ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Dopo aver indagato il tema della comunicazione, oggetto della rubrica della Rivista presentata con l’editoriale del 18 maggio 2021 attraverso il pensiero della magistratura di legittimità e di merito (si rimanda ai contributi di Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli) ed aver approfondito il valore della comunicazione e della parola quale mezzo di emancipazione dell’individuo e della società grazie allo scritto di Francesco Messina passando per un’analisi del tema del linguaggio dell’Accademia con Marina Castellaneta e della questione cruciale della comprensibilità e della conoscibilità dell’attività giurisdizionale attraverso il pensiero di Marcello Basilico, prosegue oggi la serie di interviste ai professionisti della comunicazione e, facendo seguito a quelle di Rosaria Capacchione e Giovanni Bianconi, si è lieti di presentare adesso quella a Giovanni Tizian, classe ‘82, giornalista collaboratore del progetto editoriale “Domani”, autore di numerosi saggi-inchiesta, fra cui Libro nero della Lega (Laterza 2019), Gotica. ‘Ndrangheta, Magi e camorra oltrepassano la linea (Round Robin Editrice, 2911), La nostra guerra non è mai finita. Viaggio nelle viscere della ‘Ndrangheta e nella memoria collettiva (Mondadori, 2013), Il clan degli invisibili (Mondadori, 2014), Rinnega tuo padre (Laterza, 2018).
Giustizia e comunicazione. 10) Intervista di Giuseppe Amara a Giovanni Tizian
La professione del giornalista d’inchiesta ed il confronto con la società liquida, connotata da una frenetica e consumistica acquisizione di notizie che spesso pecca di approfondimento e riflessione. Come cambia l’indagine del giornalista, la sua rappresentazione all’esterno?
La maggiore difficoltà del giornalista oggi è confrontarsi con un’informazione diffusa, parcellizzata, frammentata. I social network hanno cambiato radicalmente il panorama e l’informazione. I lettori si informano principalmente sulle piattaforme come facebook e twitter. Qui però si trovano spesso informazioni non verificate.
Il giornalista invece è quel professionista che le notizie le verifica, le filtra e solo dopo le offre al lettore. Il giornalista all’esterno deve continuare ad apparire così, altrimenti perde la sua funzione primaria di mediatore tra i fatti e il lettore. In questo senso, proprio per la complessità di oggi di comunicare i risultati delle indagini, diventa un lavoro ancor più difficile, perché tutto si presta alla polemica, all’attacco. Ma il giornalista deve raccontare senza aggettivi ciò di cui viene a conoscenza. Il cronista non dà giudizi, riporta fatti.
Altra cosa è l’opinionista. Dunque, a maggior ragione oggi il giornalista nel raccontare o rivelare fatti oggetto di inchieste deve usare la massima cautela senza esasperare toni o prendere posizioni, soprattutto stando attento a entrambe le parti coinvolte nell’indagini.
Dal suo punto di vista, oggi, la magistratura si deve far carico dell’onere della comunicazione? Deve spiegare il significato delle decisioni assunte affinché al fruitore dell’informazione possa giungere a un chiarimento sulla complessità del tecnicismo giuridico che, talvolta, conduce a risultati inattesi? E questo, è un diritto o un dovere?
Ritengo che la magistratura abbia il diritto di comunicare all’esterno attività concluse in un certo senso. Del resto anche negli altri paesi avviene quando si chiude un procedimento che riguarda fatti rilevanti per la società. Penso alla fine delle indagini dell’Fbi negli Stati Uniti, alle conferenze stampa di chi indaga sugli attentati in Europa per informare passo dopo passo i cittadini, c’è insomma la necessità di comunicare eventi che riguardano reati gravi alla comunità.
Non credo però nel dovere, penso sia più un diritto, che coincide con quello del cittadino a essere informato.
Quindi comunicazione della magistratura come diritto alla conoscibilità ed alla comprensibilità delle decisioni assunte?
Sì, la giustizia è un ambito troppo delicato perché sia tenuta al riparo dalla conoscenza dei cittadini.
Oggi, ritiene che la magistratura sappia comunicare? E quali suggerimenti, un tecnico della comunicazione, come Lei, ritiene di avanzare, sia allorquando pensiamo alla comunicazione tramite conoscenza del provvedimento giudiziario, sia quando si pensa a quella istituzionale?
Sui provvedimenti giudiziari ritengo che la conferenza stampa sia uno strumento ancora valido, tuttavia ritengo che sia necessario mettere a disposizione dei cronisti il materiale senza scatenare la categoria in una lotta alla ricerca delle carte. Mi spiego: se ci fossero protocolli chiari su come richiedere i documenti non segreti a disposizione delle parti per raccontare al meglio tutta la storia si eviterebbero rapporti personali tra toghe e cronisti e questi ultimi sarebbero garantiti tutti allo stesso livello, senza preferenze personali.
Sulla comunicazione istituzionale: credo che in questo campo sia necessaria una maggiore apertura verso le comunità, anche attraverso un uso più massiccio dei canali social, tramite figure specializzate in questo, sempre giornalisti che sappiano parlare a un pubblico più ampio.
Un recente sondaggio parla di una riduzione significativa della fiducia nella magistratura. Secondo Lei, può aver influito anche un certo tipo di comunicazione?
Più che la comunicazione ritengo che ad avere influito siano gli scandali che hanno coinvolto il Csm e singoli magistrati in giro per l’Italia. La comunicazione non mi pare abbia avuto un ruolo centrale.
Ritengo anche che dopo gli scandali, sì, la comunicazione abbia peccato di poca concretezza nel senso che i cittadini si aspettavano rotture radicali con il passato che non sono state percepite come tali.
E come recuperare questo vulnus?
Si recupera con la credibilità, mostrando determinazione nel voler cambiare il sistema. Non è inseguendo il populismo giudiziario che si fa piazza pulita di ciò che c’era prima. Il cambio deve essere culturale, i danni di ciò che è accaduto non si vedono solo a Roma, ma anche in quei territori difficili e complessi dove per costruire un rapporto di fiducia con i cittadini c’è voluto tempo, tanto troppo tempo. Anche lì gli scandali, attraverso i media, hanno prodotto una perdita di fiducia. E capite bene che in quei luoghi dove si combatte corpo a corpo contro i clan la credibilità è fondamentale.
Nella sua esperienza professionale, come il lavoro della magistratura ha inciso ed aiutato le sue inchieste e come le sue inchieste ha avuto modo di percepire abbiano inciso ed aiutato il lavoro della magistratura?
C’è il lavoro di cronista giudiziario, che segue le attività dei tribunali e delle procure. Ma poi c’è un lavoro di inchiesta autonomo, che è quello che preferisco: ritengo che il giornalismo debba arrivare prima della magistratura, svelando fatti nuovi che possono avere interesse anche per chi indaga nelle procure.
La comunicazione e l’attività del magistrato per la formazione della coscienza della legalità, nel suo impegno civile, quali effetti ha percepito e quali limiti ravvisa?
Ha contribuito molto a diffondere l’idea che le mafie non sono un problema solo delle toghe, ma che vanno combattute con uno sforzo collettivo della società. I giudici scrivono le sentenze, i pm fanno le indagini, i cittadini devono vigilare sul territorio ognuno nel suo ambito, devono essere esigenti con chi governa il territorio, chiedere conto di comportamenti poco chiari anche se non penalmente rilevanti: faccio sempre l’esempio del sindaco che il cronista becca a cena con il mafioso, l’incontro non è reato ma è accettabile socialmente? Spero che per molti cittadini non lo sia, ma per altri purtroppo lo sarà.
In alcuni casi però ritengo che il protagonismo sia nel giornalismo sia nella magistratura abbia prodotto un effetto contrario, cioè di creare degli eroi a cui delegare tutto il lavoro di lotta alle mafie, alla corruzione, alle illegalità in generale.
A cosa pensa in particolare e quale una possibile soluzione?
Non c’è una soluzione che ho in mente, ma solo la convinzione che se tutti facciamo la nostra parte il paese migliora, se tutti ci convinciamo che, per dire, l’evasione è un danno per tutti perché ruba risorse allora è già una buona base di partenza. Idem per mafia e corruzione. Ma spesso non c’è questa convinzione diffusa.
Il giornalista d’inchiesta ed il magistrato. Due vite spese per la ricerca di una società più giusta. C’è un filo che unisce le due funzioni? Posso chiederle quando e come mai ha deciso di indagare e di scrivere?
Il filo c’è solo quando il lavoro del giornalista incrocia l’attività del magistrato. Il cronista non deve accusare nessuno, fa emergere fatti, circostanze e racconta cose che possono non avere una rilevanza penale. Il magistrato si occupa di reati. Poi è vero, spesso si incrociano.
Ho deciso di scrivere per curiosità verso il mondo, verso le cose che rimanevano nella penombra. Ma anche perché ritengo che dare voce a chi non ce l’ha sia una forma di giustizia.
Il “dialogo tra le Corti” e le prestazioni di sicurezza sociale[1]
di Luigi Cavallaro
Il diritto dell’Unione Europea è materia tanto rilevante quanto ancora incerta nei suoi presupposti dogmatici. Né c’è da meravigliarsene: è disciplina giuridicamente “giovane”, se paragonata alla tradizione millenaria del diritto civile o a quella secolare del diritto costituzionale e del diritto processuale; e siccome giovani siamo stati tutti, tutti ricordiamo che la gioventù è un tempo in cui la vigoria del corpo spinge alla prassi, cioè alla trasformazione della realtà, piuttosto che alla riflessione su di essa.
Ma tutti ricordiamo anche che non si dà una netta linea di demarcazione tra gioventù e “maturità”, che è il nome altisonante con cui coloro che giovani non sono più chiamano quell’età in cui, oltre a “fare”, s’incomincia a ragionare su quel “fare”: sui suoi obiettivi, sui presupposti per raggiungerli, sulla loro compatibilità con altri che pure ci siamo dati. E accade così anche per il diritto dell’Unione Europea: che dopo la stagione faustiana dell’“azione” ha preso anch’esso a interrogarsi sui suoi presupposti e fondamenti, nel tentativo di districare la selva di problemi che tutt’intorno, mentre correva a perdifiato, gli era cresciuta.
È mia personale opinione che la fortuna che ha arriso all’espressione “dialogo tra le Corti” si debba all’indubbia capacità di dissimulazione di molti di questi problemi: che riguardano non soltanto il rapporto tra ordinamenti giuridici differenti, quali indubbiamente sono il diritto dell’Unione, da un lato, e gli ordinamenti degli Stati membri, dall’altro, ma prima ancora i conflitti tra i valori che rispettivamente ispirano l’uno e gli altri e, se l’espressione non suona troppo irriguardosa, perfino i conflitti di classe che ne stanno alla base. Cercherò di spiegare il perché avvalendomi di un recentissimo esempio.
Due lavoratori extracomunitari che vivono in Italia, ma i cui familiari risiedono nei Paesi di rispettiva provenienza, convengono in giudizio l’INPS, chiedendo la corresponsione degli assegni familiari. L’Istituto resiste, invocando l’art. 2, comma 6-bis, d.l. n. 69/1988 (conv. con l. n. 153/1988), che esclude dal diritto agli assegni familiari i lavoratori stranieri i cui congiunti non abbiano residenza effettiva nel nostro Paese, a meno che non sussista un criterio di reciprocità con il Paese di provenienza o la materia sia regolata da apposita convenzione internazionale. I giudici di merito accolgono nondimeno la domanda, richiamando le direttive dell’Unione Europea nn. 103/2003 e 98/2011: le quali, fissando il principio di parità di trattamento tra lavoratori nazionali ed extracomunitari, imporrebbero al nostro Paese il divieto di discriminare gli stranieri rispetto ai cittadini italiani, ai quali, invece, gli assegni sono corrisposti indipendentemente dal fatto che i familiari risiedano nel nostro Paese.
L’INPS ricorre quindi per la cassazione di entrambe le sentenze, denunciandole per violazione di legge. Ma la Cassazione vuol vederci chiaro circa l’effettiva portata della norma europea, e solleva altrettante questioni pregiudiziali d’interpretazione alla Corte di Giustizia: chiedendole, in particolare, se la parità di trattamento sancita dalle direttive in questione debba estendersi anche ai casi di specie, la cui peculiarità, come s’è detto, è data dall’essere il nucleo familiare dei lavoratori stranieri residente all’estero[2].
La Corte di Giustizia risponde da par suo[3]: e nel compiere la dovuta esegesi delle direttive, interpreta in modo estensivo la portata del principio di parità di trattamento, privando di valore ermeneutico quei “considerando” delle direttive che apparentemente potevano circoscriverne la portata, e in modo specularmente restrittivo la possibilità per gli Stati membri di introdurre deroghe. E conclude asserendo che il diritto dell’Unione “osta” ad una normativa nazionale come quella invocata dall’INPS per negare la corresponsione degli assegni.
Chiamata a dare esecuzione alle sentenze della Corte di Giustizia, la Corte di cassazione reputa però di non poter procedere alla “disapplicazione” della legge italiana e solleva un incidente di costituzionalità. Le ragioni si leggono per esteso nelle ordinanze nn. 9378 e 9379 dell’8 aprile scorso, ma ai nostri fini interessano le valutazioni in punto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale: che sono quelle in cui la Cassazione prova a dire la sua su come deve dialogarsi tra le Corti in questa materia e perché.
Ad avviso del Collegio, infatti, le direttive in questione non possiedono alcuna “efficacia diretta” che possa giustificare la disapplicazione (o meglio, la non applicazione) della norma interna con esse contrastante: e ciò perché il diritto dell’Unione non regola direttamente la materia dei trattamenti di famiglia. Il precetto di parità di trattamento, infatti, impone bensì agli Stati membri di non trattare diversamente i congiunti del lavoratore straniero non residenti nel nostro Paese, ma non consegna al giudice interno una disciplina in grado di sostituirsi integralmente a quella nazionale; di conseguenza, la “disapplicazione” della norma interna con esso contrastante «altro non realizzerebbe che una modifica della norma nazionale mediante la sostituzione del criterio della reciprocità ovvero della specifica convenzione internazionale con quello della parità di trattamento»; si tratterebbe insomma «di un intervento di tipo manipolativo» della norma nazionale, ovviamente inibito al giudice comune e che solo la Corte costituzionale può realizzare.
Le ordinanze in questione sono state subito oggetto di attenzione critica da parte della dottrina: e in verità, anche di giudizi severi[4]. «Assai poco condivisibili», si è detto delle considerazioni della Corte, «ed anzi senz’altro scorrette»: sia dal punto di vista del collegamento instaurato tra disapplicazione e riparto di competenze, che si è denunciato come «errato», sia dal punto di vista della sussistenza di residui margini di discrezionalità del legislatore nazionale nell’attuazione delle direttive, lapidariamente liquidato come «fuorviante». E nel rimarcare l’erroneità dell’approdo, si è ovviamente auspicata una dichiarazione d’inammissibilità della questione da parte della Corte costituzionale: unico rimedio per «ripristinare i corretti termini» della vicenda e tornare «a prendere sul serio il diritto dell’Unione»[5].
Chi scrive di quel Collegio ha fatto parte: e oltre a reputare affatto legittimo che la dottrina si sia espressa in modo critico, nemmeno si meraviglia dell’asperità dei toni, ben sapendo quanto il tema dell’immigrazione sia connotato da precomprensioni ideologiche che rendono pressoché impossibile un pacato confronto. Una cosa sola ci tiene a dire, per chiarezza: in Cassazione, il diritto dell’Unione lo si prende sul serio, sempre; ed è proprio per ciò che i dubbi talora affiorano là dove altri pretendono di trovare nient’altro che certezze.
E vorrei provare a dar voce a questi dubbi aprendo anzitutto proprio il volume che qui siamo chiamati a presentare: e leggendone le pagine che riassumono incisivamente e con nettezza i cardini dell’intervento dell’Unione Europea in materia di sicurezza sociale[6]. Ricordandoci, in primo luogo, che la “politica sociale”, nel cui ambito rientrano la previdenza e l’assistenza sociale, appartiene al novero delle “competenze concorrenti” dell’Unione Europea, cioè di quelle competenze che le sono attribuite solo ed in quanto gli obiettivi enunciati dai Trattati non possono essere conseguiti a livello di singoli Stati membri; e che, di conseguenza, pur essendo la sicurezza sociale inclusa tra gli ambiti di azione dell’Unione, la competenza in materia non può essere esercitata in modo da compromettere «la facoltà riconosciuta agli Stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale», né da «incidere sensibilmente sull’equilibrio finanziario dello stesso», come dice testualmente l’art. 153 TFUE: si tratta infatti di ambiti normativi che hanno implicazioni dirette sul bilancio dei singoli Stati membri, al cui equilibrio peraltro essi sono tenuti per rispettare altre e non meno cogenti disposizioni contenute negli artt. 126 ss. TFUE.
È per ciò che i principali interventi regolatori che si rinvengono nella nostra materia sono i regolamenti che concernono la definizione del regime previdenziale applicabile ai lavoratori migranti nell’ambito dell’Unione, al fine di risolvere i possibili conflitti di disposizioni interne in tema di iscrizione, pagamento dei contributi e calcolo delle prestazioni: si tratta, infatti, di disposizioni finalizzate a preservare la fondamentale libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, che potrebbe essere pregiudicata in assenza di regole che garantiscano la conservazione e il cumulo dei periodi assicurati presso i singoli Stati membri; e che rientrano pertanto a pieno titolo nell’ambito del principio di sussidiarietà nei cui limiti l’Unione può legiferare allorché sia dotata di competenza concorrente.
Ora, se questa premessa è vera, ne vengono talune implicazioni di non poco momento. Fin dalla sentenza nota come Granital, la Corte costituzionale ha chiarito che il diritto nazionale incompatibile con una norma dell’Unione può non trovare applicazione nella specifica fattispecie concreta sub iudice solo se le disposizioni del diritto dell’Unione «soddisfano i requisiti dell’immediata applicabilità», vale a dire «solo se e fino a quando il potere trasferito alla Comunità [oggi all’Unione] si estrinseca in una normazione compiuta»[7]. Ma, come abbiamo appena ricordato, una “normazione compiuta” di diritto dell’Unione nella materia degli assegni familiari non esiste: esiste solo un principio di parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni previdenziali tra lavoratori che appartengono all’Unione e lavoratori che non vi appartengono. Ciò significa che, in questo caso, la norma dell’Unione viene invocata per opporsi ad una norma nazionale, espunta la quale la situazione soggettiva torna ad essere (come solo può essere) disciplinata dall’ordinamento interno, che non è stato oggetto di disapplicazione alcuna.
Si tratta di un fenomeno che la dottrina francese ha chiamato “invocabilité d’exclusion”[8]: e vale a designare il caso in cui il singolo, pur non essendo destinatario di situazioni soggettive garantitegli direttamente dall’ordinamento dell’Unione, invoca una norma di diritto dell’Unione per richiedere un controllo di legittimità di una norma di diritto interno, onde beneficiare di una modifica dell’ordinamento interno che sia favorevole ai suoi interessi. La Corte di Giustizia lo ha espressamente teorizzato fin dalla sentenza Becker[9], allorché ha osservato che, quando le disposizioni di una direttiva appaiono precise e incondizionate, il singolo, in mancanza di provvedimenti d’attuazione, può valersene «per opporsi a qualsiasi disposizione di diritto interno non conforme alla direttiva, ovvero in quanto sono atte a definire diritti che i singoli possono far valere nei confronti dello Stato»[10]. E si tratta chiaramente di fattispecie differenti; e se c’è un ambito nel quale questa diversità si coglie nitidamente è proprio la materia dei diritti a prestazione, i quali – come tutti i diritti sociali – in tanto possono essere garantiti in quanto esistano procedimenti amministrativi preordinati all’accertamento dei requisiti ed enti tenuti all’erogazione delle prestazioni, ciò che a sua volta presuppone l’esistenza di leggi e, soprattutto, corrispondenti stanziamenti di bilancio: che sono, nella specie, tutti statali e non già dell’Unione Europea.
Non indugerò qui sul fatto che la dottrina si è a lungo interrogata (e s’interroga ancora) circa la possibilità di ricomprendere l’invocabilité d’exclusion tra le fattispecie in cui l’ordinamento dell’Unione possiede “efficacia diretta”, giungendo a soluzioni differenti (e prevalentemente negative)[11]: mi limito a ricordarlo giusto per scansare alla Corte di cassazione l’accusa di non prendere “sul serio” il diritto dell’Unione. D’altra parte, è indiscutibile che la Corte di Giustizia, nonostante il formale ossequio ai principi elaborati dalla sentenza Simmenthal[12], è progressivamente pervenuta ad ancorare la disapplicazione al (solo) principio del “primato del diritto UE”, senza più porsi soverchi problemi di efficacia diretta o indiretta delle norme dell’Unione (emblematici i casi noti come Lucchini e Taricco)[13]. Ma se è vero che, ad onta di ogni pretesa “monistica” più o meno ascrivibile alla dottrina del “primato”, la nostra giurisprudenza costituzionale è ferma nel ritenere che i rapporti tra l’ordinamento dell’Unione e quello nazionale sono fondati sul riparto di competenze (ed è per ciò che al giudice comune non è attribuito alcun potere di dichiarare le leggi statali “viziate” per contrasto con il diritto dell’Unione, bensì soltanto di verificare quale sia la norma competente a disciplinare la fattispecie, non applicando quella che “competente” non è)[14], possiamo davvero giungere ad una “disapplicazione” in conseguenza di un “controllo di legittimità” della norma interna alla stregua del diritto dell’Unione?
Detto altrimenti: pur volendo concedere che le direttive posseggano “effetti diretti” anche quando funzionano come parametro di legittimità dell’azione degli Stati membri (come appunto nel caso dell’invocabilité d’exclusion, in cui per definizione non esiste un diritto dell’Unione che possa dirsi integralmente “sostitutivo” della normativa interna)[15], chi può essere chiamato a “produrre” la norma interna diversa da quella originariamente preposta a governare la fattispecie? Il giudice comune? Oppure, in un sistema come il nostro, in cui il controllo di legittimità degli atti normativi è accentrato, si tratta di un compito riservato alla Corte costituzionale?
Ecco, in estrema sintesi, i dubbi per i quali la Corte di cassazione, nelle ordinanze di cui qui s’è cercato di dare conto, ha ritenuto che il “dialogo” precorso con la Corte di Giustizia non fosse esaustivo e ha rimesso la questione alla Corte costituzionale, affinché dicesse la sua: e prima di tutto, ovviamente, se si tratta di dubbi che hanno ragion d’essere o meno.
Non sta a me dire se, come sostenuto da altra dottrina[16], l’episodio possa essere considerato come espressione di un “contromovimento” della Cassazione rispetto alle “magnifiche sorti e progressive” dell’integrazione europea attraverso il diritto; per quel poco che vale il mio parere, mi sembra piuttosto di poter suggerire che, se si conviene che i conflitti tra norme statali e sovranazionali in materia di sicurezza sociale vanno riconosciuti per ciò che realmente sono, vale a dire conflitti politici o, per usare l’irriguardosa espressione di poc’anzi, conflitti di classe[17], cautela e grande attenzione sono doverose per gl’interpreti, in questo campo più che mai.
[1] Testo rivisto dell’intervento tenuto al webinar “Le politiche europee di supporto all’occupazione in periodo pandemico e gli effetti sull’ordinamento italiano” (28 maggio 2021), in occasione della presentazione del volume di F. Carinci, A. Pizzoferrato (a cura di), Diritto del lavoro dell’Unione Europea, Torino, Giappichelli, 2021.
[2] Si tratta di Cass. (ord.) 1 aprile 2019, nn. 9021 e 9022.
[3] CGUE, 25 novembre 2020, C-302/19 e C-303/19.
[4] S. Giubboni, N. Lazzerini, L’assistenza sociale degli stranieri e gli strani dubbi della Cassazione, in “Questione Giustizia”, 6 maggio 2021.
[5] Ibid.
[6] A. Pizzoferrato, La sicurezza sociale, in Carinci, Pizzoferrato, Il diritto del lavoro dell’Unione Europea, cit., p. 428 ss.
[7] Così Corte cost. 5 giugno 1984, n. 170, in motivazione.
[8] Cfr. al riguardo D. Gallo, L’efficacia diretta del diritto dell’Unione Europea negli ordinamenti nazionali, Milano, Giuffrè, 2018, spec. p. 213 ss.
[9] CGUE, 19 gennaio 1982, C-8/81.
[10] Ibid., § 25. Da notare che, come rileva puntualmente Gallo, op. cit., p. 215 n., “ovvero” qui vale nel senso di “oppure”, come risulta dalle versioni francese e inglese della sentenza.
[11] Si ricorderanno, in particolare, le opinioni negative di J.A. Winter e S. Amadeo, opportunamente richiamate in Gallo, op. cit., p. 239: secondo il primo, in casi del genere il diritto dell’Unione creerebbe «limited effects», dissociati da veri e propri «claimable rights»; non dissimilmente, per il secondo, esso non avrebbe vere e proprie «ricadute soggettive» sugli individui. V., rispettivamente, J. A. Winter, Direct Applicability and Direct Effect. Two Distinct and Different Concepts in Community Law, in “Common Market Law Review”, 1972, spec. p. 437; S. Amadeo, Norme comunitarie, posizioni giuridiche soggettive e giudizi interni, Milano, Giuffrè, 2002, spec. p. 174.
[12] CGUE, 9 marzo 1978, C-49/78.
[13] Si vedano rispettivamente CGUE, 18 luglio 2007, C-119/05, e CGUE, 8 settembre 2015, C-105/14, e la nota “saga” seguita a quest’ultima, su cui v. almeno M. Luciani, Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in A. Bernardi (a cura di), I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, Napoli, Jovene, 2017, p. 63 ss.
[14] Lo ricorda opportunamente A. Guazzarotti, Logica competenziale dell’UE e sindacato diffuso sulle leggi: alle origini del riduzionismo della Costituzione italiana, in “Diritto pubblico comparato ed europeo”, 2019, spec. p. 805.
[15] È la tesi di Gallo, op. cit., p. 241 ss., ripresa in Id., Effetto diretto del diritto dell’Unione Europea e disapplicazione, oggi, in “Osservatorio sulle fonti”, n. 3/2019 (disponibile all’indirizzo: http//www.osservatoriosullefonti.it).
[16] Guazzarotti, Integrazione europea attraverso il diritto? Due recenti ordinanze della Cassazione in tema di assegni familiari per i lavoratori extra-UE, in “lacostituzione.info”, 10 maggio 2021.
[17] Sulle conseguenze economiche delle politiche di apertura delle frontiere perseguite dall’Unione Europea, in termini di indebolimento del potere contrattuale dei salariati autoctoni e di aggravamento delle condizioni generali di vita dei ceti popolari, v. la perspicua analisi di A. Barba, M. Pivetti, Il lavoro importato. Immigrazione, salari e Stato sociale, Milano, Meltemi, 2019, che suggeriscono di ricercare in questa direzione le ragioni strutturali della crescente (ancorché certo non commendevole) ostilità delle popolazioni europee nei confronti del fenomeno migratorio.
Verso la riforma del processo tributario: il “rinvio pregiudiziale” ed il ricorso del P.G. nell’interesse della legge
di Luigi Salvato
Sommario: 1. Premessa - 2. L’efficienza del processo tra riforme organizzative e procedurali - 3. Il rinvio pregiudiziale come strumento deflattivo: la riforma in ambito civile e tributario e l’esperienza francese - 3.1. L’efficacia del principio di diritto enunciato in sede di rinvio pregiudiziale - 4. Il ricorso del P.G. nell’interesse della legge in materia tributaria.
1. Premessa
Non appena è stata acquisita la consapevolezza della dirompenza degli effetti negativi della pandemia da Covid-19, si è levato l’auspicio che la «grande crisi economica» (e non solo) da questa innescata preludesse, come in cicli storici precedenti, ad un grande sviluppo per quei Paesi in grado di «usare un approccio “resiliente”», che è quello di quanti, immersi «in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà […] e persino a raggiungere mete importanti ed imprevedibili prima degli eventi negativi»[1].
Il sostantivo resilienza ha conosciuto immediata fortuna, soprattutto dopo che è entrato nella denominazione del programma di ripresa e rinascita elaborato dall’Italia[2], per beneficiare degli strumenti del Next Generation EU (NGEU). A questo Piano si deve l’avvio di una stagione di riforme che si prefigura intensa (per numero, oggetto e tempi), costituendo quella della giustizia «una delle principali che l’Europa chiede», di pregnante importanza per il Recovery[3], al punto che – ha ricordato la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia – se non approveremo entro la fine dell’anno le tre importanti leggi che dovrebbero avviarne la realizzazione, «mancheremo a un impegno assunto con la Commissione per ottenere le risorse europee. La posta in gioco sono le risorse del Recovery»[4].
Le brevi considerazioni che seguono – limitate ai nuovi istituti del rinvio pregiudiziale e del ricorso nell’interesse della legge nel processo tributario – devono muovere da tale premessa, imprescindibile per cogliere al giusto la finalità delle proposte (nel processo tributario, ma anche in quello civile) e l’imprescindibilità di un approccio resiliente, che impone di non indulgere in esasperati formalismi e di «agire in maniera “costruttiva, non sterile”, senza arroccarsi nella difesa dello status quo», tenendo conto che, «se la qualità delle proposte è essenziale, la loro percezione non è di secondaria importanza, può essere determinante per il successo delle riforme».[5]
2. L’efficienza del processo tra riforme organizzative e procedurali
Il PNRR ha identificato tra le cause che limitano il potenziale di crescita dell’Italia i «ritardi eccessivi nella giustizia», da ultimo rimarcati dalla Commissione europea nel rapporto dell’8 luglio 2021 (The 2021. EU Justice. Scoreboard), che vede collocata l’Italia agli ultimi posti in Europa per l’efficienza della giustizia, in particolare, a causa della lentezza dei processi[6]. Di qui l’improrogabilità di «un ambizioso progetto di riforme» che, con riguardo alla giustizia civile e tributaria, «ha l’obiettivo di affrontare i nodi strutturali del processo» e di «rivedere l’organizzazione degli uffici giudiziari», predisponendo «interventi volti a ridurre il contenzioso tributario e i tempi della sua definizione»[7].
In dettaglio[8], muovendo dalla premessa che il processo (nei vari ambiti) «soffre di un fondamentale problema: i tempi della celebrazione», il PNRR ha fissato quale «obiettivo fondamentale dei progetti e delle riforme nell’ambito del settore giustizia […] la riduzione del tempo del giudizio»[9], da realizzare mediante «un’opera riformatrice che non si fondi unicamente su interventi di carattere processuale, ma aggredisca anche i nodi organizzativi irrisolti, per abbattere l’enorme mole di arretrato che pesa sugli uffici giudiziari». L’obiettivo – rimarca il Piano – «non può essere raggiunto solo attraverso interventi riformatori sul rito del processo o dei processi. Occorre muoversi contestualmente seguendo tre direttrici tra loro inscindibili e complementari: sul piano organizzativo, nella dimensione extraprocessuale e nella dimensione endoprocessuale».
L’approccio esprime la consapevolezza – esplicitata sia nella Relazione della Commissione Luiso[10], in sintonia con la premessa del Piano[11], sia in quella della Commissione della Cananea[12] –, in passato quasi sempre trascurata, che «occorre abbandonare l’illusione che le riforme di quei complessi congegni tecnici della giustizia che sono i processi civile, penale e amministrativo, bastino di per sé sole a risolvere la crisi»; infatti, «i congegni tecnici, per quanto perfezionati siano, non funzionano se fanno difetto i due fattori essenziali su cui poggia l’amministrazione della giustizia: gli uomini e le strutture» e «le riforme processuali vanno accompagnate con le riforme dell’ordinamento giudiziario»[13]. La rilevanza degli aspetti organizzativi è, se possibile, ancora più chiara con riguardo alla giustizia tributaria, poiché investe lo stesso assetto ordinamentale della magistratura tributaria[14]. Nondimeno, se è indubbio, come da ultimo autorevolmente ricordato, che «il problema della giustizia non si risolve modificando le regole del processo», poiché «il cuore dei problemi è altrove»[15], è altresì ineluttabile un intervento sui molteplici piani che vengono in rilievo e, quindi, anche sulla procedura.
3. Il rinvio pregiudiziale come strumento deflattivo: la riforma in ambito civile e tributario e l’esperienza francese
Un primo, nuovo, istituto che si intende introdurre è il rinvio pregiudiziale, in ordine al quale, in questa fase di avvio della riforma, è opportuno limitarsi ad alcune considerazioni di carattere generale, per identificare i principali temi del dibattito già avviato, anche da questa Rivista[16].
In estrema sintesi, l’idea è assai semplice. La durata dei giudizi e la loro stessa proliferazione, anche con riguardo al numero delle impugnazioni, è prodotta anche dalle incertezze causate da una normativa alluvionale, spesso non razionalmente inserita in un ordinamento oramai privo di organicità, di non facile ricostruzione (in particolare, nella materia tributaria), alla base di interpretazioni divergenti e di orientamenti contrastanti, soprattutto in mancanza di pronunce della Corte di cassazione. Garantire il tempestivo intervento nomofilattico della Corte di legittimità potrebbe contribuire ad ovviare a detto inconveniente.
Muovendo da tale convincimento, l’obiettivo, comune al processo civile ed al processo tributario, esplicitato con considerazioni assai simili (anche dal punto di vista letterale) dalle Relazioni della Commissione Luiso e della Commissione della Cananea[17] è di ridurre i tempi del giudizio mediante un meccanismo in grado di incidere sui presupposti dell’impugnazione della sentenza con ricorso per cassazione, assicurando il tempestivo intervento della Corte di cassazione, che dovrebbe altresì prevenire «un probabile contenzioso su una normativa nuova o sulla quale non si è ancora pronunziata la giurisprudenza di legittimità», grazie all’enunciazione di «una regola ermeneutica chiara, capace di fornire indirizzi per il futuro ai tribunali di merito»[18].
Siffatto meccanismo, costituito dall’istituto del rinvio pregiudiziale[19], è ritenuto «anche coerente con il ruolo di jus dicere proprio del giudice di legittimità. In questo modo, infatti, la Corte di legittimità assolve compiutamente al proprio compito di sommo organo regolatore, proteso all’armonico sviluppo del diritto nell’ordinamento»[20].
Nel sistema attuale – osserva la Relazione della Commissione della Cananea – la Corte di cassazione interviene al termine del giudizio e, «nella materia tributaria devoluta alla Quinta Sezione civile, a distanza di molti anni dal sorgere del contenzioso», con un ritardo che «si riverbera anche sul giudizio di merito», poiché alimenta contenziosi che potrebbero non nascere in presenza di una tempestiva e chiara soluzione offerta dalla Corte di legittimità, che potrebbe «svolgere un ruolo deflattivo significativo». Nella materia del diritto tributario, prosegue la Relazione, «l’esigenza di assicurare una tempestiva interpretazione uniforme è particolarmente avvertita per due ordini di ragioni: il continuo succedersi di norme di nuova introduzione, rispetto alle quali il giudice del merito non ha un indirizzo interpretativo di legittimità cui fare riferimento e la serialità dell’applicazione delle norme che si riflette sulla serialità del contenzioso». La novità di tipo processuale in grado di rendere tempestivo l’intervento nomofilattico, con auspicabili benefici in termini di uniforme interpretazione della legge (e di riduzione del numero delle impugnazioni e della stessa proposizione dei giudizi) è stata individuata nell’introduzione del “rinvio pregiudiziale in cassazione”[21] .
La riforma si sta snodando su due diversi piani, prevedendo cioè la contestuale e distinta introduzione del nuovo istituto nel processo civile ed in quello tributario, con operazione di dubbia necessità. E’ stato infatti convincentemente osservato che «al processo tributario si applicano, ove compatibili, le disposizioni del processo civile (cfr. art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546/1992), ne segue che la prevista introduzione dell'art. 362-bis c.p.c. dovrebbe di per sé bastare. Ciò renderebbe superflua una specifica disposizione (pur auspicata dal PNNR) per il processo tributario che potrebbe complicare, piuttosto che semplificare, l'operatività» del meccanismo[22]. La constatazione che le disposizioni proposte dalle due Commissioni sono pressoché identiche[23] ridimensiona, ma non esclude del tutto, tale timore; comunque autorizza considerazioni sostanzialmente identiche e valide con riguardo ad entrambi gli ambiti.
L’efficacia del nuovo istituto rispetto alla finalità deflattiva è affidata da entrambe le Relazioni quasi esclusivamente al richiamo di «felici esperienze straniere (e segnatamente dell’ordinamento francese che conosce la saisine pour avis)»[24]. L’attenzione a tali esperienze (in buona sostanza, soltanto a quella d’oltralpe) non sembra tuttavia confortare (almeno da sola) l’ottimismo delle Relazioni. Il conseguimento dell’obiettivo della preventiva unificazione della giurisprudenza grazie alla saisine pour avis costituisce infatti «profilo controverso nella dottrina francese», benché l’istituto sia stato esteso dalla “loi Macron” del 2015 all’interpretazione degli accordi collettivi (mutuando, questa volta all’inverso, l’esperienza italiana dell’art. 420-bis c.p.c.)[25]. A favore dell’utilità dell’istituto militano peraltro le ‘voci di dentro’ della Cour de cassation - importanti, proprio in considerazione della loro provenienza -, in quanto esprimono il convincimento della sua congruità (soprattutto in materie connotate da alto tecnicismo, come l’esecuzione civile), sintetizzato nella seguente, retorica, domanda: «piuttosto che lasciare che il sistema giudiziario prenda la strada sbagliata, perché non permettere alla corte suprema di far sapere immediatamente come ritiene che una disposizione debba essere interpretata, o almeno come è probabile che sarebbe dalla stessa interpretata, nel caso in cui sia fosse investita di un’impugnazione concernente la questione?»[26].
Pur non sottovalutando l’ovvia rilevanza di tale opinione, resta al fondo l’impossibilità di apprezzare il numero degli avis in modo sicuramente significativo sotto il profilo quantitativo[27]. Soprattutto, come evidenziato da un recente studio, «più che l’utilizzo, assai modesto, dell’”accertamento pregiudiziale” in Francia», «è la mancata diminuzione del contenzioso a generare serie perplessità» circa l’efficacia del meccanismo[28], anche con riguardo a quello già vigente in Italia (il rinvio ex art. 420-bis c.p.c.), peraltro giustamente richiamato per sottolineare come sia «curioso che nell’illustrare la proposta si parli di novità assoluta» dell’istituto[29]. Le analisi svolte «danno infatti ragione dell’impatto affatto modesto dei due istituti sulla (sperata) nomofilachia svolta, anche in ambito laburistico, dall’organo di vertice della giustizia civile nazionale e francese»[30], ancora più controvertibile per la «perdurante assenza di lavori empirici espressamente dedicati all’influenza dei verdetti delle Hautes jurisdictionis sui giudici inferiori»[31], aggravata, con riguardo al nostro Paese, dalla stessa difficoltà di identificare «ciò che è “giurisprudenza della Corte” e “orientamento della stessa”» ed i «criteri in base ai quali misurare il coefficiente normativo di uno o più precedenti tale da costituire giurisprudenza e orientamento propriamente detti»[32].
Se a dette considerazioni si aggiunge che «l’utilità della comparazione, (soprattutto) quando miri a divenire “strumento di politica del diritto”, soffre dei limiti, stante la necessità di “te[ner] conto della concreta realtà degli ordinamenti”»[33], è ragionevole dubitare dell’esaustività del richiamo all’istituto francese, per dare ed avere certezza dell’opportunità della scelta, complicata dalla difficoltà di ipotizzarne la congruità che, come accade per ogni nuovo istituto giuridico, costituisce oggetto di un vaticinio piuttosto che di una plausibile previsione; troppe ed incalcolabili a priori sono infatti le variabili che la condizionano. Ardua, in particolare, è la determinazione del rapporto costi/benefici di un meccanismo che influisce sulle linee fondamentali dell’architettura del sistema giustizia, la cui efficienza neppure può essere valutata avendo esclusivo riguardo alla durata dei giudizi.
3.1. L’efficacia del principio di diritto enunciato in sede di rinvio pregiudiziale
In mancanza di precisi dati statistici che permettano di sapere se ed in quale misura gli avis abbiano garantito una riduzione del contenzioso, la funzionalità dell’istituto va verificata avendo riguardo all’efficacia del vincolo all’interno del procedimento in cui è stato reso ed all’esterno dello stesso, e cioè in relazione agli altri procedimenti in cui può venire in rilievo la questione decisa.
La scarsa incisività dell’istituto (eventuale, stante la ricordata carenza di dati certi) è stata additata nella circostanza che l’avis, nell’ordinamento francese, è privo, ex lege, di qualsiasi vincolo[34]. Avendo riguardo al primo dei richiamati ambiti, potrebbe dunque risultare congrua la scelta realizzata con la previsione (recata dal quinto comma del richiamato art. 62-ter) secondo cui «Il provvedimento con il quale la Corte di cassazione definisce la questione di diritto è vincolante per il giudice nel procedimento nel cui ambito è stato disposto il rinvio».
Il vincolo è infatti efficace nei confronti di tutti i giudici chiamati a pronunciarsi all’interno del procedimento, anche del giudice di appello (nel caso di rinvio disposto dal giudice di primo grado) e della stessa Corte di cassazione. La questione giuridica oggetto del rinvio è stata infatti oramai definitivamente risolta[35] e sopravvive finanche in un eventuale giudizio futuro tra le stesse parti. La mancata applicazione da parte del giudice del procedimento è denunciabile in sede di impugnazione, essendo stato definitivamente fissato all’interno del procedimento il contenuto ed il significato della norma desumibile dalla disposizione, quindi la regula iuris, imponendosi il vincolo alla stessa Corte di cassazione[36]. E ciò non soltanto ai sensi ed entro i limiti dell’art. 374, terzo comma, c.p.c., che sembrerebbe evocabile in materia tributaria[37] e, in tesi, imporrebbe alla Sezione semplice che se ne voglia discostare di rimettere la questione alle Sezioni Unite.
I limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono gli stessi che incontra il giudice del rinvio ex art. 384, secondo comma, c.p.c., nel caso in cui la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Il principio di diritto reso in quest’ultima sede non può infatti essere sindacato o eluso dal giudice di rinvio, neppure in caso di violazione di norme di diritto sostanziale o processuale o per errore del principio di diritto affermato, la cui giuridica correttezza non è sindacabile né dallo stesso[38], né dalla Corte di cassazione[39], neppure sulla scorta di arresti giurisprudenziali successivi, diversamente orientati[40]. Resta comunque la problematicità di tale conclusione, qualora sopravvenga e si consolidi un orientamento di segno diverso, soprattutto nel quadro di un’evoluzione che ha visto assurgere la giurisprudenza a fonte del diritto[41]; proprio per questo, forse, non è opportuno che la norma delegata si occupi di questo profilo[42].
Il vincolo, non diversamente da quanto accade nell’ordinario giudizio di rinvio, viene meno nel caso di sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale[43], ovvero di mutamento normativo prodotto da una sentenza della Corte di giustizia[44], oppure se la norma sia stata modificata, sostituita o abrogata per effetto dello ius superveniens. L'efficacia vincolante della sentenza della Corte che lo ha enunciato presuppone infatti il permanere della disciplina normativa in base alla quale è stato enunciato il principio di diritto[45].
La questione oggetto del rinvio potrebbe tuttavia essere stata sollevata in un «momento anteriore alla fissazione definitiva dei fatti» e per questo il principio di diritto enunciato potrebbe risultare «successivamente opinabile per il giudice e le parti per non corrispondenza o completezza dei fatti al principio di diritto pronunciato»[46]. Si tratta di una considerazione che va valorizzata anzitutto per ritenere che il rinvio pregiudiziale può e deve essere disposto esclusivamente quando è stata raggiunta una ragionevole previsione in ordine alla certezza dei fatti. Dunque, non implausibilmente, all’esito della fase istruttoria[47], con soluzione che non può destare perplessità, apparendo frutto di un ragionevole bilanciamento delle esigenze di tempestività e di compiuta identificazione e ricostruzione della fattispecie alla quale è applicabile la norma. La sufficiente e chiara identificazione dei fatti ed il loro accertamento bene può essere vagliata dal Primo Presidente, ai fini del giudizio di ammissibilità della questione di diritto, per escluderla quando dal difetto di tale presupposto consegua l’impossibilità di ritenere sussistenti tutte le condizioni del rinvio. In ogni caso, non diversamente da quanto accade in relazione al giudizio ex art. 384 c.p.c., il giudice del rinvio deve uniformarsi alla regola giuridica enunciata con riguardo alle premesse logico-giuridiche della decisione adottata ed agli accertamenti compresi nell'ambito di tale enunciazione. Resta invece libero dal vincolo (e così anche il giudice chiamato a pronunciarsi nello stesso procedimento, a seguito dell’eventuale impugnazione, quindi la stessa Corte di cassazione) tutte le volte in cui il successivo accertamento di ulteriori e diversi profili di fatto (entro i limiti consentiti dalle eventuali preclusioni maturate) prefigura un thema decidendum che sostanzialmente debba ritenersi non affrontato (in quegli esatti termini) dalla decisione della Corte[48].
Per tali considerazioni, il rinvio pregiudiziale dovrebbe essere anzitutto (ed essenzialmente) disposto (e ritenuto ammissibile) in relazione a disposizioni caratterizzate da alto tasso di tecnicismo, meno incise dalla specificità delle situazioni di fatto (come per talune norme processuali e non poche proprio in ambito tributario) e, quindi, caratterizzate dall’astratta idoneità a consentire l’identificazione di una regula iuris non condizionata dalle stesse, come peraltro richiesto dall’art. 62-ter, primo comma, n. 2, nella parte in cui stabilisce che il rinvio può essere disposto qualora «si tratti di una questione esclusivamente di diritto». Questa, ma anche le ulteriori condizioni di ammissibilità dell’istanza stabilite da detta disposizione univocamente depongono in tal senso. Su di esse non è, peraltro, possibile soffermarsi in questa sede, per il carattere preliminare delle presenti considerazioni e per lo stesso spazio a disposizione. Tuttavia, senza ignorare i problemi interpretativi che pure si pongono, convincentemente (con l’atteggiamento resiliente che si è detto necessario) è stato sottolineato che «non sono nemmeno insuperabili. Un adeguato sviluppo giurisprudenziale contribuirà a chiarire le incertezze che saranno via via sollevate»[49].
Entro gli accennati limiti, va osservato che il carattere di novità della questione, alla luce della finalità della disposizione (quindi, della necessità di provocare un intervento dell’organo della nomofilachia, in assenza di pronunciamenti), impone di ritenere inammissibile il rinvio se vi sia un precedente in termini della Corte di cassazione (nella consapevolezza che anche questa è operazione non semplice[50]), non interessa se reso all’esito del rito camerale o dell’udienza pubblica[51]. E’ infatti soltanto tale carenza che giustifica un’alterazione dell’ordinario schema di formazione della decisione, traducendosi altrimenti il rinvio pregiudiziale in una sorta di anomalo meccanismo di revisione dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità[52]. Apprezzare il carattere della novità con esclusivo riguardo all’inesistenza di pronunce del giudice di legittimità significa che sussiste anche in presenza di più pronunce dei giuridici di merito. Anzi, proprio l’esistenza di divergenti interpretazioni nella giurisprudenza di merito costituisce condizione dell’opportunità (ed ammissibilità) di un intervento della Corte della nomofilachia, come è reso chiaro dall’art. 62-ter, primo comma, n. 4[53].
Le ulteriori condizioni di ammissibilità[54] non sembrano porre soverchi problemi; comunque, per la loro corretta interpretazione può aversi riguardo alla giurisprudenza in tema di presupposti del ricorso del P.G. nell’interesse della legge[55], ma anche ad istituti conosciuti e praticati da decenni quali il rinvio di costituzionalità ed il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Questi ultimi non sono direttamente evocabili[56], ma il richiamo può «giocare un utile ruolo nella individuazione dei confini e dei limiti» di quello in esame[57].
In primo luogo, il richiamo rileva ai fini dell’identificazione dei presupposti del rinvio pregiudiziale. Sono al riguardo pertinentemente richiamabili le recenti considerazioni dell’Avvocato Generale Michal Bobek[58] secondo cui il rinvio pregiudiziale dovrebbe essere disposto (ed andrebbe giudicato ammissibile dalla Corte di cassazione) tutte le volte che il giudice «si trovi di fronte ad una questione di interpretazione del diritto […], formulata a un livello di astrazione ragionevole e appropriato. Tale livello di astrazione è logicamente definito dalla portata e dallo scopo della norma giuridica di cui trattasi».
In secondo luogo, in ordine alla ragione del vincolo della sentenza di cassazione, va osservato che lo stesso consegue al fatto che la legge, attraverso il meccanismo in esame, ha ritenuto chiuso il processo in ordine alla questione decisa, in quanto la sentenza della Corte ha immutabilmente fissato il punto di diritto deciso, con effetto limitato alla causa; in coerenza con tale esito si assicura che la sentenza della Corte suprema abbia un suo effetto concreto[59]. Anche non sottovalutando il timore per la possibile attribuzione alla Corte di cassazione di funzioni «più di consulto che giurisdizionali», tenuto conto delle differenze rispetto al principio di diritto enunciato ex art. 384 c.p.c.[60], può ritenersi che il richiamo alle altre, benché diverse, ipotesi di rinvio conosciute dall’ordinamento consente di ricondurre la scelta all’ampio margine di discrezionalità riservato al legislatore in materia processuale[61]. Siffatta ampia discrezionalità appare ragionevolmente esercitata, all’esito di un corretto bilanciamento dei valori in gioco. Non vi è un vulnus del diritto di difesa, poiché il giudice, qualora voglia disporre rinvio pregiudiziale, dovrà attivare a questo fine il contraddittorio delle parti sulla questione. E nessun vulnus è ipotizzabile in conseguenza della sottrazione della pronuncia sulla questione al giudice di appello nel caso di rinvio disposto dal giudice di primo grado[62]. Il rinvio risponde ad una logica non completamente estranea al nostro sistema, seppure nuova con riguardo alla Corte di cassazione, ma che saldamente riposa sulla funzione nomofilattica e sulla riserva alla stessa della ‘ultima parola’ sulle questioni di diritto. E’ vero, come ha osservato Jean Buffet, che «con la procedura di rinvio […] gli schemi tradizionali sono in gran parte invertiti, poiché questa procedura, se è iniziata da un giudice di primo grado, ha come effetto che la Corte di cassazione si pronuncia per prima sulla questione di diritto che condiziona la soluzione della causa»[63], ma si tratta di alterazione che non incide su valori costituzionali insuscettibili del bilanciamento ragionevolmente realizzato dal legislatore. E ciò anche perché il potere del Primo Presidente di dichiarare l’inammissibilità costituisce un opportuno ed adeguato filtro. Nondimeno, tenuto conto della funzione del P.M. nel giudizio di legittimità, anche alla luce delle considerazioni di seguito svolte, sarebbe stato opportuno prevedere l’acquisizione del parere del P.G. anche in ordine alla pronuncia di inammissibilità.
Volgendo l’attenzione al versante esterno al procedimento in cui è enunciato il principio di diritto, è pacifico che nel vigente sistema costituzionale il dettato dell’art. 101, secondo comma, Cost., esclude che lo stesso possa vincolare i giudici di merito, mentre un vincolo, entro i limiti stabiliti dall’art. 374, terzo comma, c.p.c., lo produce nei confronti delle Sezioni semplici della Corte, tenuto conto che l’art. 62-ter, quarto comma, dispone[64], opportunamente, che sul rinvio devono pronunciarsi le Sezioni Unite, in pubblica udienza.
Per vaticinare l’utile efficacia deflattiva dello strumento, condizionata dalla idoneità del principio di diritto ad essere accolto dalla giurisprudenza di merito e, prima ancora, a convincere le parti, occorre comprendere se «i destinatari» accetteranno «di buon grado soluzioni interpretative che calano dall’alto»[65]. La questione, semplice nella formulazione, dà corpo ad una domanda che ne implica un’altra peculiarmente complessa («a cosa serve la Corte suprema di cassazione?»[66]) ed involge i temi, antichi, del rapporto tra la legge ed il giudice, della certezza del diritto e della prevedibilità, nonché della nozione e del significato del precedente, complicatisi nell’attuale epoca della post-modernità in cui il diritto è frutto di ‘invenzione’ (nell’accezione data a tale termine da Paolo Grossi). Si tratta di temi e questioni ai quali sono dedicate, letteralmente, intere biblioteche[67] e che in questa sede non possono essere neppure sfiorati, poiché è doveroso evitare ogni considerazione che (per ragioni di spazio, ma non solo) non potrebbe che essere inutilmente e pericolosamente superficiale. Con questa premessa, è possibile soltanto osservare che l’auspicio in ordine all’efficacia deflattiva del principio di diritto deve anzitutto tenere conto del fatto che nell’attuale fase storica la prevedibilità ipotizzabile è pur sempre meramente «tendenziale, e perciò relativa, destinata eventualmente a recedere di fronte alla necessità di adeguare il giudizio alle peculiarità di ciascun singolo fatto»[68]. L’uniformità «non è e non è mai stata a livello di singolo esito di ciascun caso di specie, bensì a livello di norme giuridiche da applicare. Ciò, logicamente, significa che mentre esiste un ragionevole grado di uniformità delle norme giuridiche, può esistere una diversità in termini di esiti specifici»[69]. La Relazione della Commissione della Cananea convincentemente sottolinea che «anche l’aver fatto molto, quasi tutto il possibile, al livello della legislazione e delle misure governative potrebbe non risultare sufficiente, qualora manchi la consapevolezza della necessità di un cambiamento che è prima di tutto culturale»[70] ed è, infatti, questo il piano sul quale occorre operare.
Se così è, come è, affinché la riforma consegua l’obiettivo fissato, occorre che - come ammoniva Vladimiro Zagrebelsky sul finire dello scorso secolo, con esortazione che conserva immutata validità - «la magistratura acquisisca la consapevolezza del valore positivo della tendenziale unità e prevedibilità della giurisprudenza, che, proprio a ragione del ruolo assegnato ai giuristi, dovrebbe esprimersi come opera corale, piuttosto che come esecuzione di solisti». Infatti, «quello della stabilità e prevedibilità della giurisprudenza, unitamente alla sua consapevole e meditata evoluzione costituisce un aspetto della legittimazione dell’attività giudiziaria di particolare rilevanza, poiché l’eccessiva mutevolezza degli orientamenti finisce per legare la decisione alla persona che l’assume e non invece all’istituzione giudiziaria nel suo complesso»[71]. Nessun artificio tecnico, per quanto ben congegnato, potrà avere successo, in mancanza di tale maturazione culturale, nell’impossibilità di affidare la finalità all’eventuale responsabilità nel caso di dissenso[72]. Per altro verso, è indefettibile che la stessa Corte di cassazione sia consapevole che l’esercizio della funzione nomofilattica esige massima attenzione ai propri precedenti (tenendo conto che «la salvaguardia dell'unità e della "stabilità" dell'interpretazione giurisprudenziale (massimamente di quella del giudice di legittimità e, in essa, di quella delle sezioni unite) è ormai da considerare […] alla stregua di un criterio legale di interpretazione delle norme giuridiche»[73]), ma anche a quelli dei giudici di merito ed agli orientamenti della giurisprudenza teorica, oltre che ovviamente, alle argomentazioni svolte nel giudizio dai difensori e dal P.M., evitando il rischio di arroccamento in una sorte di torre eburnea[74]. “Dire l’ultima parola” implica oneri e doveri, se possibile, maggiori di quelli che gravano chi parla per primo, occorrendo rifuggire da narcisistiche chiusure. Il rafforzamento dell’autorevolezza passa, inoltre, anche attraverso l’esaltazione della collegialità (che rischia di essere minata da uno strisciante scivolamento verso una qualche forma di monocraticità[75]), una puntuale identificazione dei casi di rilevanza nomofilattica ed il corretto instradamento dei giudizi verso i differenti percorsi a questo scopo stabiliti dal codice di rito[76], ferma peraltro la consapevolezza che «il problema dell’efficienza, ridotto a un problema di tempi processuali ragionevoli, è soltanto un aspetto della questione-giustizia nel nostro Paese»[77].
4. Il ricorso del P.G. nell’interesse della legge in materia tributaria
La Relazione della Commissione della Cananea, sempre al fine di garantire «un'interpretazione autorevole e sistematica della Corte resa con tempestività» e, quindi, in grado di permetterle di «svolgere un ruolo deflattivo significativo, prevenendo la moltiplicazione dei conflitti e con essa la formazione di contrastanti orientamenti territoriali», propone, per il processo tributario, l’introduzione di un meccanismo ulteriore rispetto a quello auspicato dalla Commissione Luiso. Accanto al rinvio pregiudiziale suggerisce l’introduzione di un «secondo istituto», denominato “ricorso nell’interesse della legge in materia tributaria”, previsto e disciplinato dall’art. 363-bis c.p.c. (rubricato «Principio di diritto in materia tributaria»)[78], che andrebbe ad integrare le disposizioni del codice di rito. Esplicita la Relazione che «tale strumento consente al Procuratore Generale presso la suprema Corte di Cassazione di formulare una richiesta al Primo Presidente della Corte di cassazione di rimettere una questione di diritto di particolare importanza che rivesta il carattere della novità o della serialità o che ha generato un contrasto nella giurisprudenza di merito in modo che venga enunciato un principio di diritto nell’interesse della legge, cui il Giudice del merito tendenzialmente deve uniformarsi, salva la possibilità di discostarsene con assunzione di responsabilità e con onere di adeguata motivazione».
L’istituto prefigurato non è affatto nuovo; in buona sostanza, consiste nell’espressa estensione al processo tributario del potere del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione attualmente previsto e regolato dall’art. 363 c.p.c (la cui rubrica recita «Principio di diritto nell'interesse della legge») secondo cui «Quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi»[79].
L’istituto mira a valorizzare e rafforzare l‘importante ruolo di cooperazione del P.G. all’esercizio della funzione di nomofilachia attribuita alla Corte di cassazione ed è di risalente tradizione, poiché rinviene le sue radici in quello contemplato dall’art. 519 del codice di rito del 1865, che lo disciplinava in modo sostanzialmente omologo[80]. Finalità di quest’ultimo era di assicurare non l’attuazione della volontà concreta della legge nel caso specifico, ma l’esatta dichiarazione del diritto in astratto, per salvaguardare la corretta interpretazione delle norme, indipendentemente dall’impulso dei singoli, operando un controllo sulla giurisprudenza futura. Nella vigenza del codice del 1865 una parte della dottrina aveva criticato l’istituto, in quanto avrebbe conferito all’organo di legittimità un ruolo ed un carattere impropri[81], in difetto di utili effetti, tenuto conto della mancanza di una giurisprudenza di legittimità stabile e autorevole e della carenza del vincolo del precedente[82].
Nonostante tali critiche e la sua scarsa utilizzazione, l’istituto venne conservato nel codice di rito del 1942, sostanzialmente riproducendo nell’art. 363 c.p.c. (denominato «ricorso nell’interesse della legge») il pregresso art. 519 del codice del 1865. Per decenni l’istituto è rimasto praticamente inapplicato ed è stato significativamente rivitalizzato nel 2006, con la riformulazione dell’art. 363 c.p.c. da parte del d.lgs. n. 40 (anche modificando la rubrica che ora recita «principio di diritto nell’interesse della legge»), in attuazione della finalità fissata dalla legge-delega n. 80 del 2005, di rafforzare la funzione nomofilattica della Corte di cassazione.
Il vigente art. 363 c.p.c. ha un ambito di applicazione più ampio di quello definito dalla formulazione originaria della disposizione. La richiesta nell’interesse della legge può essere avanzata anche quando «il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile»[83]. Ampliando il contenuto della disposizione originaria, sempre per rafforzare la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, è stata inoltre prevista (al terzo comma) la facoltà della Corte di pronunciare d’ufficio il principio di diritto, quando il ricorso proposto dalle parti sia dichiarato inammissibile e qualora ritenga la questione decisa di particolare importanza.
In questa sede non è possibile (ma neanche necessario) soffermarsi su quest’ultimo profilo[84]. In primo luogo, è infatti sufficiente avere evidenziato che la richiesta avanzata dal P.G. nell’interesse della legge è istituto di risalente tradizione, significativamente rivitalizzato nel 2006[85]. In secondo luogo, occorre convenire, senza dubbi e tentennamenti di sorta, con l’orientamento che ne ha rimarcato l’importanza, ricordando che la «Procura Generale della Corte di Cassazione, negli ultimi anni, ha investito sul “ricorso nell’interesse della legge”», attraverso iniziative che hanno contribuito a renderne concreta l’attuazione[86], come risulta dimostrato dalle richieste avanzate nell’ultimo decennio[87]; in particolare, anche dall’ultima, in ordine di tempo, accolta in questo mese[88], risultando in tal modo ulteriormente rafforzata la proposta.
La Relazione della Commissione della Cananea merita dunque sicura condivisione nella parte in cui rimarca, senza esitazioni, l’importanza dei compiti del P.G. ed opportunamente auspica il potenziamento del numero dei sostituti procuratori generali addetti al settore civile «anche in considerazione dell’eccezionalità dell’istituto e dell’autorevolezza istituzionale dell’A.G. richiedente». Il richiamo all’importanza di tale compito e l’auspicio della più intensa applicazione dell’istituto ben si coniuga con la proposta avanzata dalla Commissione Luiso di istituire l’ufficio spoglio, analisi e documentazione della Procura generale presso la Corte di cassazione[89] che se, come si spera, verrà attuata, permetterà di consentirne la proficua, più ampia, attuazione. Per altro verso, la Relazione esattamente rimarca che l’istituto non presenta il «rischio di abuso» che potrebbe paventarsi per il rinvio pregiudiziale; proprio per questo, addirittura potrebbe prevenirlo e ancora più concorrere all’auspicata finalità deflattiva.
Anche per tali ragioni, la proposta, ferma la condivisione in ordine all’importanza dello strumento ed alla necessità di potenziarlo, non si sottrae a due semplici interrogativi, in disparte le perplessità suscitate dalla rubrica[90].
Il primo, in parte, consiste nella reiterazione di quello sopra prospettato con riguardo al “rinvio pregiudiziale” ed origina dalla considerazione che al processo tributario si applicano, ove compatibili, le disposizioni del processo civile (cfr. art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546/1992) e, quindi, anche le norme relative al giudizio di legittimità. Non sembra allora revocabile in dubbio che, l’art. 363 c.p.c. sia applicabile al processo tributario, non esistendo (né apparendo prefigurabili) ragioni di incompatibilità inerenti alla materia. L’istanza del P.G. è una delle due modalità del complessivo meccanismo preordinato all’enunciazione del «principio di diritto nell’interesse della legge» (che può avvenire su istanza del P.G., ma può essere reso anche d’ufficio da parte della Corte) che non incidono sul suo carattere unitario.
Del potere della Corte di cassazione di affermare il principio di diritto, ai sensi dell’art. 363, terzo comma, c.p.c., anche in materia tributaria la stessa non ha dubitato[91]. Conseguentemente, non sembra possibile dubitare dell’ammissibilità anche nella materia tributaria del ricorso del P.G. previsto da questa disposizione. Il rischio è che l’introduzione di una specifica disposizione finalizzata a consentire ciò che già oggi deve ritenersi ammissibile (l’istanza del P.G. nell’interesse della legge in materia tributaria) possa divenire foriera di dubbi e di inutili complicazioni, rendendo ipotizzabile (non interessa se infondatamente, occorrendo eliminare in radice ogni possibile ragione di controversia) che in materia tributaria la Corte sia priva del potere di cui al terzo comma dell’art. 363 c.p.c.
Il secondo interrogativo dovrebbe restare eliso, in radice, dalla risposta data al primo. Nondimeno, è opportuno rilevare che è la stessa formulazione della disposizione a non sottrarsi a perplessità. Indipendentemente dalla correttezza della rubrica, di cui si è sopra detto, la disposizione contiene un elemento di novità, in considerazione dell’analitica specificazione delle condizioni dell’istanza che la diversificano rispetto alla previsione dell’art. 363 c.p.c. Quest’ultima disposizione stabilisce che l’istanza può essere proposta dal P.G., «quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile». Le Sezioni Unite hanno affermato che ciò il P.M. «può fare in base a parametri di assoluta discrezionalità, benché certo non arbitrari, collegati comunque ad una situazione di grave e non altrimenti eliminabile conflitto tra i giudici (verosimilmente, di quelli del merito, visto che si tratta di provvedimenti non impugnati, né impugnabili in via ordinaria per Cassazione) o, in alternativa, a materie di grande impatto o rilevanza per le ricadute di ordine sociale od economico delle decisioni che ne resterebbero influenzate; il tutto secondo parametri che sfuggono alle ordinarie regole del sillogismo giuridico e coinvolgono invece considerazioni sistematiche assai ampie e non predeterminabili»[92].
L’ampiezza della formula del vigente art. 363 c.p.c., anche in ordine alla non predeterminabilità delle condizioni dell’istanza, è condivisibile, ancora più alla luce delle pronunce della giurisprudenza di legittimità rese nell’ultimo decennio, che hanno permesso di pervenire a conclusioni sufficientemente certe ed affidabili. Non sembra dunque opportuno introdurre un’elencazione dei presupposti (sostanzialmente risultante dalla riproduzione di quelli da fissare per il rinvio pregiudiziale) che, con riferimento a quello dell’esistenza di «pronunce contrastanti» (quindi, non basta una sola pronuncia, ma è necessaria l’esistenza di una pluralità di decisioni), stabilisce un presupposto incongruo. Soprattutto in relazione alla materia tributaria, per il tecnicismo che la connota e perché anche una sola decisione può alimentare un contenzioso, che potrebbe essere evitato, qualora vi sia stato un tempestivo pronunciamento della Corte, provocato dall’istanza del P.G. Tanto, a non considerare che, come è stato convincentemente osservato, «vi sono anche altri casi in cui può sussistere l’interesse alla pronunzia ex art. 363 c.p.c. nonostante l’unicità del provvedimento di merito»[93]. Andrebbe dunque meditata l’opportunità di una scelta che, non plausibilmente, all’interno dell’istituto dell’istanza del P.G. di chiedere l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge disciplinato dall’art. 363 c.p.c. introduce una differenziazione in relazione alla materia ed ai presupposti che potrebbe soltanto pregiudicarne la congruità rispetto alla finalità cui è preordinato.
[1] F. Fimmanò, La resilienza dell’impresa di fronte alla crisi da coronavirus mediante affitto d’azienda alla newco-start up, auto-fallimento e concordato “programmati”, www.ilcaso.it, 1° aprile 2020.
[2] Il riferimento, come è ovvio, è al Piano Nazionale di ripresa e resilienza #NEXTGENERATIONITALIA, di seguito PNRR.
[3] Paolo Gentiloni, Commissario UE agli Affari economici, La Repubblica, 9 luglio 2021.
[4] https://www.gnewsonline.it
[5] Giacinto della Cananea, Perché lo status quo della giustizia è il vero ostacolo per le riforme, Il Foglio, 3 luglio 2021.
[6] In https://ec.europa.eu/info/sites/default/files/eu_justice_scoreboard_2021.pdf.
[7] Cfr. la Premessa del PNRR.
[8] In particolare, nella parte dedicata alla riforma della giustizia, paragrafo 2.A, 53 ss.
[9] «Una giustizia inefficiente - ricorda il PNRR - peggiora le condizioni di finanziamento delle famiglie e delle imprese».
[10] E cioè della Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumento alternativi, presieduta dal Prof. F.P.Luiso. La Relazione, depositata il 24 maggio 2021, è consultabile in www.gnewsonline,it.
[11] La lettera di indirizzo alla Ministra della giustizia sottolinea infatti che «nel quadro di una compiuta riforma della giustizia, non è possibile prescindere dai profili strettamente organizzativi».
[12] Il riferimento è alla Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, presieduta dal Prof. Giacinto della Cananea. La relazione, depositata il 30 giugno 2021, è consultabile in www.fiscooggi.it.
[13] Come ammoniva Vittorio Denti, Crisi della giustizia e crisi della società, Riv.dir.proc., 1983, 585; ID, Sistemi e riforme. Studi sulla giustizia civile, Bologna, 1999, 168.
[14] Al riguardo, appaiono significative, tra l’altro, le considerazioni della Relazione della Commissione della Cananea in ordine allo «insufficiente livello di specializzazione» ed al carattere onorario della magistratura tributaria; su tali profili, A. Marcheselli, Aspettando Godot. Note minime e minoritarie a margine della proposta di riforma della Giustizia tributaria, in questa Rivista, 12 luglio 2021.
[15] G. Verde, La giustizia non si risolve modificando le regole, in questa Rivista, 3 luglio 2021.
[16] In particolare, con gli interventi di B. Capponi, E’ opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di cassazione?, 19 giugno 2021; R. Frasca, Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso quanto al processo davanti alla Corte di Cassazione, 7 giugno 2021; C.V. Giabardo, In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, 22 giugno 2021; A. Marcheselli, Aspettando Godot., cit; G. Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione di una questione di diritto da parte del giudice di merito, 5 luglio 2021. Sul tema, v. anche S. De Matteis, Il rinvio pregiudiziale quale mezzo per ridurre il contenzioso tributario, www.ilTributario.it, 7 giugno 2021. Da subito, è opportuno porre in luce, in estrema sintesi, che a posizioni caratterizzate da estremo favore per la proposta (R. Frasca, De Matteis) si contrappongono opinioni critiche (in particolare, G. Scarselli e B. Capponi) ed altre più problematiche (C. V. Giabardo).
[17] Nella Relazione è puntualizzato: «le proposte elaborate dalla Commissione Luiso possono essere riprese e applicate alle controversie tributarie» (pg. 20).
[18] Relazione della Commissione Luiso.
[19] Istituto che dovrebbe essere inserito nel codice di rito civile, mediante l’introduzione dell’’art. 362-bis c.p.c., che lo prevede e regola.
[20] Relazione della Commissione Luiso.
[21] Da realizzare introducendo l’istituto del rinvio pregiudiziale in cassazione in attuazione della proposta disposizione della legge-delega, cui dovrebbe seguire l’inserimento nel d.lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992 dell’art. 62-ter, che è opportuno riportare:
«62-ter. (Rinvio pregiudiziale)
La commissione tributaria provinciale o regionale può disporre con ordinanza il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione per la risoluzione di una questione di diritto idonea alla definizione anche parziale della controversia, quando ricorrono le seguenti condizioni:
1) la questione di diritto sia nuova o comunque non sia stata già trattata in precedenza dalla Corte di cassazione;
2) si tratti di una questione esclusivamente di diritto e di particolare rilevanza;
3) presenti particolari difficoltà interpretative;
4) si tratti di questione che, per l’oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito.
Il giudice, se ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale, assegna alle parti un termine non superiore a quaranta giorni per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione di diritto. Con l’ordinanza che formula la questione dispone altresì la sospensione del processo fino alla decisione della Corte di cassazione.
Il primo presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, con proprio decreto la dichiara inammissibile quando mancano una o più delle condizioni di cui al secondo comma.
Se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del rinvio pregiudiziale dinanzi alle Sezioni Unite in pubblica udienza per l’enunciazione del principio di diritto.
Il provvedimento con il quale la Corte di cassazione definisce la questione di diritto è vincolante per il giudice nel procedimento nel cui ambito è stato disposto il rinvio. Il provvedimento conserva il suo effetto vincolante anche nel processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda».
[22] S. De Matteis, Il rinvio pregiudiziale, cit. Diversamente, R. Frasca, Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso, cit., auspica invece «che si immagini in sede di attuazione della delega un’estensione» alla materia tributaria, senza tuttavia soffermarsi sull’attuale applicabilità a tale processo delle norme del codice di rito sul processo di legittimità, sia pure con il limite di compatibilità, che avrebbe permesso di fare ricorso alla nuova disposizione sul rinvio pregiudiziale.
[23] Tra i (comunque pochi) profili di diversità è sufficiente ricordare che il proposto art. 362-bis c.p.c., al quinto comma, prevede che, «Se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del rinvio pregiudiziale dinanzi alla sezione semplice o, in caso di questione di particolare importanza, alle sezioni unite, per l’enunciazione del principio di diritto»; il proposto art. 62-ter, al quarto comma, detta: «Se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del rinvio pregiudiziale dinanzi alle Sezioni Unite in pubblica udienza per l’enunciazione del principio di diritto». Non è facile giustificare la possibile diversità dell’organo della Corte chiamato a decidere il rinvio, gravida di conseguenze, tra l’altro, in considerazione del vincolo dell’art. 374, terzo comma, c.p.c. che prelude alla possibilità di decisioni aventi differente cogente nei confronti delle Sezioni semplici.
[24] Relazione della Commissione Luiso; negli stessi identici termini è la Relazione della Commissione Della Cananea.
[25] S. Brun-S. Dalla Bontà, L’”accertamento pregiudiziale” sull’interpretazione degli accordi collettivi in Francia, Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, 2019, 285, anche per ulteriori richiami.
[26] Jean Buffet, Per andare oltre: presentazione di Jean Buffet, presidente di sezione della Corte di Cassazione, www.courdecassation.fr/jurisprudence_2/avis_15/presentation_saisine_avis_8018/loin_expose_36050.html, 29 marzo 2000.
[27] Pubblicati nel sito web ufficiale della Cour de cassation.
[28] S. Brun-S. Dalla Bontà, L’”accertamento pregiudiziale”, cit., 312.
[29] Anche tenendo conto delle differenze rispetto a quello che si intende introdurre, B. Capponi, E’ opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di cassazione?, cit.
[30] S. Brun-S. Dalla Bontà, L’”accertamento pregiudiziale”, cit., 312-313, anche per diffusi riferimenti agli studi della dottrina francese ed italiana.
[31] V. Capasso, Il valore della giurisprudenza in Francia, Riv.dir.proc., 2020, 1261.
[32] F. Auletta, Per una definizione di «giurisprudenza della Corte»: coefficiente normativo marginale della decisione e metodi quantitativi di misura, in D. Dalfino (a cura di), Problemi attuali di diritto processuale civile, Milano, 2021, 233, ove una approfondita disamina dei criteri di misurazione, anche i fini dell’art. 360-bis c.p.c.
[33] V. Capasso, Il filtrage des pourvois alla Cassazione francese, Riv.dir. proc., 2019, 509.
[34] S. Brun-S. Dalla Bontà, L’”accertamento pregiudiziale”, cit., 314, ivi riferimenti alla dottrina francese.
[35] Al riguardo, si rinvia alle puntuali considerazioni di C.V. Giabardo, In difesa della nomofilachia, cit.
[36] Analogamente a quanto accade con riguardo alla violazione del principio di diritto ex art. 384, secondo comma, c.p.c., nella specie denunciabile anche con l’appello, nel caso di rinvio disposto dal giudice di primo grado, dovendo convenirsi con l’affermazione (concernente l’omologa disposizione relativa al processo civile) che, «stando alla norma, i mezzi di impugnazione restano i medesimi, e tutti egualmente esperibili», G. Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale, cit. Nondimeno, non convince che per ciò solo «questa anticipazione del giudizio non sembra offrire alcun vantaggio alle parti, ma anzi può pesantemente aggravarle». In disparte che un istituto non va valutato enfatizzando evenienze di estrema patologia (e tale è la violazione del principio di diritto), qualora l’impugnazione sia proposta per dolersi dell’applicazione del principio di diritto, invocandone la rimeditazione (come detto, preclusa alla stessa Corte di cassazione), una tale condotta integra i presupposti della responsabilità aggravata, sanzionabile ai sensi dell’art. 96 c.p.c., sia del primo che del terzo comma
[37] Diversamente dal rinvio pregiudiziale ai sensi del proposto art. 362-bis c.p.c. la decisione sul rinvio pregiudiziale in materia tributaria è resa sempre dalle Sezioni Unite; quindi, se non operasse l’efficacia del vincolo nei termini descritti nel testo, la Sezione semplice potrebbe discostarsi dall’interpretazione già offerta dalla precedente pronuncia di altra Sezione semplice.
[38] Come pacificamente accade nel caso di giudizio che segue alla cassazione con rinvio, tra le tante, Cass. 14 gennaio 2021, n. 448; 29 ottobre 2018, n. 27343.
[39] Tra le tante, Cass. 19 ottobre 2018, n. 26521; 26 maggio 2014, n. 11716; 24 luglio 2001, n. 10037.
[40] Da ultimo, Cass. 19 ottobre 2020, n. 22657, che richiama i precedenti i quali confortano che la giurisprudenza della Corte è «univocamente orientata» nell’escludere la possibilità di disattendere il principio di diritto.
[41] Profilo sul quale, con specifico riferimento alla questione in esame, C.V. Giabardo, In difesa della nomofilachia, cit.
[42] Come invece auspicato da R. Frasca, Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso, cit.
[43] Ex plurimis, Cass. 2 agosto 2012, n. n. 13873.
[44] Ricondotta dalla giurisprudenza di legittimità nell'ambito dello ius superveniens, che travalica il principio di diritto enunciato nella sentenza di annullamento, Cass. 12 settembre 2014, n. 19301, Foro it., 2015, I, 3992, con nota di O. Desiato, Giudizio di rinvio, principio di diritto, vincolatività, efficacia immediata; Cass. 24 maggio 2005, n. 10939, Giust. civ., 2006, I, 391.
[45] Cass. 4 febbraio 2015, n. 1995; 27 ottobre 2006, n. 23169.
[46] G, Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale, cit.
[47] Come sembra ipotizzare G. Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale. cit.
[48] In riferimento alla questione nel giudizio di rinvio ed al vincolo del principio di diritto ex art. 384 c.p.c., tra le più recenti, Cass. 19 ottobre 2018, n. 26521. Potrebbero in tal modo risultare superate le giuste preoccupazioni di G. Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale, cit., con riguardo al caso di una ricostruzione dei fatti differente «da come li aveva immaginati il giudice di primo grado», sulla scorta di una prospettazione in relazione alla quale aveva formulato la questione rinviata e decisa.
[49] C.V. Giabardo, In difesa della nomofilachia, cit.
[50] Sulla difficoltà di identificare il precedente, di recente, F. Auletta, Per una definizione di «giurisprudenza della Corte», cit.
[51] Tanto, pur tenendo conto che non dovrebbe essere sottovalutata la diversità del valore nomofilattico conseguente alla modalità di pronuncia della decisione; al riguardo, appare sufficiente rinviare a F. Auletta, Per una definizione di «giurisprudenza della Corte», cit.
[52] Sarebbe dunque opportuno rettificare la previsione dell’art. 62-ter, primo comma, n. 1, stabilendo: «la questione di diritto sia nuova e comunque non sia stata già tratta in precedenza della Corte di cassazione». La sostituzione della disgiuntiva “o” con la congiunzione “e” elimina il dubbio accennato nel testo.
[53] La previsione secondo cui occorre che «si tratti di questione che, per l’oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito», rende chiaro che la questione può essere stata anche da già decisa da altri giudici di merito. Con riguardo al processo civile, B. Capponi, E’ opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di cassazione?, cit., osserva che «l’uso dello strumento presupporrebbe quantomeno l’esistenza di diversi orientamenti dei giudici di merito e dunque (quantomeno) un dubbio del rimettente, derivante proprio dalla pluralità degli orientamenti».
[54] E cioè la «particolare rilevanza», l’esistenza di «particolari difficoltà interpretative» e la potenziale serialità della stessa («di questione che, per l’oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito».
[55] Nella parte in cui identifica che il ricorso deve ritenersi ammesso quando sia strumentale a porre rimedio (e, può aggiungersi, a prevenire) una situazione di grave e non altrimenti eliminabile conflitto tra i giudici di merito e in relazione a questioni di significativo impatto. Al riguardo, si rinvia alle considerazioni di seguito svolte nel testo.
[56] Detti rinvii avviano un giudizio di validità o di efficacia di una data norma innanzi all’unico giudice che può pronunciarsi sul punto, rendendo una decisione che (se e quando accoglie la questione) ha efficacia erga omnes, situazione ovviamente diversa da quella in esame. Di tale diversità danno puntualmente atto B. Capponi, Attribuire nuovi compiti, cit., e C.V. Giabardo, In difesa della nomofilachia, cit., che argomenta di mere «analogie» tra il rinvio in esame e quello ex art. 267 TFUE. La Relazione della Commissione della Cananea argomenta di «un meccanismo simile – nell’impianto – a quello utilizzato per i giudizi sulla costituzionalità delle leggi in Italia o per il rinvio alla Corte di giustizia all’interno dell’UE» (pg. 20).
[57] B. Capponi, E’ opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di cassazione?, cit.
[58] Contenute nelle conclusioni presentate il 15 aprile 2021 nella causa C-561/19, su domanda pregiudiziale avanzata dal Consiglio di Stato; l’accennata radicale diversità di detto rinvio rispetto a quello in esame non esclude che l’affermazione riportata nel testo sia pertinentemente richiamabile.
[59] Risultando dunque l’istituto compatibile con l’art. 101, secondo comma, Cost., ed apparendo reiterabili, mutatis mutandis, le argomentazioni svolte con riguardo al giudizio di rinvio da Corte cost. 25 marzo 1970, n. 50.
[60] Acutamente svolte da G. Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale, cui deve rinviarsi.
[61] Per tutte, tra le più recenti, Corte cost. 10 luglio 2019, n. 172, ove ulteriori richiami
[62] Tenuto conto del costante orientamento della Corte costituzionale secondo cui non è costituzionalmente necessaria la previsione di un doppio grado di merito, sentenza 16 maggio 2008, n. 144, anche per ulteriori richiami.
[63] J. Buffet, Per andare oltre, cit.
[64] Sul punto, in opportuna dissonanza con il proposto art. 362-bis c.p.p. che, per il processo civile, riserva al Primo Presidente la scelta dell’assegnazione del rinvio alle Sezioni Unite, ovvero ad una Sezione semplice.
[65] B. Capponi, E’ opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di cassazione?, cit.
[66] R. Rordorf, Editoriale, che precede gli interventi sul tema condensato appunto nella domanda riportata nel testo, Questione giustizia, 2017, n. 3.
[67] La considerazione suggerisce di limitarsi a rinviare, in aggiunta al richiamo contenuto nella nota che precede, ai contributi contenuti in due numeri di Questione giustizia, rispettivamente dedicati a “Il giudice e la legge” (n. 4 del 2016) e ad “Una giustizia (im)prevedibile?” (n. 4 del 2018).
[68] R. Rordorf, Editoriale, Questione giustizia, 2019, n. 4, 5.
[69] Così efficacemente Michal Bobek nelle richiamate conclusioni, sostanzialmente ricordando l’esigenza di non attribuire ai principi di diritto un’efficacia definitivamente risolutiva, ben superiore a quella che è ragionevole attendersi.
[70] Relazione, pg. 23.
[71] V. Zagrebelsky, La magistratura ordinaria dalla Costituzione a oggi, in Legge. Diritto. Giustizia, Torino, 1998, 786-787.
[72] Responsabilità ipotizzata dalla Relazione della Commissione della Cananea, che comunque, esattamente, la restringe ai casi di difformità «”immotivata”, o “gratuita” o “immediata”» (così a pg. 153). In disparte l’oscurità del terzo aggettivo, la notazione almeno evidenzia che la questione così posta inerisce alla patologia, non alla fisiologia della dialettica dell’evoluzione giurisprudenziale, cui si fa invece riferimento nel testo. E ciò senza considerare che i temi della responsabilità civile e/o disciplinare e dei relativi presupposti nel caso di “ribellione” rispetto ad un orientamento consolidato, della finalità di tali tipi di responsabilità e della interferenza con gli strumenti di valutazione della professionalità sono complessi e richiederebbero un approfondimento impossibile in questa sede. Per riferimenti, mi permetto di rinviare, per ragioni di sintesi, a L. Salvato, Due interrogativi sulla relazione tra etica e deontologia professionale e responsabilità dei magistrati ordinari, in questa Rivista, 19 gennaio 2021; ID, Ambiguità ed equivoci in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, Cass. pen., 2019, 32.
[73] Sono le parole delle Sezioni Unite (ordinanza 6 novembre 2014, n. 23675), che continuano affermando che detto criterio «non [è] l'unico certo e neppure quello su ogni altro prevalente, ma di sicuro un criterio di assoluto rilievo. Occorre dunque, per derogarvi, che vi siano buone ragioni» che, «quando si tratta di interpretazione delle norme processuali, occorre che […] siano ottime». Il problema della nomofilachia, ha altresì sottolineato detta pronuncia, «è in realtà proprio questo: garantire al sistema giuridico-normativo la possibilità di evolversi, adattarsi, correggersi e al tempo stesso conservare, entro ragionevoli limiti, l'uniformità e la prevedibilità dell'interpretazione» e dunque, come ha rimarcato un’altra pronuncia delle S.U. (sentenza 31 luglio 2012, n. 13620), il ripensamento di una pregressa esegesi esige «forti ed apprezzabili ragioni giustificative».
[74] Emblematica resta l’esortazione di R.Caponi, D. Dalfino, A. Proto Pisani, S. Scarselli, In difesa delle norme processuali, Foro it., 2010, I, 1794, sui limiti dell’interpretazione delle norme processuali, che peraltro preluderebbe a considerazioni su detti limiti anche in riferimento al processo costituzionale, ma è questa un’altra storia che eccede le presenti considerazioni.
[75] Il riferimento è al meccanismo acceleratorio ipotizzato nella Relazione della Commissione Luiso con il novellando art. 380-bis c.p.c. secondo cui «Nei casi di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza del ricorso, se non è stata ancora fissata la data della decisione in camera di consiglio, il giudice della Corte [enfasi mia] formula una proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni della inammissibilità, della improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata», che viene «comunicata agli avvocati delle parti» e dà luogo all’estinzione del giudizio, «se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione», con esonero del ricorrente dall’ulteriore importo dovuto a titolo di contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002. E’ evidente che il «giudice della Corte» è il singolo consigliere (il quale decide monocraticamente), che è altresì «Il giudice [che] pronuncia decreto di estinzione», trasparendo una sorta di ritrosia nel dire ciò in chiaro.
[76] Ex plurimis, F. Auletta, Per una definizione di «giurisprudenza della Corte», cit.; G. Miccolis, Nomofilachia, Sezioni Unite e questione di "particolare importanza", Questione giustizia, 3 novembre 2020.
[77] G. Verde, La giustizia, cit.
[78] «Art. 363 bis c.p.c. Principio di diritto in materia tributaria
Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione può proporre ricorso per chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge un principio di diritto nella materia tributaria in presenza dei seguenti presupposti:
a) la questione di diritto presenti particolari difficoltà interpretative e vi siano pronunce contrastanti delle Commissioni Tributarie Provinciali o Regionali;
b) la questione di diritto sia nuova o perché avente ad oggetto una norma di nuova introduzione o perché non trattata in precedenza dalla Corte di Cassazione.
c) la questione di diritto per l’oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito.
Il ricorso del Procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza, è depositato presso la cancelleria della Corte ed è rivolto al primo presidente, il quale con proprio decreto lo dichiara inammissibile quando mancano una o più delle condizioni di cui al primo comma.
Se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del ricorso nell’interesse della legge dinanzi alle Sezioni Unite per l’enunciazione del principio di diritto.
La pronuncia della Corte non ha effetto diretto sui provvedimenti dei giudici tributari».
[79] La proposta è di inserire nel codice di rito civile il sopra riportato art. 363-bis. In disparte la difficoltà di comprendere perché nella rubrica non sia indicato (come accade nell’art. 363 c.p.c.) che il principio di diritto è chiesto «nell’interesse della legge» (finalità comunque recuperata nel testo della disposizione), sembrano sussistere elementi di diversità delle due tipologie di ricorso, come è indicato infra nel testo.
[80] La disposizione stabiliva che, nel caso in cui non fosse stato presentato ricorso, ovvero lo stesso fosse stato rinunciato, il pubblico ministero presso la Corte Suprema avrebbe potuto denunciare d’ufficio la sentenza, qualora ritenesse che questa dovesse essere annullata nell’interesse della legge; in detta ipotesi, l’eventuale annullamento della sentenza non avrebbe prodotto effetti nei confronti delle parti che sarebbero rimaste assoggettate al giudicato. Su tale istituto nel codice del 1865, per tutti, P. Calamandrei, La Cassazione civile, vol. II, Storia e legislazione, Torino, 1920, 105; G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, II, 1, Napoli, 1934, 87.
[81] In tal senso per tutti, F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale, IV, 3, Padova, 1930, 295.
[82] L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, IV, Torino, 603.
[83] Dunque, in relazione a decisioni avverso le quali non risulta proponibile il ricorso ai sensi del settimo comma dell’art. 111 Cost., quali, esemplificativamente, i provvedimenti cautelari e quelli emessi in materia di volontaria giurisdizione
[84] E, quindi, sui presupposti dell’ammissibilità della pronuncia del principio di diritto ex officio, oggetto di numerosi contributi; per riferimenti, tra i molti, B. Capponi, La Corte di cassazione e la “nomofilachia” (a proposito dell’art. 363 c.p.c.), in www.Judicum.it, 2020; M. Fornaciari, L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c., Riv. dir. proc., 2013, 32; G. Scarselli, Circa il (supposto) potere della Cassazione di enunciare d’ufficio il principio di diritto nell’interesse della legge, Foro it., 2010, I, 3340; R. Tiscini, Il giudizio di cassazione riformato, Giusto proc. civ., 2007, 523.
[85] Anche introducendo alcune novità quanto alle modalità di presentazione dell’istanza e ad altri aspetti processuali L’art. 363 c.p.c. stabilisce che la richiesta del P.G. deve contenere «una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza», la quale è rivolta al primo presidente e, qualora la questione rivesta particolare importanza, si contempla l’assegnazione dell’istanza alle Sezioni Unite.
[86] Così, A. Pepe, Il PM civile di legittimità con la “lanterna di Diogene” alla ricerca della sua identità, www.Judicium, 2020, anche per ulteriori richiami di dottrina, ai quali adde, P. Ciccolo, Dialogo aperto sulla richiesta di enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 363 c.p.c., Riv. dir. proc., 2017, 484.; G. Costantino, Appunti sulla nomofilachia e sulle “nomofilachie di settore”, ivi, 2018, 1443; L. Salvaneschi, L’iniziativa nomofilattica del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione nell’interesse della legge, ivi, 2019, 65. A. Pepe, Il P.M. civile, cit., esplicita in dettaglio le iniziative intraprese dalla Procura Generale ai fini della proficua applicazione dell’istituto, ricordando altresì che «il sito internet della Procura Generale, nell’area civile, ha un’apposita “sezione” dedicata all’argomento, cliccando sulla quale appaiono quattro sottosezioni: le “Richieste dell’ufficio”, la “Documentazione”, le “Istanze esterne” e le “Istanze archiviate”. Nelle “Richieste dell’ufficio” vi sono i ricorsi ex art. 363 c.p.c. sinora presentati, nella sezione “Documentazione” si trova vario materiale sull’argomento (i convegni, gli articoli e le parti di relazioni inaugurali sull’argomento), mentre la sezione “Istanze esterne” è strutturata per raccogliere le sollecitazioni dei vari soggetti su questioni di potenziale interesse ai fini dell’art. 363 c.p.c.».
[87] Per le quali, A. Pepe, Il PM civile di legittimità, cit.
[88] Il riferimento è alla sentenza delle S.U. 8 luglio 2021, n. 19427, in tema di presupposti di ammissibilità del procedimento per ingiunzione da parte degli avvocati, per la richiesta dei compensi per prestazioni professionali.
[89] Art-1-quinquies, pg. 15-16 della Relazione. All’ufficio è affidato, tra gli altri, il compito di «individuare questioni che possono far promuovere il procedimento per l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge a norma dell’articolo 363 c.p.c.».
[90] La Corte è chiamata a pronunciarsi «al di là dell’interesse delle parti, a beneficio innanzitutto “del diritto in quanto tale”». (C.V. Giabardo, In difesa della nomofilachia) e non sembra corretto enfatizzare la materia per distinguere l’istituto da quello di cui costituisce esplicazione ed applicazione e neppure appare giustificata l’espunzione della locuzione, sostituendola con «Principio di diritto in materia tributaria», identificando quest’ultima l’ambito entro il quale è reso, che è sostanzialmente irrilevante
[91] Il principio di diritto è stato pronunciato, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., anche in processi concernenti la materia tributaria: Cass. 8 luglio 2009, n. 16017; 21 maggio 2007, n. 11682.
[92] S.U. 18 novembre 2016, n. 23469.
[93] A. Pepe, Il PM civile di legittimità, cit.
LE TABELLE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI - seconda parte -
Il procedimento di formazione delle tabelle di Gianfranco Gilardi
Sommario: 1. Il procedimento di formazione delle tabelle. - 2. La struttura della proposta tabellare. - 3. La redazione della proposta. - 4. Il deposito delle proposte tabellari ed il parere dell’organo consultivo. - 5. Termini e modalità dell’invio al Consiglio Superiore della Magistratura delle proposte. Delibere del Consiglio Superiore della Magistratura. - 6. Inosservanza delle regole tabellari.
1. Il procedimento di formazione delle tabelle.
Come si è osservato, il procedimento di formazione tabellare è venuto assumendo nel tempo una regolamentazione sempre più precisa, trasformandosi da semplice mezzo di controllo circa il rispetto delle regole tabellari e di garanzia per i diretti interessati, a strumento concorrente alla razionalità ed adeguatezza della proposta organizzativa, con un progressivo passaggio da una funzione di verifica “ex post” della regolarità del procedimento a metodo di formazione anticipata del consenso in ordine alle scelte organizzative, in quanto attuate con la partecipazione delle diverse competenze e dei diversi soggetti interessati, tra cui l’avvocatura[1].
L’ultima circolare del Csm che, anteriormente alla riforma dell’ordinamento giudiziario, disciplinava la formazione delle tabelle, era quella relativa al biennio 2006/2007 la cui efficacia venne prorogata a tutto il 2008.
Tale disciplina è stata modificata in più punti dalle circolari e da delibere successive con le quali, oltre a tener conto delle novità legislative nel frattempo intervenute, si è inteso introdurre formule di regolamentazione secondaria maggiormente rispondenti alle esigenze di buon andamento, efficienza e speditezza dell’organizzazione degli Uffici giudiziari. In particolare (e per restare ai provvedimento più recenti) con la circolare relativa al triennio 2017/2019 e con le successive delibere integrative, è stato previsto l’obbligo per i Presidenti di Tribunale di istituire l’Ufficio per il processo; sono state introdotte semplificazioni nel testo della circolare e nei procedimenti di formazione ed approvazione delle tabelle, con individuazione altresì di una più puntuale tempistica delle diverse fasi procedimentali e l’attuazione di un più ampio coinvolgimento del ceto forense nel procedimento di formazione dei progetti tabellari; è stato perseguito un utilizzo della magistratura onoraria efficiente e rispettoso delle professionalità maturate; si è tenuto conto delle specifiche esigenze organizzative della Suprema Corte di cassazione, tramite un adeguato ed innovativo impiego dei magistrati addetti all’Ufficio del Massimario e del Ruolo; è stato introdotto un insieme di norme regolamentari dirette a perseguire la tutela del benessere psico-fisico dei magistrati, della genitorialità e dei doveri di assistenza; il procedimento tabellare è stato adeguato alle novità conseguenti all’implementazione del progetto di reingegnerizzazione del CSM e all’avvio del nuovo sito internet del Consiglio.
La materia è attualmente regolata dalla circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il triennio 2020/2022 deliberata il 23 luglio 2020[2], che si compone di 271 articoli, ed alla quale (seppure suscettibile di modificazioni, sia nel triennio in corso, sia - a maggior ragione - per i periodi successivi) si farà riferimento nel testo per una più precisa e dettagliata illustrazione dei principi e delle regole tabellari[3].
Apposite circolari hanno disciplinato l’organizzazione degli uffici del Giudice di pace (cfr., da ultimo, la circolare del 13 giugno 2018 relativa al triennio 2018 - 2020 che presenta significative innovazioni rispetto al passato, strettamente legate alla riforma della magistratura onoraria attuata con il d.lgs. n. 116 del 2017, che ha introdotto uno statuto unico per giudici di pace, giudici onorari di tribunale e VPO, riorganizzandone le funzioni e delineando un nuovo assetto per gli uffici del giudice di pace)[4].
2. La struttura della proposta tabellare.
La formazione delle tabelle di composizione degli uffici avviene sulla base di un procedimento alla cui stregua i presidenti delle corti d’appello (direttamente per quanto concerne le corti, e sulla base delle segnalazioni dei presidenti dei tribunali per quanto concerne gli uffici diretti da questi ultimi) debbono formulare apposite proposte, che si compongono di due parti:
- il Documento Organizzativo Generale (DOG) che in base all’art. 7 della circolare contiene:
* la verifica della realizzazione degli obiettivi indicati nella tabella relativa al precedente triennio;
* l’individuazione degli obiettivi prioritari di miglioramento dell’efficienza dell’attività giudiziaria da perseguire nel nuovo triennio tra i quali va necessariamente inserito quello di ridurre la pendenza dei procedimenti che abbiano superato i termini di cui all’articolo 2, comma 2 bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 e delle scelte organizzative volte a realizzarli;
* la relazione sull’andamento dei settori amministrativi connessi all’esercizio della giurisdizione e della sua incidenza sul raggiungimento degli obiettivi programmati[5];
* l’analisi ragionata della ripartizione dei magistrati tra il settore civile e il settore penale, con indicazione delle esigenze dettate dalla qualità e quantità degli affari giudiziari, tenendo conto, per il settore civile, del rapporto numerico nella composizione delle sezioni o nella struttura delle singole posizioni tabellari e, per il settore penale, della ripartizione tra i magistrati con funzioni di Gip/Gup e quelli con funzioni dibattimentali e del rapporto tra udienze collegiali e monocratiche anche in relazione alle sopravvenienze di nuovi processi ed alle modalità di definizione degli stessi;
* l’analisi ragionata sulle modalità di utilizzazione dei Got e dei risultati conseguiti;
* la relazione sullo stato dell’informatizzazione nell’ufficio, previa consultazione del magistrato di riferimento per l’informatica;
* l’indicazione schematica delle variazioni rispetto alla tabella relativa al precedente triennio.
Un’apposita sezione del Dog (art 9 della circolare) è dedicata a tutte le tipologie di tirocinio di cui si avvale l’ufficio, e contiene tutte le convenzioni e la documentazione inerenti, compresa la descrizione dei risultati ottenuti ed il “documento informativo” di cui alla risoluzione del 29 aprile 2014 con la quale il CSM ha precisato il “contenuto minimo” del modulo organizzativo da adottare ai fini del tirocinio (mansionario, indicazione del magistrato coordinatore, obblighi del tirocinante ed altro)[6].
- il progetto tabellare, che costituisce la concreta e reale proposta di organizzazione dell’Ufficio e deve contenere le indicazioni circa l’eventuale ripartizione degli uffici in sezioni; la destinazione dei magistrati all’interno dell’ufficio; la designazione dei magistrati ai quali è attribuito il compito di direzione di una sezione; l’assegnazione alle sezioni dei presidenti e l’eventuale attribuzione dell’incarico di dirigere più sezioni che trattano materie omogenee, ovvero di coordinare uno o più settori di attività dell’ufficio; la formazione dei collegi giudicanti; i criteri obiettivi e predeterminati per l’assegnazione degli affari alle singole sezioni, ai singoli collegi e ai giudici; i criteri per la sostituzione del giudice astenuto, ricusato o impedito (cfr. l’art. 2 della circolare).
Per quanto concerne l’Ufficio per il processo, cui sono dedicati gli artt. 10 e 11 della circolare, cfr. il paragrafo finale del presente testo.
3. La redazione della proposta.
In base al procedimento tabellare, i presidenti delle corti d’appello (direttamente per quanto concerne le corti, e sulla base delle segnalazioni dei presidenti dei tribunali per quanto concerne i relativi uffici), debbono predisporre le proposte, ai fini della cui formulazione tutti i magistrati dell’ufficio (compresi quelli in congedo per maternità o paternità ed in congedo parentale nonché i giudici onorari di Tribunale ed i giudici onorari di pace) vanno messi nelle condizioni di fornire ogni utile contributo in apposite riunioni o mediante altre idonee forme di partecipazione o di consultazione; ed è previsto che siano richiesti al dirigente amministrativo una relazione in ordine alle cause delle eventuali disfunzioni relative al settore di sua competenza nonché al Consiglio dell’ordine degli Avvocati[7] ed al Procuratore della Repubblica eventuali contributi circa gli interventi ritenuti opportuni ai fini della migliore organizzazione dell’ufficio[8].
Nella segnalazione i dirigenti degli uffici giudiziari daranno conto dello svolgimento dei menzionati adempimenti e motiveranno le ragioni per cui accolgono o rigettano le osservazioni raccolte nei termini sopra indicati[9].
4. Il deposito delle proposte tabellari ed il parere dell’organo consultivo.
La segnalazione tabellare deve essere pubblicata tramite inserimento nel sistema informatico, insieme ai contributi raccolti, con l’illustrazione delle ragioni per cui essi sono stati accolti o respinti[10]. Dell’avvenuta pubblicazione viene data tempestiva comunicazione a tutti i magistrati, anche onorari, degli uffici interessati (ivi compresi i magistrati in congedo di maternità o paternità e in congedo parentale e i magistrati che vi sono destinati dal Consiglio e che non vi hanno ancora preso possesso, nonché i magistrati in tirocinio dopo la scelta della sede), i quali possono presentare osservazioni al Consiglio giudiziario o, nel caso della Corte di cassazione, al Consiglio direttivo della Corte entro dieci giorni dalla comunicazione[11].
Decorso tale ultimo termine, il Presidente della Corte formula le proposte di tabelle degli uffici del distretto e le trasmette - unitamente alle eventuali osservazioni e controdeduzioni presentate ed agli eventuali contributi valutativi trasmessi - al Consiglio giudiziario, cui compere un autonomo potere istruttorio anche al fine di valutare la correttezza dell’analisi dei flussi posta a base della proposta tabellare e dell’idoneità di quest’ultima al raggiungimento degli obiettivi da perseguire[12].
Il Consiglio giudiziario, valutate le osservazioni e le eventuali controdeduzioni e sentita, ove necessario, la Commissione flussi, esprime un parere motivato sulle proposte di tabelle, anche alla luce dei risultati conseguiti nel triennio precedente, dando conto nel verbale della seduta delle ragioni poste a fondamento delle diverse valutazioni.
Il Consiglio giudiziario ed il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione, ciascuno per le attribuzioni di rispettiva competenza, debbono esprimere il parere conclusivo entro sessanta giorni dalla ricezione della proposta, termine che può essere superato solo per eccezionali ragioni, da motivare compiutamente nel parere e che resta sospeso per un periodo non superiore a trenta giorni allorché il Consiglio giudiziario, avendo accolto le osservazioni proposte ovvero ritenuto di esprimere parere negativo, dà comunicazione di ciò mediante il sistema informatico al dirigente dell’ufficio interessato, il quale, entro trenta giorni può modificare l’originaria proposta ovvero proporre osservazioni, che saranno esaminate dal Consiglio giudiziario.
Il Presidente della Corte d’appello, valutato il parere del Consiglio giudiziario, contenente le osservazioni, e valutati altresì i rilievi e le controdeduzioni del dirigente dell’ufficio, avvalendosi del sistema informativo, conferma ovvero modifica l’iniziale proposta tabellare, indicando le ragioni della decisione.
La proposta tabellare può essere dichiarata immediatamente esecutiva dai dirigenti degli uffici giudiziari, qualora determini esclusivamente una diversa assegnazione dei magistrati alle sezioni o alle diverse posizioni tabellari. Quando, invece, essa comporti modifiche rispetto al previgente assetto organizzativo, con riguardo, in particolare, alla ripartizione dei giudici tra settore civile e settore penale, al dimensionamento e alla specializzazione delle sezioni, all’assegnazione degli affari alle singole sezioni, ai singoli collegi ed ai giudici, l’esecutività della proposta tabellare è condizionata all’unanime parere favorevole del Consiglio giudiziario[13].
5. Termini e modalità dell’invio al Consiglio Superiore della Magistratura delle proposte. Delibere del Consiglio Superiore della Magistratura.
La proposta di tabella definitivamente formulata dal Presidente della Corte d’appello, corredata dalle eventuali osservazioni degli interessati e dal parere del Consiglio giudiziario, è inviata al Consiglio Superiore della Magistratura mediante inserimento nel sistema informatico. Per la Corte di cassazione, insieme alle eventuali osservazioni dei magistrati, viene trasmesso il parere espresso dal Consiglio direttivo. Contestualmente vengono inserite nel sistema informatico ed inviata l’ulteriore eventuale documentazione in allegato, nonché le osservazioni del dirigente dell’ufficio o dei magistrati non accolte. La tabella dell’ufficio, previo esame entro novanta giorni da parte della competente Commissione consiliare, è formata e diviene efficace con l’adozione della delibera del Consiglio Superiore della Magistratura e del decreto ministeriale (atto dovuto e vincolato) che la recepisce. Fino a tale momento, resta in vigore la tabella precedente.
La proposta tabellare può essere approvata anche solo parzialmente, sempre che le parti della proposta non approvate non presentino aspetti di interdipendenza con le altre previsioni tabellari[14]. Nel caso di mancata approvazione, il dirigente dell’ufficio deve predisporre, nel termine di sessanta giorni dalla ricezione della relativa comunicazione ed in modo conforme al contenuto della delibera, una nuova proposta (ovvero modificare la parte non approvata) che verrà trasmessa al Presidente della Corte d’Appello per la presentazione al Consiglio giudiziario e quindi - unitamente al parere che quest’ultimo dovrà esprimere entro quaranta giorni - al Consiglio Superiore della Magistratura.
All’esito della procedura tabellare, la tabella dell’ufficio approvata dal Consiglio Superiore della Magistratura viene comunicata per via telematica a ciascun magistrato dell’ufficio ed inviata, a cura del Presidente della Corte d’appello, alla Procura della Repubblica ed al Consiglio dell'ordine degli avvocati della sede interessata dalla procedura tabellare. La tabella approvata è altresì pubblicata sul sito intranet del Consiglio Superiore della Magistratura nonché (eccettuate le parti per le quali sussistano esigenze di riservatezza) sul sito internet dell’ufficio. novanta giorni dall’inserimento nel modulo informatico standardizzato, fatte salve eventuali sospensioni del termine per esigenze di carattere istruttorio.
Specifiche proposte debbono essere presentate anche per le tabelle feriali, disciplinate nella sezione IV, Capo I della circolare (artt. 35-37), cui si rinvia.
Nel corso del triennio di durata delle tabelle sono possibili variazioni dell’assetto tabellare. Le relative proposte sono gestite in modalità digitale per il tramite del sistema informatico in modo analogo a quanto previsto per le tabelle ordinarie.
I dirigenti degli uffici giudiziari, in casi eccezionali e in via di urgenza, possono adottare provvedimenti di modifica tabellare immediatamente esecutivi con esclusivo riguardo alla assegnazione dei magistrati ai settori, alle sezioni o alla posizione tabellare, indicando le ragioni e le esigenze di servizio che li giustificano. In caso di parere contrario del Consiglio Giudiziario, il dirigente dell’ufficio valuta l’opportunità di revocare l’immediata esecutività, in attesa della decisione del Consiglio Superiore della Magistratura.
In casi eccezionali ed in via di urgenza, da motivare con specifica indicazione delle ragioni e delle esigenze di servizio che li giustificano, possono inoltre essere adottati provvedimenti di modifica tabellare con riguardo all’assegnazione degli affari alle singole sezioni, ai singoli collegi e ai giudici.
Tali provvedimenti sono esecutivi dal momento in cui il Consiglio giudiziario o il Consiglio direttivo esprime unanime parere favorevole, salva la deliberazione del Consiglio Superiore della Magistratura per la relativa variazione tabellare.
Nell’ipotesi di assunzione dell’incarico direttivo in costanza del triennio di validità delle tabelle, il dirigente può procedere in via d’urgenza, con provvedimento motivato, alle variazioni tabellari ritenute assolutamente necessarie per la funzionalità dell’ufficio sulla base dell’analisi da lui effettuata.
Il procedimento relativo alle variazioni tabellari urgenti si svolge con le modalità accelerate descritte nell’art. 41 della circolare.
6. Inosservanza delle regole tabellari
Contro i provvedimenti adottati in violazione delle previsioni tabellari o delle direttive e delle delibere consiliari nella materia in esame, che non siano stati formalizzati in variazioni tabellari, i magistrati dell’ufficio, anche onorari, nei limiti delle relative attribuzioni, entro dieci giorni dalla data in cui ne hanno avuto conoscenza, possono proporre, osservazioni al Consiglio Superiore della Magistratura il quale, eventualmente sentiti i magistrati interessati e acquisito il parere del Consiglio giudiziario o del Consiglio direttivo, decide nel termine più sollecito possibile, confermando o non approvando il provvedimento (art. 43 della circolare).
I provvedimenti che assumono rilievo sotto il profilo organizzativo e tabellare nonché il rispetto dei termini e delle modalità del procedimento tabellare, sono valutati anche in occasione del conferimento e della conferma di uffici direttivi e semidirettivi e di delibere di tramutamento o relative alla valutazione della professionalità[15]; ed i provvedimenti adottati in violazione delle direttive e delle delibere consiliari nella stessa materia possono formare oggetto di segnalazione ai titolari dell'azione disciplinare ed essere valutati anche al fine dell’eventuale adozione del provvedimento di trasferimento d’ufficio ai sensi dell’articolo 2, regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (così l’art. 44 della circolare, che riprende previsioni contenute in precedenti atti consiliari). La rilevanza disciplinare di tale condotta, già affermata dalla giurisprudenza, è ora sancita espressamente dal d. lg. 109/2006, il cui art. 2, lett. n) prevede che costituisce illecito disciplinare “la reiterata o grave inosservanza delle norme regolamentari o delle disposizioni sul servizio giudiziario adottate dagli organi competenti”.
Il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario, approvato dal Consiglio dei Ministri il 3 agosto 2020 e ripetutamente citato, prevede che la reiterata mancata approvazione da parte del Consiglio superiore della magistratura dei provvedimenti organizzativi adottati nell’esercizio delle funzioni direttive possa costituire una causa ostativa alla conferma nell’incarico; che la capacità di dare piena e compiuta attuazione a quanto indicato nel progetto organizzativo debba essere valutata ai fini del conferimento delle funzioni direttive e semidirettive, e che possano costituire fonte di responsabilità disciplinare le omissioni previste dall’art. 9 del ddl con riguardo ai programmi di gestione[16].
[1] Per quanto concerne quest’ultima dapprima per effetto di disposizioni contenute nelle circolari (passate da un iniziale “raccomandazione” ai presidenti di corte d’appello ad inviare copia della proposta tabellare al Presidente del locale Consiglio dell'Ordine Forense per eventuali osservazioni, di cui al par. 6 delle circolari sulla formazione delle tabelle per il biennio 2002/2003 e per il biennio 2004/2005 alla più stringente previsione della consultazione preventiva - e della comunicazione successiva delle proposte tabellari al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati - di cui ai par. 5 e 6 della circolare sulla formazione della tabelle per il biennio 2006/2007) e poi per esplicita previsione normativa a seguito della riforma dell’ord. giud. ove è previsto che gli avvocati componenti dei consigli giudiziari ed il presidente del Consiglio nazionale forense facente parte del consiglio direttivo della Corte di cassazione concorrano alla formazione dei pareri sulle tabelle degli uffici (cfr. il d. lg. 25/ 2006 come modificato dall’art. 4 della legge 111/2007). Sul c.d, “diritto di tribuna”, cfr., Ancora sulle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario, del funzionamento e della legge elettorale del Consiglio superiore della magistratura, cit. ed il parere del Csm ivi richiamato.
[2] Come si legge nella relazione di accompagnamento, la nuova circolare si è proposta i seguenti obiettivi:
- revisione e semplificazione del testo, con un intervento di sistematica razionalizzazione della disciplina in alcuni punti de1l’articolato, ad esempio in materia di benessere organizzativo, tutela della maternità, della genitorialità e dei compiti di cura. In numerosi punti si è provveduto a chiarimenti di natura lessicale o di coordinamento, tesi a rendere il testo sempre più chiaro e comprensibile;
- assicurare il più ampio coinvolgimento non solo dell’avvocatura, ma anche del Procuratore della Repubblica nel procedimento di formazione dei progetti tabellari, sul presupposto che il miglioramento del servizio giustizia non può prescindere dallo sviluppo di azioni sinergiche tra magistratura e avvocatura, cosi come tra uffici giudicanti e requirenti;
-promuovere assetti organizzativi degli uffici giudicanti tali da non favorire la ricerca e l’offerta di “incarichi” interni agli uffici sovrapponibili a compiti spettanti ai dirigenti, nell’intento di valorizzare le responsabilità di questi ultimi e dei presidenti di sezione, sono oggetto di una specifica selezione compiuta dal Consiglio superiore proprio in funzione dell’idoneità all’esercizio di detti compiti;
- assicurare, in ogni caso, la più ampia trasparenza delle decisioni incidenti sul1’organizzazione degli uffici, in particolare di quelle che riguardano l’attribuzione di incarichi di coordinamento o di collaborazione; - valorizzare il principio della pari dignità delle funzioni e l’equa e congrua distribuzione degli affari, riducendo e rimodulando la previsione di esoneri ai soli casi in cui questi risultino effettivamente funzionali all’esercizio proficuo dei necessari compiti di direzione e coordinamento dei diversi ambiti dell’attività degli uffici; ribadendo la necessità che la distribuzione degli affari e la formazione dei ruoli siano equilibrate sul piano quantitativo e qualitativo ed introducendo, poi, un dovere di particolare attenzione in tal senso nella formazione dei ruoli dei magistrati ordinari al termine del tirocinio;
- disciplinare l’utilizzo della magistratura onoraria all’interno degli uffici, nel rispetto della riforma di cui al d.lgs. n. 116/2017, entrata in vigore dopo l’approvazione della circolare sulle tabelle relativa al triennio 2017/2019. Considerate le numerose e significative innovazioni poste da tale norma (la principale delle quali relativa (nei Tribunali ordinari di primo grado) al necessario ed iniziale inserimento nell’ufficio per il processo di tutti i giudici onorari nominati dopo l’entrata in vigore di essa, si è provveduto all’integrale riscrittura degli articoli relativi all’utilizzo della magistratura onoraria;
- migliorare la disciplina di modelli organizzativi già sperimentati, così da rendere la prima più chiara ed i secondi più funzionali ad una efficace risposta giurisdizionale (cosi per il coordinatore de1l’ufficio Gip/Gup; la disciplina dei concorsi interni; la gestione dei ruoli vacanti in funzione del principio della ragionevole durata dei processi; la disciplina dell’esecutività delle variazioni tabellari; il riequilibrio dei ruoli);
- ampliare la portata sistematica della circolare, inserendo la regolamentazione della disciplina dell’ufficio del processo e quella delle ferie dei magistrati, oggetto di separate delibere il cui contenuto essenziale viene trasfuso nell’unico corpus normativo;
- migliorare la disciplina delle specifiche esigenze organizzative della Corte di cassazione, introducendo regole più specifiche e stringenti per le nomine da compiersi all’interno del1’ufficio.
[3] Con delibera del 4 novembre 2020, tenuto conto dell’emergenza epidemiologica da Covid - 19, il termine per il deposito delle proposte tabellari è stato differito al 31 marzo 2021, mentre con delibera del 22 dicembre 2020 l’efficacia delle tabelle relative al triennio 2018 - 2020 è stata prorogata sino ad emanazione di una nuova circolare per il triennio 2021 - 2023.
[4] Il CSM è intervenuto con specifiche direttive per la gestione della emergenza COVID: cfr. ad es. la delibera in data 4 novembre 2020, su cui vedi C. Gallo, Prima lettura delle nuove linee guida del CSM in materia di emergenza Covid (4.11.2020), in Giustizia insieme, 9 novembre 2020 https://www.giustiziainsieme.it/it/organizzazione-della-giustizia/1389-prima-lettura-delle-nuove-linee-guida-del-csm-in-materia-di-emergenza-covid-delibera-4-11-2020
[5] La relazione di cui si parla nel testo è diversa dal “programma delle attività da svolgersi nel corso dell’anno” che in base all’art. 4 del d.lgs. n.240/2006 il magistrato capo dell’ufficio giudiziario ed il dirigente amministrativo ad esso preposto sono tenuti a redigere, “tenendo conto delle risorse disponibili ed indicando le priorità”. Tale programma non sostituisce la proposta tabellare né ovviamente, sostituisce il controllo del Ministro a quello del Csm, istituzionalmente competente in base all’art. 105 della Costituzione. Esso deve essere inteso in realtà - anche alla luce di una lettura costituzionalmente orientata, sul cui sfondo vi è l’esigenza di coordinamento degli artt. 105 e 110 della Cost. - come uno strumento di gestione volto a realizzare il coordinamento tra le funzioni del dirigente magistrato e quelle del dirigente amministrativo, in un’ottica collaborativa in cui la proposta tabellare non può non tener conto delle risorse disponibili che costituiscono ovviamente una condizione di razionalità e coerenza organizzativa, fermo restando che spetta al magistrato dirigente “la competenza ad adottare i provvedimenti necessari per l'organizzazione dell'attività giudiziaria e, comunque, concernenti la gestione del personale di magistratura ed il suo stato giuridico”. L’organizzazione dell’ufficio per l’arco del triennio resta istituzionalmente affidata alle tabelle, mentre il programma delle attività annuali rappresenta lo strumento informativo dinamico attraverso il quale si realizza il coordinamento delle diverse competenze e la concreta gestione dell’ufficio.
[6] Le proposte di organizzazione tabellare degli uffici differiscono dai programmi per la gestione dei procedimenti pendenti di cui all’art. 37 d.l. n. 98/2011 convertito, con modificazioni, nella legge n. 111/2011, mediante i quali i capi degli uffici giudiziari, sentiti i presidenti dei rispettivi consigli dell'ordine degli avvocati, entro il 31 gennaio di ogni anno determinano: a) gli obiettivi di riduzione della durata dei procedimenti concretamente raggiungibili nell'anno in corso; b) gli obiettivi di rendimento dell'ufficio, tenuto conto dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati individuati dai competenti organi di autogoverno, l'ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti, individuati secondo criteri oggettivi ed omogenei che tengano conto della durata della causa, anche con riferimento agli eventuali gradi di giudizio precedenti, nonché della natura e del valore della stessa. Con i programmi di gestione, sulla cui attuazione il capo dell’ufficio giudiziario è tenuto a vigilare e che assumono rilevanza per la conferma nell’incarico direttivo, viene dato atto dell'avvenuto conseguimento degli obiettivi fissati per l'anno precedente o vengono specificate le motivazioni del loro eventuale mancato raggiungimento.
In base all’art. 8 della circolare sulle tabelle, i programmi per la gestione dei procedimenti civili, al pari di quelli per la gestione dei procedimenti penali di cui alla delibera consiliare del 16 ottobre 2019, si inseriscono nel quadro organizzativo generale delineato dal Dog, costituendone strumenti annuali di attuazione anche di quest’ultimo ai fini della progressiva e sostenibile eliminazione dell’arretrato. Essi vanno allegati al Dog e debbono essere trasmessi al Consiglio giudiziario per essere inseriti nell’archivio digitale dell’ufficio giudiziario di cui all’art. 46 della circolare
[7] Per gli uffici di competenza distrettuale, la richiesta e l’acquisizione riguardano il Consiglio dell’Ordine degli avvocati avente sede nel capoluogo del distretto, il quale può recepire osservazioni e contributi dai Consigli dell’Ordine degli avvocati aventi sede nel distretto
[8] Nella formulazione delle proposte i dirigenti degli uffici, ai fini di una più approfondita lettura dei dati relativi ai flussi ed alle pendenze, potranno eventualmente avvalersi del supporto della Commissione flussi, e sono tenuti a consultare i Comitati pari opportunità decentrati, nell’ambito delle rispettive competenze istituzionali.
[9] La proposta tabellare della Corte di cassazione deve essere formulata dal Primo Presidente della Corte, sentito il Presidente aggiunto, sulla base delle riunioni intercorse con i Presidenti di sezione, anche non titolari, e delle preventive riunioni sezionali con i consiglieri tutti. Esse deve essere quindi inviata al Consiglio direttivo della Corte di cassazione per la formulazione del prescritto parere. apposite riunioni o con altre idonee forme di partecipazione, facendo espressa menzione dell’espletamento di tali adempimenti.
[10] La segnalazione tabellare viene trasmessa al Consiglio dell'ordine degli avvocati del la sede interessata dalla procedura tabellare ed al Procuratore della Repubblica, per eventuali contributi valutativi.
[11] I giudici onorari di pace, in servizio presso il Tribunale, possono presentare osservazioni solo per le loro attribuzioni.
[12] Nel caso previsto dall’articolo 10, comma 6, del d.lgs. n. 116/2017 (assegnazione dei giudici onorari di pace all’ufficio per il processo), il Consiglio giudiziario trasmette la proposta tabellare, unitamente alle eventuali osservazioni e controdeduzioni presentate, alla Sezione autonoma per i magistrati onorari di cui all’articolo 10 del decreto legislativo n. 25/2006, e successive modifiche. La sezione autonoma, entro trenta giorni, trasmette nuovamente gli atti al Consiglio giudiziario unitamente ad una propria valutazione-
[13] Nel caso in cui il Consiglio Giudiziario esprima parere favorevole non unanime o parere sfavorevole su alcune singole e specifiche parti della proposta, il dirigente dell’ufficio potrà dichiarare immediatamente esecutive le parti della proposta oggetto di parere favorevole unanime, sempre che le altre parti, oggetto di parere sfavorevole ovvero di parere favorevole non unanime, non presentino aspetti di interdipendenza con le altre previsioni tabellari.
Con riguardo alle modifiche proposte con il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario cfr. ultima parte
[14] La mancata approvazione deve riguardare singoli e specifici punti, in relazione ai quali rimane in vigore la tabella valida per il precedente triennio, che viene invece sostituita in relazione alla parte approvata.
[15] A tale fine, tutti i provvedimenti che assumono rilievo sotto il profilo organizzativo e tabellare, non approvati dal Consiglio Superiore della Magistratura, sono inseriti nel fascicolo personale del magistrato, unitamente ai relativi pareri del Consiglio Giudiziario, ai sensi dell’articolo 6 della circolare in tema di tenuta del fascicolo personale dei magistrati
[16] Per alcune considerazioni critiche relativamente a tale previsione, in quanto la genericità e l’ampiezza con cui essa è formulata finirebbe per attribuire rilievo anche alla mancata approvazione di variazioni tabellari di minima importanza, laddove - all’opposto – in difetto della reiterazione potrebbe restar esente da conseguenze negative una violazione anche grave delle regole tabellari, cfr. il parere del CSM richiamato nello scritto Ancora sulle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario etc., supra, nota n. 9.
Il C.S.M.: le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione.*
di Francesca Biondi**
Sommario: 1. Introduzione - 2. La composizione del Consiglio superiore della magistratura: le ragioni dei Costituenti - 3. L’attuazione del modello costituzionale e qualche possibile riforma (con legge ordinaria) - 4. Conclusioni
1. Introduzione
Il compito che mi è stato assegnato è certamente troppo ambizioso per lo spazio concessomi, poiché ragionare a fondo della composizione del Consiglio superiore della magistratura richiederebbe preliminarmente una riflessione approfondita sul ruolo della magistratura nell’ordinamento costituzionale; solo così si potrebbero davvero comprendere le ragioni che indussero i costituenti ad assegnare ampie attribuzioni a tale organo e a comporlo nel modo che conosciamo. Non posso però esimermi almeno dall’evidenziare che assegnare rilievo costituzionale al C.S.M. e attribuirgli le competenze elencate all’art. 105 Cost. costituì un chiaro segno di rottura rispetto alla concezione burocratica della magistratura della tradizione francese, perché significa riconoscere che il magistrato non è “solo” un funzionario pubblico chiamato ad applicare la legge, ma che un soggetto che, interpretando la legge, esercita un “potere”.
Pur in questo contesto culturale, è noto però che sulla decisione di prevedere in Costituzione un organo di tal fatta pesò soprattutto il momento storico in cui essa maturò. L’esperienza autoritaria appena conclusa convinse, infatti, non solo della necessità di approvare Costituzioni rigide, cioè idonee a limitare le scelte assunte dal Parlamento con legge, ma anche di creare organi di garanzia capaci di assicurare la separazione dei poteri ([1]).
Il Consiglio superiore della magistratura è uno di questi. L’autonomia proclamata solennemente dall’art. 104 Cost. – che consiste nell’attribuzione a tale organo delle funzioni precedentemente esercitate dal potere politico (specialmente dal Ministro della Giustizia) – è infatti funzionale a garantire l’indipendenza della magistratura tutta. Detto diversamente, l’autonomia della magistratura, intesa come gestione della magistratura affidata al Consiglio superiore, non è fine a se stessa, non è “autogoverno” (ma su questa definizione si tornerà), bensì garanzia necessaria a creare le pre-condizioni perché tutti i magistrati siano indipendenti dal potere politico ([2]).
Date queste premesse, è evidente che se l’autonomia, così definita, finisce per violare l’indipendenza che dovrebbe contribuire a tutelare, significa che qualcosa in questo modello non funziona, o non funziona più, ed è dunque doveroso – come in questi tempi si sta facendo – individuare le cause delle deviazioni dal modello costituzionale, per capire se è quest’ultimo ad aver tradito le promesse oppure se esso “regge” ancora e le cause di certi fenomeni siano piuttosto da imputare al modo in cui il legislatore ha dato attuazione a quel modello o, ancora, solo a fattori extra-giuridici.
In tale ampio contesto, il mio compito è quello di ricordare “perché” il Consiglio superiore della magistratura sia stato costruito così nel 1948 e se quelle ragioni siano attuali ancora oggi; e quindi, provare a ipotizzare – alla luce delle più recenti vicende – se e come la composizione del Consiglio superiore possa essere eventualmente modificata, con quale fonte (ordinaria o costituzionale), o se invece altri interventi potrebbero essere utili a contenere certe prassi.
2. La composizione del Consiglio superiore della magistratura: le ragioni dei Costituenti
Dopo un ampio dibattito – che è stato più volte ricostruito ([3]) – si decise, in Assemblea costituente, di prevedere in Costituzione un organo a composizione mista.
Pur partendo da posizioni assai diverse tra loro, progressivamente si riuscì a convergere sulla scelta di non comporre il C.S.M. di soli magistrati, al fine di evitare che esso divenisse espressione di un corpo di funzionari pubblici separato dallo Stato-ordinamento, autoreferenziale e irresponsabile. È argomento ricorrente, questo, sia nella Commissione dei Settantacinque, sia nel dibattito svoltosi – tra il 6 e il 25 novembre 1947 – in Assemblea costituente per superare la proposta volta a costruire un organo composto interamente da magistrati. Anche se non sempre in modo esplicito, in molti interventi traspare la consapevolezza che quello giudiziario è sì un potere, ma un potere segnato dai limiti posti dalla legge, non, cioè, un potere politico democraticamente legittimato.
Si discusse invece sino alla fine dei lavori della proporzione tra laici e togati, e solo da ultimo la composizione paritaria (metà laici e metà togati) fu respinta a favore della soluzione che oggi conosciamo.
Altri aspetti concorrono, però, a definire la composizione del C.S.M.
Anzitutto, di particolare rilievo è la scelta di far eleggere i membri laici dal Parlamento in seduta comune, come avviene solo per il Presidente della Repubblica e i giudici costituzionali. Si tratta, infatti, di una soluzione che evidenzia l’importanza del ruolo che hanno tali componenti all’interno del Consiglio.
Le modalità di elezione e la necessità che vi sia ampia convergenza tra le forze politiche indicano che la componente laica non dovrebbe essere espressione di schieramento politico-partitico, ma dovrebbe portare nell’organo una sensibilità per l’amministrazione della giustizia intesa anche come servizio ai cittadini. Questo aspetto venne più volte sottolineato in Assemblea Costituente: i “laici” devono essere scelti dal Parlamento non come espressione di una parte politica, ma per la loro qualificata capacità di preparazione sui problemi della giustizia, per evitare il rischio che l’organo si trasformi in uno strumento nelle mani dei soli magistrati e intorno ad esso si possano «coagulare interessi, intrighi, protezioni, preferenze tali da costituire un pericolo per l’indipendenza dei singoli giudici» ([4]).
Si discusse molto anche nell’individuazione delle categorie tra cui i laici dovevano essere tratti, con l’obiettivo di selezionare persone dotate di elevate competenze tecnico-giuridiche,
Un fatto che merita di essere segnalato (e su cui poi si tornerà) è che in Assemblea costituente fu suggerito dall’onorevole Sardiello (esponente del partito repubblicano) che i laici fossero scelti «fra i cittadini che non abbiano direzione o rappresentanza di partiti politici» ([5]). Tale proposta fu poi tradotta in un emendamento presentato dall’onorevole Scalfaro (Democrazia cristiana), il quale chiese di aggiungere che i laici fossero eletti dal Parlamento «fuori del proprio seno». L’emendamento fu approvato nella seduta pomeridiana del 25 novembre 1947, e, infatti, questo inciso si ritrova nel testo dell’art. 97 letto al termine della seduta. Esso però scompare, senza che ne sia chiaro il motivo, nel testo coordinato dal Comitato di redazione prima della votazione finale in Assemblea, e distribuito ai Deputati il 20 dicembre 1947. Ciò spiega perché il Parlamento in seduta comune abbia spesso potuto eleggere al C.S.M. parlamentari in carica.
In secondo luogo, a definire la composizione del C.S.M. concorre la scelta di inserirvi, come membri di diritto, i due vertici funzionali della magistratura. Mentre la presenza del Primo Presidente della Corte di Cassazione non fu mai messa in discussione nel dibattito in Assemblea costituente (anzi, fu proposto che egli fosse Presidente o Vice-presidente del C.S.M.), meno scontata è quella del Procuratore generale della Corte di Cassazione. Tale scelta testimonia la decisione – che impegnò molto i Costituenti soprattutto nella prima fase dei lavori – di equiparare, sul piano delle garanzie istituzionali, giudici e pubblici ministeri.
In seguito, attuando il disposto costituzionale, il legislatore ha però fatto scelte che rendono più complesso definire il ruolo del Procuratore generale nel C.S.M. È infatti evidente che l’aver assegnato anche al Procuratore generale una autonoma iniziativa disciplinare, concorrente con quella del Ministro della Giustizia, e addirittura obbligatoria, pone problemi sul piano teorico ([6]), oltre che – come dimostrato da recenti vicende di cronaca ([7]) – sul piano pratico.
Da ultimo, va menzionata la scelta di attribuire al Presidente della Repubblica la presidenza del C.S.M. Come accennato, in Assemblea costituente si discusse dell’opportunità di affidare la presidenza al Primo Presidente della Corte di Cassazione, ma, alla fine, tale soluzione fu accantonata, ancora una volta per non accentuare la separatezza della magistratura ([8]). Quella adottata dalla nostra Costituzione si rivela una soluzione decisiva per comprendere la posizione costituzionale del C.S.M.: il Presidente della Repubblica, supremo organo di garanzia e di unità, è figura istituzionale capace di dare autorevolezza a tale organo, di accentuarne e difenderne il ruolo di garanzia, di mantenerne, se necessario, le competenze nei limiti di ciò che la Costituzione prevede. Il Capo dello Stato, d’altro canto, è sì il Presidente del C.S.M., ma è anche, e soprattutto, Presidente della Repubblica ([9]).
Non sono mancate, nel corso della storia costituzionale, tensioni tra il Presidente della Repubblica e il plenum, ma, nel complesso, quella compiuta dai nostri costituenti si è rivelata una scelta lungimirante. Di recente, con riferimento alle vicende che hanno interessato il C.S.M. nel corso del 2019 ([10]), non si può non ricordare l’atteggiamento di estremo equilibrio del Presidente Mattarella che, pur ricorrendo, nel suo intervento in plenum del 21 giugno 2019, a toni certamente “duri”, ha nel contempo invitato a tornare alla “normalità” istituzionale. Nonostante la legge n. 195 del 1958 attribuisca al Presidente della Repubblica la possibilità di sciogliere il Consiglio «qualora sia impossibile il funzionamento», il Presidente Mattarella ha condivisibilmente interpretato tale potere come extrema ratio, preferendo che il Consiglio si ricomponesse con le modalità ordinarie ([11]). D’altro canto, sul potere di scioglimento previsto dall’art. 31 della l. n. 195 del 1958 furono in passato avanzati anche dubbi di legittimità costituzionale, ritenendo che esso, in quanto non previsto in Costituzione, non potesse essere introdotto con legge ordinaria e si ponesse in contrasto con l’art. 104, quinto comma, Cost. ([12]). Senza affatto giungere a tale radicale conclusione, è invece condivisibile l’interpretazione restrittiva che è stata data di questa prerogativa: in presenza di modalità ordinarie di integrazione dell’organo atte a far fronte alle dimissioni o alla decadenza di alcuni membri, ad essa si deve far ricorso solo in ipotesi davvero residuali, quando venga meno la maggioranza dei consiglieri ovvero quando frequenti ed insanabili contrasti tra le componenti presenti in Consiglio impediscano per lungo tempo l’assunzione di decisioni e, dunque, l’assolvimento dei compiti che la Costituzione attribuisce al C.S.M. ([13]).
3. L’attuazione del modello costituzionale e qualche possibile riforma (con legge ordinaria)
La composizione del C.S.M. definita dall’art. 105 Cost. è dunque l’esito di una lunga e approfondita riflessione. Pur esprimendo sensibilità differenti, i Costituenti riuscirono a trovare, in un organo a composizione mista, ma con prevalenza togata, un accordo soddisfacente. E forse per questo tutte le proposte di riforma del Titolo IV della Costituzione sono fallite: perché alimentavano tensioni (come quella sottesa alla separazione tra funzione giudicante e requirente o alla revisione della proporzione tra laici e togati) che questa formulazione invece non esaspera.
Pur in questo modello costituzionale, le soluzioni adottate dalla legislazione ordinaria di attuazione possono però accentuare il ruolo dell’una o dell’altra componente.
Tra queste, la “variabile” da sempre più dibattuta è quella del sistema elettorale prescelto per l’elezione dei membri togati. Obiettivo dichiarato dei riformatori è sempre stato quello di voler ridurre il peso della politica sulle decisioni che il C.S.M. è chiamato ad assumere, sia essa intesa come “politica dei partiti” o come “politica espressa dall’associazionismo giudiziario”.
Sul tale aspetto merita subito di essere chiarito che il testo costituzionale utilizza il termine “eletti” e, dunque, che l’elezione non può essere sostituita, a Costituzione invariata, da altre modalità di selezione. L’introduzione del sorteggio – di cui si è ancora di recente parlato ([14]) – costituirebbe un aggiramento della Costituzione, sia che fosse effettuato “prima”, sia che fosse collocato “dopo” l’elezione ([15]).
Entrambe le ipotesi pongono problemi di compatibilità con l’art. 104 della Costituzione.
Non si tratta un argomento solo “testuale”. L’“elezione” è il metodo che meglio si confà alla posizione che la Costituzione assegna al C.S.M. nel nostro ordinamento.
Trattandosi di un organo di altissimo profilo, chiamato a svolgere funzioni importanti e delicate, autorevolmente presieduto dal Presidente della Repubblica, è naturale, oltre che necessario, che vi siedano i magistrati che i colleghi ritengono avere maggiore esperienza, autorevolezza, capacità organizzativa, capacità relazionale, nonché quella capacità di mediazione che è necessaria per operare in un organo collegiale. Senza queste qualità personali – che nulla hanno a che vedere con l’essere un buon giudice o un buon pubblico ministero e che il sorteggio non può garantire – vi è il rischio che il C.S.M. perda il suo “peso istituzionale” ([16]) o che venga alterato, se non nella forma, certamente nella sostanza, l’equilibrio tra togati e laici.
Peraltro, non è detto che un meccanismo che coniughi sorteggio ed elezione sarebbe in grado di “scardinare” il voto di appartenenza ad una corrente. Poiché nessuno può essere obbligato a candidarsi, non è difficile immaginare che, se il sorteggio avviene dopo, le associazioni riusciranno a far presentare alle elezioni i loro candidati, così che siano solo questi ad essere poi sorteggiati, oppure, se il sorteggio avviene prima, a far manifestare interesse al sorteggio ai propri candidati e, dopo, al momento delle elezioni, a far votare i loro candidati. In ogni caso, è presumibile che le associazioni troverebbero presto meccanismi adeguati a neutralizzare anche questa riforma.
Quanto detto, ovviamente, non esclude affatto che si possa, e forse si debba, ripensare l’attuale sistema elettorale della componente togata. Le ipotesi sul tappeto, già studiate e discusse, sono molteplici.
Tra queste, potrebbe essere approfondita la proposta di introdurre il sistema elettorale del voto singolo trasferibile ([17]). Tale sistema consente all’elettore di scrivere sulla scheda, in ordine di preferenza, più nomi di candidati che vorrebbe eletti, scelti anche tra liste diverse. In tal modo egli potrebbe scegliere solo candidati della lista della corrente cui aderisce, oppure preferire singoli candidati di varie liste. In un sistema di questo tipo – compatibile, peraltro, anche con l’introduzione di preferenze di genere – la distribuzione dei seggi è ottenuta calcolando il numero minimo di voti necessario per essere eletti; sono poi dichiarati eletti coloro che hanno raggiunto tale quorum; i voti ottenuti in più dagli eletti vengono trasferiti ai secondi, e così via. Vero che si tratta di un meccanismo piuttosto complesso, ma esso è pur sempre destinato ad un elettorato colto e preparato. Tale sistema avrebbe il pregio di consentire all’elettore di scegliere sulla base del proprio convincimento personale e, nel contempo, potendo esprimere più preferenze in ordine di gradimento, di non disperdere il proprio voto se il candidato preferito non dovesse ottenere un numero sufficiente di voti per essere eletto. Inoltre, esso risulterebbe in piena sintonia con il modello costituzionale del C.S.M., che – come visto – è un organo di altissimo profilo, chiamato a svolgere delicate funzioni, nelle quali la sensibilità culturale di singolo consigliere dovrebbe contare molti più degli interessi di gruppo.
Il C.S.M. infatti non è un organo “rappresentativo”, neppure se con tale espressione ci riferiamo alla rappresentanza di diverse politiche di amministrazione della giustizia.
Certamente chi presenta la sua candidatura ha una sua personale concezione del ruolo del magistrato e della funzione giudiziaria e tale sensibilità, eventualmente alimentata dal suo appartenere ad una determinata associazione, egli porterà nel plenum. Tale sensibilità condizionerà presumibilmente la maggior parte delle decisioni che è chiamato ad assumere: dalla scelta dei dirigenti degli uffici, all’individuazione dei criteri per le valutazioni di professionalità, all’espressione dei pareri sui disegni di legge, e così via. Tutto questo non implica però che il C.S.M. debba “necessariamente” essere composto in modo da rispecchiare il peso che ciascuna associazione ha nella magistratura, quasi che ciascuna consiliatura si debba caratterizzare – come se fosse un “Parlamento” – per una determinata linea di politica giudiziaria.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 12 del 1971, pretendendo che nelle commissioni deliberanti del Consiglio siano rappresentate tutte le “categorie” di magistrati, ha precisato: «non perché in questo si faccia luogo a rappresentanza di interessi di gruppo – il che sarebbe inconciliabile con il carattere assolutamente generale degli interessi affidati alla cura di quell’organo – ma in considerazione del fatto che le linee strutturali segnate nell’art. 104 Cost.» sono «ispirate all’esigenza che all’esercizio di delicati compiti inerenti al governo della magistratura contribuiscano le diverse esperienze di cui le singole categorie sono portatrici». Ed ha poi ribadito ciò nella sentenza n. 142 del 1973.
Il C.S.M., dunque, rappresenta le “categorie” di magistrati perché al suo interno devono esservi membri che conoscono le esigenze e sanno valutare le competenze di chi esercita le funzioni di legittimità, requirenti e di merito. L’elezione da parte di tutti i giudici esclude peraltro una rappresentanza “corporativa”.
In definitiva, secondo il modello costituzionale, il C.S.M. non deve necessariamente rappresentare tutti i modi di concepire la funzione giudiziaria. Tra magistrati elettori e componente togata non c’è un rapporto come quello, di natura politica, tra elettori ed eletti. È semmai l’opposto: il divieto di rielezione indica che il componente togato non risponde ai suoi elettori. Ciò non significa disconoscere l’importanza che ha avuto e che può avere ancora l’associazionismo giudiziario, ma solo che il sistema elettorale non deve essere preordinato a rappresentare le associazioni.
Oltre a riflettere sulle modalità di elezione della componente togata, sarebbe opportuna qualche riflessione anche sulla selezione dei membri laici che, sempre più spesso, appartengono alla classe politica. Si tratta di un esito che i Costituenti certamente non auspicavano, se è vero – come ricordato retro al par. 2 – che l’Assemblea costituente aveva approvato un emendamento volto proprio ad evitare che ciò accadesse e che la formulazione così approvata fu modificata dal Comitato di redazione.
A Costituzione invariata, è stato già autorevolmente ritenuto che il legislatore potrebbe introdurre una regola volta ad escludere che il Parlamento in seduta comune elegga soggetti che ricoprono o hanno ricoperto negli anni precedenti all’elezione incarichi politico-amministrativi o che sono stati eletti in organi politici ([18]).
Una limitazione di tal fatta contribuirebbe a spezzare i legami, che talvolta si creano, tra la politica dei partiti e il C.S.M., che proprio da quella politica è chiamato a proteggere i singoli magistrati.
4. Conclusioni
In questo breve scritto ci si è concentrati – come richiesto – sulla composizione del C.S.M. definita dalla Costituzione, giungendo alla conclusione che quel modello funzioni ancora e che le riforme necessarie debbano agire sul piano sub-costituzionale.
Si è svolta dunque qualche riflessione sulla disciplina ordinaria che incide sulla composizione del Consiglio.
Molte altre correzioni, sempre introducibili con legge ordinaria, potrebbero però “ricondurre” il C.S.M. all’idea che di tale organo avevano i nostri costituenti.
Limitandoci qui alle questioni in qualche modo “affini” al tema della composizione del Consiglio potrebbe, ad esempio, essere meglio disciplinato lo status dei consiglieri togati, prevedendo – come è stato per un certo periodo di tempo – che chi è stato consigliere non può, nei due anni successivi alla scadenza del mandato, partecipare ad un concorso per l’assunzione di un incarico direttivo o semi-direttivo o nuovamente essere collocato fuori ruolo. In tal modo, si evita che l’esercizio del mandato possa essere condizionato da interessi di natura personale.
Si potrebbe anche provare a ragionare dell’opportunità di incardinare in modo permanente presso il Consiglio un corpo di funzionari, autonomo e indipendente, che sostituisca, in tutto o in parte, i magistrati segretari. Questi ultimi, chiamati ad assistere i consiglieri nell’esercizio delle loro funzioni, sono spesso selezionati sulla base di logiche di appartenenza correntizia.
Infine, si potrebbe discutere seriamente dei pregi che potrebbe produrre una modifica degli artt. 21 e 30 della legge n. 195 del 1958 nella parte in cui prevede che l’intero Consiglio sia rinnovato contestualmente ([19]). Un rinnovo parziale del C.S.M. aiuterebbe, oltre che a garantire una maggiore continuità nell’esercizio delle funzioni, a spezzare alcune logiche di appartenenza, da un lato, e ad assicurare un adeguato ruolo ai laici, i quali, invece, generalmente scontano – almeno nei primi anni – un deficit di conoscenza rispetto ai colleghi magistrati. D’altro canto, se – come si è cercato di argomentare – il C.S.M. non è un organo chiamato ad esprimere, in ciascuna consiliatura, un indirizzo di politica giudiziaria di cui i componenti devono rendere conto ai loro elettori, un rinnovo parziale – come quello che caratterizza la Corte costituzionale – sarebbe compatibile con il modello costituzionale.
* Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019. * Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17 in tema di riforma del CSM pubblicati su questa Rivista: La rappresentanza di genere nel CSM, I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, Migliorare il Csm nella cornice costituzionale
** Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Milano, componente della Commissione di riforma del CSM presieduta da M. Luciani.
([1]) Per la precisione, un organo chiamato “Consiglio superiore della magistratura” - istituito su proposta del Ministro V.E. Orlando con la legge n. 511 del 14 luglio 1907 - esisteva già nel periodo statutario, ma nulla aveva a che vedere con l’organo di cui oggi discutiamo. Si trattava di un organo incardinato presso il Ministero della Giustizia, composto da magistrati di cassazione e da componenti di nomina ministeriali e deputato a contribuire alla gestione della carriera dei magistrati. Il potere, infatti, restava in capo al Ministro non garantendo, come dimostreranno le vicende del periodo fascista, alcuna indipendenza dei magistrati. Per approfondimenti, si rinvia a A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 115 - 118.
([2]) Per queste distinzioni sia consentito rinviare, diffusamente, a N. Zanon – F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, Zanichelli, 2019, pp. 59 ss.
([3]) Per qualche sintetica indicazione v. G. Verde – E. Cavasino, Art. 105, in Commentario alla Costituzione, Torino, Utet, 2006, pp. 2020-2021; più diffusamente, v. A. Gustapane, L’autonomia e l’indipendenza della magistratura ordinaria nel sistema costituzionale italiano. Dagli albori dello Statuto albertino al crepuscolo della Bicamerale, Milano, Giuffrè, 1999, pp. 109 ss.
([4]) Pres. Ruini, seduta 25 novembre 1947, Atti AC, pp. 2457 ss.
([5]) Seduta dell’11 novembre 1947, Atti AC, p. 1937.
([6]) Sia consentito rinviare a F. Biondi, La responsabilità del magistrato, Giuffrè, Milano, 2006, p. 249.
([7]) Si fa qui evidentemente riferimento alla vicenda che ha visto coinvolto il Procuratore generale nei medesimi fatti per cui egli aveva chiesto di procedere disciplinarmente nei confronti di altri magistrati. L’empasse si è risolto con le dimissioni dello stesso Procuratore Generale.
([8]) Cfr. G. Silvestri, Il vicepresidente del Csm nella Costituzione e nella legge, in Foro it., 2015, V, p. 458.
([9]) Cfr. N. Zanon – F. Biondi, op. cit., pp. 28-29; M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, in Osservatorio costituzionale, n. 1/2020.
([10]) Per una ricostruzione dei fatti di cronaca, cfr. G. Santini, Appunti sul mancato scioglimento e sulla riforma elettorale del Consiglio superiore della magistratura dopo la crisi del 2019, in Forum di Quaderni costituzionali. Rassegna, 29 gennaio 2020.
([11]) Per approfondimenti sul potere presidenziale si scioglimento del C.S.M., e ulteriori riferimenti bibliografici, cfr. ancora G. Santini, op. cit.
([12]) G. Flore, Note sulla possibilità di scioglimento del Consiglio superiore della magistratura, in Foro it., 1951, IV, pp. 83-41, e G. Viesti, Gli aspetti incostituzionali della legge sul Consiglio superiore della magistratura, in Riv. trim. di dir. pubblico 1958, p. 532, entrambi con riferimento al disegno di legge che poi divenne l. n. 195 del 1958.
([13]) Cfr., per tutti, le conclusioni cui giunse la Commissione presidenziale per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del Consiglio superiore della magistratura presieduta da Livio Paladin (la Relazione della Commissione «Paladin» per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del C.S.M. può essere letta in Giur. cost., 1991, p. 1023.
([14]) Il Ministro della Giustizia Bonafede, nel corso del 2019, ha proposto di introdurre il metodo del sorteggio per la scelta dei togati. Nessun testo ufficiale che contenesse tale proposta è mai stato reso pubblico. Sono invero circolare varie bozze. In una delle prime formulazioni di tale testo il sorteggio si collocava “dopo” l’elezione da parte dei togati: i magistrati sarebbero stati chiamati a votare in venti collegi e ad esprimere una sola preferenza; i cinque magistrati più votati in ogni collegio avrebbero avuto accesso alla seconda fase, quella del sorteggio; affinché il Consiglio risultasse composto in modo da rispettare le varie componenti (giudici di legittimità, pubblici ministeri e giudici di merito), si sarebbe poi dovuto ricorrere ad un complicato meccanismo di correzione del sorteggio stesso. In una più recente formulazione della proposta il sorteggio si sarebbe dovuto svolgere prima, tra tutta la platea degli eleggibili, riducendo dell’80 per cento circa la platea degli aventi diritto a candidarsi.
Inoltre, alla Camera, il 18 giugno 2019, è stata depositata una proposta di legge (A.C. n. 1919, ad iniziativa dei deputati Colletti, Deiana, Scanu), volta a modificare in profondità la legge n. 195 del 1958 e, tra l’altro, il sistema di elezione dei componenti del CSM. I proponenti vorrebbero che il sorteggio si svolgesse “prima” dell’elezione tra tutti i magistrati che manifestano formalmente il loro interesse. Il sorteggio dovrebbe individuare cinque candidati tra i magistrati che esercitano le funzioni di legittimità, venticinque candidati tra quelli che esercitano funzioni requirenti e cinquanta candidati tra quelli che esercitano le funzioni di merito. Interessante notare che questo meccanismo (sorteggio prima ed elezione poi) vorrebbe essere esteso anche alla scelta dei laici: i parlamentari sarebbero chiamati ad eleggere tra quaranta candidati previamente sorteggiati.
([15]) Sia consentito rinviare, sul punto, già a N. Zanon - F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, in Quad. cost. 3/2019, p. 669. Cfr., tra i tanti, anche G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia 4/2017, p. 27, M. Volpi, Il Consiglio superiore della magistratura tra modello costituzionale e ipotesi di riforma, in Scritti in onore di Gaetano Silvestri, vol. I, Giappichelli, Torino 2016, p. 2631.
([16]) Tra i tanti, di recente, v. S. Benvenuti, Brevi note sull’affaire CSM: vecchi problemi, ma quali soluzioni?, in Osservatorio costituzionale, n. 1/2020. Si legga anche la relazione conclusiva della Commissione Scotti (Relazione della Commissione ministeriale per le modifiche alla Costituzione e al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, p. 19).
([17]) Cfr. Zanon – F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, cit., pp. 40-41; M. Volpi, Il Consiglio superiore della magistratura tra modello costituzionale e ipotesi di riforma, cit., p. 2631. A tale proposta era giunta anche la Commissione di studio per la formulazione di proposte di riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura presieduta da Balboni (pubblicata in Quad. cost. 3/1997, pp. 552-553).
([18]) V. ancora le relazioni della Commissione Paladin e della Commissione Balboni (entrambe citate retro).
([19]) La proposta non è nuova. Fu avanzata dalla Commissione Balboni (cit. retro) e condivisa dalla dottrina (L. Violante, Magistrati, Torino, 2009, pp. 178-179, N. Zanon – F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, cit., p. 46; Id., Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, cit.; M. Volpi, Il Consiglio superiore della magistratura, cit., p. 2632). Per passare da un regime ad un altro, si potrebbe prolungare di due anni il mandato della metà dei consiglieri, o traendoli a sorte o individuando quelli che erano stati eletti con un numero maggiore di voti.
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