche qualora, stante la multipolarità dell’azione amministrativa, egli non ne sia il destinatario primo[44].
Peraltro, un criterio di riparto che dia ragione di un sistema di giurisdizione dualistico sulle controversie nei confronti della P.A. e che non può riposare su un criterio distintivo fondato sulla vincolatività/discrezionalità del potere[45], né su visioni restrittive delle situazioni giuridiche soggettive o sul loro disconoscimento, chiama in gioco la duplicità di ordini normativi che possono regolare tanto l’azione che l’inazione dell’amministrazione: norme dell’ordinamento generale che tutelano in via diretta interessi dei singoli, norme dell’ordinamento amministrativo che disciplinano l’esercizio del potere in funzione dell’interesse generale e, insieme, dell’interesse soggettivo.
6. Riparto della giurisdizione e situazione giuridica soggettiva risarcibile.
Che il riparto della giurisdizione, anche sulle controversie risarcitorie e anche su quelle originanti da condotte omissive, si radichi sulla configurabilità in concreto dell’esercizio del potere è conseguenza dell’attuale diritto positivo che devolve al giudice amministrativo la giurisdizione sulle domande di risarcimento del danno in tutto l’ambito della sua giurisdizione, mentre sarebbe fuorviante ragionare secondo una contrapposizione diritti/interessi laddove la dottrina ha ben dimostrato come le situazioni giuridiche soggettive risarcibili sono in ogni caso diritti, ciò necessariamente anche quando la tutela risarcitoria sia erogata dal giudice dell’esercizio della funzione[46].
Può convenirsi con la più attenta dottrina che i comportamenti inerti e ritardi dell’amministrazione appaiono suscettibili di una duplice qualificazione: come illeciti e lesivi di diritti soggettivi ove violativi di norme dell’ordinamento generale che delineano i confini del potere amministrativo, come illegittimi e potenzialmente lesivi di interessi legittimi, ove posti in violazione di norme di esercizio del potere amministrativa, espressione della sua autonomia pubblica[47]. Con la possibilità di una plurima qualificazione, come illegittimi e illeciti, ove siano contemporaneamente violati i due ordini normativi dallo stesso comportamento[48], non essendo sufficiente l’illegittimità della condotta a fini risarcitori, ovvero rilevando ai due diversi fini singoli segmenti dei medesimi comportamenti[49]. Allorché a fronte di un esercizio di potere – anche come non esercizio - si rilevi altresì la violazione di norme posta a diretta tutela dell’interesse individuale, come quelle che declinano i singoli poteri pubblici ovvero le clausole generali di diligenza, prudenza, perizia, correttezza, ecc.[50], sarà possibile accordare, in sede di giurisdizione amministrativa, la tutela risarcitoria del diritto soggettivo.
Imparzialità e diligenza non sono la stessa cosa, non configurano norme della medesima tipologia benché sempre più spesso utilizzate in modo quasi fungibile[51], sono conoscibili da giudici distinti o, nelle controversie risarcitorie di competenza del giudice amministrativo, a diversi fini.
7. Riflessioni conclusive.
La sentenza esame appare condivisibile, avendo correttamente declinato la giurisdizione amministrativa. La sintetica motivazione, che sostanzialmente rinvia a quella delle pronunce, anche molto recenti, delle Sezioni Unite sulle controversie risarcitorie in materia di vigilanza bancaria e creditizia -dovendo essere quindi letta unitamente a queste-, suggerisce però più attente riflessioni sul criterio di riparto, essendo le motivazioni delle pronunce richiamate a loro volta appiattite sull’affermazione dell’astratta insussistenza di un potere amministrativo capace di interessare direttamente i beneficiari dell’attività di vigilanza. Il che non sembra del tutto esatto. Manca, nel caso in esame come in quelli richiamati, un qualificato esercizio/non esercizio illegittimo idoneo a relazionarsi con una situazione giuridica soggettiva differenziata di interesse legittimo, quale segmento del comportamento illecito capace di radicare la giurisdizione amministrativa.
Tale regola di riparto della giurisdizione, anche nelle controversie risarcitorie, è funzionale all’effettività della tutela giurisdizionale[52], rappresentando un criterio sistematico di separazione, indispensabile in ogni sistema dualistico[53]. Il sindacato su di esso rappresenta ancora ragione dell’esistenza di un giudice amministrativo[54] nella sua attitudine a rispondere alla dimensione assiologica delle aspettative del cittadino. Ciò malgrado l’ibridazione dovuta all’estensione della giurisdizione esclusiva[55] e all’attribuzione, per ragioni di semplicità e di concentrazione dei giudizi, delle controversie risarcitorie. Non per questo, in ogni caso, il giudice amministrativo deve scolorire in puro giudice dei diritti [56].
[1] In generale sulla responsabilità per danno da comportamento della p.a.: P. Chirulli, Responsabilità da comportamento, in www.iuspublicum.it, 2011.
[2] Cfr., da ultimo, Cons. St., ad. plen. 23 aprile 2021 n. 7, che peraltro riconosce che “Il paradigma cui è improntato il sistema della responsabilità dell’amministrazione per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o per il mancato esercizio di quella doverosa, devoluto alla giurisdizione amministrativa, è quello della responsabilità da fatto illecito”.
[3] VV. la sintesi di V. Domenichelli, P. Santaniello, La giurisdizione del giudice amministrativo, in www.iuspublicum.it, 2011.
[4] Cfr. M. Pastore, Consob e omessa vigilanza: un modello di responsabilità in via di definizione. in Danno e responsabilità, 2011, 12, 1175.
[5] Cfr., ad es., Cass. Sez. Un., 14 gennaio 1992 n. 367, in Banca, Borsa e titoli di credito, 1992, II, 393 ss., e ivi N. Marzona, Le posizioni soggettive del risparmiatore secondo il giudice della giurisdizione: una difficile tutela; Cass. Sez. Un., 29 marzo 1989 n. 1531 in Giur. it., 1990, I, 440 ss., con nota di F. Vella, Proposta di avvio della procedura di liquidazione coatta amministrativa nei confronti di imprese bancarie e responsabilità degli organi di vigilanza; Trib. Milano, 9 gennaio 1986 in Giur. comm., 1986, II, 427 ss., con nota di M. Cera, Insolvenza del banco ambrosiano e responsabilità degli organi pubblici di vigilanza, Corte d’Appello di Milano, 13 novembre 1998, in Società, 2001, 570 ss., anche ricordate da D. Stanzione, La responsabilità della Consob per omessa o inadeguata vigilanza: substance over form, in Banca, borsa e titoli di credito, 2013, 4, 367 ss.
[6] Cfr. Alb. Romano, La situazione legittimante al processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1989, F. Francario, Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa, in F. Francario, M. A. Sandulli, Profili soggettivi e oggettivi della giurisdizione amministrativa, in ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017, 1 ss., M. A. Sandulli, Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa: il confronto, Ibidem, 339, M. C. Romano, Situazioni legittimanti ed effettività della tutela giurisdizionale, Napoli, 2013. V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014. Per posizioni diverse, v. di recente C. Cudia, Legittimazione a ricorrere, concezione soggettivistica della tutela e principio di atipicità delle azioni nel processo amministrativo, in Persona e amministrazione, 2019, 2.
[7] Per aperture al riconoscimento di una responsabilità civile della Consob., v. G. Castellano, I controlli esterni, in in G.E. Colombo, G.B. Portale, Trattato delle società per azioni, 1998, 5, M. Cera, La Consob, Milano, 1984, Id., Insolvenza del Banco Ambrosiano e responsabilità degli organi pubblici di vigilanza, cit. con perplessità tuttavia proprio in relazione alle posizioni della giurisprudenza contrarie alla risarcibilità degli interessi legittimi. Cfr. D. Stanzione, Op. cit., nota 24.
[8] G. Scognamiglio, La responsabilità civile della Consob, in Riv. dir. Comm., 2006, 700.
[9] G. Scognamiglio, La responsabilità civile della Consob, cit., D. Stanzione, La responsbailità della Consob, cit.
[10] F. Capriglione, Responsabilità e autonomia delle autorità di controllo del mercato finanziario di fronte alla “risarcibilità degli interessi legittimi”, in Foro it., 1999, I, 2487, M. Clarich, La responsabilità della Consob nell’esercizio dell’attività di vigilanza: due passi oltre la sentenza della Cass. n. 500/1999, in Danno e resp., 2002, 223 ss.
[11] Cass. Sez. I civile, 3 marzo 2001 n. 3132.
[12] G. Scognamiglio, Op. cit. Carriero, La responsabilità civile dell’autorità di vigilanza, in Foroit, 2008, 221 ss., G. Stanzione, Op. cit., con particolare riguardo ai dubbi emersi nell’ordinamento giuridico tedesco.
[13] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 9 ottobre 2020 n. 5991, in cui si osserva come correttamente il giudice di prime cure avesse rilevato il difetto di giurisdizione “in linea con l’orientamento della giurisprudenza”.
[14] Cass. 31 maggio 2005, n. 11609, Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, nn. 576 e 577; Cass., Sez. Un., Cass. III, 1dicembre 2009, n. 25277. V. anche TAR Lazio, Roma, sez. III, 5 maggio 2014, n.4621. Cfr. M. Poto, Problematiche in tema di responsabilità del Ministero della sanità per omessa vigilanza sulla sicurezza del sangue e degli emoderivati, in Resp. civ. e previdenza, 2003, 3, 831, G. F. Aiello, La responsabilità del Ministero per omessa vigilanza sull’attività di raccolta e distribuzione di sangue infetto, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2014, 7-8, 664.
[15] Cfr., ex multis, Cass. Sez. Un., 8 maggio 2006, n.10418. Per una ricostruzione in termini di responsabilità da attività lecita: E. Scotti, Liceità, legittimità e responsabilità dell’amministrazione, Napoli, 2012.
[16] Per l’erroneità del presupposto della riserva alla giurisdizione ordinaria della tutela dei diritti fondamentali, v., ad es., Cass. Sez. Un., 5 febbraio 2008 n. 2656, sul diritto fondamentale all’educazione dei figli, Cass. Sez. Un., 3 giugno 2015 n. 11376, relativa all’organizzazione del servizio farmaceutico., Tar Liguria, 19 settembre 2019 n. 722 sul servizio di refezione scolastica e il diritto all’autorefezione. Sulla legittimità costituzionale dell’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del g.a. di controversie relative a diritti fondamentali: C. Cost., 5 febbraio 2010 n. 35. Per le complesse vicende che hanno riguardato il diritto all’istruzione degli studenti disabili: M. Ramajoli, Sui molteplici criteri di riparto della giurisdizione in materia di servizi di sostegno scolastico alle persone con disabilità, in Dir. proc. amm., 2020, 275., M. Mazzamuto, La discrezionalità come criterio di riparto della giurisdizione e gli interessi legittimi fondamentali, in www.giustizia-amministrativa.it, 2020. In generale, sulla tutela dei diritti fondamentali da parte del giudice amministrativo, cfr. E. Scotti, I diritti fondamentali nel pluralismo delle giurisdizioni, in www. questionegiustizia .it, 2021, L. Galli, Diritti fondamentali e giudice amministrativo: uno sguardo oltre confine fundamental rights and administrative judge: a look beyond the border, in Dir. proc. amm., 2018, 3, 978, F. Patroni Griffi, Diritti fondamentali e giudice amministrativo nel sistema multilivello delle tutele, in www.giustizia – amministrativa.it.
[17] Altra essendo la questione di quando l’interesse legittimo sussista in concreto: Cassazione civile sez. I, 18 marzo 2016, n.5443, Consiglio di Stato sez. IV, 09 novembre 2019: ritenendosi che la protezione del privato rispetto al potere pianificatorio di aree oggetto di vincolo decaduto sia di natura procedimentale, sostanziandosi “quale mero riflesso dei doveri dell’amministrazione, nella tutela dell’interesse al corretto esercizio del potere pianificatorio mediante la previsione di strumenti di reazione all’inerzia per far dichiarare l’illegittimità del silenzio e l’obbligo di ripianificazione”. Non sarebbe tutelata la mera aspettativa di edificabilità o utilizzabilità del fondo.
[18] V., ad es., Cons. St., IV, n. 5160, 3 agosto 2010 n. 5160, Cons. St., VI, 5 luglio 2019 n. 4682.
[19] Iscrizione che, secondo quanto chiarito sia dall'Adunanza plenaria 11 gennaio 2007, n. 1, che dal medesimo TAR Lazio (sentenze nn. 2704 del 21 marzo 2012, 1620 dell'8 febbraio 2010 e 7868 del 5 agosto 2009), costituisce requisito essenziale perché, ai sensi dell'art. 139 dello stesso decreto, un’associazione possa ritenersi legittimata a ricorrere e a resistere.
[20] V. ad es. Cass. Sez. Un., 2 maggio 2003 n. 6719. Soluzioni che sembrano coerenti con i tentativi delle Sezioni Unite di estendere la giurisdizione ordinaria sulle controversie risarcitorie nascenti da lesione dell’affidamento del privato a fronte di provvedimenti, espressione dell’esercizio di poteri amministrativi. Cfr., per tutte, Cass. ord. nn. 6594, 6595, 6596 del 2011 in cui si è riconosciuta la giurisdizione ordinaria sulle controversie risarcitorie per lesione dell’affidamento ingenerato da atti amministrativi illegittimi poi annullati. Per una critica alle posizioni volte a riconoscere la giurisdizione ordinaria a fronte dell’esercizio di poteri pubblicistici: M. A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, Ad plen., 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell'azione risarcitoria e di Cass., Sez. un, 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti favorevoli), in Riv. giur. edil., 2010, 6, 479, e v. R. Villata, “Lunga marcia” della Cassazione verso al giurisdizione unica (“dimenticando” l’art.103 della Costituzione? in Dir. proc. amm., 2012, 324 ss. Per una sintesi della giurisprudenza sul tema e un commento all’ordinanza di rimessione alla plenaria: C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla plenaria sul danno da provvedimento favorevole annullato (nota a Cons. St., ord. 9 marzo 2021, n. 2013), in www. giustiziainsieme. it, 2021.
[21] Cass. Sez. Un., ord. 3 febbraio 2016 n. 2050.
[22] Cons. St., Sez. III, 28 marzo 2014 nn. 1501, 1501, 1503, 1504, 1505, 1506.
[23] V. le considerazioni di M. A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni, cit.
[24] Cfr., per tutte, Cass. Sez. Un., 05 marzo 2020, n. 6324. Corte cost., 6 luglio 2004, n.204, Corte cost., 11 maggio 2006, n.191, Corte cost., 26 maggio 2006, n.205, Corte cost., 20 luglio 2006, n.306, Corte cost., 27 aprile 2007, n.140, V. Corte cost., 0 febbraio 2010, n.35, Corte cost., 8 ottobre 2010, n.293, Corte cost., 22 dicembre 2010, n.371, Corte cost., 12 maggio 2011, n.167, Corte cost., 18/02/2011, n.54, Corte cost., 15 luglio 2016, n.179.
[25] Cass. Sez. Un., 2 maggio 2003 n. 6719.
[26] V., da ultimo, Cass. Sez. Un., 5 marzo 2020 n.6324.
[27] Tribunale Ancona, 20 febbraio 2019, n.331.
[28] Cass., Sez. Un., 18 maggio 2015, n.10095.
[29] Per la successiva negazione che questa decisione si suscettibile di influire, in via generale, sul riparto della giurisdizione in materia di omessa vigilanza: Cass, Sez. Un, 18 maggio 2015 n. 10095, cit., Cass. Sez. Un., 5 marzo 2020 n.6324 Vi si afferma, con considerazioni invero discutibili: “in primo luogo, la citata decisione ha premesso che la questione di giurisdizione non atteneva alla domanda risarcitoria ma unicamente a quella <>, contestualmente proposta. In secondo luogo, non si potrebbe interpretare il suddetto precedente come se fosse ricognitivo della regola della duplicità delle giurisdizioni, a seconda del modo di declinare la domanda risarcitoria, da devolvere al giudice ordinario se proposta per equivalente e al giudice amministrativo se proposta in forma specifica), in considerazione della natura rimediale della tutela risarcitoria in entrambi i casi”.
[30] Come ad esempio, in materia di accordi amministrativi (tra le più recenti: TAR Campania, Napoli, VII, 2 ottobre 2020, n.4192, TAR Lazio, Roma, sez. III, 1giugno 2020, n.5823, Cons. St., sez. IV, 28 settembre 2016, n. 4026, Cass. Sez. Un., 10 novembre 2020, n.25209), di occupazione acquisitiva, sia pur con incertezze relativamente alla configurabilità di diritti soggettivi (ex multis: Cass., Sez. Un., 17 settembre 2019, n.23102), di mancata retrocessione del bene espropriato (TAR Calabria, Catanzaro, II, 16 maggio 2019, n.990), di questioni patrimoniali relative ai rapporti di pubblico impiego non privatizzato (Sul punto v. Cass., sez. un., 14 gennaio 2005, n. 601).
[31] F. G. Scoca, Il processo amministrativo ieri, oggi, domani (brevi considerazioni), in Dir. proc. amm., 2020, 4, 1095.
[32] Cass. Sez. Un., 5 marzo 2020 nn. 6324, 6325, cit., Cass. Sez. Un. 6 marzo 2020 n. 6451, 6452, 6453, 6454; posizioni discutibilmente basate sulla stessa esclusione di una giurisdizione di legittimità, che certamente sussiste almeno nelle controversie che coinvolgono gli intermediari. Per la negazione di una giurisdizione esclusiva sulle controversie risarcitorie per responsabilità della p.a. nell’ambito dei servizi sanitari, v. Cass. Sez. Un., 8 maggio 2006, n.10418 e più di recente: TAR Sicilia, Catania, IV, 1aprile 2015, n. 925.
[33] Su cui v. ampiamente A. Cioffi, Dovere di provvedere e pubblica Amministrazione, Milano, 2005. e già, sia pur posizioni diverse: M. Clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995. Cfr. sulla tutela giurisdizionale verso i silenzi e i ritardi della P.A. M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., 2014, 722. Sulle evoluzioni antecedenti la L. n.241/1990: A. Angiuli, Studi sulla discrezionalità amministrativa nel quando, Bari, 1988.
[34] Per cui v. M.L. Maddalena, Conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento, in Alb. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016. Con particolare riguardo alla disciplina degli indennizzi per il mero ritardo: M. Ragusa, Forme di tutela all’interesse alla (tempestiva) conclusione del procedimento (nota a Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 20 aprile) in www. giustiziainsieme.it, 2021.
[35] A. Cioffi, Conclusione del procedimento, in Alb. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016.
[36] TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 19 maggio 2008, n. 523. Sul rilievo degli interessi strumentali nel processo amministrativo, cfr., ad es., tra le pronunce più recenti: Consiglio di Stato sez. III, 1marzo 2021, n.1708, TAR Campania, Napoli, V, 22 gennaio 2021, n. 496, Corte cost., 13 dicembre 2019, n.271.
[37] Alb. Romano, La situazione legittimante al processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1989, 511; F.G. Scoca, Divagazioni su giurisdizione e azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 1, 2008, 1.
[38] Per l’utilizzo di queste categorie ai fini del regime di invalidità degli atti amministrativi: P. Lazzara, Annullabilità e annullamento (dir. amm.), in Treccani - Diritto online, 2012.
[39] Cfr., ad es., le riflessioni di G. Verde, La Corte di cassazione e i conflitti di giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2013, 2, 367.
[40] Su cui v. ad es., M. Ramajoli, Sui molteplici criteri di riparto della giurisdizione in materia di servizi di sostegno scolastico alle persone con disabilità, cit., M. Mazzamuto, La discrezionalità come criterio di riparto della giurisdizione e gli interessi legittimi fondamentali, cit.
[41] Per i dibattiti sollevati dalla recente ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione, cfr. A. Barone, Nomofilachia, Corti sovranazionali e sicurezza giuridica, in Dir. proc. amm., 2020, 3, 557, M. Clarich, Riflessioni sparse sul dualismo giurisdizionale non paritario, in www.questionegiustizia.it, 2021, 1. V. già Corte cost., 18 gennaio 2018, n.6.
[42] A. Romano, I soggetti e le situazioni giuridiche soggettive, in Diritto amministrativo, a cura di Mazzarolli, Pericu, A. Romano, Roversi Monaco, Scoca, IV ed., Bologna, 2005, 145 ss.
[43] A. Romano Tassone, Situazioni giuridiche soggettive (diritto amministrativo), ad vocem, in Enc. Dir., 1998, 41, 966 ss., 979-980, F. G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino 2017, 458.
[44] A. Scognamiglio, Il diritto di difesa nel procedimento amministrativo, Milano, 2004, L. De Lucia, Provvedimento amministrativo e diritti dei terzi. Saggio sul diritto amministrativo multipolare, Torino, 2005.
[45] Cfr., di recente, Cons. St., Sez. III, 21 ottobre 2020 n. 6371, in cui si osserva, appunto che <l’assenza di="" discrezionalità="" amministrativa,="" non="" riduce="" il="" potere="" ad="" un’obbligazione="" civilistica,="" poiché="" l’amministrazione="" esercita="" in="" questi="" casi="" una="" funzione="" verifica,="" controllo,="" accertamento="" teorico="" dei="" presupposti="" previsti="" dalla="" legge,="" quale="" soggetto="" incaricato="" della="" cura="" interessi="" pubblici="" generali,="" esulanti="" propria="" sfera="" patrimoniale”;="" anche="" se="" costituisce="" un="" diaframma="" sottile,="" “nondimeno="" quel="" <i="">proprium di una situazione giuridica soggettiva che l’ordinamento pone in sede di conformazione della sfera giuridica privata al fine di evitare anche l’utilità spettante possa andare a detrimento dell’interesse pubblico predefinito dalla legge e affidato alle cure dell’amministrazione”. “Il potere, dunque, rimane espressione di “supremazia” o, in termini più moderni, di “funzione”, anche se l’an e il quomodo del suo esercizio sono predeterminati dalla legge” >. Cfr, tra i contributi più recenti: F. G. Scoca, Scossoni e problemi in tema di giurisdizione del giudice amministrativo, in Il processo, 2021, 1, 1.
[46] Cfr. Alb. Romano, Sulla pretesa risarcibilità degli interessi legittimi; se sono risarcibili sono diritti soggettivi, in Dir. amm., 1998, Id., Sono risarcibili; ma perché devono essere interessi legittimi? in Foro it., 1999, 3222, che osserva, in primo luogo come ai fini della risarcibilità, l’attività pubblicistica dell’amministrazione rilevi pur sempre come fatto lesivo di un diritto. Peraltro, anche quando l’interesse legittimo che si assume leso ha carattere pretensivo “la controversia ha per oggetto un certo bene della vita”; che qui si atteggia come possibilità di esplicare l’attività subordinata agli effetti ampliativi del provvedimento richiesto. Su tali posizioni, cfr. anche A. Romano Tassone, La responsabilità della p.a. tra provvedimento e comportamento, in www. giustizia – amministrativa. it, 2004, F.G. Scoca, Divagazioni su giurisdizione e azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 1, 2008, 1, F. Merusi, La tutela risarcitoria come strumento di piena giurisdizione, in www.giustizia-.amministrativa.it, 2020.
[47] Alb. Romano, Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. Disc. Pubbl., 1987.
[48] G. Racca, La responsabilità della pubblica amministrazione e il risarcimento del danno, in R. Garofoli, G.M. Racca, M. De Palma, Responsabilità della pubblica amministrazione e risarcimento del danno innanzi al giudice amministrativo, Milano, 2003, 3 ss. Cfr. già Alb. Romano, Amministrazione, principio di legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. Amm., 1999, 1, 111 ss. che osserva come si possa affermare che “per gli atti e comportamenti anche dell’amministrazione, e anche per quelli suoi pubblicistici, non possono non valere per essa doveri elementari e generalissimi” espressi dall’ordinamento generale: “quelli di buona fede, correttezza, rispetto dell’affidamento e così via”. “E neanche l’amministrazione, neppure con suoi atti o comportamenti pubblicistici, può arrecare ad altri un , ai sensi dell’art.2043 c.c.”; il che deriva dall’ascrizione dell’amministrazione all’ordinamento unitario. Peraltro, le norme di azione disciplinano l’esercizio dei poteri dell’amministrazione senza incidere sui limiti che le norme di relazione già a questi pongono, non concorrendo a determinare le relazioni che intercorrono tra questa e altri soggetti: Alb. Romano, Interesse legittimo e ordinamento amministrativo, in Atti del Convegno celebrativo del 150° anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Milano, 1983, 95 ss., Id., Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la l. n.205 del 2000 (Epitaffio per un sistema), in Dir. proc. amm., 2001, 630.
[49] Cfr. anche E. Zampetti, Contributo allo studio del comportamento amministrativo, Torino, 2012, 224 ss.
[50] Cfr. Cons. St., Ad. plen. 4 maggio 2018 n. 5, che ricorda come: “ La giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha, infatti, in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell'attività autoritativa, l'amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l'invalidità del provvedimento e l'eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell'interesse legittimo), ma anche le norme generali dell'ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull'interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell'altrui scorrettezza”.
[51] L. Lorenzoni, I principi di diritto comune nell’attività amministrativa, Napoli, 2018.
[52] Cfr. F. Patroni Griffi, Diritti fondamentali e riparto di giurisdizione, in www.giustizia – amministrativa.it, 2017.
[53] Cfr. Alb. Romano, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975, R. Cavallo Perin, Giurisdizione Ordinaria e Pubblica Amministrazione: l. 20 marzo 1865, n. 2248. Abolizione del contenzioso amministrativo, art. 2 sez. II, Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, in Commento Breve alle Leggi sulla Giustizia Amministrativa, III ed., a cura di Alb. Romano, R. Villata, Padova, 2009, 16 ss., M. Mazzamuto, Il riparto di giurisdizione. Apologia del diritto amministrativo e del suo giudice, Napoli, 2008.
[54] Per un’autorevole posizione di segno contrario alla pluralità delle giurisdizioni, cfr. L. Ferrara, Il giudice amministrativo come risorsa o come problema? in www.questionegiustizia.it, 2021, 1 e v. Id., Statica e dinamica dell’interesse legittimo: appunti, in Dir. amm., 2013, 3, 465.
[55] Su cui v. ampiamente A. Police, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo. Profili teorici ed evoluzione storica della giurisdizione esclusiva nel contesto del diritto europeo, Padova, vol. I, 2000, vol. 2, 2001. Cfr. anche G. De Giorgi Cezzi, Processo amministrativo e giurisdizione esclusiva: profili di un diritto in trasformazione, in Dir. proc. amm., 2000, 3, 696.
[56] Sui rischi della “patrimonializzazione” dell’interesse legittimo e della trasformazione del g.a. in giudice dei diritti, v. F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in www. giustiziainsieme. it, 2021. Cfr. ancora M. A. Sandulli, La “risorsa” del giudice amministrativo, in www.questionegiustizia.it, 2021, 1, G.E. Gallo, Attualità del giudice amministrativo, in www. giustiziainsieme .it, 2021. V. già le preoccupazioni espresse da A. Romano Tassone, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, su ww.lexitalia.it. Per ulteriori riflessioni sull’attuale ruolo del g.a. cfr. ad es. G. Montedoro, E. Scoditti, Il giudice amministrativo come risorsa, ivi, F. Patroni Griffi, Contributo al dibattito sul giudice amministrativo come risorsa, ivi, A. Travi, Il giudice amministrativo come risorsa? Ibidem,
La nozione di “beni comuni”, nel contesto di una revisione costituzionale degli assetti proprietari previsti dal codice civile[1].
di Paolo Maddalena
La dizione “beni comuni” ha avuto una diffusione senza precedenti ed è entrata nel linguaggio corrente per indicare un bene il cui uso è in qualche modo indispensabile per soddisfare le esigenze quotidiane dei singoli e delle collettività. Ma al di là di questo vago significato, dopo circa venti anni di laboriose ricerche, non ancora si è arrivati a una sua chiara definizione, che, secondo alcuni, si collocherebbe “oltre il pubblico e il privato”: dunque non si sa dove, confermandosi così il diffuso convincimento che si tratta di un “concetto inafferrabile”[2].
Eppure la necessità di chiarire questo concetto, nell’ambito di una revisione della disciplina dei “beni pubblici” sancita dal vigente codice civile, è diventata certamente impellente, specialmente dopo che l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha inserito nello Statuto del Movimento cinque stelle l’obiettivo di dar tutela e vita proprio a questo tipi di beni.
La finalità del presente articolo è proprio quello di dare un contributo alla soluzione di questo problema, ponendo in massima luce che, per dare effettività e tutela ai beni comuni, come sono stati percepiti dalla gente, nonché da numerosa dottrina, non è assolutamente idoneo il “il disegno di legge delega” elaborato dalla Commissione Rodotà” (meglio qualificata “Commissione Mastella-Rodotà”, poiché i suoi membri, i cui pareri prevalsero molto spesso su quelli del Prof. Rodotà, furono tutti nominati dal Ministro della Giustizia Mastella con decreto ministeriale del 21 giugno 2007), il quale, non ostante ciò che si afferma nella “Relazione di accompagnamento”, la quale ripetutamente fa riferimento ai principi costituzionali (esponendo anche considerazioni pienamente condivisibili), presenta mende di vario tipo e soprattutto viola in pieno la nostra Costituzione repubblicana e democratica.
Per rendersi conto della portata negativa di questo disegno di legge, occorre, a nostro avviso, partire dalle circostanze in cui si svolsero i lavori della Commissione.
A tal proposito è da sottolineare che, come si apprende dalla stessa Relazione[3] di accompagnamento al disegno di legge delega, l’esigenza di “riformare il contesto giuridico dei beni pubblici” fu fatta presente, nel 2002, da parte dei professori Sabino Cassese, Antonio Gambaro, Edoardo Reviglio, Ugo Mattei, e, in particolare dal Prof. Giulio Tremonti, Ministro delle finanze, al fine di rendere la disciplina di questi beni (molti dei quali erano stati “privatizzati”) compatibile con la struttura del nuovo “Conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche che era basato sui criteri della contabilità internazionale”, e cioè su “criteri privatistici” e non più su “criteri pubblicistici”, per cui, come agevolmente si comprende, in questa riforma, si sarebbe dovuto eliminare il riferimento alla “proprietà pubblica”, dando invece risalto alla “proprietà privata”. Obiettivo, del resto, pienamente conseguito nel disegno di legge delega in questione, poiché tale disegno ha sancito l’eliminazione del “demanio”, concependolo “non come proprietà demaniale del Popolo”, e quindi inalienabile, inusucapibile e inespropriabile (come oggi prescrive la Costituzione), ma come oggetto di “proprietà privata”, definita “pubblica”, in quanto “appartenente” a una “pubblica amministrazione”. Infatti l’ordinamento giuridico voluto da Carlo Alberto considerava i “beni pubblici” come “appartenenti allo “Stato persona giuridica”, e, in pratica, in proprietà del Sovrano e dei governanti.
Ciò risulta chiaramente da un regolamento di contabilità pubblica, approvato con R. D. n. 3074, del 5 maggio 1885, secondo il quale:“i beni dello Stato (cioè “appartenenti” allo Stato persona giuridica) si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a “titolo di sovranità” (cioè i beni che, originariamente, servono a rafforzare la posizione di chi governa), e formano il patrimonio quelli che allo Stato “appartengono” a titolo di “proprietà privata” (cioè alla pari di tutti i cittadini). Ed è da sottolineare che si tratta di una definizione che ripete letteralmente quanto disponeva l’art. 426 del codice civile del 1865, il quale, come è noto, ricalcava a sua volta la struttura e la matrice ideologica del code civil francese del 1804.
Ed è opportuno ricordare che il criterio “dell’appartenenza” dei beni demaniali a chi governa risale alle origini del demanio stesso, che fu creato con un provvedimento che discendeva dall’alto, cioè dal Sovrano. E’ quanto si legge nel “Liber Constitutionum” del Regno di Sicilia, emanato a Melfi, da Federico II, nel 1231[4], il quale precisa che il “demanio” (termine, che proviene dalla parola latina “dominium”, inteso, questa volta come “dominio regio”), nacque dalla necessità di “riservare” al Sovrano la “proprietà” (da considerare sempre “in senso privatistico”), di quei beni di maggiore interesse pubblico, proprio al fine di maggiormente tutelarne la sovranità.
In sostanza, siamo di fronte a una “eterogenesi dei fini”, poiché, il disegno di legge in parola, agendo secondo l’ordinamento vigente all’epoca dell’emanazione del codice civile (cioè sotto l’impero dello Statuto albertino), in realtà, senza che il lettore se ne accorga, finisce per produrre i suoi effetti sull’ordinamento vigente, con conseguenze fortemente dirompenti. Infatti, l’abolizione del “demanio”, non riguarda più “i beni dello Stato persona giuridica individuale”, e quindi i governanti che tale sovranità esercitano, ma il vigente “Stato comunità”, i cui “i beni demaniali” sono funzionali alla vita civile e ordinata di tutti i cittadini. E, al riguardo, è da tener presente che la Costituzione non si limita a stabilire “l’appartenenza della sovranità” al Popolo, ma prosegue indicando anche i “fini” che lo “Stato comunità” deve perseguire, per cui “i beni pubblici” in questione servono, non solo per garantire la “sovranità” di questo tipo di Stato, e quindi la sua “identità” e la sua “esistenza”, ma anche per raggiungere detti fini, che sono chiaramente indicati dal secondo comma dell’art. 3 Cost., secondo il quale “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, nonché dall’art. 4 Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”, allo scopo di consentire a essi “di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società”. Insomma, i fini da perseguire sono: “la libertà” e “l’eguaglianza” di tutti i cittadini; la loro effettiva “partecipazione” all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese; la “effettività del diritto al lavoro”; il diritto di svolgere “un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società”. Ed è in questo quadro, che l’art. 42 Cost. sancisce che la “proprietà” non è soltanto “privata”, come nell’ordinamento voluto dallo Statuto albertino, ma è “pubblica e privata”, intendendo per ”pubblica”, come subito avvertì Massimo Severo Giannini[5], per l’appunto “la proprietà collettiva demaniale” del Popolo. A questo punto emerge con grande chiarezza il passo falso compiuto da questo disegno di legge. Esso, pur riconoscendo lo stretto collegamento esistente tra i beni pubblici e l’esercizio dei diritti fondamentali, ha tolto al Popolo sovrano i “mezzi economici”, che allo stesso servono per tutelare i “diritti fondamentali” e per perseguire gli altri fini ai quali abbiamo fatto cenno. Basta riflettere sul fatto che di detti “beni pubblici” diventano “titolari” singole pubbliche amministrazioni o addirittura singoli soggetti privati.
Un risultato sorprendente e in diretto contrasto con quanto la stessa Relazione di accompagnamento ai lavori della Commissione aveva affermato in ordine al perseguimento dei citati “diritti fondamentali” e dello “svolgimento della persona umana”. In effetti, risulta estremamente chiaro che detto disegno di legge ha completamente deragliato dai binari che avrebbe dovuto percorrere, quelli del vigente ordinamento costituzionale, e si è collocato sui binari di un ordinamento giuridico di matrice napoleonica, del tutto superato dal nuovo ordinamento previsto dalla nostra Costituzione, facendo in modo che le sue disposizioni normative corrispondessero alle idee della vecchia cultura borghese, oggi fatta propria dal pensiero unico dominante del neoliberismo.
Insomma questo continuare a parlare di “proprietà pubblica” come “proprietà privata” della “pubblica amministrazione”, anziché come “proprietà collettiva del Popolo”, risulta chiaramente come un fuor d’opera. In effetti la “Repubblica”, lo “Stato comunità”, previsto dall’art. 1 della Costituzione, è praticamente messo da parte come se non esistesse, mentre l’elemento costitutivo della Repubblica, cioè il “Popolo”, cui appartiene la “sovranità”, viene spogliato degli strumenti economici a lui originariamente appartenenti a titolo di sovranità.
Ed è da sottolineare che viene fuori una “classificazione puramente descrittiva”, che fa leva sul concetto di “appartenenza” alla pubblica amministrazione o ai privati, piuttosto che alla “natura” dei beni, come si voleva far credere. Infatti, come si legge nella Relazione, i beni sono distinti “in beni comuni (intendendosi per tali beni “le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona”), beni pubblici e beni privati”, mentre i “beni pubblici” sono classificati in: beni pubblici “ad appartenenza pubblica necessaria”, in beni pubblici “sociali”; e beni pubblici “fruttiferi”, precisandosi che: “i beni a appartenenza pubblica necessaria” sono “quei beni che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli Enti pubblici territoriali”; “i beni sociali” sono quei beni, “le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona”; “i beni pubblici fruttiferi” sono i beni, “che non rientrano nelle categorie precedenti e sono alienabili e gestibili dai titolari pubblici con strumenti del diritto privato”. A cosa serva questa classificazione è difficile dirlo. Quello che è certo è che si prendono le mosse dai beni già “appartenenti” alla pubblica amministrazione e da questa “destinati” a determinati fini. Date le premesse, ci saremmo aspettati una classificazione dei beni “in base alla loro natura”, per risalire al loro “regime giuridico”, per stabilire cioè quali beni dovessero essere considerati fuori commercio, in quanto proprietà del Popolo, e quali beni in commercio. Invece ci troviamo di fronte a una classificazione che, in buona sostanza, prende atto di quanto già deciso dallo Stato, anche in ordine alla “alienabilità o inalienabilità” dei beni.
La eterogenesi dei fini, tuttavia, non si ferma qui. Infatti, nel definire “bene giuridico” la “cosa materiale o immateriale” le cui “utilità” possono essere” oggetto di diritto”, il disegno di legge in questione esclude ancora una volta la “proprietà collettiva del Popolo” e, in particolare, pone nel nulla il significato da dare alla dizione “proprietà pubblica”, che è espressa nell’art. 42, primo comma, primo alinea, della Costituzione”.
Non può sfuggire inoltre che la Relazione parla di “titolarità (cioè di proprietà) diffusa” dei beni pubblici, espressione che non avrebbe senso se non si pensasse, anche questa volta, alla “proprietà pubblica demaniale” del Popolo, nelle sue articolazioni territoriali, mentre la Relazione stessa dà al termine “diffusa” l’inconcludente significato di una “proprietà privata, appartenente a singoli soggetti o a singole amministrazioni pubbliche”.
L’eterogenesi dei fini appare ancora nell’affermazione secondo la quale sarebbe stata “garantita in ogni caso la fruizione collettiva”, la quale può esistere solo se si ammette una “proprietà collettiva” dei beni, e non se si fa riferimento, come si legge nella Relazione, ai beni in proprietà privata di singoli individui o di pubbliche amministrazioni.
Né risponde a verità che sarebbe stata adottata “una disciplina particolarmente garantista, idonea a nobilitare (i beni comuni) e a rafforzare la (loro) tutela”, poiché si è escluso, in modo eclatante, che l’azione di restituzione o di risarcimento del danno possa essere esercitata dai cittadini, singoli o associati, considerati, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, come “parti” del Popolo, affermandosi che dette azioni spettano allo Stato pubblica amministrazione, cioè a un singolo soggetto pubblico, secondo quanto prescrive il ricordato Statuto albertino, che, come si è ripetuto, assegna la sovranità allo Stato persona giuridica.
Si potrebbe andare avanti nell’annoverare le molteplici contraddizioni e errori riscontrabili in questa proposta di legge delega, ma si ritiene di aver detto abbastanza, per far capire che non è possibile parlare di beni comuni, se si elimina la “proprietà collettiva demaniale” del Popolo sovrano e si fa ricorso, violando la Costituzione, alla sola nozione della “proprietà privata”.
Ben diversa dovrebbe essere la riconsiderazione della disciplina dei beni pubblici, se davvero si tenessero presenti i principi e le norme della nostra Costituzione.
Innanzitutto, c’è da precisare che la definizione di “bene in senso giuridico” deve essere tale da comprendere, oltre ai beni che possono essere oggetto di diritti individuali, anche i beni che possono essere oggetto di diritti collettivi, e pertanto occorre aggiungere alla definizione di cui al vigente art. 810 del codice civile anche il riferimento ai beni che sono oggetto di “tutela giuridica”. Si pensi alla biosfera, agli ecosistemi, alla comunità biotica, ecc., i quali sono certamente beni, ma non rientrano affatto in detta definizione. Occorre poi, ovviamente, far riferimento, non solo alle cose materiali, ma anche alle cose immateriali, tra le quali rientrano i servizi, le servitù pubbliche, e cosi via dicendo
A questo punto, la cosa più importante da porre in evidenza è che la Costituzione, nel sancire il passaggio dallo Stato persona allo Stato comunità, non solo ha dichiarato, all’art. 1 Cost., che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e che “la sovranità appartiene al Popolo”, ma anche chiaramente precisato, nel descrivere “l’Ordinamento della Repubblica”, cioè dello “Stato comunità” (artt. 55 ss.), che fanno parte di quest’ultimo: a)il Parlamento,b) il Presidente della Repubblica, c) il Governo e la Pubblica amministrazione, d) la Magistratura, e) le Regioni, le Province e i Comuni, f) la Corte costituzionale. Ed è estremamente ovvio che agli istituti appena elencati non può darsi altro nome se non quello di “Organi” della Repubblica. Questo, a nostro avviso, risulta da una lettura non preconcetta delle disposizioni costituzionali. Del resto, quasi tutti gli autori identificano lo “Stato comunità”, con lo “Stato ordinamento”, in tal modo implicitamente riconoscendo che tutti gli istituti appena elencati non possono essere altrimenti denominati se non “Organi” della Repubblica o dello Stato comunità che dir si voglia.
Sennonché, non si capisce bene per quale ragione, la dottrina[6]ritiene, di solito, che possono essere definiti “Organi” dello Stato comunità soltanto “gli organi che assolvono funzioni obiettive e neutrali, quali la funzione costituente, quella legislativa, quella giurisdizionale, quella del pubblico ministero, o assolvano altre funzioni di direzione suprema dello Stato (funzioni di governo), oppure espletano talune funzioni ausiliarie (di consiglio o di controllo) in veste obiettiva e neutrale”.[7]Insomma, quello che è escluso è, in pratica, la “pubblica amministrazione””, che persegue interessi pubblici concreti. A nostro sommesso avviso, questa esclusione non ha ragion di esistere e si spiega solo con il tentativo di far sopravvivere, come autonomo soggetto giuridico, lo Stato amministrazione, cioè lo Stato persona giuridica, che il Sandulli ama denominare “Stato apparato”. Sembra proprio che si tratti, più che di una questione di carattere propriamente giuridico, di una necessità, si direbbe psicologica, di non porre in secondo piano una nozione di Stato sulla quale si sono affaticati per secoli generazioni di giuristi, filosofi e politologi. Ma dal punto di vista della logica giuridica, e soprattutto alla luce dei principio costituzionali, si tratta, invero, di un gravissimo errore, foriero di infinite complicazioni, che invece diventano tutte superabili, se si accetta che la “pubblica amministrazione” e quindi lo “stato persona”, sopravvive nell’ordinamento costituzionale, come “Organo”, sia pur dotato di soggettività giuridica, dello “Stato comunità.
Alla luce di quanto appena detto, si può ben comprendere la portata dell’affermazione di cui all’articolo 42, primo comma, primo alinea, secondo la quale la “proprietà” non è più quella alla quale faceva riferimento lo Statuto albertino e, di conseguenza, il nostro codice civile, e cioè soltanto “privata”, ma è “pubblica e privata”. Una volta stabilito che la “Repubblica” è uno “Stato comunità”, è in ultima analisi il “Popolo sovrano”, ne consegue che la proprietà di quest’ultimo, che non è un ”soggetto singolo” come lo “Stato persona giuridica”, ma un “soggetto plurimo”, non può che essere “pubblica” e cioè, come avvertì Massimo Severo Giannini, “proprietà collettiva”, o “comune” che dir si voglia. E si tratta, ovviamente, di una “proprietà” di tutti, e quindi inalienabile, inusucapibile e inespropriabile, poiché è chiaro che un bene che già appartiene a tutti non può essere alienato a singoli. Per cui la definizione appena data, sempre seguendo Giannini, va completata con l’aggiunta della parola “demaniale”. Insomma la “proprietà pubblica” è la “proprietà collettiva demaniale” del Popolo sovrano. E se si pensa che alle origini, come ha da tempo dimostrato il Niebuhr[8], l’unica forma di proprietà conosciuta dai giureconsulti romani era soltanto la “proprietà pubblica” del Popolo, e che la “proprietà privata” si è formata per successive “cessione” ai singoli da parte dell’intero Popolo, non dovrebbe essere difficile capire che la nostra Costituzione, forte dell’esperienza romanistica (tra i costituenti c’era l’illustre romanista Giorgio La Pira), è stata capace di dare amplissimo respiro alle esigenze del Popolo, proprio creando la nozione di “proprietà pubblica” in contrapposizione a “proprietà privata”.
E, a ben vedere, è proprio la permanenza nell’ordinamento costituzionale dello Stato persona come “Organo” dello Stato comunità, che consente di dar vita e sostanza alla “proprietà pubblica”. La “proprietà pubblica”, intesa correttamente come “proprietà collettiva demaniale”, non può che essere “gestita” dallo “Stato persona”, cioè, in ultima analisi dai “pubblici uffici che devono essere organizzati secondo disposizioni di legge , in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” (art. 97 Cost.). E non è tutto. Occorre che a tale gestione concorrano liberamente i cittadini, singoli o associati, in virtù del loro “diritto fondamentale” alla “partecipazione dell’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, comma 2, Cost.).
La “proprietà privata”, come ci aiuta a capire il seguito del primo alinea dell’art. 42 Cost. “appartiene” invece “allo Stato (persona), a enti o a privati”, se e in quanto si tratti di “beni economici”. E anche in questo secondo caso, quando si tratta di soggetti pubblici, è assicurato ai cittadini il loro diritto di partecipazione alle scelte della pubblica amministrazione.
E qui viene in evidenza la distinzione gaiana tra”beni fuori commercio” e “beni in commercio”. Appare chiaro, dopo quanto detto, che “fuori commercio” sono i beni che appartengono a tutti e sono oggetto di “proprietà collettiva demaniale”, mentre i beni in commercio sono tutti gli altri beni non necessari per l’esistenza e la vita del Popolo (art,. 36 Cost.). Tali beni sono definiti “commerciabili”, o, come acutamente dispone il citato articolo 42 Cost. “economici”, per il semplice fatto che i “beni fuori commercio”, essendo fuori mercato, non possono avere una “valutazione economica”, una valutazione che deriva dalla “scambio”, mentre quelli in commercio hanno sempre un loro “prezzo”, determinato dalla legge della domanda e dell’offerta.
Alla luce di quanto appena detto, appare evidente che “l’originaria appartenenza” di tutti i beni (in sostanza ll “territorio” e quanto la natura e gli uomini sul territorio producono), proietta i suoi effetti anche sulla proprietà privata, mantenendo vivo l’obbligo dei privati di rispettare gli interessi e i diritti che tutti i cittadini conservano su detti beni[9]. Si ricordi, innanzitutto, che la “proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, per cui, se tale funzione viene meno, viene meno anche la tutela del diritto di proprietà, e il bene, come avviene per i “beni abbandonati”, torna là da dove era venuto, cioè nella “proprietà pubblica” del popolo e, quindi, dello Stato comunità. E si ricordi ancora che, secondo l’art. 41 della Costituzione “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Si tratta di principi imperativi di ordine pubblico economico , la cui violazione comporta, ai sensi dell’art. 1418 del codice civile, la dichiarazione della “nullità” dell’atto, senza limiti di tempo.
Una proiezione del’originaria ”proprietà pubblica” del Popolo deve poi rinvenirsi nei “vincoli” posti a carico dell’utilizzo da parte dei privati proprietari di quei beni che presentano caratteri di preminente interesse pubblico. Si tratta dei vincoli urbanistici, ambientali, paesaggistici, di sicurezza, e così via dicendo.
Alla luce di quanto appena esposto, dovrebbe risultare evidente che una rilettura in senso costituzionalmente orientata delle norme civilistiche sui beni pubblici, dovrebbe comportare una nuova definizione di “proprietà privata” e una nuova definizione di “demanio”, eliminando la spuria categoria del cosiddetto “patrimonio indisponibile”, per arrivare a una credibile nozione ermeneutica dei “beni comuni” e della loro tutela.
Quanto alla nuova, impellente, definizione della “proprietà privata”, l’attuale art. 832 del codice civile, secondo il quale “il proprietario gode e dispone della cosa in modo pieno e esclusivo”, dovrebbe essere conformato alla Costituzione e recare la seguente definizione: “il proprietario gode della cosa, assicurandone la sua funzione sociale. Dispone della cosa in modo da non contrastare l’utilità pubblica e di non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Una definizione di questo genere, agevolerebbe senza dubbio il recupero di quei beni pubblici che sono stati “privatizzati” e sottratti fraudolentemente alla proprietà del Popolo, per cederli nelle mani di speculatori italiani, e soprattutto stranieri, a danno di tutti i cittadini e, in genere, dell’economia nazionale.
Quanto alla nuova definizione del “demanio”, è evidente che occorre rinunciare a una elencazione tassonomica e ricorrere a una definizione ermeneutica, che indichi i “criteri di individuazione” dei beni demaniali, piuttosto che una loro elencazione, la quale è di fatto impossibile. In questa prospettiva, occorre tener presente il carattere dinamico della nostra Costituzione, il cui fine, come si è già sottolineato, è quello del libero svolgimento della persona, la sua partecipazione alla vita pubblica, l’eguaglianza e la libertà dei cittadini, l’esercizio dei diritti fondamentali (art. 3, comma 2, Cost.), nonché il progresso materiale e spirituale della società (art. 4, comma 2, Cost.). Appare allora evidente che una definizione dei criteri di individuazione dei beni in proprietà pubblica dovrebbe far riferimento ai beni che per le loro caratteristiche sono in grado di garantire, non solo la “sovranità” dello Stato comunità, e quindi la sua “esistenza” e la sua “identità”[10],ma anche il perseguimento di detti fini, e soprattutto l’esercizio dei diritti fondamentali.
In questo quadro, appare evidente che certamente fanno parte del demanio, costituzionalmente inteso, la biosfera, il territorio, l’ambiente, l’ecosistema, i beni paesaggistici e storici, i limiti posti alle proprietà private a tutela del paesaggio, dell’ambiente, dei centri storici, ecc., il demanio naturale di cui all’art. 822 del codice civile (unitamente a quelli della stessa natura collocati nel secondo comma dell’art. 826 dello stesso codice), nonché i beni che, ai sensi dell’art. 43 della Costituzione, dovrebbero essere in mano pubblica, e cioè le industrie strategiche, i servizi pubblici essenziali, le fonti di energia e le situazioni di monopolio.
La disciplina dei beni pubblici in proprietà collettiva demaniale dovrebbe inoltre sancire, non solo la “inalienabilità, inusucapibilità e inespropriabilità”, a suo tempo prevista dal codice civile per i beni demaniali di antica memoria, ma anche la loro “non sdemaniabilità”, trattandosi di beni la cui funzione, come si è più volte ripetuto, è quella di salvaguardare la stessa identità e esistenza dello Stato comunità, nonché l’esercizio dei diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo.
Quanto alla tutela dei beni di cui si parla, è ovvio che i primi strumenti sono nelle mani del governo e della pubblica amministrazione, i quali possono far ricorso al cosiddetto golden power, al potere cioè di porre nel nulla gli atti contrari all’utilità pubblica, nonché alla “nazionalizzazione” delle industrie strategiche, le quali non sono affatto vietate dai Trattati europei, come sovente erroneamente si crede, ma sono la via maestra per la ricostituzione del nostro “patrimonio pubblico” ignobilmente ceduto a terzi mediante le micidiali “privatizzazioni”. E’ inoltre da tener presente, come del resto si è già detto, che, in base al combinato disposto degli articoli 2, commi 1 e 2; 3, comma 2; 4, comma 2; 118, comma 4, anche i cittadini, singoli o associati, possono agire davanti al giudice, in via sussidiaria, come “parti della Comunità”, e chiedere, o la restituzione del bene, oltre il risarcimento del danno, o la inibizione di turbative al loro godimento. Questa, come agevolmente si nota, è certamente una tutela “particolarmente garantista e rafforzata”, molto diversa da quella, molto parziale, prevista dalla ricordata delibera della Commissione Mastella-Rodotà.
A questo punto appare fin troppo evidente che la nozione di ”beni comuni”, se a essa si vuol dare il contenuto che la speculazione dottrinaria degli ultimi decenni ha voluto loro attribuire, viene a coincidere perfettamente con la nozione dei “beni pubblici” del Popolo sovrano. Si potrebbe dire che “i beni pubblici o comuni” sono quei beni che assicurano l’esistenza e l’identità degli elementi costitutivi dello Stato comunità, e cioè del “Popolo” e del “territorio”, nonché l’esercizio da parte di tutti i cittadini dei “diritti fondamentali”.
E’ opportuno, tuttavia, anche specificare che, nell’ambito dei “beni pubblici o comuni”, è possibile individuare una ristretta categoria di beni per i quali, più che mai è importante la “partecipazione” dei cittadini. Si tratta di beni, per il cui “uso” particolarmente alta è l’interesse di “singole comunità”. Ciò si è verificato per l’utilizzo degli spazi pubblici, delle zone verdi, dei beni abbandonati e soprattutto per le servitù pubbliche e gli usi civici e collettivi, urbani e rurali. D’altro canto, non può dimenticarsi che gran parte delle teorizzazioni sui beni comuni, a cominciare da quelle del premio nobel Elinor Ostrom[11], hanno riguardato l’attività delle persone in relazione a quei beni per i quali risulti opportuno, non l’intervento dello Stato, ma quello di singole collettività, costituendo i cosiddetti “commons”.
E’ da sottolineare, comunque, che, in casi del genere, è possibile fare un discorso che riconosca alle “collettività” soltanto la “gestione” dei beni di cui si parla, ma non la “loro proprietà”, la quale, per i motivi ai quali si è fatto riferimento, non può che appartenere al Popolo, considerato nelle sue diverse articolazioni territoriali (art. 114 Cost.). Le proprietà collettive, come gli usi civici, le magnifiche regole, le comunanze emiliane, e così via dicendo, sono retaggi di un passato, quando tutto il mondo era costituito da un villaggio, ma ben diversa è la loro posizione in un’epoca in cui tutto il mondo è diventato un villaggio[12]. Parlare di “domini collettivi”, come fa la legge 20 novembre 2017, n. 168, ha senso solo perché serve a far sì che determinate zone conservino la loro destinazione agricola o forestale, ma non per il fatto che i discendenti degli antichi coltivatori di quelle terre siano considerati “comproprietari” di esse. Infatti non è rara l’ipotesi che questi terreni siano gestiti da SPA, che li fanno coltivare da terzi, e poi pagano annualmente ai cosiddetti “proprietari collettivi” delle somme più o meno corrispondenti a determinate quote del raccolto di funghi, castagne o semplici legnami. Non è chi non veda che una situazione del genere si configura più sotto l’aspetto di un privilegio, che non di un reale diritto.
Dopo quanto abbiamo detto, ci sembra che il lungo discorso su cosa siano i beni comuni viene definitivamente a concludersi. E’ inutile cercare varie definizioni e creare vaghe categorie “oltre il pubblico e il privato”. La realtà dell’ordinamento costituzionale vigente è chiara e definita: i beni, o sono in “proprietà privata”, o sono in “proprietà pubblica” (art. 42 Cost.), e, in uno Stato comunità la “proprietà pubblica” coincide perfettamente con la ”proprietà comune”, che spetta al Popolo a titolo di sovranità. La verità era là, nella lettura non preconcetta degli articoli 1 e 42 della Costituzione, e le abbiamo girato intorno per tanti anni senza accorgerci, mentre non sono stati pochi gli illustri giuristi, che, anziché leggere il codice civile alla luce della Costituzione, hanno letto quest’ultima alla luce delle norme del codice civile, emanato, come tutti sanno, sotto l’impero dello Statuto albertino.
Questa conclusione è di estrema importanza. Infatti oggi la “proprietà comune” del Popolo, i cosiddetti “beni comuni”, costituiti principalmente, come si è accennato, dai beni artistici e storici, dal paesaggio (art. 9 Cost.), nonché dalle industrie strategiche, dai servizi pubblici essenziali, dalle fonti di energia e dalle situazione di monopolio (art. 43 Cost.), una volta quasi sempre appartenenti allo Stato o a Enti pubblici territoriali, sono stati cinicamente “privatizzati”, si è fatto in modo cioè, che, attraverso la fraudolenta trasformazione dell’Ente pubblico in una SPA, essi passassero dalla “proprietà comune” del Popolo sovrano a lestofanti di ogni genere, oltre che a multinazionali e a operatori finanziari di varia estrazione[13]. Il refrain “privato è bello”, “meno Stato e più privato”, non ha tolto la ricchezza nazionale a uno Stato persona giuridica, considerato come un terzo soggetto rispetto ai cittadini, ma al Popolo intero, che è elemento strutturale e essenziale dello Stato comunità. I licenziamenti sono sempre più frequenti, la vita dei lavoratori è considerata di nessun valore, rispetto alla prospettiva di guadagno del datore di lavoro, che apre e chiude le fabbriche a proprio piacimento, oppure le delocalizza, o addirittura ne provoca il fallimento, gettando sul lastrico intere famiglie e facendo crollare l’economia nazionale. La forbice tra ricchi e poveri si è spaventosamente allargata[14] e i poveri assoluti hanno raggiunto i sei milioni di persone, mentre i poveri in povertà gravissima hanno superato i dieci milioni. E questo perché, come detto, l’intero patrimonio della Nazione è stato maledettamente “privatizzato”. E’ ora che il Popolo sovrano, spogliato del suo “patrimonio comune” faccia sentire forte la sua voce, ricordando che tutti i governi, succedutisi dall’assassinio di Moro in poi, hanno sempre seguito il pensiero neoliberista, tagliando ramo per ramo tutta la struttura dello Stato comunitario e democratico. Chi ha sbagliato paghi. E tutti sappiano che l’attuale sistema economico predatorio, cinico, illecito e incostituzionale, che ci ha ridotto alla miseria, deve essere abbattuto e che, come previsto dal titolo terzo della Parte prima della Costituzione è da ritenere legittimo soltanto un sistema economico di stampo keynesiano, che produca lavoro e ricchezza e non disoccupazione e miseria come quello attualmente seguito.
Siamo stati derubati del nostro “patrimonio comune”, costituito da “beni comuni”, e in “proprietà pubblica” di tutti i cittadini, a titolo di sovranità, ed è ora di riprenderci tutto quello che ci è stato illecitamente tolto[15]. La Costituzione è dalla nostra parte. E’ l’ultima vera arma che abbiamo, e le sue molteplici violazioni, da parte di politici traditori della Patria, non ha scalfito la sua esistenza e il suo vigore, essendo stata confermata plebiscitariamente dal referendum sull’acqua del 2011 e dal referendum sulla “deforma renziana” del 2016. E, lo si ricordi, coloro che professano le idee neoliberiste, che arricchiscono i ricchi e impoveriscono i poveri, non sono degni di governare l’ Italia.
1 Relazione da me svolta, in data 7 luglio 2021, all’interno del Seminario sui beni comuni, organizzato dal Dipartimento ionico dell’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”. Fondamento di tale relazione è stato il mio ultimo libro “La rivoluzione costituzionale. Alla riconquista della proprietà pubblica”, Ed, Diarkos, 2020. Di grande aiuto mi è stato l’apporto tratto dalla lettura dell’articolo di Salvatore Settis “A titolo di sovranità”, in Leone Maddalena Montanari Settis, Ed. Einaudi, 2013; del libro dello stesso Autore, “Paesaggio, Costituzione, Cemento”, Ed. Einaudi, 2010; del libro di Tomaso Montanari, “Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la crisi che verrà”, Ed. Marco Vigevani e associati, 2014 e del libro di Nicola Capone, “Lo spazio e la norma”, Ed. Ombre Corte, 2020.
[2] Il Rodotà avverte che: “l’attenzione rivolta ai beni comuni non si risolve tutta nella costruzione di una nuova categoria di beni”, S. Rodotà, “Il terribile diritto”, Ed. Il Mulino, 2013, pp. 464 ss.
[3] In Atti del Ministero della giustizia del 15 febbraio 2008.
[4] Sull’argomento, vedi: P. Maddalena, Il territorio bene comune degli Italiani, Ed. Donzelli, Roma, 2014, p. 56 s.
[5] M.S. Giannini, “I beni pubblici”, Ed. Bulzoni, 1971, rist. 1981, p. 47.
[6] A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Ed. Giuffrè, 1969, p. 5,
[7] A.M. Sandulli, o. c., l. c.
[8] B. G. Niebuhr, “Romische Geschichte”, Berlin, 1811, I, pp 245 ss.
[9] Carl Schmitt, Il nomos della terra, Ed. Adelphi, 2011, p. 24, afferma che “ogni occupazione di terra crea sempre, all’interno, una sorta di superproprietà della comunità nel suo insieme, anche se la ripartizione successiva non si arresta alla semplice proprietà comunitaria e riconosce la proprietà privata, pienamente libera del singolo”.
[10] L’identità dello Stato comunità è garantita dalla tutela dei beni artistici e storici. Vedi Emanuele Petracca, “Una identità in vendita”, Ed. Primiceri, 2021.
[11]E. Ostrom, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, 1990. Traduzione italiana: Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia, 2006
[12] P. Grossi, “Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria. Ed. Giuffré, 1977.
[13] M. Mazzuccato e M. Jacobs, “Ripensare il capitalismo”, Ed. Laterza, 2021.
[14] Joseph E. Stiglitz, “La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla”, Ed. Einaudi, 2016.
[15] P. Ferrero, “La truffa del debito”, Ed. Derivapprodi, 2014.
Gli incarichi legali della p.A. e le “mobili frontiere” dell’equo compenso.
di Piergiuseppe Otranto
Sommario: 1. Premessa. 2. Il quadro normativo di riferimento. 3. L’equo compenso dell’avvocato e la garanzia dell’efficacia della difesa dell’Amministrazione. 4. La pronuncia del Tar Lombardia n. 1071/2021. 5. P.A. ed equo compenso del professionista nella giurisprudenza amministrativa. 6. Discrezionalità amministrativa e motivazione: alla ricerca di un punto di equilibrio tra esigenze di contenimento della spesa pubblica e interesse dell’Amministrazione a una difesa efficace.
1. Premessa
Con ricorso notificato il 10 gennaio 2021 un operatore economico aveva impugnato il provvedimento adottato dal Comune di Cernusco sul Naviglio per l’affidamento di un servizio di valore superiore ai 2,2 milioni di euro. In vista della Camera di Consiglio fissata per la trattazione dell’istanza cautelare, il Comune l’11 febbraio 2021 ‒ quindi dopo ben trenta giorni dalla notifica ‒ interpellava a mezzo mail cinque professionisti affinché entro il giorno successivo (sic!) formulassero un preventivo dei costi per la difesa in giudizio dell’Ente nella fase cautelare e in quella di merito.
Nella propria comunicazione, peraltro, l’Amministrazione indicava in 2,2 milioni di euro il valore della causa, parametrandolo al valore dell’appalto contestato.
Acquisiti, quasi ad horas, i preventivi di taluni dei legali interpellati, l’Ente affidava l’incarico alla professionista che aveva offerto il minor prezzo.
Uno dei legali che avevano formulato l’offerta insorgeva innanzi al Tar Lombardia contro l’affidamento, deducendo l’illegittimità dei relativi atti sotto diversi profili, tutti riconducibili alla violazione della disciplina in materia di “equo compenso” [1].
Alla Camera di Consiglio fissata per la trattazione dell’istanza cautelare, il ricorso veniva deciso con la sentenza in forma semplificata n. 1071/2021 che si inserisce nel vivace dibattito sui criteri e sulla misura del compenso per le prestazioni rese dai professionisti in favore delle pubbliche Amministrazioni.
2. Il quadro normativo di riferimento
Occorre ricordare che, come è noto, per effetto del c.d. “decreto Bersani” (d.l. 4 luglio 2006, n. 223) sono stati eliminati i limiti tariffari inderogabili per le prestazioni professionali, in favore di un sistema liberalizzato[2] nel quale le parti possono negoziare il valore della prestazione d’opera intellettuale e pattuire un compenso omnicomprensivo.
Per quanto riguarda, in particolare, la professione forense, la legge professionale[3] (di seguito l.p.) ha sancito la regola della libera negoziazione del compenso[4], individuando il riferimento ai c.d. “parametri” (introdotti con d.m. n. 55/2015) per le ipotesi in cui il corrispettivo per le prestazioni professionali non sia stato determinato in forma scritta nonché “in ogni caso di mancata determinazione consensuale” (art. 13, comma 6, l. n. 247/2012).
Il quadro normativo è stato arricchito dall’art. 13 bis l.p., rubricato “equo compenso e clausole vessatorie”, a mente del quale nei rapporti professionali regolati da convenzioni “unilateralmente predisposte” da soggetti economicamente forti ‒ imprese bancarie e assicurative, nonché imprese di grandi dimensioni ‒ ed aventi ad oggetto lo svolgimento di attività di assistenza, rappresentanza e difesa in giudizio, deve essere comunque garantito al legale un equo compenso[5].
In particolare, “ai fini del presente articolo si considera equo il compenso determinato nelle convenzioni di cui al comma 1 quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametriprevisti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell’articolo 13, comma 6” (art. 13 bis, comma 2)[6].
Sono considerate vessatorie le clausole che determinano “anche in ragione della non equità del compenso pattuito, un significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvocato” (comma 4), con la conseguente possibilità per il professionista di agire in giudizio per ottenere la declaratoria della relativa nullità (comma 8) e la determinazione giudiziale del compenso secondo i parametri individuati dal d.m. (comma 10).
Con l’art. 13 bis l. n. 247/2012 (introdotto dall’art. 19 quaterdecies, comma 1, d.l. 16 ottobre 2017, n. 148), il legislatore ha inteso apprestare direttamente nella legge professionale una tutela per l’avvocato che versa in una situazione di squilibrio contrattuale allorquando si trovi ad accettare incarichi proposti da grandi imprese, banche o assicurazioni.
Nello stesso articolo 19 quaterdecies d.l. n. 148/2017, al comma 3, il legislatore, senza innovare l’impianto della legge professionale, ha affermato, tuttavia, un ulteriore principio in forza del quale “la pubblica Amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti.
La precisa volontà del legislatore del 2017 di disciplinare autonomamente i rapporti dell’avvocato con le imprese “forti” (art. 19 quaterdecies, comma 1) o con la p.A. (art. 19 quaterdecies, comma 3), induce a ritenere che le due fattispecie non siano sovrapponibili e assolvano a funzioni differenti.
La prima, come si è già sottolineato, risponde all’esigenza di protezione di un soggetto (l’avvocato) che, per quanto qualificato ed “informato”, si trova in posizione di debolezza negoziale sul mercato dei servizi legali richiesti da committenti che, per la numerosità e la continuità nel tempo degli incarichi, potrebbero imporre condizioni eccessivamente svantaggiose.
L’art. 19 quaterdecies, comma 3, invece, non disciplina direttamente e puntualmente i rapporti tra l’avvocato ed il cliente-p.A., ma impone all’Ente di garantire il rispetto di una regola (di congruità del compenso professionale) che assurge, addirittura, a “principio” direttamente correlato ai principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia dell’attività amministrativa.
3. L’ “equo compenso” dell’avvocato e la garanzia dell’efficacia della difesa dell’Amministrazione.
Nei rapporti tra Amministrazione e difensore esterno, la quantificazione non irrisoria del corrispettivo è ritenuta strumentale al buon andamento che, allorquando l’Ente sia coinvolto in controversie legali, può essere assicurato dall’opera dell’avvocato.
Ritiene il legislatore che, solo attribuendo un compenso “equo”, l’Amministrazione possa assicurarsi, sul libero mercato dei servizi legali, le prestazioni dei professionisti più capaci e che, d’altro canto, questi ultimi, in virtù di un compenso ragionevole e sufficientemente remunerativo, possano essere incentivati anzitutto ad accettare l’incarico proposto dall’Ente e, di conseguenza, a profondere il massimo sforzo nell’esecuzione dello stesso.
Solo per tal via il venir meno del sistema tariffario non si risolve in un detrimento per l’Amministrazione. Questa, essendo ex lege tenuta a “garantire il principio dell’equo compenso”, potrà legittimamente orientare la scelta del professionista esterno anche verso difensori che ‒ nonostante vantino, in ipotesi, una consistente clientela privata (evidentemente per la qualità dei propri servizi) ‒,potrebbero essere indotti ad accettare l’incarico pubblico in ragione di un compenso che non sia esiguo o, peggio ancora, meramente simbolico.
L’obbligo di garantire il principio dell’equo compenso mette così l’Amministrazione nelle condizioni di competere ad armi pari con altri soggetti per assicurarsi i servizi dei professionisti più capaci, con evidente vantaggio per l’interesse pubblico.
4. La pronuncia del Tar Lombardia n. 1071/2021.
La sentenza in esame, tuttavia, non distingue la disciplina dell’equo compenso nei rapporti tra professionista e “cliente forte” (art. 13 bis l.p.) dalla disciplina rivolta alle pubbliche Amministrazioni (art. 19 quaterdecies, comma 3, d.l. n. 148/2017). Anzi, nel sovrapporre la prima alla seconda, finisce per svilire il chiarissimo dettato normativo.
Il T.a.r. Lombardia riconosce, correttamente, che “l’applicazione della disciplina dell’equo compenso, in quanto eccezione al principio pro-concorrenziale della libera pattuizione del compenso spettante al professionista, di cui all’articolo 13, comma 3, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, soggiace a precisi limiti soggettivi, ovvero l’appartenenza del cliente alle categorie delle imprese bancarie, assicurative o di grandi dimensioni”, ma compie poi un salto logico ‒ che mina il successivo ragionamento ‒ allorquando estende sotto il profilo soggettivo l’applicazione della norma anche alle pubbliche Amministrazioni.
L’erronea equiparazione della p.A. al “cliente forte” ‒ operata nonostante la chiara distinzione delle due ipotesi nel d.l. n. 148/2017 ‒ ispira le successive considerazioni del giudice amministrativo.
In particolare, il Collegio estende al caso portato alla sua attenzione considerazioni che potrebbero validamente fondare una decisione relativa alla quantificazione del compenso nei soli rapporti tra professionista e imprese bancarie, assicurative o di grandi dimensioni.
È senz’altro vero, infatti, che “la disciplina dell’equo compenso non trova (…) applicazione ove la clausola contrattuale relativa al compenso per la prestazione professionale sia oggetto di trattativa tra le parti”; e che “la tutela avanzata della debolezza del professionista, a fronte del potere di mercato del cliente forte, può essere reclamata anche ove il professionista sia posto in condizione di incidere sul contenuto della clausola relativa al compenso professionale, come si verifica nelle fattispecie riconducibili al principio generale di abuso di dipendenza economica, di cui all’articolo 9 della legge 18 giugno 1998, n. 192, ovvero, in coerenza con la previsione del «significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvocato», contenuta nell’articolo 13-bis, comma 2, di «un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi»”.
Non è altrettanto vero, tuttavia, che la medesima situazione (escludente l’applicabilità del principio dell’equo compenso) si verifica “nelle fattispecie di formazione della volontà dell’Amministrazione secondo i principi dell’evidenza pubblica, ove l’Amministrazione non imponga al professionista il compenso per la prestazione dei servizi legali da affidare”.
In altri termini: se la disposizione prevede semplicemente ed in via generale che la p.A. “garantisce il principio dell’equo compenso”, non può propugnarsi un’interpretazione che finisce per circoscriverne l’applicabilità ai soli casi in cui l’Amministrazione abbia predeterminato il compenso imponendolo al professionista.
La disposizione, infatti, come si è già osservato, è volta a tutelare l’interesse pubblico ad una difesa efficace della p.A. (quale portato del richiamato principio di buon andamento), non di certo a tutelare l’avvocato quale contraente debole.
L’interpretazione in forza della quale allorquando sia il professionista a quantificare il proprio compenso, non sussisterebbe il potere-dovere dell’Amministrazione di garantire che lo stesso sia “equo”, stride con la lettera e con lo spirito della norma e finisce per avallare condotte potenzialmente lesive di quell’interesse pubblico che il legislatore ha voluto tutelare.
In relazione a questo profilo la sentenza in commento muove da una premessa non condivisibile, allorquando afferma che “la disciplina dell’equo compenso è rivolta a tutelare la posizione del professionista debole e non l’indipendenza, la dignità e il decoro della categoria professionale, la quale si realizza attraverso il rispetto dei precetti contenuti nel codice deontologico, che impongono al professionista di non offrire la propria prestazione in cambio di compensi lesivi della dignità e del decoro professionale, nel rispetto dei principi della corretta e leale concorrenza (articolo 9, comma 1, del Codice deontologico forense) e dei doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi e le istituzioni forensi (articolo 19 del codice deontologico forense)”.
In realtà, la disciplina dell’equo compenso nei rapporti tra Amministrazioni e avvocato non è volta a tutelare né il contraente debole, né l’indipendenza, la dignità e il decoro della categoria professionale. Essa, piuttosto ‒ come dianzi rilevato ‒ è ispirata dall’interesse acché (anche) riconoscendo un compenso non vile al proprio difensore, la p.A. sia messa nelle condizioni migliori, in riferimento al mercato dei servizi legali, per accedere ad una difesa efficace e possa, per tal via, tutelare al meglio l’interesse pubblico.
Il Tar Lombardia, dunque, sembra non mettere a fuoco gli esatti termini della questione allorquando afferma che, nel caso di specie, il compenso previsto tra Comune e avvocato designato non è “idoneo né a determinare un significativo squilibrio contrattuale a carico [del legale] né ad esporre il Comune al rischio di un successivo intervento correttivo del giudice civile”.
L’accertamento dello squilibrio contrattuale e l’intervento correttivo del giudice sono previsti, infatti solo nei rapporti tra avvocato e “cliente forte” (art. 13 bis, comma 10, l.p.), mentre nel caso di specie il giudice amministrativo avrebbe dovuto accertare soltanto se il compenso pattuito tra le parti potesse considerarsi equo, e dunque, se l’Amministrazione avesse rispettato il principio introdotto dall’art. 19 quaterdecies, comma 3, d.l. n. 148/2017.
Il ricorrente, nel dedurre la violazione di legge in riferimento a tale disposizione nonché all’art. 13 bis l.p., aveva paventato la possibilità che l’affidamento dell’incarico per compensi irrisori rispetto all’attività da svolgere esponesse il Comune al rischio di attività difensive non adeguate.
Ma, secondo il Tar lombardo, non esiste il rischio che il professionista, in ragione del compenso “non equo”, possa profondere nella trattazione dell’affare un impegno non adeguato. Ciò in quanto l’art. 1176, comma 2, c.c. impone che nelle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza, che il debitore è sempre tenuto a garantire, debba esser valutata con riguardo alla natura dell’attività esercitata.
Anche in questo caso l’argomento non può essere condiviso.
Come è noto, le obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale sono considerate “di mezzi” e non “di risultato”, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo[7].
Tale principio, tuttavia, attiene alle modalità di esecuzione del contratto, non già alle regole che presiedono alla scelta del professionista da parte dell’Amministrazione e al conseguente instaurarsi del rapporto tra questa e il difensore designato.
In altri termini: se il legislatore ha inteso vincolare l’Amministrazione all’osservanza del principio dell’ equo compenso, non si può concordare con il Tar allorquando afferma che il semplice obbligo di diligenza ex art. 1176 c.c. “elimina in radice i dubbi che la qualità della prestazione professionale possa essere condizionata dall’entità del compenso offerto”.
Tale interpretazione finisce per affidare al solo (e generale) obbligo di diligenza quella particolare cura per l’interesse pubblico che il legislatore ha voluto prevedere con la più volte richiamata norma di cui al art. 19 quaterdecies, comma 3, d.l. 148/2017.
La tesi sostenuta dal Tar, dunque, appare non esente da rilievi non solo (o non tanto) perché rappresenta un vulnus per gli interessi della categoria forense[8], ma in quanto si pone in contrasto con una scelta ordinamentale ispirata a ragioni di massima garanzia di un’efficace difesa delle pubbliche Amministrazioni, rispetto alla quale l’osservanza del principio dell’equo compenso appare servente.
Il Tar Lombardo si richiama espressamente ad un orientamento giurisprudenziale che affermerebbe “la compatibilità con la disciplina dell’equo compenso persino delle procedure di affidamento di incarichi professionali gratuiti”.
Il primo precedente richiamato è la nota sentenza con la quale il Tar Lazio nel 2019 aveva ritenuto legittimi gli atti di affidamento a titolo gratuito di incarichi di consulenza in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze[9]. In quel caso, tuttavia, il giudice amministrativo aveva rigettato il ricorso, osservando che la disciplina sull’equo compenso non impedirebbe al professionista di rendere gratuitamente la propria prestazione, ben potendosi immaginare che questi possa “trarre vantaggi di natura diversa, in termini di arricchimento professionale” e curriculare. Nell’argomentare del Tar Lazio, però, merita di esser richiamato il passaggio in cui si afferma che la disciplina dell’equo compenso deve “intendersi nel senso che, laddove il compenso in denaro sia stabilito, esso non possa che essere equo”. Dunque, per il giudice romano, l’incarico può anche essere gratuito, ma se è conferito a titolo oneroso, il relativo compenso deve essere equo.
Il Tar milanese richiama, poi, una sentenza che non solo ha dichiarato l’illegittimità di un appalto pubblico di servizi di architettura e ingegneria a titolo gratuito, ma ha rimarcato ‒ ancorché a livello di mero obiter dictum ‒ la diretta riconducibilità dell’equo compenso ai principi enunciati dagli art. 35 e 36 Cost.[10].
La tesi sostenuta dal Tar Lombardia nella sentenza breve che si commenta, sembra, così, essere smentita da un’interpretazione letterale e teleologica della legge, ma anche da quella giurisprudenza richiamata dallo stesso Collegio a fondamento della propria decisione.
5. P.A. ed equo compenso del professionista nella giurisprudenza amministrativa.
Nella giurisprudenza amministrativa, d’altro canto, sembra non agevole la ricostruzione di un orientamento univoco.
Il Consiglio di Stato, ad esempio, ha ritenuto legittimi gli atti con i quali era stato affidato (al valore simbolico di un euro) un appalto pubblico di servizi relativi alla redazione di uno strumento urbanistico, osservando che sussisterebbe addirittura una “preferenza”, nell’ordinamento dei contratti pubblici, per un’accezione ampia e particolare dei “contratti a titolo oneroso” e in forza della quale sarebbero ammissibili procedure che prevedano offerte gratuite allorquando dall’aggiudicazione il contraente possa trarre (ad esempio sotto il profilo reputazionale e curriculare) “un’utilità economica lecita e autonoma, quand’anche non corrispostagli come scambio contrattuale dall’Amministrazione appaltante” [11].
In un altro caso sono stati annullati gli atti di una gara per l’affidamento del servizio di assistenza giuridico-legale di un Comune, osservando come l’indeterminatezza dei servizi richiesti al professionista assumesse rilievo sia in relazione all’esiguità del compenso indicato quale base di gara, sia con riguardo alla stessa legittimità dalla procedura comparativa avviata[12].
Del pari, sempre richiamando il principio dell’equo compenso, è stata sospesa, in sede cautelare, l’efficacia di un avviso pubblico con il quale un Comune aveva preannunziato la costituzione di un elenco di professionisti esterni cui affidare incarichi di difesa dell’Ente, prevedendo un compenso “pari allo zero” per le controversie di valore inferiore a € 500[13].
Ancor di recente, il Tar Marche ha annullato gli atti relativi alla selezione pubblica per l’incarico di “sindaco unico” di una società partecipata a fronte del quale era stato offerto un compenso forfetario e fisso notevolmente inferiore a quello equo dovuto secondo i vigenti parametri[14]. In quel caso il Collegio ha richiamato gli artt. 35 e 36 della Costituzione e, pur ricordando l’applicabilità del principio dell’ equo compenso alla p.A., ha preferito equiparare la pubblica Amministrazione ad un “contraente forte” piuttosto che valorizzare il ruolo autonomo che il principio riveste nei rapporti tra professionista ed Ente pubblico[15].
6. Discrezionalità amministrativa e motivazione: alla ricerca di un punto di equilibrio tra esigenze di contenimento della spesa pubblica e interesse dell’Amministrazione a una difesa efficace.
Dall’analisi svolta sembra trarsi conferma che il principio dell’equo compenso nei rapporti professionali tra avvocato e Amministrazione risponde al più volte ricordato interesse pubblico ad una difesa efficace, realizzato anche attraverso la possibilità per l’Ente di assicurarsi (pattuendo un corrispettivo non irrisorio) le prestazioni di avvocati più richiesti sul libero mercato dei servizi legali.
Ciò, tuttavia, non deve indurre a ritenere che sussista un obbligo per le Amministrazioni di attenersi in maniera rigida e inderogabile ai parametri di cui al d.m. 55/2014.
Se così fosse, infatti, si finirebbe per reintrodurre surrettiziamente quel regime tariffario che l’ordinamento ‒ con una chiarissima scelta, frutto anche delle spinte del diritto dell’Unione ‒ ha inteso superare sin dal 2006[16].
D’altro canto, non può ignorarsi che l’ordinamento, sebbene ad altro proposito, “considera equo il compenso determinato nelle convenzioni (…) quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametri” (art. 13 bis, comma 2, l.p.).
Ed allora, il punto di equilibrio del sistema ‒ nella dialettica tra l’interesse pro-concorrenziale sotteso all’abolizione delle tariffe professionali[17] e l’interesse pubblico a una difesa efficace dell’Ente ‒ può essere individuato nel legittimo esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione. Questa, infatti, pur essendo tenuta a rispettare il principio dell’equo compenso, dispone di un margine di scelta nel valutare se, secondo le peculiarità del singolo caso, il corrispettivo negoziato con il professionista (o da questi offerto in una procedura comparativa) risulti equo.
Anzitutto, ed anche in ossequio al principio generale delineato dall’art. 36 Cost., l’equità dovrà esser parametrata alla quantità e qualità del lavoro svolto. Mentre la valutazione sulla “qualità” (di una prestazione professionale non ancora resa) non può esser effettuata compiutamente al momento dell’affidamento dell’incarico, quella relativa al profilo quantitativo ben può essere eseguita ex ante. Pertanto, nella propria valutazione l’Ente dovrà accertare che per ciascuna fase del giudizio sia riconosciuto al difensore un compenso, dovendo escludere (nel caso di procedure comparative tra più offerte), la proposta che preveda un compenso pari a zero per taluna delle fasi[18].
D’altro canto, lo stesso d.m. n. 55/2014, delinea un sistema nel quale sono significativi i margini di discrezionalità nella determinazione del corrispettivo. Basterà ricordare, infatti, che “ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate”; e che, in ordine alla difficoltà dell’affare, assumono rilievo taluni elementi valutativi, tra i quali, ad esempio, la sussistenza di contrasti giurisprudenziali (art. 4, comma 1). Nella liquidazione giudiziale, inoltre, il giudice tiene conto dei valori medi di cui alle tabelle che possono essere “di regola” aumentati fino all’80 per cento, o diminuiti “in ogni caso non oltre il 50 per cento”. Deve rimarcarsi, peraltro, che per effetto delle modifiche introdotte con il d.m. n. 37/2018, la discrezionalità del giudice nel ridurre il compenso rispetto ai parametri è stata notevolmente ridimensionata, se è vero che, ad esempio, la riduzione (che prima era ammessa “di regola” fino al 50 per cento) nell’attuale formulazione può essere disposta “in ogni caso non oltre il 50 per cento”[19].
Anche nella determinazione del valore della controversia sussiste un certo margine di apprezzamento. In proposito, si deve avere riguardo non in maniera rigida ed automatica all’entità della domanda, ma al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando il valore risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile o della legislazione speciale (art. 5, commi 1 e 2). Sotto altro profilo, le controversie di valore “indeterminabile” si ritengono “di regola” di valore non inferiore a euro 26 mila e non superiore a euro 260 mila, pur sussistendo la possibilità di considerarle nello scaglione fino a 520 mila euro.
Può, quindi, ritenersi che, fermo restando il limite di carattere quantitativo (legato alla necessità di valorizzare tutte le fasi della controversia), l’Amministrazione abbia l’obbligo di motivare ‒ in ossequio al generale principio di trasparenza, espressamente richiamato anche dall’art. 19 quaterdecies, comma 3, d.l. n. 148/2017 ‒ in ordine alla “equità” del compenso stabilito.
Nella motivazione l’Ente dovrà rendere espliciti i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che conducono all’individuazione di un determinato valore della controversia e a ritenere equo il compenso in concreto riconosciuto. La motivazione dovrà esser tanto più approfondita allorquando l’Ente si discosti dai parametri ministeriali “medi” e dalle relative soglie numeriche di riferimento che, sebbene non siano vincolanti né inderogabili, “costituiscono criteri di orientamento e individuano la misura economica standard del valore della prestazione professionale”[20].
Anche in questo caso la motivazione assolve ad un’essenziale funzione di garanzia non solo per i destinatari del provvedimento, ma, a livello sistemico, per l’interesse pubblico che deve essere incessantemente curato dall’Amministrazione attraverso decisioni che siano (ed appaiano) legittime e proporzionate[21].
Non è il decoro della professione forense a venire direttamente in rilievo sebbene, sia detto in questa sede solo per inciso, l’avvocatura ‒ in quanto garante di un diritto fondamentale quale la difesa in giudizio e per il ruolo essenziale che assume “nel dinamismo della funzione giurisdizionale”[22] ‒meriterebbe talvolta maggiore considerazione da parte del legislatore[23], ma soprattutto dell’Amministrazione e della magistratura.
L’interesse da preservare, piuttosto, attiene all’essenzialità del ruolo della difesa tecnica e qualificata anche in favore delle Amministrazioni, per evitare che le sempre vive ragioni di contenimento della spesa pubblica conducano a scelte auto-lesioniste che ‒ valorizzando tout court il prezzo più basso ove non, addirittura, la gratuità dell’incarico ‒ collocherebbero le Amministrazioni al di fuori del novero dei clienti “desiderabili” per i professionisti più richiesti sul mercato dei servizi legali.
La logica pro-concorrenziale ‒ che ha condotto all’abolizione delle tariffe ‒ deve esser tenuta ben presente anche nella riflessione sul tema che ci occupa: se è vero che il mercato deve potersi auto-regolare sicché debbono essere liberalizzati i corrispettivi dovuti per l’attività professionale, su quello stesso mercato l’Amministrazione deve avere il potere-dovere di competere ad armi pari con altri potenziali fruitori di servizi legali.
Solo in questo modo i soggetti pubblici potranno assicurarsi le prestazioni di difensori che ‒ senza esser necessariamente interessati al (presunto) prestigio e all’arricchimento curriculare che potrebbe astrattamente derivare dalla difesa di un Ente in una determinata controversia ‒ ambiscono, del tutto legittimamente, a trarre un’adeguata remunerazione dalla propria prestazione d’opera intellettuale.
Attraverso una puntuale osservanza del nuovo “principio dell’equo compenso” ‒ la cui valenza generale merita di essere, in sintesi, rimarcata ‒ potrà garantirsi che le esigenze di riequilibrio finanziario si armonizzino con altri principi fondamentali dell’azione amministrativa[24].
[1] Si tratta dell’avv. Maurizio Zoppolato del Foro di Milano che ringrazio per il fecondo scambio di opinioni intercorso sul tema che ci occupa.
[2] L’abolizione del sistema tariffario costituisce il portato dell’applicazione, anche al settore delle prestazioni d’opera intellettuale, dei principi pro-concorrenziali di matrice europea. In proposito, con sentenza 18 luglio 2013, in causa C-136/12, la Corte di giustizia ha affermato che le regole deontologiche relative ad una determinata professione che indicano come criteri di commisurazione delle parcelle del professionista “oltre alla qualità e all’importanza della prestazione del servizio, la dignità della professione, costituiscono una decisione di un’associazione di imprese ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, che può avere effetti restrittivi della concorrenza nel mercato interno”. Sul punto, cfr. anche Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238.
[3] Legge 31 dicembre 2012, n. 247, “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”.
[4] Ai sensi dell’art. 13, comma 3, l. n. 247/2012 “La pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione”.
[5] G. Alpa, L’equo compenso per le prestazioni professionali forensi , in AA.VV., La disciplina dell’equo compenso, in consiglionazionaleforense.it, 2018, 5 ss.; E. Minervini, L’equo compenso degli avvocati e degli altri liberi professionisti, Torino, 2018; S. Monticelli, L’equo compenso dei professionisti fiduciari: fondamento e limiti di una disciplina a vocazione remediale nell’abuso dell’esercizio dell’autonomia privata, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 299 ss.; M. Filippelli, Equo compenso per l’avvocato (voce), in Treccani.it, 2019.
[6] Nella originaria formulazione, introdotta dal ricordato art. 19 quaterdecies, comma 1, del d.l. n. 148/2017 , il compenso era considerato equo “quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, tenuto conto dei parametri”. L’art. 1, comma 487, lett. a) della l. 27 dicembre 2017, n. 205 ha modificato la disposizione, sicché attualmente si considera equo il compenso non solo “proporzionato (…)” ma anche “conforme ai parametri”. Secondo G. Colavitti, Equo compenso, nuovi parametri e tutela costituzionale del lavoro degli avvocati, in AA.VV., La disciplina dell’equo compenso, cit., 29: “Con la formulazione originaria, del livello dei parametri il giudice doveva ‘solo’ tenere conto, ai fini della valutazione circa l’iniquità del compenso, ora, ben più rigorosamente, è equo il compenso conforme ai parametri, e quindi è iniquo quello non conforme”.
[7] Cass. civ., sez. III, 5 agosto 2013, n. 18612.
[8] Secondo E. Novi, Demolito l’equo compenso: per il Tar l’avvocato deve lavorare bene a basso costo, in ildubbio.it (1 maggio 2021), la sentenza in esame “legittima e autorizza, in rapida successione: l’automortificazione professionale, lo schiavismo piramidale degli studi costretti a sottopagare i giovani collaboratori, la ricerca di incarichi non in nome della sostenibilità ma in ossequio all’urgenza di restare comunque su piazza e di non screditarsi agli occhi di altri committenti forti”.
[9] Tar Lazio – Roma, sez. II, sentenza 30 settembre 2019, n. 11411. Per alcune notazioni critiche, cfr. A. Rota, Lavoro gratuito per la p.A.: “un’opportunità per arricchire il curriculum”, in Riv. it. dir. lav., 2020, 145 ss. Sul lavoro gratuito nelle pubbliche Amministrazioni, cfr. M. Barbieri, Il sinallagma nei contratti di lavoro per le pubbliche amministrazioni: un percorso storico-critico, Bari, 2018, spec. 117 ss.
[10] Tar Calabria – Catanzaro, sez. I, 2 agosto 2018, n. 1507, secondo cui la disciplina sull’equo compenso, ancorché non applicabile alla vicenda dedotta in quel giudizio, lascia “emergere come nell’ordinamento vi sia un principio volto ad assicurare non solo al lavoratore dipendente, ma anche al lavoratore autonomo una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. Non a caso, l’art. 35 Cost. tutela il lavoro ‘in tutte le sue forme e applicazioni’, mentre il successivo art. 36, nell’occuparsi del diritto alla retribuzione, non discrimina tra le varie forme di lavoro. Ebbene, la configurabilità di un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito si pone in disarmonia rispetto a tale affresco, tenuto conto che non ogni servizio prestato reca con se vantaggi curricolari e di immagine tali da garantire, sia pure indirettamente, vantaggi economici tali da soddisfare il diritto a un equo compenso”. È il caso, tuttavia, di ricordare che la giurisprudenza ha sovente affermato l’inapplicabilità della garanzia dell’art. 36 Cost. ai lavoratori autonomi (Cass. civ., sez. II, 6 novembre 2015, n. 22701; Cass. civ., sez., lav., 25 gennaio 2017, n. 1900). In senso contrario, cfr. G. Colavvitti, Equo compenso, cit., 31, per il quale “l’articolo 35 esprime l’obbligo della Repubblica di tutelare ogni forma di lavoro, in qualunque ambito essa si svolga, ed in qualunque modo si presenti. È pertanto difficile accogliere la tesi di chi ha ridottola sfera di applicazione dell’articolo 35 al solo lavoro salariato. Deve invece ritenersi che l’articolo si riferisca a tutte le forme di lavoro, sia esso autonomo, dipendente, professionale”. Dello stesso A., cfr. anche La libertà professionale tra Costituzione e mercato. Liberalizzazioni, crisi economica e dinamiche della regolazione pubblica, Torino, 2012; Id., “Fondata sui lavoratori”. Tutela del lavoro autonomo ed equo compenso in una prospettiva costituzionale, in Riv. AIC, n. 1/2018 1 ss. Tra gli autori che, in passato, hanno ritenuto applicabile anche al lavoro autonomo il principio di cui all’art. 36 Cost., cfr. C. Lega, Principi costituzionali in tema di compenso del lavoro autonomo, in Giur. it., 1960, I, 343 ss.; G. Giacobbe, Professioni intellettuali (voce), in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, 1078 ss.
[11] Cons. St., sez. V, 3 ottobre 2017, n. 4614, con nota di C.M. Chiarelli, Appalti pubblici di servizi a titolo gratuito: nota a Consiglio di Stato, sez. V, 3 ottobre 2017, n. 4614, in Federalismi.it, n. 18/2018, 1 ss. I giudici di Palazzo Spada nell’occasione hanno precisato che “l’effetto, indiretto, di potenziale promozione esterna dell’appaltatore, come conseguenza della comunicazione al pubblico dell’esecuzione della prestazione professionale, appare costituire, nella struttura e nella funzione concreta del contratto pubblico, di cui qui si verte, una controprestazione contrattuale anche se a risultato aleatorio, in quanto l’eventuale mancato ritorno (positivo) di immagine (che è naturalmente collegato alla qualità dell’esecuzione della prestazione) non può dare luogo ad effetti risolutivi o risarcitori”.
[12] Tar Sicilia – Palermo, sez. III, 6 febbraio 2017, n. 334 ove si ricorda ‒ richiamando Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238 ‒ che “il principio secondo cui in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione è già insito nell’ordinamento ed è previsto nell’art. 2233, cod. civ., che espressamente si occupa del contratto d’opera intellettuale, precisando che tale norma, contenuta nel codice civile, si indirizza, infatti, al singolo professionista, disciplinando i suoi rapporti con il cliente nell’ambito del singolo rapporto contrattuale”.
[13] Tar Campania ‒ Napoli, sez. I, ord. 25 ottobre 2018, n. 1541.
[14] Tar – Marche, sez. I, 9 dicembre 2019, n. 761.
[15] Tar – Marche, sez. I, 9 dicembre 2019, n. 761: “quando il cliente è un contraente forte - ovvero, come nella specie, la pubblica amministrazione - la pattuizione del compenso professionale incontra il limite del rispetto del principio dell’equo compenso (inteso, si ribadisce, come proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione), che va armonizzato con le esigenze di riequilibrio finanziario e non recedere rispetto ad esse (TAR Campania Napoli, sez. I, ordinanza n. 1541 del 25 ottobre 2018)”.
[16] È opportuno ricordare che in data 22 novembre 2017 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nell’esercizio dei poteri di cui all’art. 22 della legge 10 ottobre 1990 n. 287, ha deliberato l’invio di una segnalazione (AS 1452) ai presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri, avente ad oggetto alcune disposizioni previste nel d.l. n. 148/2017 e nel disegno di legge di conversione dello stesso. In particolare, l’Autorità ha rilevato che: “Il descritto intervento normativo, ove attuato nei termini proposti, determinerebbe (…) un’ingiustificata inversione di tendenza rispetto all’importante ed impegnativo processo di liberalizzazione delle professioni, in atto da oltre un decennio e a favore del quale l’Autorità si è costantemente pronunciata. Si tratta, infatti, di misure che, al di là delle motivazioni che le vorrebbero giustificare, ripropongono appieno gli stessi problemi concorrenziali che l’Autorità ha avuto in più occasioni modo di segnalare in tema di tariffe minime (…) In conclusione, l’articolo 19 quaterdecies del ddl in esame, in quanto idoneo a reintrodurre nell’ordinamento un sistema di tariffe minime, peraltro esteso all’intero settore dei servizi professionali, non risponde ai principi di proporzionalità concorrenziale, oltre a porsi in stridente controtendenza con i processi di liberalizzazione che, negli anni più recenti, hanno interessato il nostro ordinamento anche nel settore delle professioni regolamentate”.
[17] Corte di giustizia, sentenza 18 luglio 2013, in causa C-136/12, nonché Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238.
[18] Sul punto, cfr. Cass. civ., sez. VI, ord. 26 maggio 2021, n. 14483, ove si afferma: “In tema di liquidazione delle spese processuali successiva al d.m. n. 55 del 2014 (…) il giudice deve solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione (Cass. n. 2386 del 2017; Cass. n. 26608 del 2017; Cass. n. 29606 del 2017; Cass. n. 89 del 2021). In particolare, non sussistendo più il vincolo legale della inderogabilità dei minimi tariffari, i parametri di determinazione del compenso per la prestazione defensionale in giudizio e le soglie numeriche di riferimento costituiscono criteri di orientamento e individuano la misura economica standard del valore della prestazione professionale, per cui il giudice è tenuto a specificare i criteri di liquidazione del compenso solo in caso di scostamento apprezzabile dai parametri medi (Cass. n. 30286 del 2017; Cass. n. 6296 del 2019; Cass. n. 20183 del 2018; Cass. n. 10343 del 2020). Resta, tuttavia, ferma la necessità che il giudice proceda alla liquidazione di tutte le prestazioni che, in base alle fasi indicate nel citato d.m. n. 55, art. 4, e secondo gli scaglioni esposti nelle tabelle allegate al medesimo d.m. n. 55, l’avvocato abbia effettivamente reso nel giudizio, dandone specificamente conto in motivazione”.
[19] Di analogo tenore è la modifica che ha condotto alla novella dell’art. 4, comma 1, quarto periodo e art. 4, comma 4 del d.m. n. 55/2014.
[20] Cass. civ., sez. VI, ord. 26 maggio 2021, n. 14483.
[21] Una diversa funzione, evidentemente, è assolta dalla motivazione della decisione giudiziale sull’entità del compenso. Secondo Cass. civ., sez. VI, 10 dicembre 2020, n. 28113, infatti, “solo in caso di scostamento apprezzabile dai valori medi della tabella allegata al d.m. n. 55 del 2014 il giudice è tenuto ad indicare i parametri che hanno guidato la liquidazione del compenso; scostamento che può anche superare i valori massimi o minimi determinati in forza delle percentuali di aumento o diminuzione, ma in quest’ultimo caso fermo restando il limite di cui all’art. 2233 c.c., comma 2, che preclude di liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione (in tale prospettiva, cfr. Cass. n. 25804/2015, Cass. n. 24492/2016 e Cass. n. 20790/2017)”.
[22] Corte cost., 18 marzo 1957, n. 46.
[23] Si deve concordare con G. Colavitti, Equo compenso, cit., 26 secondo il quale storicamente “la disattenzione per il comparto del lavoro professionale è andata di pari passo con una vasta produzione normativa di tutela del lavoro subordinato da un lato, e, dall’altro lato, con una altrettanto ampia azione di sostegno ed incentivazione del mondo delle imprese, lasciando i professionisti italiani in una condizione di ontologica minorità, senza le tutele del lavoro dipendente, e senza le misure promozionali del comparto delle imprese”.
Nella legislatura in corso sono state presentate numerose proposte di legge volte ad ampliare la portata applicativa della vigente disciplina in materia di equo compenso. In particolare, sono in corso d’esame, in sede referente, presso la II Commissione, Giustizia, della Camera dei Deputati, i disegni di legge nn. C. 301 (on. Meloni), C. 1979 (on. Mandelli e altri), C. 2192 (on. Morrone e altri), C. 3058 (on. Di Sarno e altri), C. 2741 (on. Bitonci e altri). Per una prima analisi si rinvia al dossier predisposto dal Dipartimento Giustizia del Servizio studi parlamentare che reca le schede di lettura relative agli atti 301, 1979, 2192.
Con particolare riguardo al compenso dovuto dai soggetti pubblici, l’art. 3 della proposta di legge C. 2192, da una parte, estende la garanzia dell’equo compenso anche alle prestazioni rese in favore degli agenti della riscossione, dall’altra, tuttavia, prevede che, in relazione a quelle prestazioni, i compensi siano dimezzati.
[24] Tar Campania, Napoli, sez. I, ord. 25 ottobre 2018, n. 1541.
L’improcedibilità non è la soluzione
di Giorgio Spangher
1. Se c’è ancora qualcuno che non ha capito che politica e giustizia penale sono strettamente connesse, le vicende di questi ultimi tempi sono decisive.
Esaurite le audizioni davanti alla commissione giustizia, che meriterebbero un commento a parte, tanto sono state illuminanti, resta il nodo politico, essendo gli altri profili, certamente non secondari, ma marginali rispetto all’approvazione della legge.
Riavvolgiamo il nastro.
Dal giorno in cui Bonafede e la Bongiorno hanno legato il tema della prescrizione alla riforma, il vincolo tra questi due elementi non si è più sciolto.
Il blitz di Bonafede con la legge spazzacorrotti, complice il differimento dei suoi effetti, ha avviato la procedura di delega della riforma del processo penale che negli sviluppi politici (mediazione per la mutata maggioranza politica) ha incorporato la riforma, appunto, con legge ordinaria della prescrizione (ecco perché, come detto, i due elementi sono anche oggi collegati). Assunte numerose audizioni, prodotti numerosi emendamenti, in attesa delle proposte del relatore e della approvazione del testo per l’Aula della Camera, interveniva il cambio del Governo, una nuova Ministra, le indicazioni vere o presunte del PNRR. La nuova ministra incaricava una commissione (Lattanzi) di elaborare proposte emendative del testo Bonafede. Invero, non si tratta e non potrà trattarsi di una riforma globale del processo penale, ma solo di interventi emendativi di quel testo, anche se, volendo, qualche spazio potrebbe essere adeguatamente sfruttato. Sull’impianto della proposta di legge delega AC 2435 (Bonafede) si sono innestate, Come ipotesi di emendamenti l’elaborato della Commissione Lattanzi ed ora come veri emendamenti, sempre al disegno di delega Bonafede, quelli del Governo, che in parte tengono conto della proposta della commissione Lattanzi (che non ha quindi valore normativo, ma solo culturale, alla quale il Governo che l’ha istituita ha potuto attingere).
2. Cercando solo di evidenziare alcuni aspetti delle diverse proposte che possano mettere in risalto alcuni elementi identitari delle stesse, questi posso essere così schematicamente indicati.
Per quanto attiene alla proposta Bonafede (AC 2435) fra le numerose direttive si prevedeva: l’inserimento del comma 1 bis dell’ art 190 c.p.p. in materia di rinnovazione della prova dichiarativa per mutata composizione del collegio; la monocraticità dell’appello del rito monocratico; la necessità di una nuova procura per appellare; le regole di giudizio fattuali per l’archiviazione e per la sentenza di non luogo; la proposta sugli effetti della sospensione della prescrizione, dopo la sentenza di primo grado.
Anche con riferimento alla proposta Lattanzi, sempre al solo fine di indicare alcuni elementi identitari, possono segnalarsi: le modifiche al sistema sanzionatorio, decisamente molto ampie: numerosi percorsi procedurali, connotati da una significativa premialità; l’introduzione di motivi predeterminati per proporre appello; l’esclusione della legittimazione del pubblico ministero ad appellare.
Dando seguito a quanto anticipato, la Ministra ha deciso di tener conto solo in parte dell’elaborato Lattanzi. I suoi emendamenti, a seguito del passaggio in Consiglio dei ministri, sono diventati gli emendamenti del Governo tra i quali sempre soltanto a fini identificativi si segnala: la conferma delle modifiche al sistema sanzionatorio; la riduzione della premialità per accedere ai riti speciali; la conferma dell’attuale appello; l’ampliamento della competenza del giudice monocratico; l’improcedibiltà per superamento dei temi fissati per la celebrazione dei giudizi di impugnazione.
A parte va segnalato l’incremento delle risorse umane e materiali, l’informatizzazione degli uffici giudiziari e l’avvio del processo telematico.
Tentando una qualche sintesi, sicuramente approssimativa, ma capace di cogliere l’essenza delle citate proposte si può dire che: la riforma Bonafede si caratterizza per un impianto connotato da autoritarismo costruito su condizionamenti delle attività difensive e dei decongestionamenti processuali accompagnati dalla compressione delle garanzie.
La relazione Lattanzi prospetta un sistema sanzionatorio low cost per una criminalità medio bassa, a non elevata intensità, che accompagni exit strategies anticipatrici della fase del giudizio, così da decongestionare progressivamente il carico giudiziario, indotte anche dalla riduzione delle ipotesi di accesso all’ appello.
Per quanto attiene agli emendamenti Cartabia è agevole riscontrare che sono ridimensionate le soglie di pena della premialità, vengono confermate le soppressioni delle previsioni dell’ AC 2435 citate in precedenza, non viene riformato il giudizio di appello (con conseguente riequilibrio tra deflazione processuale e sviluppi del processo nel merito).
Il limite di tutte le proposte è costituito dal mancato alleggerimento delle fattispecie incriminatrici per le quali il legislatore affida impropriamente al processo il compito dell’ accertamento e dello smaltimento. Senza intervento in questa direzione, però, qualsiasi riforma è destinata a esiti deludenti.
3. Entro questi schemi si inseriscono le proposte di superamento della riforma della prescrizione targata Bonafede e, soprattutto, il fine pena “mai” a seguito dei giudizi di impugnazione
Varie le ipotesi sul tappeto: sospensione della prescrizione per un tempo definito e successiva ripresa del suo decorso, con recupero anche del tempo sospeso; sospensione della prescrizione per un tempo definito e successiva riduzione di pena o indennizzi per il prosciolto; cessazione della prescrizione e, dopo un tempo definito, una declaratoria di improcedibilità.
E’ stata scelta allo stato quest’ ultima soluzione: una partita in due tempi, cioè, prescrizione del reato (di natura sostanziale) e prescrizione del processo (di natura processuale)
La soluzione adottata , al di là della terminologia (procedibilità o proseguibilità) suscita notevoli perplessità al di là dell’ ibridismo tra i due orologi.
In un primo periodo corre solo la prescrizione sostanziale e, solo se questa non matura, si procede con quella processuale esclusivamente per la fase delle impugnazioni. Conseguentemente, un processo breve, come quello immediato, potrà essere dichiarato improcedibile per superamento dei termini del giudizio di gravame, ed uno di durata non ragionevole e non prescrittosi potrà continuare il suo corso per il tempo previsto per la fase di gravame.
Naturalmente questo dato condizionerà i comportamenti processuali tra rinuncia al gravame e richieste di concordato.
Invero, la prescrizione processuale può essere concepita come dato complessivo della durata del processo ma non può operare solo nell’ ultimo miglio dello stesso anche perché ha effetti più rilevanti di quella sostanziale e può intervenire molto prima dell’ altra che, esclusa la fase delle indagini preliminari, è del tutto assente in Cassazione e residuale in appello.
Si caducano le decisioni di condanna e di proscioglimento, le misure cautelari personali e reali, le pene accessorie le disposizioni civili, anche quelle provvisoriamente esecutive. Se riconosciuta nel giudizio di rinvio, la decisione travolgerà il giudicato parziale sulla responsabilità.
La decisione di improcedibiltà esclude l’applicazione della art 129 c.p.p. consente, però, il recupero del materiale probatorio nel giudizio civile e nel procedimento di prevenzione.
Considerata la sua immediata operatività, con l’approvazione della legge, andrebbe chiarito se l’improcedibilità operi anche per l’appello delle sentenze di non luogo e per l’appello della parte civile per i soli interessi civili.
Oltre a queste riserve di fondo, ove si volesse mantenere questa scelta, vanno da subito evidenziate non poche criticità che la previsione è suscettibile di determinare: forti differenziazioni tra i distretti, in relazione ai carichi processuali; possibile discrezionalità nelle decisioni di quali fascicoli trattare e quelli da far prescrivere; effetti pregiudizievoli per i processi che hanno esaurito il primo grado; effetti pregiudizievoli per gli imputati assolti e per le vittime che devono riniziare l’azione civile; condizionamento psicologico sul giudice e, comunque, rischi di accelerazioni decisorie; ristrettezza del tempo in caso di conversione dei ricorsi in appello; eccesso di discrezionalità nella valutazione della complessità che consente l’ ampliamento dei termini; mancate considerazioni sui processi davanti alle Corti di Assise di appello.
Come anticipato, alcuni correttivi potranno essere subito introdotti con effetto retroattivo, se verrà confermata la natura processuale della previsione. Il timore, invece, è che si introducano previsioni restrittive solo per far funzionare il meccanismo, con conseguenze negative di sistema: ampliamento progressivo delle ipotesi di reato che possano prevedere tempi più lunghi; spostamento del momento dal quale far decorrere il tempo di definizione dei giudizi di impugnazione; l’introduzione di filtri alle impugnazioni ed estensione delle cause di inammissibilità; recupero della ipotesi della collegialità solo a domanda nel rito monocratico.
Resta una domanda; a fronte di non pretestuose riserve, perché questo accanimento per una proposta quando la Commissione Lattanzi, incaricata dalla Ministra, ne ha prospettato un’altra che è poi condivisa largamente (Lattanzi, Lupo, Manes solo per citare chi si è espresso) e sulla quale con qualche variante non dovrebbe essere impossibile convergere?
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