ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giustizia e comunicazione. 9) I protagonisti della giustizia
di Claudia Morelli*
Sommario: 1. Comunicazione e coesione sociale - 2. Comunicazione Legale e Giuridica: il punto di vista del Comunicatore - 3. Il Processo di Comunicazione - 4. Gli obiettivi di Comunicazione della e nella Giustizia - 5. I protagonisti della Giustizia - 6. I Canali di Comunicazione - 7. Il Linguaggio della Giustizia - 8. Legal design: una prospettiva inclusiva - 9. Comunicare l’innovazione nella Giustizia - 10. Le professionalità - 11. Post Scriptum.
1. Comunicazione e coesione sociale
All’inizio del XX secolo uno zoologo austriaco, Karl von Frisch, scoprì che le api comunicano. Non fu creduto per lunghi anni; ma dopo essere riuscito a dimostrarlo, per questa scoperta nel 1973 fu insignito nel del premio Nobel per la fisiologia e la medicina. “Da quel momento anche le api sono assurte a quella categoria di animali sociali che Edward O. Wilson chiama “super organismo”: ovvero in grado di sviluppare una serie di relazioni e comunicazioni il cui scopo è quello di mantenere coesa e duratura la loro struttura sociale”. Quando ho letto, su la Repubblica, questa storia, ne sono rimasta affascinata, perché in poche righe richiama una costellazione di concetti non solo a me cari, quanto oggi collettivamente e cumulativamente insistenti: comunicazione, struttura sociale, sostenibilità. Sin dalla pubblicazione dell’editoriale di Giustizia Insieme, che annunciava l’apertura di uno spazio dedicato al tema Comunicazione e Giustizia, ho seguito con interesse il dipanarsi dei diversi interventi, ciascuno dei quali tocca specifici aspetti di un macro tema. D’altra parte, il tema del linguaggio e della comunicazione è spesso oggetto di articoli in Avvocato4.0, la rubrica dedicata alla innovazione in ambito giuridico che curo settimanalmente per Altalex. In nota i link. Riducendo all’essenziale il dibattito finora ospitato in Giustizia Insieme, i punti che tutti gli autori paiono considerare cardinali sono: - l’esigenza sempre più sentita di comunicare la Giustizia in maniera trasparente e comprensibile; - l’esigenza di ricercare linguaggi chiari, precisi e sintetici e sviluppare argomentazioni ferree nel processo; - il restituire alla fase delle indagini il ruolo interlocutorio all’interno del processo penale, anche tramite la informazione mediatica; -l’ interruzione della spirale perversa procure-media; - l’avvicinare i cittadini e tutti gli stakeholder alla Giurisdizione sotto il duplice profilo: a) delle ragioni alla base dello iusdicere nei casi specifici; b) dell’accessibilità al servizio. Aggiungo a questa lista di obiettivi che sono assegnati implicitamente all’ampio concetto di Comunicazione, uno ulteriore, che non mi pare sia specificatamente emerso: quello di recuperare alla Giurisdizione ed ai suoi operatori un credito reputazionale, che oggi appare appannato, anche solo a leggere l’ultimo Eu Justice scoreboard della Commissione europea. Ove non fosse un obiettivo implicito, sarebbe comunque una auspicabile conseguenza di una comunicazione più efficace, e dunque inclusiva. Responsabilità sociale, reputazione e autorevolezza sono come vibrazioni (gli asset immateriali) da cui dipende, infatti, la percezione sociale e collettiva di un servizio. Figurarsi se il servizio ha rilevanza costituzionale (per il quale le aspettative sono certamente più alte). Quanto gli asset immateriali costituiscano valore reale per l’ente che li esprime, i comunicatori di professione lo sanno molto bene. Sono fiduciosa nell’apprendere che in molti uffici giudiziari si redige il Bilancio sociale che fa dell’accountability (cioè della responsabilità collettiva in capo ad un centro di funzioni/servizio rispetto ad un certo risultato) un metro di misurazione (anche interna) dell’efficacia del servizio Giustizia.
2. Comunicazione Legale e Giuridica: il punto di vista del Comunicatore
Se il mio intervento in questo autorevole contesto avrà una qualche utilità, allora, sarà perché qui porto il punto di vista di comunicatrice, specializzata nell’ambito legale e del diritto. Un punto di vista…diverso. Per (in)competenza non toccherò il tema del linguaggio nei provvedimenti giudiziari, se non in un sintetico passaggio sul linguaggio e per segnalare l’esplorazione di linguaggi innovativi che, al riparo da semplificazioni o strumentalizzazioni, possono aiutare nella comprensibilità del diritto. E non mi occuperò del rapporto procure-media, che è un epifenomeno e non esaurisce affatto, a mio avviso, il tema complesso e strategico della Comunicazione della Giustizia in una società democratica e digitale. Ed, in ogni caso, richiama aspetti normativi e deontologici che esulano da questo contributo specifico.
3. Il Processo di Comunicazione
Basta consultare il vocabolario Treccani https://www.treccani.it/vocabolario/comunicazione/ per perdersi tra le diverse accezioni – generiche e specifiche- nel verbo Comunicare. Alcune di esse però colgono nel segno del significato che qui vorrei sottolineare, a partire dalla etimologia lat. communicare, der. di communis «comune»: 1.Rendere comune, far conoscere, far sapere; per lo più di cose non materiali; 2. Quindi anche divulgare, rendere noto ai più; 3. In meccanica, di energia o moto trasmessi da un corpo all’altro; 4. Essere in relazione verbale o scritta con qualcuno per lettera, per e-mail, per sms, per cenni, per segni convenzionali; entrare in comunicazione con altri, istituendo un rapporto di comprensione e partecipazione. La comunicazione, dunque, è un “processo” volto a “rendere comune” qualcosa in un rapporto di comprensione e partecipazione. Per garantire che la comunicazione sia efficace, occorre focalizzare quel “mettere in comune”, in una relazione di comprensione e partecipazione. Ma con chi? Per comunicare ci si serve per lo più di lingua e parole (ma non solo): cioè di codici condivisi che osservano regole precise. Se la comunicazione è partecipazione, non esiste un processo di comunicazione “unico”; ma tanti processi di comunicazione quanti sono i contesti, gli interlocutori, i messaggi, il contenuto e l’obiettivo a cui si ambisce. Si comunica secondo “registri diversi”, in relazione al contesto in cui ci si trova. Nella comunicazione che ambisce ad essere efficace occorre seguire un metodo; ma sarebbe errato pretendere di avere un processo di comunicazione valido per sempre e in ogni contesto.
Questa “relatività” è ben nota ai comunicatori che, nei piani strategici, sono abituati a distinguere in:
a) obiettivi;
b) interlocutori (target);
c) canali;
d) linguaggi;
consapevoli, peraltro, che la comunicazione “si misura all’arrivo”. Per misurare, occorre introdurre un altro elemento spesso trascurato nel processo di comunicazione: il feedback, che è dato dall’ascolto. Venendo al nostro tema, è importante fare una premessa: è necessario distinguere ancora tra la comunicazione “nel processo”, tra le parti e tra le parti e il giudice; e la comunicazione della Giustizia al pubblico, secondo i diversi canali: media, web, social, relazioni istituzionali. Altrimenti si rischia il caos.
4. Gli obiettivi di Comunicazione della e nella Giustizia
Perché occorre Comunicare la Giustizia? Qui non mi riferisco al “perché” filosofico-costituzionale-sociologico-etico, ma più banalmente alla ragione sottostante la singola attività di comunicazione nella Giustizia: un provvedimento, una sentenza, una circolare, una informazione sul web, un post social. Qual è la ragione ultima di ciascun “atto” di comunicazione nella Giustizia? Aver ben chiaro l’obiettivo che si vuole raggiungere rispetto al proprio interlocutore, per i comunicatori è come un faro nella nebbia dell’autoreferenzialità. Proseguendo nella lettura, il concetto sarà più chiaro.
5. I protagonisti della Giustizia
Ma chi sono i protagonisti della Giustizia? Il comunicatore sa bene che il protagonista - nel processo di comunicazione - non è il promotore ma è il recettore. E’ la qualità del recettore che costringe il promotore ha fare scelte comunicative diverse. Da qui la liceità di registri e canali diversi, senza che questo comprometta di per sé il valore del messaggio e del contenuto. Un principio giuridico è una cosa; le modalità di accesso al servizio giustizia sono altra. Un conto è il ricorso alla Corte Costituzionale; altro è spiegare all’opinione pubblica le ragioni di quel ricorso. Se si sposa il punto di vista dell’interlocutore, sarà più facile collocarsi nel registro giusto. Non citerò ulteriormente Italo Calvino o Umberto Eco o anche Einstein, a sostegno della tesi che semplicità non è sinonimo di semplificazione. I protagonisti della Giustizia, dunque, non sono (solo) gli operatori della Giustizia. Ma tutti i cittadini “nel nome dei quali” la Giustizia è amministrata. Collegando l’obiettivo della singola comunicazione all’interlocutore destinatario, sarà più facile accedere al registro giusto.
6. I Canali di Comunicazione
Conosciamo tutti, i canali tradizionali, istituzionali, formali e informali, attraverso i quali fino ad oggi si è consumata la comunicazione della Giustizia. Sono efficaci ai fini di un avvicinamento dei cittadini alla Giustizia in un processo democratico di coinvolgimento collettivo sui valori? La risposta è scontata, anche se ovviamente stiamo generalizzando. A voler trascurare obiettivi a volte inconfessabili, molto spesso è banale incompetenza comunicativa a rendere la Comunicazione efficace della Giustizia, come sistema di valori condivisi, una utopia. Interventi precedenti si sono soffermati sul canale web degli uffici giudiziari, come best practice per avvicinare i cittadini alla Giustizia. Senz’altro vero, a patto di applicare il metodo e di fare della user experience, del design e del content elementi strategici di trasparenza, chiarezza e semplicità. I comunicatori non escludono per principio nessun tipo di canale (nel digitale poi ce ne sono tantissimi), a condizione che se ne rispetti il linguaggio e si abbia ben presente il messaggio, il perché, e il pubblico a cui è destinato. Lo stesso Cepej non esclude influencer e social, per dire!
7. Il Linguaggio della Giustizia
La giustizia e il diritto sono domini che i linguisti chiamano tecnici. La marca che contrassegna i termini di uno specifico settore è TS (termini tecnico-specialistici). E’ senz’altro vero, dunque, che nel processo in Tribunale (e nei vari gradi giudizio), il registro della comunicazione sarà doverosamente tecnico. Ma potrà essere non pedantemente tecnico. In alcune recenti interviste che ho realizzato ad eminenti linguisti, i professori Michele Cortelazzo e Federigo Bambi, proprio al fine di chiarire in quale rapporto reciproco sono i principi di chiarezza, specificità e sinteticità, è emerso come il linguaggio “tecnico- giuridico”, sia sotto il profilo linguistico che in quello sintattico, può (e dovrebbe) scrostarsi da pedanterie, latinismi, brocardi, costruzioni sintattiche oscure, mera reminiscenza di una realtà sociale - e dunque giuridica - oggi inesistente. La lingua, per fortuna, è qualcosa di vivo che evolve con l’evolvere dei tempi. Mantenere registri linguistici falsamente aulici negli atti processuali e nei provvedimenti giudiziari trasmette, nel migliore dei casi, anacronismo. Nel peggiore, compromette la difesa dei diritti delle persone e impedisce la reale comprensione della logica, ancorché giuridica, del provvedimento. Se usciamo dall’aula del tribunale, meno “doverosamente” tecnica e anzi auspicabilmente colloquiale, dovrà essere la comunicazione volta all’opinione pubblica, per spiegare sulla base di quali dati normativi e giuridici, di quali prove inconfutabili e di quali argomentazioni, è stata assunta una determinata decisione. La “spettacolarizzazione” delle conferenze stampa potrebbe essere calmierata solo applicando questa regola di…buon senso. Ma altra ancora dovrà essere la comunicazione (linguaggio e canali) utilizzata per la comunicazione del servizio Giustizia.
8. Legal design: una prospettiva inclusiva
In tema di linguaggio, pur non potendo soffermarmi approfonditamente, voglio evocare il tema del legal design (vedi note), un movimento innovativo che applica il metodo del design thinking e coinvolge nella comunicazione della prescrittività giuridica l’utilizzo di icone, immagini e grafici. Anche in questo caso, il pericolo da sventare è la superficialità e l’approssimazione. Eppure intravedo grandi potenzialità comunicative in questo nuovo linguaggio, soprattutto sotto il profilo dell’accessibilità al servizio Giustizia.
9. Comunicare l’innovazione nella Giustizia
Il riferimento al legal design mi permette un rapido cenno al tema della innovazione in ambito giuridico e alla sua comunicazione. Anche qui il CEPEJ (vedi in nota) ha segnato una strada molto interessante che vale la pena di focalizzare. I processi e i progetti di innovazione, soprattutto quando incidono su realtà complesse e stratificate, rischiamo di essere vissuti come corpi estranei calati dal centro o dall’alto. Progetti di comunicazione dedicati specificatamente ai progetti di innovazione, hanno una carica inclusiva che vale la pena di liberare, sia all’interno degli uffici che nella collettività destinataria finale dei progetti. Invece questo aspetto è trascuratissimo, a iniziare dal Ministero della Giustizia. A voler tacer d’altro, mi limito a evidenziare che nella Giustizia si profila un nuovo campo “comunicativo”: quello della “explainable AI”. E’ vero che qui siamo nel campo della programmazione…ma spero si sia compresa la necessità di scrutare il nuovo per arrivare preparati. Sarò facile profeta (osservatrice realistica) nell’ evidenziare come l’incalzare delle tecnologie e, soprattutto, l’estendersi dei linguaggi di programmazione ad ogni area delle attività umana (vedi gli smart contracts), sottoporranno il diritto ad una nuova “rivoluzione grafica”. Con esiti oggi imperscrutabili.
10. Le professionalità
Mi accingo a concludere evidenziando che, soprattutto nella infosfera, la comunicazione istituzionale anche nella Giustizia richiede professionalità dedicate, competenti, possibilmente specializzate nel settore del diritto. Questo tema evoca, da una parte, quello della organizzazione degli uffici giudiziari; e dall’altra quello delle risorse scarse. In una analisi S.W.O.T questi elementi sono “i punti di debolezza”. Il punto è che non leggiamo mai dei “punti di forza”. O meglio…non si fa una analisi S.W.O.T. La testata che spero pubblicherà queste riflessioni si chiama Giustizia Insieme: è nel rendere vivo e pulsante quell’avverbio che risiede oggi la sfida della Giustizia, a partire dalla risposta alla domanda: “insieme a chi?”.
Grazie per l’ospitalità.
11. Post Scriptum
Tra la redazione di questo articolo e la sua pubblicazione su Giustizia Insieme, ho potuto leggere un nuovo documento adottato dal Cepej - "FOR A BETTER INTEGRATION OF THE USER IN THE JUDICIAL SYSTEMS”: Guidelines and comparative studies on the centrality of the user in legal proceedings in civil matters and on the simplification and clarification of language with users”, nel quale è ribadita la rilevanza strategica del linguaggio e della comunicazione efficace per la qualità della Giustizia, con conseguenti Linee guida molto utili.
* giornalista - esperta di comunicazione legale- divulgatrice di innovazione legale.
- Ricorsi chiari, amicizia lunga https://www.altalex.com/documents/news/2021/06/28/ricorsi-chiari-amicizia-lunga
- HackTheDoc, i vincitori del primo hackathon italiano di Legal design https://www.altalex.com/documents/news/2020/12/15/hackthedoc-chi-sono-i-vincitori
- Modello start up per i progetti di innovazione nei Tribunali https://www.altalex.com/documents/news/2020/11/23/modello-start-up-per-progetti-giustizia-predittiva-tribunali
- Legal design: la rule of law è rock https://www.altalex.com/documents/news/2020/10/26/legal-design-rule-of-law-rock
- Giustizia digitale 5 tools con check list per guidare i progetti. Le parole d'ordine del Cepej https://www.altalex.com/documents/news/2019/07/15/giustizia-digitale-5-tools-check-list-progetti
- Guida pratica alla Comunicazione della Giustizia, social e influencer compresi https://www.altalex.com/documents/news/2019/05/20/comunicazione-della-giustizia
- Legal design, cos’è e come può essere utilizzato dai giuristi https://www.altalex.com/documents/news/2018/04/09/legal-design-avvocati
La rubrica della Rivista sul tema Giustizia e comunicazione, proseguendo nel percorso annunciato nell’editoriale del 18 maggio 2021, dopo aver ascoltato la voce della magistratura di legittimità e di merito nei contributi di Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli, ospitato il punto di vista della comunicazione professionale di Rosaria Capacchione e Giovanni Bianconi, discusso del valore della parola quale strumento chiave dell’emancipazione dell’individuo e della società nel contributo di Francesco Messina ed affrontato il tema del linguaggio dell’Accademia con Marina Castellaneta, torna oggi a riflettere sui temi della comprensibilità e conoscibilità della giurisdizione con Marcello Basilico.
Giustizia e comunicazione. 8) La giurisdizione è esercizio di democrazia solo se sia conosciuta e comprensibile
Perché gli uffici possono e debbono comunicare ai cittadini l’attività giudiziaria
di Marcello Basilico
Le linee guida del 2018 del CSM per una corretta comunicazione istituzionale sono rimaste quasi lettera morta negli uffici giudiziari. Eppure da sempre tutti gli operatori del settore avvertono l’esigenza di un’informazione più attenta e corretta sui contenuti della giurisdizione. Soltanto facendo partire dall’interno degli uffici iniziative istituzionali mirate in tal senso si può ottenere una comunicazione efficace, equilibrata, capace di raggiungere una vasta collettività e pertanto davvero improntata ai valori della democrazia.
Sommario: 1. Una giustizia trasparente e comprensibile. - 2. L’urgenza di comunicare. - 3. I rischi della comunicazione improvvisata. – 4. Un’informazione pubblica efficace, istituzionale, democratica – 5. Il caso genovese.
1. Una giustizia trasparente e comprensibile.
A compimento di un’attività di studio affidata a una commissione mista di giuristi ed esperti della comunicazione, l’11.7.2018 il Consiglio Superiore della Magistratura ha approvato una delibera a suo modo rivoluzionaria, con la quale per la prima volta viene affidato ai singoli uffici giudiziari il compito di comunicare all’esterno il proprio operato e vengono loro illustrati gli strumenti per farlo in modo tendenzialmente uniforme.
L’iniziativa consiliare non è stata estemporanea, ma ha fatto seguito ad una nutrita serie di sollecitazioni a livello europeo sull’importanza della comunicazione delle istituzioni pubbliche per valorizzarne il carattere democratico[1].
Nel settore giudiziario l’indipendenza della magistratura è al contempo fattore di stimolo e di cautela in quella direzione. Da un lato, la comunicazione serve a fare comprendere il contenuto delle decisioni e, dunque, a rendere condivise nella società regole e valori sulla cui base esse vengono adottate. La comprensione accresce la fiducia dei cittadini verso l’ordine giudiziario, rafforzandone al contempo l’impermeabilità alle interferenze esterne, che possono avvenire in modo manifesto, occulto o subdolo.
Sotto quest’ultimo profilo, la comunicazione diretta della notizia da parte dell’istituzione previene la diffusione di notizie incomplete o imprecise su indagini o processi. Si riducono di conseguenza i margini di strumentalizzazione degli atti giudiziari da parte di chi voglia fornirne letture mistificatorie.
D’altro canto, però, l’indipendenza della magistratura richiede particolare cautela nelle relazioni coi media, per evitare rapporti pericolosi tra i soggetti in campo o forme di comunicazione che danneggino l’indagine, il processo o i protagonisti della vicenda giudiziaria. Ai magistrati è richiesto di dare prova di moderazione in tali relazioni[2].
Di fatto l’accessibilità delle informazioni sull’andamento dell’attività giudiziaria rappresenta ormai uno dei parametri di valutazione nell’Unione Europea dell’efficienza, della qualità e dell’indipendenza dell’attività giudiziaria[3]. La capacità di comunicazione è considerata ormai una componente fondamentale della professionalità del magistrato, soprattutto quando la sua funzione lo ponga in costante contatto col cittadino e, a maggiore ragione, quando si verifichino relazioni con fasce di popolazione più fragile.
Per l’ufficio giudiziario essa si pone evidentemente ad un livello più alto e ancora più complesso.
Le linee guida emanate dal CSM[4] valorizzano a questo riguardo due elementi: la trasparenza e la comprensibilità dell’azione giudiziaria. Vanno – e non a caso il Consiglio sente di doverlo precisare in premessa – controcorrente rispetto a un sentire intimo e diffuso della magistratura, legato all’idea della riservatezza della funzione, se non, talvolta, alla sacralità del rito decisorio.
Trasparenza e, soprattutto, comprensibilità sono in effetti predicati primari della decisione, tema sul quale la formazione della Scuola Superiore della Magistratura e del Consiglio stesso sono da tempo all’opera. Ma nelle linee guida del 2018 si coglie il tentativo di un cambio di passo rispetto ad un livello comunicativo fermo agli Uffici per il rapporto col pubblico, alle divulgazioni di eventi o notizie sui siti internet di alcuni uffici giudiziari, alle buone prassi relazionali adottate da pochi dirigenti illuminati.
L’idea del Consiglio è quella di armonizzare prassi e procedure, impostando delle forme di comunicazione comuni e, come tali, riconoscibili all’esterno, dotate dunque di credibilità e autorevolezza, oltre che di facile accessibilità da parte degli interlocutori interessati.
E’ un’idea che tuttavia ad oggi non ha attecchito. A quasi tre anni di distanza – sarà per la forma della linea-guida, percepita dai dirigenti come priva di cogenza, o per quella propensione ad una prudente ritrosia di cui si diceva – soltanto il tribunale di Genova ha attuato pienamente la delibera, dotandosi di un responsabile della comunicazione e costituendo uno stabile canale di accesso alle notizie per gli organi d’informazione e per i cittadini.
2. L’urgenza di comunicare.
L’inerzia degli uffici giudiziari stona coi cori che accompagnano quasi ogni giorno contro l’inadeguatezza della rappresentazione che viene data mediaticamente delle vicende giudiziarie o gli scivoloni comunicativi di cui sono protagonisti, non di rado, magistrati alle prese con telecamere, microfoni, taccuini e social network.
Se è vero che la fiducia dei cittadini viene costruita attraverso un’informazione leale e trasparente, non è pensabile che quanti abbiano a cuore la credibilità della giurisdizione rimuovano sistematicamente il tema di una relazione con l’esterno che avvenga per via istituzionale su iniziativa dei magistrati, cioè di chi conosce e pratica la giurisdizione ed avrebbe dunque tutto l’interesse a spiegarne i meccanismi.
Quanto più rare siano le esperienze dirette delle persone con una specifica area tematica, tanto maggiore sarà la loro dipendenza dalle notizie offerte dai media per ottenere informazioni e interpretazioni su quell’area[5]. Nel 2015 l’11% della popolazione della popolazione residente in Italia di almeno diciotto anni d’età aveva dichiarato di essere stato coinvolto in un contenzioso civile nella propria vita (dichiarandosi insoddisfatto nel 52% dei casi)[6].
Si tratta di una percentuale minoritaria rispetto al numero di cittadini che ha relazioni abituali con gli altri servizi pubblici essenziali; la considerazione è rafforzata dal fatto che il dato include anche le situazioni di contatto occasionale avuto da una persona non direttamente interessata dalla causa, come il testimone o il consulente, e che, per chi è parte d’un giudizio, il suo rapporto con la giustizia trova spesso mediazione nella presenza d’un legale, che è colui che partecipa davvero all’attività giurisdizionale.
La rappresentazione del mondo giudiziario è dunque delegato ai media, nella formazione del convincimento collettivo, molto più di quanto avvenga per altre sfere della società moderna. Il classico assunto di Lhumann (“ciò che sappiamo della nostra società, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass media?”)[7] è dunque per la giurisdizione più attuale che mai. Con tre aggravanti: l’accettazione più o meno passiva della capacità selettiva dei temi giudiziari da parte del sistema mediatico; la goffaggine con la quale il magistrato si muove, per propria cultura, in questo circuito; l’estensione e l’intrusività dei mezzi moderni di circolazione delle notizie, che complicano le possibili relazioni impostate nei confronti dei media tradizionali.
La selezione delle informazioni avviene secondo procedimenti riconoscibili, che formano degli stereotipi dai quali si crea la realtà soggettiva conosciuta dai cittadini per eventi e argomenti estranei alla loro sfera di diretta percezione. Il medium
1. mette in luce alcuni fatti
2. vi attribuisce un significato simbolico
3. crea un legame fatto/simboli secondari
4. associa il tema a un portavoce (spesso un eminente esponente politico o un opinion leader già noto per il proprio pensiero sul tema).
Si crea così un’interazione costante e complessa tra il medium e la fonte, dotata del potere di selezionare il fatto e il medium comunicatore, come spesso accade per i blog di alcuni personaggi politici.
Esemplificando rispetto al procedimento anzidetto, si può ipotizzare una vicenda tratta da una vicenda giudiziaria trattata nel 2019 dalla stampa e dai social network con una certa risonanza:
1. un fatto: la condanna di un uomo, con riconoscimento delle attenuanti generiche, per omicidio volontario commesso nei confronti d’una donna;
2. la valenza simbolica: le donne vittime di violenza indifese dallo Stato;
3. ricorso a simboli secondari: il giudice è donna; la vittima aveva più volte chiesto aiuto allo Stato; lo Stato non tutela i cittadini (e le cittadine, in particolare) perché i giudici non applicano pene adeguatamente severe;
4. ricerca del portavoce: la fonte di potere garantisce dichiarazioni dirette e notizie (ad es. sullo stato di proposte di legge avviate in materia oppure su dettagli relativi alla figura del giudice in questione).
I temi dell’agenda comunicativa vengono così composti e ricomposti mediante la creazione di legami tra prospettive (attribuiti) e frame (sottotemi). In questo modo è possibile ipotizzare quale valutazione darà del fatto il fruitore dell’informazione, che eserciterà un’influenza non più solo cognitiva, ma anche persuasiva[8].
Questo meccanismo diviene incontrollato quando del fatto s’impadronisce il circuito della comunicazione digitale, nel quale non è riconoscibile neppure il soggetto comunicatore, oltre che la fonte.
Nascono così gli stereotipi che ruotano intorno al mondo della giustizia, indipendentemente dal loro completo fondamento: i processi sono lenti; le decisioni dell’autorità giudiziaria sono antieconomiche per il mercato e i soggetti economicamente rilevanti che vi operano; l’applicazione delle leggi da parte dei giudici indebolisce la difesa sociale; esiste perciò un’emergenza-criminalità; esiste un’emergenza-immigrazione collegata all’emergenza-criminalità; le indagini penali alimentano lo scontro tra politica e magistratura per volontà dei pubblici ministeri.
Soltanto inserendosi nella catena dell’agenda comunicativa è possibile interferire con la formazione di tali stereotipi, spiegando la complessità delle vicende trattate nell’attività giudiziaria, le regole che la governano e la logica dei suoi effetti.
3. I rischi della comunicazione improvvisata.
E’ scontata dunque la necessità che il rapporto, talvolta perverso, tra fonte e soggetto comunicatore venga interrotto dall’intervento dell’artefice della vicenda. Nel caso esemplificato in precedenza, l’artefice è l’autorità giudiziaria che ha trattato il fatto con i suoi contenuti simbolici più o meno evidenti.
Subentrano a questo punto, però, le cautele imposte dalla peculiarità istituzionale e culturale del ruolo del magistrato: istituzionale, perché egli deve essere e apparire indipendente, il che implica anche equanimità rispetto al fatto; culturale, perché il magistrato, abituato al rapporto rigido con la regola normativa da applicare e col riserbo da osservare, non è dotato abitualmente degli strumenti per muoversi sullo stretto crinale dell’informazione lecita e utile. Il magistrato non è attrezzato professionalmente per fare comunicazione pubblica né per cogliere la notizia che si annida in un processo e che è appetita dai media più d’ogni altro aspetto giuridico o investigativo.
Le dichiarazioni dei pubblici ministeri che credono nel metodo della conferenza stampa offrono una rappresentazione plastica delle diversità degli approcci alla stampa, diversità che spesso mal si addicono ad un taglio istituzionale della comunicazione. Basti considerare come spesso le affermazioni più improvvide vengano dalle interviste rilasciate a margine della conferenza stampa, quando l’incalzare delle domande incrina il programma delle dichiarazioni che era stato preparato a tavolino.
In generale le critiche sollevate dai commenti più o meno debordanti di pubblici ministeri e giudici alle proprie indagini o ai propri processi, con precisazioni o rettifiche talvolta conseguenti, denotano l’impreparazione comunicativa della magistratura. Mancando canoni relazionali prestabiliti, identificabili e riconosciuti all’esterno, l’informazione viene diffusa dai magistrati – che pure ne avvertono la necessità – con modalità spesso estemporanee, senza il paracadute di un filtro istituzionale.
Si ottiene così il risultato opposto agli obiettivi di trasparenza e comprensibilità che dovrebbero costruire la fiducia dei cittadini verso l’azione giudiziaria. L’informazione occasionale o improvvisata si espone – non meno del silenzio improvvido di fronte a un evento di grande rilievo pubblico – alla divulgazione strumentale, soprattutto da parte dei commentatori che cercano conferme nelle proprie tesi precostituite o degli organi, spesso eterodiretti, che amano imbastire tormentoni sulla giustizia per ragioni, nel migliore dei casi, miseramente commerciali.
4. Un’informazione pubblica efficace, istituzionale, democratica.
Nelle linee guida il CSM ambisce ad instaurare “un circuito virtuoso che consenta di avere migliore consapevolezza di come il servizio giustizia è percepito dall’esterno”, nell’evidente intento di concorrere a migliorare tale percezione. Sono auspicate allo scopo riunioni interne agli uffici giudiziari per preparare i momenti di comunicazione e valutarne gli effetti.
Si chiede che la comunicazione da parte loro – siano essi giudicanti o requirenti – sia obiettiva: anche la presentazione del contenuto di un’accusa deve essere “imparziale, equilibrata e misurata non meno di una decisione giurisdizionale”.
Occorre inoltre evitare, ammonisce il CSM, la discriminazione tra giornalisti e testate, la costruzione o il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione, la personalizzazione delle informazioni, l’espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi.
Il catalogo dei doveri degli uffici nei confronti degli individui e all’interno del processo è un’interessante elencazione a contrario dei vizi dell’informazione giudiziaria: dal rispetto della vita privata e familiare delle persone coinvolte, alla tutela della loro sicurezza e della loro dignità, prevenendo il rischio di vessazione da parte dei media; dalla chiarezza nella distinzione dei ruoli processuali alla centralità del giudicato; dai diritti delle vittime e dell’imputato (per quest’ultimo compreso quello di non apprendere dalla stampa quanto dovrebbe essergli comunicato preventivamente per via formale) sino al dovere del p.m. di rispettare le decisioni giudiziarie.
La vera portata innovativa dell’iniziativa consiliare sta peraltro nell’invito a essere comunicatori attivi. La delibera infatti non si limita a delineare le iniziative reattive, per correggere o smentire le informazioni errate, ma incoraggia “lo sviluppo di un approccio proattivo e garantistico” rispetto a singoli casi così come al funzionamento dell’intero sistema giustizia.
Le comunicazioni reattive si pongono nello stesso ordine concettuale delle pratiche a tutela del CSM, le quali “hanno come presupposto l’esistenza di comportamenti lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria”[9]. L’intervento dell’ufficio giudiziario rappresenta una reazione anticipata e, dunque, più diretta ed efficace di quella consiliare. Se vogliamo la comunicazione reattiva ha un orizzonte ancora più vasto, rivolto anche alla tutela esterna delle persone, spettando all’istituzione anche il compito di evitare che il cittadino subisca dall’attività giudiziaria un danno superiore e diverso da quello che essa già provoca inevitabilmente.
Ma è nell’iniziativa proattiva che si coglie un approccio inedito e sofisticato della comunicazione suggerita agli uffici giudiziari: la notizia di carattere giudiziario d’interesse pubblico sta non solo nel procedimento penale clamoroso per la qualità o il numero degli imputati (o delle vittime) o per le modalità del delitto, ma anche nella causa civile che veda in gioco interessi collettivi rilevanti e persino nel provvedimento organizzativo dell’ufficio che coinvolga la collettività.
Il retropensiero di questo invito dunque è che, se vi sono controversie “di obiettivo rilievo sociale, politico, economico, tecnico-scientifico” di cui è bene dare pubblicità, perché d’interesse pubblico “effettivo”, non sta necessariamente nel processo penale il serbatoio prevalente delle informazioni rilevanti custodite dall’ufficio giudiziario.
Una comunicazione attiva costante – se improntata a criteri di “chiarezza, sinteticità e tempestività” – è destinata creare una circolazione di notizie su temi diversi dalle questioni criminali, ad offrire un quadro più ampio, non circoscritto alla repressione penale, dell’azione giurisdizionale. In un’ultima analisi essa serve anche a stemperare le relazioni spesso complicate con gli organi di stampa e a fornire un’immagine meno severa del servizio giustizia, dando uno spaccato della giurisprudenza che vada oltre i casi conflittuali che generalmente si associano alle indagini e ai processi penali.
Il presupposto ineludibile per l’efficacia di questa attività è che le notizie fornite dall’ufficio siano chiare per chi debba divulgarle al pubblico, conservando al contempo sia quello specifico interesse che qualifica giornalisticamente un evento come “notizia” sia il necessario rigore tecnico-giuridico.
E’, questa, una delle operazioni più complesse per il giurista, abituato com’è a scrivere atti non destinati, nell’ottica che lo contraddistingue tendenzialmente, a una collettività indistinta. Non avendosi lo spazio per approfondire la questione, pur appassionante e fondamentale, sui destinatari delle decisioni dei giudici, conviene almeno ricordare che, “la comunicazione che funziona meglio è quella che tiene conto dell’interlocutore più debole, non di quello più capace”[10].
Approdiamo così all’obiettivo ultimo, il più alto: comunicare con continuità e chiarezza l’attività giudiziaria è, in effetti, un esercizio di democrazia. I magistrati agiscono in un contesto in cui, magari stancamente ma immancabilmente, si usa (e talvolta si abusa di) un linguaggio per iniziati (gli avvocati; altri magistrati; i consulenti)[11]. L’adattamento di quel linguaggio alle esigenze di una diretta informazione pubblica esterna è l’occasione per raggiungere la platea più ampia possibile di cittadini, a nome dei quali la giustizia è amministrata.
Sarebbe pure l’occasione, viene da aggiungere, per ripulire progressivamente quello stesso lessico anche a vantaggio nostro.
5. Il caso genovese.
Questa realtà è stata colta appieno dalla Corte costituzionale. Mutuando in parte i modelli delle Corti sovranazionali[12], la Consulta si è dotata di un ufficio stampa e ha sfornato comunicazioni sulle proprie principali decisioni e sulle iniziative ulteriori, accelerandole opportunamente nel periodo di pandemia, diffondendole anche in lingua inglese e inserendosi nei principali social network[13].
Con la sue linee guida il CSM ha per parte sua coniato la figura del responsabile della comunicazione. Negli uffici requirenti esso dovrebbe coincidere in linea di principio col procuratore della Repubblica, il quale può comunque delegare l’incarico a uno o più magistrati “scelti in relazione alle loro attitudini ed alla loro esperienza comunicativa”. Per gli uffici giudicanti il CSM prevede la delega come ipotesi normale, ammettendo che negli uffici di maggiore dimensione i responsabili possano essere due giudici, distinti per settore, civile e penale.
A oggi l’unica esperienza attuativa delle linee guida è, per quanto si sa, quella del tribunale di Genova. A distanza di quasi tre anni dall’emanazione delle linee guida, essa ha perso ormai lo status di laboratorio sperimentale, per assumere quello di vera e propria isola sperduta nell’oceano.
Nel tribunale genovese, dopo la pubblicità della nomina seguita all’indizione d’una selezione interna e i contatti preliminari coi diversi presidenti di sezione, il responsabile per la comunicazione è diventato il collettore delle informazioni relative ai procedimenti, alle decisioni, agli eventi e alle attività organizzative che possono assumere un interesse pubblico. Una volta che è stata identificata anche dagli organi di informazioni attraverso la pubblicità delle prime comunicazioni, questa figura è divenuta anche per loro il punto di riferimento per acquisire nuove notizie.
Il procedimento penale per il crollo del Ponte Morandi – in particolare le fasi preparatorie ed il successivo svolgimento dell’incidente probatorio sulle cause dell’evento – è stato il più evidente e naturale scenario d’impegno, poiché ha comportato contatti con organi mediatici molteplici, persino stranieri e talvolta spinti dall’interesse a conoscere i meccanismi del nostro processo e la valenza probatoria dell’incidente.
In tutti gli interventi comunicativi legati a tale vicenda processuale v’è un obiettivo comune: spiegare al pubblico come i tempi dell’incidente probatorio e, in generale, di ogni decisione in un giudizio tanto complesso non siano dovuti a inefficienze del sistema giudiziario, ma all’esigenza di pervenire ad un accertamento della verità più completo possibile, nell’interesse delle vittime e di tutta la collettività.
Prima e dopo di questo il responsabile della comunicazione del tribunale di Genova si è misurato con eventi disparati: dall’inaugurazione dei primi uffici di prossimità sul territorio del circondario alle scelte della curatela in un importante e delicato fallimento; dalle convenzioni con enti esterni al tribunale alle soluzioni organizzative d’interesse per la cittadinanza.
In questo quadro, una tipica azione reattiva è rappresentata dalle rettifiche indirizzate a una singola testata (ai sensi dell’art. 8 della legge sulla stampa 8 febbraio 1948, n. 47) o a una pluralità indistinta di mezzi d’informazione, soprattutto per correggere notizie distorte e dannose per il prestigio di giudici del tribunale.
Sul piano proattivo, ha suscitato discussioni, confluite anche in un utile dibattito pubblico organizzato insieme col locale Consiglio dell’ordine degli avvocati, la conferenza stampa organizzata per illustrare i contenuti del dispositivo d’una sentenza collegiale in materia di peculato e altri reati contestati in relazione all’utilizzo per scopi personali di fondi pubblici destinati ai gruppi dei consigli regionali.
In questo caso, poche ore dopo la lettura del dispositivo, il presidente e il responsabile della comunicazione del tribunale hanno dato alla stampa, fornendo anche un testo scritto, un resoconto sulla durata del processo, sulle posizioni di accusa e difesa e sui punti di maggiore rilievo pubblico della decisione. Si è badato ad evitare il rischio d’interferire con le possibili motivazioni della sentenza, per evidenziare invece, con un linguaggio accessibile al pubblico, i meccanismi giuridici che hanno condotto all’irrogazione di pene personali e reali.
L’opportunità dell’intervento esplicativo era stata segnalata dai giudici stessi del collegio in relazione all’articolazione particolarmente complessa del dispositivo, all’esistenza di questioni di difficile comprensione, come la successione nel tempo della legge regionale di riferimento, agli effetti sulle posizioni dei singoli imputati delle diverse interpretazioni, anche con riferimento alla cosiddetta “legge Severino”, al possibile clamore che la decisione avrebbe potuto suscitare per la presenza, tra gl’imputati stessi, d’un sottosegretario di recente nomina.
Bisogna dare atto a tutti gli organi d’informazione di avere recepito l’iniziativa con spirito profondo di collaborazione e convinta adesione. Le notizie pubblicate su media locali e nazionali, pur dando risalto alle condanne e ai loro effetti sulle posizioni dei personaggi politici imputati, hanno recepito i profili tecnici della decisione, riportando talvolta ampi stralci della comunicazione scritta diffusa dal tribunale e dandone delle spiegazioni in termini comprensibili per la pubblica opinione.
Ogni iniziativa siffatta è avvenuta sempre su segnalazione del giudice titolare del procedimento o del suo presidente di sezione, concertata con entrambi e col presidente del tribunale; il responsabile della comunicazione ha assunto il ruolo di medium tra l’ufficio giudiziario e gli organi d’informazione, filtrando la notizia attraverso il lessico e l’attività (comunicato; conferenza stampa; messaggio di posta elettronica; intervista) che il gruppo di lavoro costituito per l’occasione aveva ritenuto più efficace.
L’organizzazione del tribunale in tempo di pandemia costituisce oggi il tema di confronto più pressante con la pubblica opinione locale. I disagi creati prima dalla sospensione dei processi, poi dalla necessità di individuare spazi più idonei di quelli tradizionali per celebrare udienze in sicurezza, infine dalla chiusura di aule per inagibilità con la conseguente ridislocazione di processi e udienze hanno creato la necessità di fornire un’informazione costante ad avvocati, parti, cittadini.
Vi si è fatto fronte prevalentemente aggiornando il sito internet istituzionale. Talvolta si è reso necessario chiedere l’intervento della stampa. Alcuni giornalisti non hanno mancato di chiedere interviste al presidente e la raccolta d’immagini sullo stato dell’organizzazione dei locali nei siti impiegati dal tribunale per ospitare le udienze.
L’esperienza dimostra dunque che si può creare in un tribunale un circuito consolidato di segnalazione, raccolta e diffusione di notizie nonché di risposta alle notizie scorrette già altrimenti diffuse. E’ quindi possibile passare dall’invocazione stanca e reiterata per un’informazione giudiziaria migliore alla costruzione di un sistema comunicativo che rende l’opinione pubblica consapevole dei contenuti della giurisdizione.
[1] Si legge, ad esempio al punto 11 della Dichiarazione di Bordeaux), adottata il 18 novembre 2009 dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCJE) e dal Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei (CCPE) su richiesta del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa: “E’ altresì interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario. Le autorità competenti dovranno fornire tali informazioni, rispettando in particolare la presunzione di innocenza degli accusati, il diritto ad un giusto processo ed il diritto alla vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo. I giudici ed i magistrati del pubblico ministero debbono redigere, per ciascuna professione, un codice di buone prassi o delle linee-guida in ordine ai loro rapporti con i mezzi di comunicazione”.
[2] E’ questo il monito che si legge nella Raccomandazione Rec(2012) del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri, sul tema dell’indipendenza, dell’efficacia e della responsabilità dei giudici, adottata il 17 novembre 2010 e che incoraggia la creazione di posizioni di portavoce nei servizi giudiziari.
[3] Cfr. EU Justice scoreboard 2020, pubblicato il 10 luglio 2020, pag. 23, in www.ec.europea.eu/info/policies/justice-and-findamental-rights.
[4] La delibera dell’11 luglio 2018 è in www.csm.it/web/csm-internet, circolari e risoluzioni, VII commissione.
[5] L’osservazione, divenuta materia di rielaborazione per più recenti tesi nelle scienze di comunicazione moderna, è di Harold Gene Zucker, The variable nature of mass media influence, in B.D. Ruben (a cura di), Communication Yearbook 2, 1978, New Brunswick, USA, p. 227.
[6] Rapporto ISTAT su cittadini e giustizia civile, in www.istat.it/it/archivio/190586. “”
[7] Niklas Lhumann, La realtà dei mass media, Milano, 2000.
[8] Sulla costruzione dell’agenda comunicativa cfr. Sara Bentivegna e Giovanni Boccia Artieri, Le teorie della comunicazione di massa e la sfida digitale, 2019, Bari, pag. 176.
[9] Decreto del Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura del 15 luglio 2009, in G.U. 20 luglio 2009, seie generale, n. 166.
[10] Vera Gheno, Potere alle parole, 2019, Torino, pag. 153.
[11] Tullio De Mauro, in L’educazione linguistica democratica, Bari, 1975, pag. 76, parla di “una educazione espressiva posseduta dalla classe dominante come patrimonio abituale”, all’interno del quale essa “apre e chiude facilmente” l’accesso, aumentando o riducendo così il tasso di permissività per immettere o meno nuovi soggetti nel proprio ambito.
[12] Nel sito della Corte di giustizia dell’Unione Europea - in www.curia.europa.eu/jcms/jcms/Jo2_7053/it - si legge: “L’Unità Stampa e Informazione fornisce l’informazione disponibile sull’attività giurisprudenziale della Corte di giustizia e del Tribunale. I due organi giurisdizionali si esprimono esclusivamente tramite le loro decisioni. L’Unità Stampa e Informazione non è quindi il loro portavoce. L’Unità diffonde, in una o più lingue, comunicati stampa che consentono di conoscere velocemente i punti essenziali delle sentenze e delle conclusioni. Possono essere oggetto di informazione per la stampa anche alcuni eventi, come le udienze solenni o le visite protocollari”.
[13] Cfr. Marta Cartabia, Relazione dell’attività della Corte costituzionale nel 2019, 28 aprile 2020, in www.cortecostituzionale.it/documenti.
La Corte Costituzionale ritorna sul tema della “materia penale”: verso uno statuto della disciplina delle sanzioni formalmente amministrative ma sostanzialmente penali?
di Andrea Venegoni
Sommario: 1. Introduzione – 2. La questione – 3. Tre considerazioni – 4. Un’ulteriore riflessione – 5. Sviluppi futuri.
1. Introduzione
Se si volesse dare una sorta di marchio distintivo alla sentenza n. 68 del 2021 della Corte Costituzionale, per identificarla immediatamente, forse questo dovrebbe risiedere nel concetto, tra i tanti che la decisione affronta, per cui con essa la Corte sembra espandere in maniera più incisiva che in passato le garanzie proprie delle sanzioni formalmente penali alla “materia penale”, cioè a quell’area non qualificata formalmente come tale, ma che del diritto penale, in particolare delle sanzioni, possiede alcune caratteristiche, sulla base dei notissimi criteri elaborati dalla Corte EDU a partire dalla sentenza Engel del 1976[1].
In questo caso, il passo compiuto in questo percorso riguarda l’applicabilità dell’art. 30 della legge 87 del 1958 che prevede, in campo penale, la prevalenza sul giudicato degli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale della norma sulla base della quale è stata irrogata la pena divenuta definitiva.
Ciò appare tanto più notevole perché non molto tempo fa la stessa Corte, in un’altra ben nota decisione su questione analoga, seppure non formalmente identica, la n. 43 del 2017, sembrava essere giunta a conclusioni opposte.
È del tutto legittimo, quindi, provare a ragionare su cosa è avvenuto nel frattempo e quale sia il rilievo della presente decisione.
2. La questione
La stessa ha l’antefatto in un’altra sentenza della Corte Costituzionale, la n. 88 del 2019[2], che ha riguardato l’art. 222, comma 2, quarto periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada). Tale norma contiene disposizioni generali sulle sanzioni amministrative da violazioni del codice della strada e, fino alla suddetta decisione, prevedeva, in linea generale, l’applicazione della sanzione amministrativa della sospensione o della revoca della patente, a seconda del tipo di conseguenza derivante dalla violazione. In caso di lesioni personali, la sospensione della patente per un periodo variabile a seconda dell’entità delle stesse. Per i reati di cui agli art. 589-bis c.p. (omicidio stradale) e 590-bis c.p. (lesioni personali stradali gravi o gravissime), in caso di condanna o anche di applicazione della pena su richiesta, era prevista, invece, la revoca della patente, senza possibilità per il giudice di esercitare alcuna discrezionalità nella scelta tra quest’ultima più grave sanzione e quella più mite della sospensione. Ciò comportava una serie di ulteriori importanti conseguenze per il condannato, oltre all’applicazione della sanzione stessa, indicate nel comma 3-bis della stessa norma, quali l’impossibilità di ottenere una nuova patente prima che fosse decorso un determinato lasso di tempo, variabile a seconda delle caratteristiche del reato (in particolare, se fosse aggravato o meno).
Poiché, tuttavia, anche il reato di omicidio stradale di cui all’art. 589-bis c.p. e di lesioni personali stradali di cui all’art 590-bis c.p. si caratterizzano per una diversa gravità a seconda della modalità concreta della condotta (esistendo una figura “base”, non aggravata, e fattispecie aggravate come quelle di avere commesso il fatto in stato di ebbrezza, o l’essersi dati alla fuga dopo il fatto), la Corte Costituzionale, con la suddetta sentenza n. 88 del 2019, è intervenuta per stabilire la illegittimità del precitato art. 222 nella parte in cui non prevede che, nelle ipotesi non aggravate dei reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis del codice penale, il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa.
In altri termini, pur nella consapevolezza della dannosità dei reati di omicidio stradale e lesioni personali gravi e gravissime, la Corte ha voluto significare che il giudice deve avere la possibilità di graduare la sanzione amministrativa a seconda della gravità del reato, applicando, nelle ipotesi non aggravate, invece della revoca automatica della patente, la più lieve sanzione della sospensione del titolo di guida.
Per inciso, e deviando – ma poi fino ad un certo punto - solo per un momento dal tema della “materia penale”, la n. 88 del 2019 costituisce una sentenza che, in generale, si inserisce in un orientamento che la Corte sta manifestando da tempo, tendente a valorizzare il grado di colpevolezza dell’imputato ed il principio di proporzionalità nell’irrogazione di sanzioni ulteriori rispetto a quella principale, e quindi sia amministrative che pene accessorie, rimodellando quelle disposizioni normative che prevedono l’applicazione automatica di pene in misura fissa e predeterminata. Ne è ulteriore esempio recente, tra le altre, la sentenza n. 222 del 2018 in materia di reati fallimentari[3].
Successivamente alla sentenza n. 88 del 2019, il giudice remittente si trova a dover decidere una istanza, come giudice dell’esecuzione, formulata da un condannato definitivo per omicidio stradale non aggravato; un imputato, quindi, al quale, alla luce della sopravvenuta decisione n. 88 del 2019, potrebbe essere applicata anche solo la sospensione della patente per un periodo limitato di tempo e non la revoca della stessa. L’istanza è, infatti, proprio in questi termini, per la sostituzione della disposta revoca della patente con la sospensione.
Il problema è la base legale per l’accoglimento, di cui, evidentemente, il giudice remittente ritiene sussistenti i presupposti, perché è vero che l’art. 30 della legge n. 87 del 1953, che disciplina il funzionamento della Corte Costituzionale, afferma, al quarto comma, con disposizione che si differenzia da quella generale del terzo comma, che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”, ma tale disposizione si riferisce in senso stretto alle sanzioni penali, e non a quelle amministrative.
Mentre, cioè, se la sanzione in questione fosse stata anche formalmente “penale”, la pena applicata si sarebbe potuta classificare, in seguito alla sopravvenuta pronuncia di incostituzionalità, come “pena illegale”, con necessità per lo Stato di riesaminare la situazione del condannato, ciò non sarebbe potuto avvenire in caso di sanzione formalmente “amministrativa”, non essendo ciò contemplato dal suddetto art. 30.
Da qui il dubbio sulla legittimità costituzionale di tale norma, allorché le statuizioni travolte dalla sopravvenuta incostituzionalità riguardino sanzioni che, sebbene formalmente amministrative, siano però qualificabili come “sostanzialmente penali” alla luce dell’elaborazione dalla Corte EDU sulla base dei noti “criteri Engel”.
Torna al centro dell’attenzione, in altri termini, il concetto di “materia penale” che tanto ha attirato l’attenzione dei giuristi in questi ultimi anni, come si può convenire sol che si pensi, per esempio, allo sviluppo del concetto del “ne bis in idem”.
La violazione è denunciata sotto vari profili, tra i quali, va detto, la Corte accoglie quello relativo alla violazione dell’art. 3 Cost., considerato poi assorbente di tutti gli altri, ma con una serie di argomentazioni che affondano le loro radici nell’applicazione dei principi convenzionali.
3. Tre considerazioni
Sulla questione, sono interessanti, in primo luogo, tre considerazioni, che testimoniano la complessità del tema e come ci si muova nell’interpretazione di queste norme su un terreno che definire scivoloso è un eufemismo, dove la diverse esegesi trovavano tutte valide giustificazioni, mettendo però, forse, a rischio un altro principio fondamentale, quello della certezza del diritto.
Le prime due riguardano sempre la materia delle violazioni al codice della strada.
La prima è che, investita – sempre a seguito della sentenza n. 88 del 2019 - della medesima questione che si era posta davanti al giudice remittente che ha determinato la pronuncia della Corte Costituzionale qui in commento, la Corte di Cassazione, a fine 2019, in almeno due casi, non aveva ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 30 legge 87 del 1953, affermando che “la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 222, comma 2, cod. strada, intervenuta con la sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2019, non comporta che, in caso di revoca della patente di guida disposta con sentenza di condanna passata in giudicato per alcuno dei delitti previsti dagli art. 589-bis e 590-bis cod. pen., il giudice dell'esecuzione possa applicare, in luogo della stessa, la più mite disciplina derivante dalla citata pronuncia della Corte costituzionale, atteso che detta revoca ha natura di sanzione amministrativa accessoria e, come tale, esula dall'ambito di operatività dell'art. 30, comma 4, della legge 11 marzo 1953, n. 87, che circoscrive soltanto alle pene la retroattività degli effetti favorevoli delle sentenze di illegittimità costituzionale oltre il limite dei rapporti esauriti”[4], il tutto sul presupposto dell’applicazione dei principi sì convenzionali, ma non necessariamente di tutti quelli costituzionali interni alle sanzioni amministrative rientranti nel concetto di “materia penale” elaborato dalla Corte EDU, proprio sulla scia della sentenza della Corte Costituzionale n. 43 del 2017.
La seconda richiede un’ulteriore premessa.
Anche l’art. 186 del codice della strada, che punisce la guida in stato di ebbrezza, prevede la revoca della patente.
Ciò avviene al comma 2-bis della norma, come sanzione al fatto che il guidatore in stato di ebbrezza abbia provocato un incidente stradale con un tasso alcolemico particolarmente elevato, per quanto la stessa norma faccia “salva in ogni caso l’applicazione dell’art. 222”.
Orbene, proposta, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 88 del 2019, questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2-bis, cod. strada, in relazione all'art. 3 Cost., e cioè proprio per una disparità di trattamento rispetto all’applicazione della stessa sanzione ai sensi dell’art. 222 cdS, la Corte di Cassazione ha dichiarato manifestamente infondata la questione affermando che “sussiste piena autonomia tra tale previsione e quella di cui all'art. 222 cod. strada, e non avendo, la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale di tale ultima disposizione, ad opera della sentenza n. 88 del 2019 della Corte costituzionale, inciso sulla coerenza sistematica delle disposizioni in materia di revoca e sospensione della patente attualmente vigenti”[5].
Infine, ulteriore motivo di interesse della pronuncia n. 68 del 2021 è dato dal fatto che, invece, non molto tempo fa, l’analoga questione dell’incidenza di una pronuncia di illegittimità costituzionale sulle sanzioni amministrative irrogate con sentenza definitiva (anche se la fattispecie riguardava sanzioni diverse, per violazioni della normativa sulla tutela del lavoro) era già stata sollevata da altro giudice remittente e la Corte Costituzionale aveva dato, con la sentenza n. 43 del 2017, una risposta diversa da quella fornita oggi con la decisione in commento.
In quella occasione, la Corte aveva dichiarato non fondata la questione in virtù della asserita inesistenza, nella giurisprudenza della Corte EDU, del principio secondo cui la sopravvenuta illegittimità costituzionale di una norma sanzionatoria comporterebbe il venire meno della legalità della sanzione irrogata in base ad essa, con prevalenza sul giudicato.
Quella sentenza non si soffermava specificamente sulla qualificazione come “sostanzialmente penali” delle sanzioni amministrative in materia di lavoro che venivano in rilievo nella specie, e che il giudice remittente considerava tali.
La sentenza in commento, invece, giunge a diversa conclusione anche in virtù della natura della sanzione che viene in rilievo nel caso di specie, e cioè la revoca della patente che, come detto, non riguardava invece la vicenda della sentenza n. 43 del 2017.
Ciò che caratterizza la decisione e la differenzia non solo dalla sentenza n. 43 del 2017, ma anche dalla sopra citata giurisprudenza nazionale di legittimità, è la espressa qualificazione della sanzione in questione come “sostanzialmente penale” perché caratterizzata da “connotazioni sostanzialmente punitive”, come affermato in più occasioni nella giurisprudenza della Corte EDU ed il progressivo processo di assimilazione delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali a quelle penali, manifestatosi, dopo la sentenza n. 43 del 2017, in una serie di pronunce della Corte Costituzionale citate in sentenza, tra cui la decisione n. 63 del 2019[6].
La sentenza n. 43 del 2017 esprime un concetto molto chiaro: il principio di legalità penale convenzionale, di cui all’art. 7 della CEDU, si estrinseca in requisiti quali quello di accessibilità e prevedibilità che devono connotare il diritto penale, ma non in quello per cui non sarebbero più applicabili sanzioni basate su norme dichiarate successivamente illegittime, previsto, invece, dall’ordinamento interno. Non estende, quindi, una garanzia penalistica interna delle sanzioni formalmente penali alle sanzioni che, pur “sostanzialmente penali” sono, però, formalmente amministrative. Con la sentenza n. 43 del 2017, quindi, il percorso di ampliamento delle garanzie alla “materia penale” avanza, ma fino ad un certo punto; la sanzione amministrativa non perde del tutto la sua connotazione formale e quindi, anche laddove le siano applicabili garanzie convenzionali, questo non significa una equiparazione assoluta alle sanzioni formalmente penali del sistema interno.
Secondo la sentenza in commento, invece, anche alla materia penale si applica il principio di legalità della pena delle sanzioni formalmente penali nella declinazione per cui, finché la pena è in corso di esecuzione sulla base della sentenza definitiva, lo Stato non può tollerare che, qualora siano intervenuti fatti nuovi che ne determinano, in tutto o in parte, la contrarietà all’ordinamento, la stessa continui ad essere applicata. Il riferimento, in questo caso, è anche alla giurisprudenza di legittimità, ed in particolare alla sentenza delle SSUU della Corte di Cassazione n. 42858 del 2014 riguardante le sanzioni dei reati in materia di sostanze stupefacenti.
Ciò che è interessante, però, è che, nella sentenza n. 68 del 2021, tale principio, tipico delle sanzioni penali, è appunto applicato anche alle sanzioni formalmente amministrative ma che, per le loro caratteristiche, devono, appunto, intendersi come sostanzialmente penali.
4. Un’ulteriore riflessione
Come è stato messo in luce[7], infatti, negli anni il rapporto tra Corte Costituzionale e Corte EDU in merito alla considerazione della “materia penale” non è stato sempre semplice e caratterizzato da univocità.
L’ordinamento nazionale, in particolare, è sempre stato contraddistinto da un maggiore formalismo nella qualificazione delle sanzioni rispetto al sistema convenzionale, e, per sua tradizione e cultura giuridica, da un maggior legame con lo statuto normativo, cosicché l’attribuzione della qualifica di “penale” “costituisce il portato di una scelta di politica legislativa assolutamente discrezionale ed insindacabile dalla Corte costituzionale, se non nei limiti (stretti) della ragionevolezza”.
Tuttavia, se c’è un settore in cui, per utilizzare i concetti della sentenza n. 43 del 2017, la coesistenza tra regime “costituzionale” delle garanzie e regime “convenzionale” è venuta progressivamente a svilupparsi, questo è probabilmente proprio quello delle sanzioni amministrative, un campo in cui i parametri dei due sistemi tendono fortemente a coincidere[8].
Questo, si può ritenere, anche per evitare conseguenze paradossali, che traspaiono nella stessa motivazione della sentenza in commento, tali per cui la sottoposizione a sanzioni formalmente amministrative, in linea di principio meno gravi, può finire per rivelarsi più afflittiva e meno garantita dell’applicazione di sanzioni penali.
Peraltro, è stato anche affermato in dottrina[9] che gli approdi della giurisprudenza costituzionale sul rapporto tra l’ordinamento convenzionale e quello interno sul tema della “materia penale” possono riassumersi nei seguenti punti:
- il riconoscimento della natura punitiva di un istituto non penale gli associa garanzie tipiche degli istituti penali ma non ne snatura l’essenza e non priva il legislatore del monopolio che la Costituzione gli attribuisce in materia penale.
Si può ricordare, al riguardo, che sempre nel 2017, con una sentenza di poco successiva alla n. 43, la Corte Costituzionale affermava che non era l’art. 25, comma 2, Cost. Il parametro in base al quale sollevare questioni di legittimità costituzionale sulla irretroattività della norma più favorevole in materia di sanzioni amministrative[10].
- in presenza di un istituto sostanzialmente ma non formalmente penale, i presidi garantistici propri dell’ordinamento interno e della CEDU non si fondono e non possono essere assimilati ma sono invece destinati a coesistere all’insegna della massimizzazione delle tutele.
- il legislatore può decidere di riservare talune garanzie ai soli istituti formalmente penali senza che l’esercizio di questo potere discrezionale sia costituzionalmente censurabile.
La questione, allora, è se la sentenza in commento rappresenti una svolta o meno nella configurazione delle garanzie nel diritto interno allorché viene in rilievo il concetto convenzionale di “materia penale”.
Ci si può chiedere, in particolare, se la sentenza n. 68 del 2021 rappresenti una sorta di svolta nel percorso di scrittura dello statuto delle sanzioni amministrative previste da norma nazionali, ma rientranti nel concetto di “materia penale” convenzionale.
A questa domanda si può rispondere compiutamente se si considera ciò che è avvenuto nello spazio temporale compreso tra la sentenza n. 43 del 2017 e la sentenza oggi in commento.
Per quanto, infatti, si tratti di un arco di tempo relativamente breve, nel corso dello stesso la Corte ha adottato una decisione con cui è sembrata già manifestare un certo cambio di passo sul tema della materia penale.
Si tratta della sentenza n. 63 del 2019 (non per nulla specificamente richiamata dalla sentenza in commento), in cui, previo riconoscimento della natura “punitiva” delle sanzioni amministrative, che in quel caso consistevano nelle sanzioni previste per l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, è stata affermata l’illegittimità costituzionale della norma (art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015) che non prevedeva l’applicazione retroattiva della lex mitior sopravvenuta.
La sentenza ha, quindi, attribuito alle sanzioni amministrative “sostanzialmente penali” una caratteristica propria delle sanzioni formalmente penali.
Anche in tal caso esisteva un precedente che, probabilmente, ha, per così dire preparato la strada, seppure in maniera non così esplicita ma nelle pieghe della decisione, laddove nella sentenza n. 193 del 2016 la Consulta, pur statuendo, in merito alle sanzioni amministrative in generale che “non si rinviene nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative”, aveva, nello stesso tempo, lasciato intendere che tale valutazione poteva essere riconsiderata proprio per le sanzioni amministrative di natura sostanzialmente penale, la cui natura doveva essere stabilita sulla base di un criterio casistico da condurre in concreto.
La sentenza n. 63 del 2019 la Corte Costituzionale ha, così, proceduto direttamente alla qualificazione della relativa sanzione amministrativa pecuniaria che veniva in rilievo nel caso di specie (si trattava, come ricordato, di una sanzione del TUF), affermando che essa non poteva essere considerata come una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, né semplicemente mirante alla prevenzione di nuovi illeciti.
Ne veniva riconosciuta, piuttosto, l’elevatissima carica afflittiva, anche in virtù dell’elevato importo “che è comunque sempre destinato, nelle intenzioni del legislatore, a eccedere il valore del profitto in concreto conseguito dall’autore, a sua volta oggetto, di separata confisca. Una simile carica afflittiva si spiega soltanto in chiave di punizione dell’autore dell’illecito in questione, in funzione di una finalità di deterrenza, o prevenzione generale negativa, che è certamente comune anche alle pene in senso stretto”
Ancora, nella vicenda della sentenza n. 63 del 2019, non si può negare che avesse avuto rilievo sulla qualificazione della sanzione anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE che, dovendo trattare del tema del ne bis in idem in relazione a tale sanzione, ne aveva ravvisato la finalità repressiva[11].
Alla luce della sentenza n. 63 del 2019, si può allora provare ad affermare che la sentenza in commento aggiunge un tassello nella costruzione delle garanzie penalistiche alle sanzioni amministrative rientranti nel concetto di “materia penale”, permettendo di ravvisare un percorso intrapreso in questo senso dalla Corte Costituzionale: dopo l’affermazione dell’applicazione retroattiva della lex mitior sopravvenuta, ora si rende applicabile alla materia penale anche il principio per cui l’intervenuta pronuncia di incostituzionalità della norma sulla cui base è stata applicata la sanzione determina la necessità di rivalutare la pena, anche se già definitiva. Si tratta di un percorso, quindi, di maggiore tutela dei diritti in cui è essenziale il ruolo degli ordinamenti sovranazionali. Non solo, infatti, viene in rilievo il sistema convenzionale, ma occorre ricordare anche l’affermazione, contenuta nella sentenza n. 63 del 2019, sulla riconducibilità del principio della retroattività della normativa sopravvenuta più favorevole anche all’art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea[12].
Si tratta, quindi, di un percorso, verrebbe da dire, esemplare nella dimostrazione di come l’interazione tra i vari sistemi non è affatto fonte di confusione o di diminuzione delle garanzie, ma, al contrario, si pone come baluardo ed ulteriore rafforzamento delle stesse.
Ad essere pignoli, peraltro, forse due commenti possono ancora compiersi in relazione a in tale processo.
Il primo è che, anche in questo caso, l’illegittimità costituzionale della norma denunciata non è dichiarata in relazione all’art. 25, comma 2, Cost., ma in relazione all’art. 3 Cost.
Può sembrare una questione formale, ed è anche vero che la retroattività della legge penale più favorevole sopravvenuta non è considerato principio di natura costituzionale, anche se è certamente una declinazione del principio di legalità, ma può anche rappresentare, in realtà, la volontà di non contraddire palesemente quell’orientamento tradizionale prevalente della Corte per cui il riconoscimento dei “criteri Engel” per la qualificazione di una sanzione non determina di per sé l’applicazione delle garanzie costituzionali penalistiche – che restano applicabili solo alle sanzioni formalmente penali - bensì “solo” di quelle convenzionali. Come detto, sebbene nella materia delle sanzioni amministrative molti principi costituzionali e convenzionali tendano a combaciare, i piani sono stati però tenuti tradizionalmente distinti, seppure qualche apertura in merito all’applicazione diretta dell’art. 25 Cost. si sia registrata in passato[13]
La seconda considerazione è che il limite del processo cui appartengono la sentenza n. 63 del 2019 e la sentenza in commento – limite, peraltro, proprio di tutta l’estensione delle garanzie della “materia penale” alle sanzioni formalmente amministrative, come anche la vicenda del “ne bis in idem” dimostra –, forse consiste nel fatto che questo non può che avanzare per analisi casistica, e quindi specificamente legata alla situazione concreta. Non è possibile, in altri termini, classificare a priori determinate sanzioni amministrative come “sostanzialmente penali” con conseguente applicazione delle garanzie, e ciò non aiuta nella realizzazione del principio di certezza del diritto, che dovrebbe, invece, essere un aspetto essenziale di un sistema sanzionatorio.
5. Sviluppi futuri
Anche quanto ai possibili futuri scenari ci si possono porre alcune domande.
In primo luogo, ci si può chiedere se, alla luce della presente sentenza che qualifica come “sostanzialmente penali” le sanzioni come quella in questione, dovrà essere rivista o meno l’affermazione della Corte di Cassazione[14] secondo cui “Nei casi di applicazione, da parte del giudice, della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, prevista dall'art. 222 cod. strada, la determinazione della durata di tale sospensione deve essere effettuata non in base ai criteri di cui all'art. 133 cod. proc. pen., ma in base ai diversi parametri di cui all'art. 218, comma 2, cod. strada, sicché le motivazioni relative alla misura della sanzione penale e di quella amministrativa restano tra di loro autonome e non possono essere raffrontate ai fini di un'eventuale incoerenza o contraddittorietà intrinseca del provvedimento”.
Si può provare, in questa sede, ad azzardare una conclusione, secondo cui, probabilmente, lo statuto delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali, di cui la sentenza in commento rappresenta un tassello, riguarderà nel sistema nazionale solo l’estensione di garanzie proprie del diritto penale (convenzionali o costituzionali), ma non necessariamente la determinazione della sanzione stessa, i cui criteri sono oltretutto specificamente regolati dalla legge 689 del 1981.
La qualificazione come “sostanzialmente penale” di una sanzione amministrativa non dovrebbe, quindi, far sì che la norma di riferimento per individuarne la misura diventi automaticamente l’art. 133 c.p.
Ma domande significative potrebbero sorgere anche in relazione ad almeno due grandi ulteriori temi.
Il primo è se il percorso che la Corte sembra avere intrapreso porterà ad altre pronunce relative ad altre garanzie penalistiche in campo sostanziale.
In tal senso, restano aperte questioni, per esempio, sul principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost.
Altro grande tema è quello dell’applicazione delle garanzie penalistiche in materia processuale, e non solo sostanziale.
In materia, cioè, di giusto processo. In questo senso, è già stata scritta una pagina molto importante nell’ambito di quello che può veramente definirsi un virtuosissimo “dialogo tra Corti” in tema di “nemo tenetur se detegere”[15].
Altre, però, potrebbero esserne scritte, per esempio in tema di contraddittorio, di pubblicità dell’udienza, di imparzialità del giudice, e su alcune di esse la Corte di Strasburgo ha già iniziato a pronunciarsi[16].
Insomma, il campo dell’estensione delle garanzie nella “materia penale” sembra in pieno sviluppo, e, probabilmente, non si sbaglia nell’affermare che già in un prossimo futuro altre interessanti pagine verranno scritte in questo percorso.
[1] Corte EDU, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976; sull’evoluzione del concetto di “materia penale” nella giurisprudenza della Corte EDU, anche attraverso le successive sentenze Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1986 e Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, si veda, tra gli altri, GIGLIO, La “materia penale” e il suo statuto nella giurisprudenza interna e sovranazionale , In Dir. pen. e uomo, sett. 2019
[2] Corte Cost., n. 88 del 17 aprile 2019, in www.cortecostituzionale.it
[3] Corte Cost., n. 222 del 5 dicembre 2018, in cui la Corte, tra l’altro, afferma: “La durata fissa delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare non appare, in linea di principio, compatibile con i principi costituzionali in materia di pena, e segnatamente con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio.”
[4] (Cass., sez. 1 pen., n. 1634/20 del 13/12/2019, Rv. 277911-01; Cass., sez. 1 pen., n. 1804/20 del 14/11/2019, Rv. 278182-01)
[5] Cass., sez. 4, n. 7950 dell’ 11/02/2021 Ud. (dep. 01/03/2021 ) Rv. 280951 - 01
[6] Su cui si veda, tra gli altri, SCOLETTA, Retroattività favorevole e sanzioni amministrative puntive: la svolta, finalmente, della Corte Costituzionale, in Dir. Pen. Cont., 2 aprile 2019
[7] Si veda, tra gli altri, MANCINI, La “materia penale” negli orientamenti della Corte EDU e della Corte costituzionale, con particolare riguardo alle misure limitative dell'elettorato passivo, in federalismi.it, n. 1/2018
[8] Si veda, al riguardo, Corte Cost. n. 196 del 2010 in materia di applicazione retroattiva della confisca
[9] GIGLIO, cit.
[10] Corte Cost., n. 109 del 2017, su cui si veda, tra gli altri, il commento di PELLIZZONE, Garanzie costituzionali e convenzionali della materia penale: osmosi o autonomia? , in DPC, Riv. Trim., n. 4/2017
[11] CGUE, sentenza 20 marzo 2018, Di Puma e altri, in cause C-596/16 e C-596/16, paragrafo 38
[12] BINDI e PISANESCHI, La retroattività in mitius delle sanzioni amministrative sostanzialmente afflittive tra Corte EDU, Corte di Giustizia e Corte costituzionale , in Federalismi.it, 27.11.2019
[13] MASERA, La nozione costituzionale di materia penale, Torino, 2018
[14] Cass., sez. IV, n. 4740 del 18/11/2020 R. 280393
[15] In cui tappe fondamentali in cui si è sviluppato il percorso sono state: Cass., sez. II civ., n. 3831 del 2018; Corte Cost n. 117 del 2019; CGUE, Grande Sezione, sent. 2 febbraio 2021, in C-489/19, D.B. c. CONSOB
[16] Si veda, per esempio, Corte EDU, Sez. I, 10 dicembre 2020, Edizioni Del Roma società cooperativa a.r.l. e Edizioni Del Roma s.r.l. c. Italia , e commento di MAZZACUVA, Poteri sanzionatori delle Authorities e principi del giusto processo: punti fermi e prospettive nella giurisprudenza di Strasburgo, in Sist. Pen., 29.4.2021
La partecipazione alle associazioni terroristiche: le macro-aree dell’eversione interna, i reati-fine e le fattispecie monosoggettive.
Riflessioni in memoria di Guido Galli
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. Le finalità di terrorismo dell’ordine democratico interno e le macro-aree eversive: monosoggettività e plurisoggettività dei reati-fine – 2. La partecipazione alle associazioni terroristiche di matrice brigatista: i reati-fine e le fattispecie monosoggettive – 2.1. L’inquadramento sistematico della finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico interno – 2.2. L’applicazione dell’aggravante di terrorismo di cui all’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625 – 3. La partecipazione alle associazioni terroristiche dell’estrema destra stragista: i reati-fine e le condotte monosoggettive – 4. La partecipazione alle associazioni terroristiche di matrice ambientalista: i reati-fine e le fattispecie monosoggettive – 4.1. L’accertamento processuale del contesto nel quale l’attentato di matrice ambientalista si verifica e delle finalità concretamente perseguite.
1. Le finalità di terrorismo dell’ordine democratico interno e le macro-aree eversive: monosoggettività e plurisoggettività dei reati-fine
Il materiale giurisprudenziale su cui mi soffermerò nella presentazione di questa sessione l’ho scelto seguendo un criterio basato sull’inquadramento generale dei fenomeni terroristici ed eversivi, ricostruito attraverso alcune sentenze di legittimità, che ho selezionato per la loro esemplarità rispetto alle tematiche che intendo introdurre, relative alla natura monosoggettiva o plurisoggettiva dei reati commessi per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico[1].
Ho ritenuto, pertanto, opportuno seguire, dopo un’accurata ricerca del materiale giurisprudenziale funzionale al percorso ricostruttivo che volevo compiere e al gruppo di lavoro nel quale intervengo, una soluzione espositiva di natura tendenzialmente casistica, incentrata sul percorso pluriennale compiuto dalla giurisprudenza di legittimità sulle tematiche oggetto della mia presentazione, che riguardano le connotazioni monosoggettive e plurisoggettive dei reati di terrorismo “interno”[2].
Questa soluzione seminariale, se ha reso più laboriosa l’attività preparatoria della presentazione, a causa della stratificazione del materiale giurisprudenziale, mi ha consentito di recuperare alcune importanti pronunzie di legittimità, che, pur essendo state massimate, sono state, a fronte della loro esemplarità, trascurate nel dibattito sui temi che esporrò.
Vorrei, quindi, parlare, mediante sintetici richiami, di alcune pronunzie di legittimità particolarmente sintomatiche – sia per il loro contenuto giurisdizionale, sia per la risonanza mediatica dei fatti di reato giudicati, sia per la chiarezza delle argomentazioni esposte in tali provvedimenti decisori – rispetto ai fenomeni terroristico-eversivi relativi al “terrorismo brigatista”, al “terrorismo di estrema destra” e al “terrorismo ambientalista”.
Mi sembra anche doveroso segnalare che, nei miei precedenti interventi seminariali su analoghe tematiche, mi sono soffermato anche sul “terrorismo secessionista”[3] – che rientra nel più ampio genus del “terrorismo separatista” europeo –, del quale, però, non mi occuperò nell’ambito di questa presentazione, ferma restando la possibilità di brevi richiami giurisprudenziali, funzionali alla chiarificazione delle tematiche affrontate, essendo tale fenomeno criminale sostanzialmente recessivo rispetto alle altre macro-aree terroristiche.
Di questi, complessi, fenomeni terroristici, dunque, ritengo di dovere parlare attraverso il richiamo dei passaggi salienti del percorso argomentativo seguito nei vari provvedimenti decisori citati, cercando, nei limiti del consentito, di effettuare una ricostruzione quanto più possibile fedele di ciascuna pronuncia e degli obiettivi didattici perseguiti in questo gruppo di lavoro.
2. La partecipazione alle associazioni terroristiche di matrice brigatista: i reati-fine e le fattispecie monosoggettive
Nella nostra panoramica, occorre muovere dalle pronunzie che riguardano i fenomeni terroristici riconducibili all’estrema sinistra di matrice brigatista, ai quali ci si riferirà allo scopo di evidenziare quali fattispecie monosoggettive vengono in rilievo in tale ambito consortile.
Occorre premettere che queste organizzazioni terroristiche, generalmente, dispongono di una struttura operativa fortemente gerarchizzata, con una ripartizione di ruoli direttivi ed esecutivi, che, sul piano associativo, assume rilievo ai sensi degli artt. 270, 270-bis e 306 c.p.
In questa cornice sistematica, allo scopo di comprendere la rilevanza delle fattispecie monosogettive rispetto alle organizzazioni terroristiche di matrice brigatista, alcune considerazioni metodologiche si impongono.
Si consideri che queste organizzazioni di ispirazione marxista-leninista, generalmente, fanno circolare le proprie ideologie rivoluzionarie attraverso la stampa periodica clandestina, diffondendola mediante distribuzione cartacea e pubblicando interventi che assumono connotazioni apologetiche, rilevanti ex artt. 414 e 415 c.p.[4]
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche risultano fondate su un programma “rivoluzionario”, che prevede l’uso sistematico della violenza, anche con l’impiego di armi micidiali, che devono essere reperite dagli esponenti della struttura associativa che si sta considerando. Le attività di reperimento di armi, munizioni ed esplosivi, a loro volta, danno origine a una pluralità di reati-fine, caratterizzati da finalità terroristiche e connotati in senso monosoggettivo, tendenzialmente riconducibili alla disciplina generale in materia di armi.
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche, secondo quanto affermato in diverse sentenze di legittimità, sono governate da un nucleo ristretto di soggetti, non sempre conosciuti dalla base della consorteria, che impongono l’enucleazione dei processi decisionali attraverso cui si elaborano le strategie associative ex artt. 270, 270-bis e 306 c.p.
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche dispongono di una cassa comune, gestita da affiliati della struttura associativa, che rispondono, sotto il profilo organizzativo, ai componenti di vertice del sodalizio, che avallano le condotte illecite relative a tale segmento criminale, rilevanti ex art. 648-bis c.p.
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche, generalmente, dispongono di una sede centrale e di alcune sedi periferiche, che vengono coordinate tra loro dai vertici del gruppo, presso le quali, molto spesso, vengono rinvenuti gli arsenali militari a disposizione del sodalizio.
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche dispongono di un cospicuo materiale ideologico, che, generalmente, viene sequestrato nel corso delle indagini preliminari, durante le attività di perquisizione effettuate presso le basi logistiche delle consorterie, tra cui quello apologetico già richiamato, rilevante ai sensi degli artt. 414 e 415 c.p.
Si consideri, infine, che queste organizzazioni terroristiche, oltre alle attività delittuose finalizzate a consentire il sostentamento degli affiliati e l’elaborazione delle strategie eversive, generalmente, pianificano alcuni attentati particolarmente eclatanti, commessi in danno di esponenti di spicco della società civile o del mondo delle professioni – come, limitandoci a richiamare i più recenti episodi, nel caso degli omicidi dei docenti universitari Ezio Tarantelli, Roberto Ruffilli, Massima D’Antona e Marco Biagi[5] –, per i quali, laddove tali attentati non si concretizzano, si pongono delicati problemi di accertamento del superamento della soglia di punibilità delle condotte illecite, in linea con la questione della repressione degli atti pretipici nel tentativo[6].
2.1. L’inquadramento sistematico della finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico interno
Nella cornice richiamata nel paragrafo precedente, il punto di riferimento normativo indispensabile per inquadrare le finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico interno, che caratterizzano sia le fattispecie monosoggettive sia le fattispecie plurisoggettive, è rappresentato dalla disposizione dell’art. 270-sexies c.p., intitolato «Condotte con finalità di terrorismo», a tenore del quale: «Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia».
Si tratta di una disposizione, che, nella sua formulazione normativa, come evidenziato dalla Suprema Corte, ha recepito le indicazioni della Convenzione di New York[7], che consentono di ritenere «connotate da finalità di terrorismo quelle condotte: 1) che “per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno a un Paese o a una Organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici, o un’Organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto”; 2) che possono “destabilizzare, o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’Organizzazione internazionale; 3) che siano “definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”»[8].
Ne discende che, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità consolidata – attraverso un parallelismo sistematico tra l’art. 270 c.p., intitolato «Associazioni sovversive», l’art. 270-bis c.p. intitolato «Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico», l’art. 270-sexies c.p., intitolato «Condotte con finalità di terrorismo» e l’art. 306 c.p., intitolato «Banda armata: formazione e partecipazione» – la condotta illecita di natura «terroristica ha rilevanza penale in sé; tuttavia, quando è tenuta allo scopo di raggiungere gli obiettivi […], fa “corpo unico” con tale finalità. Ma tale opera di destabilizzazione/distruzione, ovviamente, altro non è che la sovversione o eversione violenta di cui all’art. 270 c.p. […]», atteso che la disposizione «descrive la condotta come diretta ad attentare agli ordinamenti economici o sociali del nostro Stato, ovvero a sopprimere il suo ordinamento politico e giuridico»[9].
In questa cornice ermeneutica, l’obiettivo terroristico o eversivo dell’ordine democratico anche «se qualificato come “finalità” (artt. 270-bis e 280) o come “scopo” (art. 289-bis) nel codice penale, non costituisce, in genere, un obiettivo in sé, ma, ovviamente, funge da strumento di pressione, da metodo di lotta, da modus operandi particolarmente efferato: si diffonde il panico, colpendo anche persone e beni non direttamente identificabili con l’avversario o riferibili allo stesso, per imporre a quest’ultimo una soluzione che, in condizioni normali, non avrebbe accettato»[10].
Pertanto, le fattispecie, monosoggettive e plurisoggettive, connotate da finalità terroristiche o di eversione dell’ordine democratico interno, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, si caratterizzano per la loro natura giuridica di delitti di pericolo presunto, per cui, ponendosi delicati problemi di superamento della soglia di punibilità indispensabile alla configurazione del reato, si richiede la concretezza del proposito eversivo perseguito con atti di terrorismo, in vista dei quali la consorteria criminale è stata costituita e i reati-fine vengono commessi, in esecuzione del programma associativo[11].
Ne deriva ulteriormente che è necessario accertare, con riferimento a ciascun reato-fine, connotato monosoggettivamente, se la condotta illecita è stata commessa con l’intenzione e la possibilità di utilizzare metodologie terroristiche, rilevanti ai sensi dell’art. 270-sexies c.p., strumentali al perseguimento del programma di eversione dell’ordine costituzionale presupposto. Occorre, pertanto, accertare se, nei programmi e negli effettivi progetti dell’agente, rientra il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, anche attraverso la commissione del singolo reato-fine, allo scopo di esercitare forme di coartazione nei confronti dei poteri pubblici e di distruggere – o quantomeno di destabilizzare – gli assetti istituzionali nel nostro Paese[12].
Diventa, allora, indispensabile comprendere, con riferimento ai singoli reati-fine, commessi in relazione alla sfera di operatività di un’organizzazione terroristica di matrice brigatista, quali sono gli scopi di propaganda armata perseguiti e se i comportamenti criminosi sono tendenzialmente rivolti verso obiettivi sintomatici, in modo da ottenere un effetto paradigmatico e innescare meccanismi di emulazione. Si tratta di verificare processualmente se attraverso la singola azione terroristica si vogliono raggiungere determinati risultati di destabilizzazione, accettando anche il rischio di vittime collaterali ovvero se si vuole colpire indiscriminatamente la popolazione, per suscitare terrore, panico e insicurezza nell’ambiente sociale di riferimento; il che, a ben vedere, mira a ottenere lo stesso effetto sintomatico perseguito nel caso degli “omicidi eccellenti” che si sono richiamati nel paragrafo precedente[13].
Queste certezze probatorie, naturalmente, devono essere raggiunte tenendo conto della struttura delle fattispecie associative terroristiche di cui agli artt. 270, 270-bis e 306 c.p., che, secondo la Suprema Corte, si connotano per il dolo specifico «costituito dallo scopo di commettere delitti contro la personalità interna o internazionale dello Stato, nonché per la organizzazione in banda e la disponibilità di armi; non è però richiesto che la gerarchia interna sia di tipo militare e che ciascun compartecipe sia effettivamente armato, essendo sufficiente la disponibilità e, quindi, la concreta possibilità di utilizzare le armi da parte degli associati»[14].
2.2. L’applicazione dell’aggravante di terrorismo di cui all’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625
Occorre, infine, soffermarsi brevemente sull’aggravante di terrorismo, così come introdotta dall’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15 dicembre 2001, n. 438, precisando che, essendo la violenza terroristica entrata a fare parte della struttura del reato associativo di cui all’art. 280-bis c.p., tale elemento costitutivo non può essere considerato come circostanza aggravante della stessa fattispecie[15].
A conclusioni differenti, invece, deve giungersi per i reati-fine di cui si è parlato nella parte iniziale di questa esposizione, per i quali la circostanza in questione deve essere riconosciuta, costituendo l’aggravante di terrorismo un elemento esterno e integrativo rispetto alle fattispecie monosoggettive, di volta in volta, considerate. Ne consegue che, per verificare la sussistenza degli elementi costitutivi dell’aggravante eversiva di cui all’art. 1 del decreto-legge n. 625 del 1979, è necessario accertare che il reato-fine consista «nell’uso di ogni mezzo di lotta politica […] che sia in grado di rovesciare, destabilizzando i pubblici poteri e, minando le comuni regole di civile convivenza, sul piano strutturale e funzionale, il sistema democratico previsto dalla Carta costituzionale […]»[16].
Né potrebbe essere diversamente, atteso che, come affermato dalla Suprema Corte, l’aggravante dell’eversione dell’ordine democratico non può identificarsi nel concetto di una qualsiasi azione politica violenta, non potendo rappresentare “un’endiadi della finalità di terrorismo”, ma si identifica necessariamente nel sovvertimento del basilare assetto istituzionale e nello sconvolgimento del suo funzionamento ovvero nell’uso di ogni mezzo di lotta politica che sia in grado di destabilizzare le istituzioni pubbliche e di alterare il sistema democratico costituzionale[17].
3. La partecipazione alle associazioni terroristiche dell’estrema destra stragista: i reati-fine e le condotte monosoggettive
Occorre premettere che in questi procedimenti penali, riguardanti fatti di reato notevolmente risalenti nel tempo, generalmente, non si controverte sull’operatività delle organizzazioni terroristiche, in quanto tali, ma sugli esiti criminosi della loro attività eversiva, rilevante sotto il profilo dei reati-fine commessi in attuazione del programma consortile eversivo.
Ne discende che le finalità terroristiche, pur decisive per valutare i delitti commessi dalle organizzazioni dell’estrema destra eversiva – di natura eminentemente stragistica e riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 285 c.p., intitolata «Devastazione, saccheggio e strage», eventualmente aggravata ai sensi dell’art. 1 del decreto-legge n. 625 del 1979 –, vengono in rilievo soltanto indirettamente, essendo strumentali alla comprensione delle strategie sottese ai reati-fine oggetto di vaglio, che possono essere ricostruite solo attraverso l’accertamento processuale degli obiettivi sovversivi di cui sono espressione[18].
La rappresentazione esemplare di quanto si sta affermando ci proviene dai processi sulle stragi riconducibili all’estrema destra eversiva, eseguiti a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, rispetto ai quali assume un rilievo decisivo l’accertamento processuale del collegamento tra il delitto di cui all’art. 285 c.p.[19] – che è una fattispecie tipicamente monosoggettiva – e la strategia sovversiva di matrice stragista, nel cui contesto maturava la decisione di eseguire gli attentati più eclatanti di quell’epoca, come la “Strage di Piazza Fontana” e la “Strage di Piazza della Loggia”.
Infatti, costituisce un dato, storico e giurisdizionale, ormai consolidato quello secondo cui gli attentati stragisti organizzati dalla destra eversiva italiana, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo del secolo scorso, maturavano nel contesto organizzativo del gruppo di “Ordine Nero”, nel quale erano confluiti i componenti del disciolto gruppo di “Ordine Nuovo”, oltre ad alcuni nuovi aderenti all’area eversiva in questione. Si tratta, in particolare, di cellule eversive formatesi in seno agli ambienti dell’estrema destra italiana extraparlamentare, soprattutto radicati nell’area lombarda e nell’area veneta del Paese[20].
In seno a queste due cellule eversive, si sviluppavano delle vere e proprie articolazioni militari, che avevano una ramificata struttura territoriale e possedevano la capacità di organizzare attentati di grande risonanza sociale, anche grazie al fatto che tali organismi terroristici disponevano di autonomi canali di approvvigionamento di armi ed esplosivi, come ad esempio la gelignite, che è la sostanza chimica utilizzata per il confezionamento dell’ordigno fatto detonare nella “Strage di Piazza della Loggia”, verificatasi a Brescia il 25 maggio 1974. Queste cellule eversive, al contempo, al loro interno, disponevano di veri e propri armieri, con elevate competenze tecniche, talvolta acquisite negli ambienti della destra eversiva straniera, che venivano utilizzati dai vertici consortili per il confezionamento di ordigni esplosivi di portata devastante, come quello utilizzato nell’attentato bresciano[21].
Il riferimento agli episodi stragisti degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso assume un rilievo fondamentale anche per un’altra ragione, collegata al contesto ideologico nel quale veniva elaborata la strategia eversiva dell’estrema destra italiana di matrice extraparlamentare. I componenti delle cellule terroristiche in esame, infatti, avevano maturato la consapevolezza, attraverso frequenti riunioni preparatorie, svolte con esponenti di spicco dell’ambiente eversivo, di «potere contare, a livello locale e nazionale, sulle coperture di appartenenti agli apparati dello Stato e ai servizi di sicurezza, italiani ed esteri»[22].
Gli accertamenti processuali sviluppatisi nel corso dei decenni su tali episodi stragisti, dunque, ci consentono di affermare che le condotte preparatorie ed esecutive degli attentati di matrice terroristica – riconducibili a una fattispecie tipicamente monosoggettiva, come quella dell’art. 285 c.p. – dovevano essere correlate alle attività di elaborazione ideologica, di organizzazione logistica e di proselitismo politico portate avanti, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, dalle cellule dell’estrema destra eversiva italiana, nella quale gravitavano gli autori dei reati. Non v’è dubbio, infatti, che gli attentati, come accertato in sede giurisdizionale, rientravano «nel programma di destabilizzazione dell’assetto istituzionale perseguito dall’area dell’estrema destra italiana […]»[23].
Pertanto, l’inserimento del programma dei gruppi di “Ordine Nuovo” e di “Ordine Nero” in uno scenario eversivo di rilievo nazionale di matrice stragista costituisce un dato processuale incontroverso, corroborato dal fatto che, in diversi processi celebrati sugli episodi delittuosi in esame, venivano accertate riunioni finalizzate a programmare l’attività operativa dell’estrema destra extraparlamentare e a mettere a punto la futura strategia eversiva, con lo spostamento dell’attività terroristica nei centri urbani di grandi dimensioni e il potenziamento delle strutture di copertura delle attività illegali.
3.1. Il problema dell’accertamento dei fatti in contestazione a notevole distanza di tempo dagli accadimenti stragistici
Le considerazioni che si sono esposte nel paragrafo precedente ci consentono di introdurre il tema centrale dei processi sulle stragi di matrice eversiva degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, che trae origine proprio dalla natura monosoggettiva del reato-fine oggetto di vaglio – quale è, per l’appunto, la fattispecie dell’art. 285 c.p., a tenore del quale: «Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con l’ergastolo» – e pone il problema della valutazione giurisdizionale del compendio probatorio, di matrice eminentemente indiziaria e connotato da un’intrinseca problematicità, acquisito a distanza di alcuni decenni dai fatti delittuosi in esame. Basti, in proposito, considerare che sulla “Strage di Piazza della Loggia”, prima della sentenza di legittimità che si è richiamata nel paragrafo precedente, erano stati celebrati sette procedimenti penali, senza il raggiungimento di alcuna verità processuale[24].
In questi casi, si tratta di effettuare una valutazione del compendio probatorio acquisito nel rispetto dei principi sul processo indiziario, governato dall’orientamento ermeneutico consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «nel processo penale indiziario, il giudice di merito deve compiere una duplice operazione, atteso che, dapprima, gli è fatto obbligo di procedere alla valutazione dell’elemento indiziario singolarmente considerato, per stabilire se presenti o meno il requisito della precisione e per vagliarne l’attitudine dimostrativa; successivamente, occorre procedere a un esame complessivo degli elementi indiziari acquisiti […], allo scopo di appurare se i margini di ambiguità, correlati a ciascuno di essi, possano essere superati in una visione unitaria[25], in modo da consentire l’attribuzione del fatto illecito all’imputato, pur in assenza di una prova diretta di reità, sulla base di un complesso di dati, che saldandosi logicamente, conducano necessariamente a un giudizio di colpevolezza come esito inevitabile […] e, dunque, oltre “ogni ragionevole dubbio”»[26].
Il giudice di merito, infatti, non può «limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve, preliminarmente, valutare i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza […] e l’intrinseca valenza dimostrativa […] e, successivamente, procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio”[27] e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana»[28].
Al contempo, l’inquadramento del compendio probatorio acquisito nell’ambito del procedimento indiziario, generalmente, consente di superare il problema della valutazione da parte del giudice di appello delle prove orali acquisite nei giudizi di merito, spesso assai lontane nel tempo e oggetto di frequente rivisitazione, che erano state ritenute utili ai fini della decisione adottata, ma che non sempre è possibile rinnovare, con la possibile violazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione alla luce della sentenza emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso “Dan contro Moldavia”.
Queste considerazioni valgono soprattutto con riferimento alle conseguenze processuali dell’applicazione del seguente principio di diritto: «Costituiscono prove decisive al fine della valutazione della necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado fondata su una diversa concludenza delle dichiarazioni rese, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l’assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull’esito del giudizio, nonché quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell’appellante, rilevanti – da sole o insieme ad altri elementi di prova – ai fini dell’esito della condanna»[29].
4. La partecipazione alle associazioni terroristiche di matrice ambientalista: i reati-fine e le fattispecie monosoggettive
Occorre, infine, soffermarsi sui reati-fine e sulle fattispecie monosoggettive collegate alla sfera di operatività delle associazioni terroristiche di matrice ambientalista.
Tale riferimento si impone in ragione del fatto che anche nelle ipotesi di condotte illecite riconducibili ad associazioni terroristiche di matrice ambientalista, quantomeno tendenzialmente, ci si trova di fronte a fattispecie di reato monosoggettive, assumendo rilievo soprattutto i delitti di cui agli artt. 280 c.p., intitolato «Attentato per finalità terroristiche e di eversione», e 280-bis c.p., intitolato «Atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi»[30].
In questa cornice, innanzitutto, occorre evidenziare che per l’integrazione dei delitti puniti dagli artt. 280 e 280-bis c.p., è necessario il compimento, per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, di atti idonei diretti in modo non equivoco a provocare gli eventi criminosi prefigurati dalle due fattispecie di reato, con un atteggiamento della volontà intenzionalmente diretto alla loro produzione[31].
Più precisamente, queste fattispecie di reato si caratterizzano per un doppio finalismo soggettivo, atteso che l’azione criminosa deve essere ispirata dal fine di eversione dell’ordine democratico o dalla finalità di terrorismo; al contempo, il soggetto attivo del reato deve mirare a provocare l’evento della morte o delle lesioni in danno di una o più persone, quali avvenimenti strumentali allo scopo eversivo perseguito dall’agente.
Ne discende che la morte e le lesioni delle vittime degli attentati eversivi in questione sono gli eventi naturalistici verso i quali si orienta la condotta tipica prefigurata dagli artt. 280 e 280-bis c.p., rispetto ai quali deve essere misurata l’idoneità e l’univocità degli atti compiuti dal soggetto attivo del reato e verso cui deve dirigersi la sua volontà[32].
Occorre, allora, accertare quali sono gli obiettivi perseguiti dalle associazioni terroristiche di matrice ambientalista, dovendosi evidenziare che «la pressione illegalmente attuata sull’autorità pubblica deve presentare, in quanto tale, un connotato di idoneità alla produzione dell’evento “costrizione”, e non semplicemente un finalismo soggettivamente orientato in tal senso […]»[33].
Tuttavia, nel contesto ritenuto indispensabile per la configurazione dei fatti delittuosi eversivi che si stanno considerando, non può essere compresa la pressione legittimamente esercitata da movimenti politici e da gruppi di cittadini, atteso che la costrizione deve essere indebita e connessa alla natura terroristica dell’attentato, di volta in volta, considerato.
Né potrebbe essere diversamente, atteso che la previsione dell’art. 49 Cost. – che costituisce la norma di riferimento costituzionale per la disciplina dei diritti associativi, che rappresentano il limite esterno alla configurazione dei delitti contro la personalità dello Stato, cui ci si sta riferendo – prevede che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Nella stessa direzione, con specifico riferimento alla matrice ideologica delle organizzazioni terroristiche che si ispirano ai valori ambientalisti e ai limiti costituzionali alla rilevanza penale delle condotte consortili che si stanno considerando, occorre richiamare l’art. 18, comma primo, Cost., secondo cui tutti «i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale»
Questione ermeneutica ulteriore e differente, invece, è quella dell’individuazione delle modalità con cui vengono diffuse, telematicamente ovvero attraverso la stampa clandestina, le ideologie terroristiche di matrice ambientalista, per le quali è possibile la concretizzazione di condotte illecite di natura apologetica, rilevanti ai sensi degli artt. 414 e 415 c.p., in termini analoghi a quanto si è affermato a proposito delle organizzazioni terroristiche di matrice brigatista[34].
D’altra parte, una dilatazione eccessiva della nozione di terrorismo, inevitabilmente, rischia di condizionare meccanismi di pressione politica o di protesta pienamente legittimi, sul piano costituzionale, finalizzati a orientare le scelte politiche delle istituzioni governative. Non assumono, pertanto, un rilievo decisivo formule generiche, come i riferimenti ai possibili danni per il Paese; ai ritardi nella realizzazione dell’opera pubblica controversa; alle spese sostenute per il controllo dell’ordine pubblico, necessitate dalle proteste ambientaliste.
Si impone, al contempo, la contestualizzazione, territoriale e ideologica, dell’azione illecita, essendo necessario che «l’idoneità sia misurata con riferimento al tempo in cui il fatto viene commesso, e con riguardo ad attività conosciute dall’agente, che può quindi rappresentarsele come fattori causali concorrenti nella produzione del rischio tipico»[35].
4.1. L’accertamento processuale del contesto nel quale l’attentato di matrice ambientalista si verifica e delle finalità concretamente perseguite
Dalle considerazioni espresse nel paragrafo precedente discende che la contestualizzazione, territoriale e ideologica, delle azioni terroristiche delle organizzazioni ambientaliste deve essere effettuata tenendo conto degli obiettivi eversivi perseguiti con le condotte illecite rilevanti ex artt. 280 e 280-bis c.p., che devono essere valutati dal giudice di merito caso per caso.
La matrice terroristica di un attentato di ispirazione ambientalista, pertanto, comporta l’esistenza di una correlazione tra i danni materiali provocati dall’azione criminosa e l’evento eversivo, al quale sono collegate le fattispecie previste dagli artt. 280 e 280-bis c.p., su cui deve essere effettuata una verifica giurisdizionale rigorosa.
Non si può, infatti, mai prescindere dalle esigenze di offensività e di tassatività delle condotte illecite di cui agli artt. 280 e 280-bis c.p., che devono essere garantite sul piano dell’accertamento giurisdizionale, mediante una verifica stringente delle potenzialità lesive dei comportamenti sovversivi, che deve essere valutata in termini obiettivi, alla luce delle circostanze di tempo e di luogo in cui si concretizzano gli attentati, di volta in volta, considerati.
Non può, in proposito, non richiamarsi la giurisprudenza di legittimità, consolidatasi in tema di configurazione della fattispecie prevista dall’art. 280 c.p., secondo cui: «Per la configurabilità del delitto di attentato per finalità terroristiche o di eversione, ex art. 280 c.p., è necessario che la condotta di chi attenta alla vita o alla incolumità di una persona, finalizzata al terrorismo secondo le definizioni di cui all’art. 270-sexies c.p., possa, per natura o contesto, arrecare grave danno al Paese ovvero che la stessa, tenuto conto del contesto oggettivo e soggettivo in cui si inserisce, sia volta alla sostanziale deviazione dai principi che regolano l’essenza della vita democratica»[36].
Occorre, allora, verificare, caso per caso, se, per gli effetti direttamente riferibili al fatto di reato contestato, come tali rappresentati e voluti dagli autori nel contesto consortile ambientalista in cui si concretizza la loro azione, si è creata un’apprezzabile possibilità di rinuncia da parte dello Stato alla prosecuzione dell’opera pubblica, dalla quale è derivato un danno grave e di consistenti proporzioni, che sia effettivamente connesso a tale rinuncia o, comunque, all’azione terroristica indirizzata al perseguimento di quell’obiettivo.
La contestualizzazione dell’azione terroristica di matrice ambientalista, del resto, risponde alla stessa formulazione dell’art. 280 c.p., che non ritiene sufficiente il generico perseguimento di finalità eversive, atteso che, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte, per integrare «il delitto di attentato per finalità terroristiche o eversive di cui all’art. 280 c.p., non è sufficiente la sola rappresentazione ed accettazione del rischio dell’evento lesivo, ma è necessario che la condotta dell’agente sia intenzionalmente diretta a ledere la vita o l’incolumità di una persona, quali beni protetti dalla norma»[37].
[1] Questo intervento, dedicato alla memoria di Guido Galli, costituisce la mia relazione di presentazione al gruppo di lavoro denominato “La partecipazione all’associazione terroristica e le fattispecie monosoggettive”, che ho coordinato, svoltosi l’8 luglio 2021, nell’ambito dell’incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura a Milano, intitolato “Prevenzione e repressione del terrorismo, tra esigenze di difesa della collettività e rispetto dei principi costituzionali” (Corso intitolato a Guido Galli).
Questo seminario, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, si è svolto presso la sede storica dell’Università Statale di Milano, ubicata a Milano, in Via Festa del Perdono n. 7, dove per diversi anni Guido Galli (Bergamo 28 giugno 1932 - Milano 19 marzo 1980) insegnò criminologia e dove fu barbaramente ucciso il 19 marzo 1980, da un nucleo armato di Prima Linea, appartenente alla galassia brigatista.
[2] Ritengo opportuno segnalare che ho seguito questo metodo espositivo in alcuni precedenti interventi formativi, i cui esiti sono sintetizzati in A. Centonze, La finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico e le esperienze emerse con riferimento al terrorismo “nazionale”, in Dir. viv., 2019, 3, pp. 16 ss.
Per uno sguardo d’insieme sulle tematiche affrontate in questa sessione si ritiene utile richiamare anche gli interventi di A. Cavaliere, Considerazioni critiche intorno al D.L. antiterrorismo, n. 7 del 18 febbraio 2015, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 31 marzo 2015, pp. 1 ss.; M. Donini, Il diritto penale di fronte al nemico, in Cass. pen., 2006, 2, pp. 753 ss.; F. Fasani, Le nuove fattispecie antiterrorismo: una prima lettura, in Dir. pen. proc., 2015, 8, pp. 926 ss.; F. Resta, Ancora su terrorismo e stato di crisi, in Ind. pen., 2011, 505 ss.; A. Valsecchi, I requisiti oggettivi della condotta terroristica ai sensi dell’art. 270 sexies c.p. (Prendendo spunto da un’azione dimostrativa dell’Animal Liberation Front), in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 21 febbraio 2013, pp. 1 ss.; F. Viganò, Terrorismo, guerra e sistema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 2, pp. 655 ss.
[3] Mi sono, in particolare, occupato del “terrorismo secessionista”, nel più ampio contesto del “terrorismo separatista” attivo in alcuni Paesi europei, in A. Centonze, La finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico e le esperienze emerse con riferimento al terrorismo “nazionale”, cit., pp. 29-32.
[4] Sulle connotazioni apologetiche delle comunicazioni e delle pubblicazioni di ispirazione terroristica, in termini generali, si rinvia a Cass. pen., Sez. V, n. 1970 del 26 settembre 2018, El Mahdi, in C.E.D. Cass., n. 276453-01; Cass. pen., Sez. I, n. 24103 del 4 aprile 2017, Dibrani, in C.E.D. Cass., n. 270604-01; Cass. pen., Sez. I, n. 47489 del 6 ottobre 2015, Halili, in C.E.D. Cass., n. 265265-01; Cass. pen., Sez. I, n. 10641 del 3 novembre 1997, Galeotto, in C.E.D. Cass., n. 209166-01.
Queste pronunzie di legittimità, a loro volta, traggono origine dall’arresto giurisprudenziale risalente, espresso dalla sentenza Cass. pen., Sez. I, n. 3422 del 27 settembre 1991, Mazzucchelli, in C.E.D. Cass., n. 188454-01, nella quale veniva affermato il seguente principio di diritto: «È configurabile l’apologia di reato sotto forma di istigazione a delinquere nel fatto di erigere un monumento a perenne memoria – additandola ad esempio – a persona nota per avere spento la vita di un capo di Stato, qualora si accerti che, nonostante la lontananza storica dell'assassinio, sussiste attualmente e concretamente la possibilità che l’erezione del monumento eserciti una forza di suggestione e di persuasione tale da poter stimolare la commissione di altri fatti criminosi, corrispondenti o similari a quello esaltato».
[5] Si tratta, com’è noto, di una strategia eversiva affermatasi nel corso degli anni Settanta del secolo scorso, in conseguenza della quale vennero assassinati numerosi esponenti delle istituzioni nostrane, tra cui diversi magistrati, come Guido Galli, alla memoria del quale l’incontro di studi nel quale è stato presentato questo intervento è dedicato.
Su queste tematiche, da un punto di vista storico-giornalistico, senza alcuna pretesa di esaustività, si rinvia agli studi di P. Bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, il Mulino, Bologna, 2006; M. Calvi - A. Ceci - A. Sessa - G. Vasaturo, Le date del terrore. La genesi del terrorismo italiano e il microclima dell'eversione dal 1945 al 2003, Sossella, Roma, 2003; L. Scialò, Le stragi dimenticate. La strategia della tensione secondo la Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia, Boopen. Napoli, 2008; B. Tobagi, Piazza Fontana. Il processo impossibile, Einaudi, Torino, 2019.
[6] Sul problema della punibilità degli atti pretipici, con particolare riferimento, alle attività propedeutiche all’esecuzione di un omicidio, si rinvia a Cass. pen., Sez. II, n. 36311 del 12 luglio 2019, Raicevic, in C.E.D. Cass., n. 277032-01; Cass. pen., Sez. I, n. 27918 del 4 marzo 2010, Resa, in C.E.D. Cass., n. 248305-01; Cass. pen., Sez. I, n. 43406 del 12 ottobre 2001, Mereu, in C.E.D. Cass., n. 220145-01; Cass. pen., Sez. I, n. 1365 del 2 ottobre 1997, Tundo, in C.E.D. Cass., n. 209688-01; più in generale, sull’importanza dei canoni della proporzionalità e dell’offensività, rilevanti ex art. 3 Cost., rispetto alla legittimazione di scelte di anticipazione della tutela penale, si ritiene opportuno rinviare agli studi di A. Cadoppi, «Non evento» e beni giuridici «relativi»: spunti per un reinterpretazione dei reati omissivi propri in chiave di offensività, in Ind. pen., 1990, pp. 373 ss.; C. Fiore, Il principio di offensività, in Ind. pen., 1994, pp. 275 ss.; V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale, Giappichelli, Torino, Milano, 2005, pp. 279 ss.
[7] La Convenzione per la repressione del finanziamento al terrorismo è stata adottata a New York il 9 dicembre 1999 e aperta alla firma il 10 gennaio 2000, anche se fino all’11 settembre 2001 solo quattro Stati avevano provveduto a ratificare l’accordo convenzionale; tuttavia, gli efferati attentati statunitensi e la consapevolezza del rilievo determinante delle disponibilità finanziarie di cui i terroristi beneficiavano davano uno straordinario all’accordo, tanto è che vero che oggi la Convenzione conta 169 Stati parte e 132 Stati firmatari.
[8] Nella direzione ermeneutica richiamata nel testo, si ritiene esemplare la sentenza Cass. pen., Sez. V, n. 12252 del 23 febbraio 2012, Bortolato, in C.E.D. Cass., n. 251920-01, che riguarda l’operatività e i reati-fine commessi nell’interesse dell’organizzazione terroristica denominata “Partito Comunista Politico Militare” (PCPM); si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Cass. pen., Sez. I, n. 3486 dell’11 maggio 2000, Paiano, in C.E.D. Cass., n. 216253-01; Cass. pen., Sez. I, n. 6952 del 4 novembre 1987, Adinolfi, in C.E.D. Cass., n. 178586; Cass. pen., Sez. I, n. 8952 del 7 aprile 1987, Angelini, in C.E.D. Cass., n. 176516-01.
[9] Si veda Cass. pen., Sez. V, n. 12252 del 23 febbraio 2012, Bortolato, cit. ; su questi temi, si rinvia anche all’intervento di A. Valsecchi, I requisiti oggettivi della condotta terroristica ai sensi dell’art. 270 sexies c.p., cit., pp. 1 ss.
[10] Si veda Cass. pen., Sez. V, n. 12252 del 23 febbraio 2012, Bortolato, cit.
[11] Si vedano Cass. pen., Sez. II, n. 14704 del 22 aprile 2020, Bekaj, in C.E.D. Cass., n. 279408-01; Cass. pen., Sez. VI, n. 13421 del 5 marzo 2019, Shalabi, in C.E.D. Cass., n. 275983; Cass. pen., Sez. II, n. 24994 del 25 giugno 2006, Bouhrama, in C.E.D. Cass., n. 234345-01.
[12] Si vedano Cass. pen., Sez. V, n. 10380 del 7 febbraio 2019, Koraichi, in C.E.D. Cass., n. 277239-01; Cass. pen., Sez. I, n. 35427 del 21 giugno 2005, Drissi, in C.E.D. Cass., n. 232280-01.
[13] Ci si riferisce, naturalmente, agli omicidi di Ezio Tarantelli, Roberto Ruffilli, Massimo D’Antona e Marco Biagi, citati nel paragrafo 2.
[14] Si veda Cass. pen., Sez. V, n. 12252 del 23 febbraio 2012, Bortolato, cit.
[15] Si vedano Cass. pen., Sez. VI, n. 2310 del 2 novembre 2005, Sergi, in C.E.D. Cass., n. 233113-01; Cass. pen., Sez. 5, n. 40348 del 17 settembre 2008, Morobianco, in C.E.D. Cass., n. 241859-01; Cass. pen., Sez. VI, n. 2310 del 2 novembre 2005, Sergi, in C.E.D. Cass., n. 233113-01.
[16] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 36816 del 27 ottobre 2020, Cropo, in C.E.D. Cass., n. 280761-01.
[17] Si veda Cass. pen., Sez. V, n. 25428 del 13 marzo 2012, Bonetti, in C.E.D. Cass., n. 253305-01.
[18] Vedi supra § 2.1.
[19] Per l’inquadramento della fattispecie di cui all’art. 285 c.p., si rinvia alla storica sentenza Cass. pen., Sez. Un., n. 7 del 26 marzo 1960, Neidermajer, in C.E.D. Cass., n. 098430-01, che precede di oltre un decennio i processi penali sulla stagione stragista della destra eversiva, nel quale si affermava il seguente principio di diritto: «La distinzione tra i delitti di furto e di saccheggio, dal punto di vista materiale ed a parte le differenze qualitative, si fonda precipuamente su due elementi (pluralità degli agenti e molteplicità indiscriminata degli impossessamenti), che, necessari solo nel secondo delitto, lo rendono assai più pericoloso del primo dal punto di vista dell'ordine giuridico: tale maggiore pericolosità, dovuta alla costante presenza dei due elementi suddetti, si riflette nella diversa obiettività giuridica, che, nei reati di saccheggio, non si esaurisce nella protezione del patrimonio ma si dirige a quella assorbente dell’ordine pubblico (art. 419 cod. pen.) o, addirittura, della stessa personalità dello stato (art. 285 C.P.), quando in questa ultima ipotesi, ricorra il relativo dolo specifico (scopo di attenuare alla sicurezza dello stato».
[20] Questi dati ci provengono dall’attività svolta dalle commissioni di inchiesta sul fenomeno terroristico istituite nel nostro Paese nell’ultimo quarantennio, che si sono avvalse degli esiti dei diversi procedimenti penali celebrati sugli episodi stragisti verificatisi a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Tali conclusioni, sul piano giurisdizionale, hanno ricevuto una conferma definitiva negli esiti del processo sulla “Strage di Piazza della Loggia”, per il quale si rinvia alle successive note 19, 20 e 21.
[21] Su questi temi, si ritiene opportuno segnalare la sentenza Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, in C.E.D. Cass., n. 271252-01, con cui, all’esito di un procedimento svoltosi lungo sette gradi di giudizio, si concludeva il processo penale sulla “Strage di Piazza della Loggia”; la prima sentenza sulla strage bresciana veniva emessa dalla Corte di assise di Brescia il 2 luglio 1979 e, con tale pronuncia, veniva condannato uno degli autori materiali dell’attentato, ucciso prima della decisione di appello, pronunciata dalla Corte di assise di appello di Brescia il 2 marzo 1982, con cui veniva assolto l’altro imputato.
All’esito di tale complesso percorso processuale venivano condannati due degli autori dell’attentato in questione, commesso il 25 maggio 1974, a Brescia, in Piazza della Loggia, nel corso di una manifestazione indetta dal Comitato Permanente Antifascista e dalle Segreterie Provinciali della C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L., mediante la collocazione di un ordigno in un cestino metallico per i rifiuti, posto in aderenza a una colonna dei portici delimitanti la piazza e provocandone l’esplosione.
[22] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, cit.
[23] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, cit.
[24] Vedi supra § 3, note 19-21.
[25] Si vedano Cass. pen., Sez. I, n. 44324 del 18 aprile 2013, Stasi, in C.E.D. Cass., n. 258321-01; Cass. pen., Sez. I, n. 26455 del 26 marzo 2013, Knox, in C.E.D. Cass., n. 255677-01; Cass. pen., Sez. I, n. 13671 del 26 novembre 1998, Buiono, in C.E.D. Cass., n. 212026-01.
[26] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, cit.
[27] Si vedano Cass. pen., Sez. I, n. 1790 del 30 novembre 2017, Mangafic, in C.E.D. Cass., n. 272056-01; Cass. pen., Sez. I, n. 20461 del 12 aprile 2016, Graziadei, in C.E.D. Cass., n. 266941-01; Cass. pen., Sez. II, n. 42482 del 19 settembre 2013, Kuzmanovic, in C.E.D. Cass., n. 256967-01.
[28] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, cit.
[29] Si veda Cass. pen., Sez. Un., n. 27620 del 28 aprile 2016, Dasgupta, in C.E.D. Cass., n. 267491-01; nella stessa direzione ermeneutica, si veda la successiva pronuncia Cass. pen., Sez. Un., n. 18620 del 19 gennaio 2017, Patalano, in C.E.D. Cass., n. 269786-01; Cass. pen., Sez. Un., 28 gennaio 2019, Pavan, n. 14426, in Cass. C.E.D., n. 275112-01.
Su queste fondamentali pronunzie delle Sezioni Unite si vedano i commenti dottrinari di R. Aprati, “Overturning” sfavorevole in appello e mancanza del riesame, in Cass. pen., 2017, 7-8, pp. 2672 ss.; V. Aiuti, Poteri d’ufficio della Cassazione e diritto all’equo processo, in Cass. pen., 2016, 9, pp. 1125 ss.; S. Recchione, Il processo a statuto probatorio variabile: la rinnovazione in appello della prova scientifica, in www.sistemapenale, 23 giugno 2020.
[30] Mi sembra opportuno sottolineare che i fenomeni terroristici di matrice ambientalista rappresentano un ambito criminale in crescente espansione, che investe vari settori operativi, che riguardano, oltre alla protezione ambientale stricto sensu intesa, anche le istanze di tutela animalista, delle quali, per ragioni di sintesi espositiva, non ci si occupa, ma il cui richiamo è utile per inquadrare, in termini generali, le questioni affrontate nella parte conclusiva di questa introduzione.
[31] Si vedano Cass. pen., Sez. VI, n. 34782 del 30 aprile 2015, Gai, in C.E.D. Cass., n. 264417-01; Cass. pen., Sez. I, n. 11344 del 10 maggio 1993, Algranati, in C.E.D. Cass., n. 195771-01; Cass. pen., Sez. I, n. 10233 del 18 dicembre 1987, Berardi, in C.E.D. Cass., n. 179470-01.
[32] Si veda Cass. pen., Sez. VI, n. 28009 del 15 maggio 2014, Alberto, in C.E.D. Cass., n. 260078-01; questa pronuncia appare meritevole di essere segnalata, oltre che per la completezza degli argomenti esposti, perché riguarda un caso emblematico delle tematiche ambientaliste che si stanno considerando, quale l’attentato di Chiomonte verificatosi il 14 maggio 2013, a margine della realizzazione delle opere infrastrutturali di collegamento tra l’Italia e la Francia nella Val di Susa.
[33] Si veda Cass. pen., Sez. VI, n. 28009 del 15 maggio 2014, Alberto, cit.
[34] Vedi supra § 2.
[35] Si veda Cass. pen., Sez. VI, n. 28009 del 15 maggio 2014, Alberto, cit.
[36] Si veda Cass. pen., Sez. VI, n. 34782 del 30 aprile 2015, Gai, cit.; su questa importante pronunzia di legittimità si veda anche il commento dottrinario di A. Siberti, Gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 280 c.p., in Cass. pen., 2016, 4, pp. 1537 ss.
[37] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 47479 del 16 luglio 2015, Alberti, in C.E.D. Cass., n. 265404-01.
Riconoscere pari dignità promuovendo coesione: per una difesa del d.d.l. Zan*
di Angelo Schillaci
Sommario: 1. Premessa - 2. L’andamento dei lavori parlamentari - 3. Caratteri e necessità dell’intervento penale - 4. Definizioni e identità: la questione dell’identità di genere - 5. Il problema della tenuta della libertà di manifestazione del pensiero - 6. La seconda parte e la questione educativa - 7. Conclusioni: alla ricerca di un equilibrio.
1. Premessa
Il disegno di legge Zan, in questi giorni, è al centro del dibattito politico. Il 13 luglio è previsto l’inizio della discussione generale nell’Aula del Senato, dopo un passaggio parlamentare non semplice che, per molti aspetti, ricorda quello che – sempre in Senato – condusse nel 2016 alla sofferta approvazione della legge n. 76/2016 (cd. legge Cirinnà, sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso). L’inasprirsi del conflitto politico – per motivi talora nemmeno legati al merito della proposta di legge in discussione – e l’emersione di posizionamenti che rispondono, in molti casi, piuttosto ad esigenze tattiche non deve far perdere di vista la reale portata della posta in gioco, l’importanza della proposta di legge e, soprattutto, il suo legame con il più ampio contesto della controversia che sta investendo nuovamente, in tutta Europa, le questioni legate al riconoscimento di identità che, in qualche misura, non rispecchiano modelli ritenuti dominanti o preferibili.
Attorno alla proposta Zan si agitano infatti conflitti profondi, riconducibili all’alternativa tra riconoscimento e protezione delle diverse soggettività che popolano lo spazio pubblico e convivenza tra diverse visioni del mondo e della vita che, non di rado, quelle identità tendono a misconoscere e contrastare. Conflitti, peraltro, che non riguardano solo l’Italia ma che investono vasti settori delle società europee, con esiti preoccupanti. Si pensi, solo per fare alcuni esempi, alla situazione ungherese e a quella polacca (ma anche, fuori dall’Unione europea, alla situazione turca): paesi nei quali donne e persone LGBT+ sono oggetto comune di uno stesso attacco, ispirato alla conservazione (o, per meglio dire, al ripristino violento) di un modello di società saldamente ancorato a canoni patriarcali e tradizionalisti. I quali, peraltro, sono incompatibili con i principi e i valori fondativi dell’Unione europea, consacrati nei Trattati e recentemente ribaditi dal Parlamento europeo, intervenuto in materia con l’approvazione, l’11 marzo 2021, di una risoluzione che dichiara l’Europa “Zona libera per le persone LGBTIQ”, in risposta all’istituzione, in Polonia, di più di 100 zone libere “da” persone LGBT+. Ancora, e più di recente, si pensi all’approvazione, in Ungheria, di una legge contro la “propaganda” LGBT+ che, nella sostanza, impedisce di esporre a minori di età qualsivoglia contenuto relativo all’orientamento sessuale e all’identità di genere: una legge che ha suscitato forti reazioni di sdegno da parte delle istituzioni dell’UE e di numerosi Stati membri e che ha condotto, da ultimo, all’approvazione di una risoluzione molto dura da parte del Parlamento europeo[1].
Al fondo di tali conflitti vi sono alcune domande molto semplici, alle quali anche il legislatore italiano è chiamato a dare risposta: in una società democratica e pluralista, le differenze – in questo caso, radicate nei corpi e nell’autodeterminazione personale, affettiva, sociale – devono essere valorizzate quale fattore di coesione sociale o devono piuttosto essere temute quali fattori di destabilizzazione? E ancora, il riconoscimento di dimensioni della dignità personale deve restare ancorato a modelli o precomprensioni di carattere dogmatico o piuttosto – specie nel quadro di un intervento normativo volto a contrastare discriminazione e violenza – deve restare quanto più possibile aperto alle diverse declinazioni della dignità che, in senso soggettivo, vengono alimentate da scelte ed esperienze molteplici e diverse?[2]
La risposta, a ben vedere, è guidata dalla lettera degli articoli 2 e 3 della Costituzione, che legano in equilibrio saldo libertà ed eguaglianza, diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà, libero svolgimento della personalità e relazioni sociali, riconoscimento delle identità e pari dignità delle differenze.
2. L’andamento dei lavori parlamentari
Di tali tensioni, come accennato, è traccia anche nei lavori parlamentari sul ddl Zan. Calendarizzata in Commissione Giustizia alla Camera a partire dal mese di ottobre del 2019, la proposta di legge è il frutto di un lavoro parlamentare lungo e complesso. Dapprima, si è infatti proceduto – a seguito di un ciclo di audizioni[3] – alla redazione in testo unificato delle proposte di legge C. 107 (Boldrini e altri), C. 569 (Zan e altri), C. 868 (Scalfarotto e altri), C. 2171 (Perantoni e altri) e C. 2255 (Bartolozzi). Il testo unificato è stato presentato il 30 giugno e adottato come testo base nella seduta del 14 luglio 2020: si noti che, già in questa sede, le tutele – originariamente previste solo rispetto a condotte fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere – vennero estese anche alle condotte motivate dal sesso e dal genere così integrando, in accoglimento delle sollecitazioni emerse nel corso delle audizioni, anche il contrasto ai discorsi e ai crimini d’odio di matrice misogina, previsto peraltro in alcuni dei testi abbinati (in particolare, il C. 107, Boldrini e il C. 2255 Bartolozzi).
Successivamente, sempre in Commissione, il testo è stato emendato, anche sulla base di mediazioni con forze politiche non appartenenti al perimetro della (allora) maggioranza di governo: tra gli emendamenti approvati, si segnala la prima versione dell’attuale articolo 4 della proposta di legge, relativo al bilanciamento tra repressione dei discorsi d’odio e salvaguardia della libertà di manifestazione del pensiero (risultante da una proposta del deputato Costa, allora in Forza Italia), mentre una ulteriore significativa modifica riguardò già allora – su iniziativa di due deputati di Italia Viva (Vitiello e Toccafondi) – la formulazione del riferimento alle scuole nell’attuale articolo 7 (relativo all’istituzione della Giornata contro l’omolesbobitransfobia), in particolare con la sostituzione dell’espressione “nelle scuole di ogni ordine e grado” con la più generica “nelle scuole”). Il testo venne infine approvato nella seduta del 30 luglio 2020 e trasmesso all’Aula che ne avviò l’esame nella seduta del 3 agosto 2020 con la discussione generale che proseguì nella seduta del 4 agosto.
L’esame rimase poi sospeso fino alla seduta del 27 ottobre 2020, nella quale ebbe luogo la discussione sulle questioni pregiudiziali, respinte dall’Aula, e venne avviato l’esame degli articoli, che sarebbe proseguito fino all’approvazione finale del testo nella seduta del 4 novembre 2020.
Anche nel corso dell’esame in Aula il testo venne modificato, con l’approvazione di emendamenti che rispecchiano lo stato degli accordi tra PD, M5S, IV, LEU e alcuni settori di Forza Italia e che riguardano, peraltro, proprio le parti del provvedimento attualmente oggetto di rinnovata conflittualità al Senato. Già nella seduta del 27 ottobre venne approvato, infatti, l’emendamento premissivo n. 01.0401, a prima firma Annibali (IV) recante le definizioni di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere rilevanti ai fini dell’applicazione del provvedimento in esame. Analogamente, nella seduta del 28 ottobre 2020 venne approvato l’emendamento 3.450, a prima firma Bazoli (PD) recante la riformulazione dell’attuale articolo 4, con l’accoglimento dell’istanza di miglior precisazione del suo contenuto, formulata dalla Commissione Affari costituzionali nel proprio parere del 29 luglio 2020. Ancora, nella seduta del 4 novembre 2020 – in sede di ripresa dell’esame dell’attuale articolo 7 (in precedenza accantonato) – venne approvato l’emendamento 6.800 (presentato dalla Commissione) che modifica il comma 3 dell’articolo 7, al fine di meglio precisare che le iniziative da svolgersi in occasione della Giornata contro l’omolesbobitransfobia si collocano nel quadro della piena salvaguardia dell’autonomia scolastica e della corresponsabilità educativa tra scuole e famiglie.
Non sono queste, ovviamente, le uniche modifiche apportate dall’Aula della Camera dei deputati al testo originario: si pensi, in aggiunta, all’importantissima (e unanime) approvazione da parte dell’Aula di una serie di emendamenti a prima firma della deputata Noja (IV) e relativi all’estensione delle tutele di cui agli articoli 604 bis e ter c.p. anche rispetto a condotte motivate dalla disabilità della persona offesa. Pare tuttavia utile richiamare l’attenzione sugli emendamenti menzionati, giacché gli stessi intervengono proprio su quegli articoli 1, 4 e 7 (nella formulazione attuale) che sono attualmente oggetto di ulteriore discussione in Senato.
Come cennato, nella seduta del 4 novembre 2020 la proposta di legge venne approvata e trasmessa al Senato, ove ha assunto la numerazione S. 2005.
La Commissione Giustizia, tuttavia, ne ha iniziato l’esame solo il 27 aprile 2021 e, sin da subito, si sono registrate pesantissime resistenze ostruzionistiche da parte dei gruppi di Lega e Fratelli d’Italia. Nel frattempo, come noto, lo scenario politico è profondamente mutato, con le dimissioni del governo Conte II e la nascita dell’attuale Governo, presieduto da Mario Draghi e sostenuto da un larghissimo arco di forze parlamentari, comprese la Lega e Forza Italia che, nel precedente quadro, si collocavano all’opposizione: proprio da parte di queste due forze politiche, in particolare, la tendenziale contrarietà all’approvazione di un qualunque intervento contro le discriminazioni e la violenza di matrice omolesbobitransfobica è progressivamente sfumato verso la ricerca di spazi di mediazione nel perimetro della nuova maggioranza di governo.
In uno scenario così mosso, come spesso accade, la procedura parlamentare – che delle dinamiche politiche è al tempo stesso strumento di razionalizzazione e, non di rado, “vittima”[4] – è entrata in sofferenza. L’atteggiamento ostruzionistico della Lega, che esprime peraltro il Presidente della Commissione Giustizia del Senato, si è tradotto dunque nel marcato protagonismo di quest’ultimo che, trattenendo la funzione di relatore del provvedimento (nella seduta del 28 aprile 2021), ha avuto modo di condizionare pesantemente l’andamento dei lavori. Così, in un primo momento, il Presidente-Relatore ha ottenuto la congiunzione del ddl S. 2005 con gli altri testi già assegnati alla Commissione su materie analoghe[5], il che ha determinato – peraltro – la necessità di un passaggio presso la Presidenza del Senato per il coordinamento della sede di assegnazione dei provvedimenti in esame: mentre infatti il ddl S. 2005, proveniente dalla Camera dei deputati, era stato assegnato alla (più agile) sede redigente, gli altri ddl abbinati erano assegnati in sede referente. Di conseguenza, anche il ddl S. 2005, all’esito della congiunzione, è stato riassegnato alla Commissione in sede referente. Tuttavia, nella seduta del 6 maggio 2021, su proposta congiunta di PD, M5S e LEU, la Commissione ha approvato a maggioranza – con il consenso delle prime firmatarie dei ddl abbinati – la disgiunzione dei medesimi, concentrando nuovamente l’esame sul solo ddl S. 2005. Ciononostante, il tentativo di Lega e Forza Italia di riportare il dibattito nel perimetro della maggioranza di governo non si è arrestato, ed è anzi proseguito con la presentazione di un autonomo disegno di legge (S. 2205, a prima firma Ronzulli) del quale si è ottenuta la congiunzione – per decisione unilaterale del Presidente-Relatore, che non ha consentito nemmeno il voto immediato sulla disgiunzione, sebbene richiesto[6] – nella seduta del 18 maggio 2021[7]. L’iter è dunque proseguito – sempre in un clima di forte polarizzazione tra PD, M5S e LEU, fautori dell’approvazione senza modifiche del testo proveniente dalla Camera dei Deputati, da una parte, e Lega e FI dall’altra (con IV in posizione mediana) – con la deliberazione di un ciclo di ben 170 audizioni.
Di fronte al conseguente stallo dei lavori, la Conferenza dei Capigruppo del Senato ha inserito il disegno di legge, a maggioranza, in calendario d’Aula a partire dal 13 luglio 2021: sulla proposta di calendario il Senato si è pronunciato nella seduta del 6 luglio 2021, rigettando ogni contraria proposta e dunque implicitamente approvando quella formulata dalla Conferenza dei Capigruppo.
L’accelerazione impressa alla discussione ha inasprito ulteriormente il conflitto: in particolare, il Presidente-Relatore ha ritenuto di convocare, in attesa dei passaggi d’Aula, un tavolo politico formato dai capigruppo delle forze di maggioranza con l’obiettivo di tentare una estrema mediazione. In tal sede, anche Italia Viva – fin qui sempre favorevole all’attuale formulazione del testo Zan – ha ritenuto di formulare proposte di modifica, peraltro incidenti sugli stessi articoli sui quali assai rilevante era stato il proprio contributo durante i lavori alla Camera dei Deputati. Si tratta, anzitutto, di modifiche all’articolo 7, volte a precisare ulteriormente il rispetto dell’autonomia scolastica (come si vedrà già ampiamente garantita dal testo); di una proposta di soppressione dell’articolo 4; e, soprattutto, della proposta di eliminare ogni riferimento al contrasto della misoginia, sostituendo al contempo le espressioni “orientamento sessuale e identità di genere” con le espressioni “omofobia e transfobia” in sede di definizione del movente d’odio (con conseguente soppressione dell’articolo 1 in materia di definizioni). Una proposta, quest’ultima, non esente da gravi criticità sul piano della determinatezza della fattispecie penale; dell’idoneità della formula “omofobia e transfobia” a coprire tutta l’area delle discriminazioni e delle violenze per orientamento sessuale (non necessariamente o non solo omosessuale) e per identità di genere (che, secondo quanto si dirà, non riduce all’esperienza della “transizione” di genere); e che, infine, desta perplessità sul piano dello spostamento del fuoco dell’attenzione del legislatore penale dalla promozione della dignità della persona offesa alla repressione delle intenzioni dell’aggressore.
3. Caratteri e necessità dell’intervento penale
Così inquadrato l’intervento normativo, e riassunti i principali passaggi parlamentari, è ora possibile soffermarsi nel dettaglio sui contenuti del ddl Zan[8].
Preliminarmente, deve essere osservato che – a differenza delle proposte di legge discusse in materia nelle precedenti legislature – il ddl Zan persegue l’obiettivo di prevenire e contrastare discriminazioni e violenze secondo una prospettiva integrata, che unisce alla repressione penale di discorsi e crimini d’odio l’articolazione di specifiche misure di prevenzione, operanti sul piano sociale e culturale. Con ciò, il testo sembra collocarsi nel cono d’ombra – o, meglio, nel getto di luce – dei due commi dell’articolo 3 della Costituzione: l’intervento penale, infatti, dà attuazione alla finalità antidiscriminatoria del comma 1, mentre l’intervento di carattere preventivo presenta una finalità trasformativa coerente con il comma 2, e dunque con la rimozione di “ostacoli” che impediscono il “pieno sviluppo della persona umana”.
Ciononostante, l’intervento di carattere penale – e, dunque, l’estensione delle tutele penali previste dalla legge Mancino – occupa il dibattito in maniera pressoché esclusiva.
Il ddl Zan prevede, come noto, l’estensione degli articoli 604 bis e 604 ter del Codice penale alle condotte motivate da sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere della persona offesa.
L’articolo 604 bis del Codice penale prevede quali reati la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico nonché il compimento di atti discriminatori o violenti per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, assieme all’istigazione a commettere tali atti. Di queste fattispecie di reato, il ddl Zan estende unicamente la seconda e la terza (assieme alla corrispondente fattispecie di associazione finalizzata all’incitamento alla discriminazione o alla violenza per i medesimi motivi) alle condotte motivate dal sesso, dal genere, dall’orientamento sessuale, dall’identità di genere e dalla disabilità della vittima, lasciando intatta la fattispecie di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico. Accanto a tale intervento, come accennato, viene estesa anche l’aggravante prevista dall’articolo 604 ter: si tratta di una aggravante a effetto speciale che aumenta la pena prevista per altri reati, ove questi vengano commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso. Anche in questo caso, l’applicazione dell’aggravante viene estesa ai reati fondati su sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità della persona offesa.
Bene protetto dalla norma penale è – come rivela la stessa lettera del codice – l’uguaglianza, in una duplice dimensione. Da un lato, l’uguaglianza intesa come pari dignità di ogni persona nell’affermazione della propria insopprimibile e differente identità; dall’altro, l’uguaglianza intesa come principio di struttura della comunità politica, cui orientare – se necessario – la stessa tutela penale rispetto a comportamenti che con tale principio si pongano in aperto contrasto[9].
L’intervento sul codice penale – sebbene fondamentale per fare fronte all’obiettiva situazione emergenziale derivante dall’aumento di episodi di discriminazione e violenza fisica e verbale ai danni delle persone LGBT+ – rappresenta solo un tassello di una più comprensiva strategia di contrasto alle discriminazioni, così confermando il carattere necessariamente residuale dello strumento penalistico, in armonia con i principi costituzionali che orientano la discrezionalità del legislatore in materia e, in aggiunta, con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima ha infatti più volte chiarito che – nella materia del contrasto all’hate speech, alla discriminazione e alla violenza verso soggetti vulnerabili – per un verso la sanzione penale rappresenta una ultima ratio ma che, per altro verso, quanto i comportamenti violenti sono diretti verso l’integrità fisica o psicologica della persona “only efficient criminal-law mechanisms can ensure adequate protection and serve as a deterrent factor” e che, soprattutto, l’intervento penale è necessario quando si tratta di fare fronte a “direct verbal assaults and physical threats motivated by discriminatory attitudes”[10].
In questa prospettiva devono essere allora affrontate, anzitutto, le critiche che investono la stessa necessità dell’intervento normativo. Si afferma, infatti, che non sarebbe necessario introdurre nuovi reati per tutelare le persone che subiscono violenza di matrice misogina, omolesbobitransfobica o abilista, in quanto sarebbero a tal fine sufficienti le norme già esistenti. Perché, in altri termini, punire in modo diverso le condotte che colpiscono donne, persone LGBT+ o persone con disabilità? Sono forse persone “più uguali” delle altre?
La risposta è semplice, e già implicita nell’originaria finalità della cd. legge Mancino. Ovvio, infatti, che già esistano nel nostro ordinamento norme che tutelano ogni persona da atti di aggressione fisica o verbale. Quel che manca è il riconoscimento della particolare gravità di condotte che colpiscano – con atti o parole – una persona esclusivamente sulla base di una condizione personale che è espressione della sua (pari) dignità. Quando ciò accade, ad essere colpita è anzitutto quella persona: allo stesso tempo, però, il messaggio di violenza raggiunge tutte e tutti coloro che condividono quella condizione personale e, a ben vedere, l’intera comunità politica. Su questo sfondo si colloca l’obiettivo del ddl Zan, che non è certo introdurre una sorta di “inviolabilità” o tutela rafforzata per alcune categorie di persone; molto più semplicemente, si tratta di riconoscere che sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità sono aspetti della personalità ricchi di valore per l’individuo e per la comunità e che, come tali, meritano di essere protetti da crimini motivati esclusivamente dall’odio verso di essi. Ecco perché non è sufficiente invocare le tutele già esistenti, ad esempio richiamando l’aggravante comune legata ai motivi futili o abietti: ad essere in gioco, in questo caso, è qualcosa di più specifico, cioè la pari dignità sociale – l’eguaglianza – di condizioni personali cui deve essere riconosciuta la possibilità di esprimersi in libertà e sicurezza, al riparo dall’odio. Odio che peraltro, in questa prospettiva, non è considerato in quanto “sentimento”, bensì come punto terminale di una dinamica strutturale di umiliazione e subordinazione di alcune soggettività nello spazio pubblico.
D’altra parte, i cd. reati d’odio hanno una ben precisa specificità sul piano criminologico in quanto mettono a rischio – assieme alla dignità delle persone – gli stessi equilibri della convivenza in una società pluralista e aperta al valore delle differenze e, in questo senso, svolgono una importante funzione – sebbene, per quel che si è detto, residuale – in termini di garanzia della coesione sociale e della tenuta del quadro pluralistico.
4. Definizioni e identità: la questione dell’identità di genere
La questione di fondo riguarda dunque la dignità delle persone (e non già di gruppi o “minoranze”); e cioè il riconoscimento che, accanto al sesso, esistono caratteristiche personali ricche di valore per l’individuo e che, come tali, meritano protezione di fronte all’odio. Ciò vale anche per l’orientamento sessuale e l’identità di genere, fattori essenziali nella costruzione della soggettività. Su questo sarebbe bene confrontarsi apertamente: stiamo parlando di meri accidenti della vita, o di dimensioni della dignità che meritano di essere riconosciute, nominate e protette?
La risposta a questo interrogativo è centrale per comprendere il complesso intreccio tra riconoscimento di dimensioni della dignità personale e promozione dell’eguaglianza – formale e sostanziale nel prisma del rapporto tra articolo 2 e articolo 3 della Costituzione; ma anche, più in generale, per inquadrare l’intervento normativo in esame nella cornice di quella ricerca di equilibrio tra riconoscimento delle identità, cittadinanza e (costruzione di) coesione sociale che attraversa come una costante l’esperienza storica e giuridica delle società pluralistiche[11].
4.1. Gli approdi della giurisprudenza europea
Secondo una ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU, d’altra parte, orientamento sessuale e identità di genere costituiscono aspetti della personalità che rientrano nella sfera di applicazione dell’articolo 8 della Convenzione (relativo alla tutela della vita privata e familiare). Trattandosi di aspetti particolarmente intimi e sensibili, peraltro il margine di apprezzamento riservato agli stati membri è molto ristretto; e ancora, per le stesse ragioni, in caso di doglianza riguardante una discriminazione, lo stato membro deve fornire “very weighty reasons” per giustificare il trattamento differenziato[12]. Con specifico riferimento all’identità di genere, inoltre, la Corte ha sostenuto non solo che essa rientra nella sfera privata protetta ai sensi dell’articolo 8 ma anche che il legame tra questa declinazione del diritto alla tutela della vita privata e l’autonomia personale implica, in questo caso, che la libertà di definire la propria identità sessuale rappresenta un basic essential del diritto all’autodeterminazione[13].
Analogamente a quanto avvenuto in numerosi ordinamenti nazionali (anche extraeuropei, si pensi agli Stati Uniti[14]), la giurisprudenza della Corte EDU non si limita peraltro a riconoscere nell’orientamento sessuale una sfera di libertà negativa – vale a dire un aspetto intimo della vita privata che deve essere lasciato libero da interferenze da parte dell’autorità[15] – ma ha progressivamente esteso gli orizzonti del riconoscimento.
Così, paradigmaticamente nella sfera dell’identità di genere, si è affermato che il suo riconoscimento non può essere limitato alla libertà di sottoporsi ad un percorso medico di transizione, ma deve estendersi al pieno riconoscimento degli effetti giuridici della transizione stessa[16] così dando piena protezione alla “personal sphere of each individual, including the right to establish details of their identity as individual human beings”[17].
E ancora, per quel che riguarda l’orientamento sessuale, ad una prospettiva esclusivamente incentrata sulla libertà (negativa) si è aggiunto il riconoscimento positivo della proiezione affettiva e sociale dell’orientamento sessuale, sia in ambito familiare (con la progressiva affermazione del diritto alla tutela della vita familiare per le coppie same-sex[18]) sia in relazione alla promozione delle istanze LGBT+ nello spazio pubblico e al contrasto delle discriminazioni e del discorso d’odio[19].
Vale sottolineare che questo processo di sviluppo nell’inquadramento giuridico delle questioni relative all’orientamento sessuale e all’identità di genere resta tuttavia saldamente ancorato alla premessa della stretta attinenza di esse alla sfera più intima della personalità e dell’identità delle persone, e dunque anche alla loro dignità (la quale viene esplicitamente richiamata, proprio in relazione alla dimensione dell’affermazione di genere, nella citata sentenza Goodwin ma anche nella successiva Van Kück v. Germany[20]).
Al centro rimane dunque la persona, ma di essa vengono progressivamente assunte – in quanto giuridicamente rilevanti – anche la dimensione relazionale, così come la presenza e la partecipazione alle dinamiche dello spazio pubblico: sicché il riconoscimento della dignità si apre, per un verso, alle relazioni e – per altro verso – alla dimensione sociale (e politica), così inverando l’eguaglianza in una prospettiva non dissimile da quella accolta nella nostra Costituzione, che non a caso la definisce, all’articolo 3 comma 1, pari dignità sociale[21].
Allo stesso modo, è interessante notare come tali dinamiche di riconoscimento si estendano progressivamente fino ad includere – da un lato – lo specifico rilievo della dimensione giuridica del riconoscimento[22] e – d’altro canto – la necessità di ostacolare e reprimere ogni episodio di omolesbobitransfobia istituzionale. Così ad esempio, nel richiamato caso Beizaras and Levickas, la Corte EDU ha ravvisato un pregiudizio omofobico nel diniego di giustizia sofferto dai ricorrenti, cui non è stata data protezione – dalle locali autorità – a fronte di gravissime offese e minacce da loro ricevute (anche in rete) in ragione del loro orientamento sessuale[23].
4.2. L’articolo 1 e la definizione di identità di genere
L’inserimento delle definizioni nell’attuale articolo 1 del disegno di legge deriva da specifiche richieste della Commissione Affari costituzionali e del Comitato per la legislazione della Camera dei Deputati, nell’ottica di garantire il principio di tassatività e determinatezza della norma penale. Nel rispondere a quelle richieste, è stato individuato un punto di equilibrio tra l’aderenza al dato criminologico, il riconoscimento della specifica dignità delle dimensioni della personalità protette dalla norma penale e l’esigenza di non pregiudicare l’effettiva protezione delle vittime di reati d’odio. Un testo giuridico, d’altra parte, non è un trattato di antropologia, sebbene esso non possa e non debba rimanere cieco rispetto all’intreccio tra vita, dignità, libertà e cultura; tuttavia, è necessario considerare la specifica funzione della norma – in questo caso, la sua finalità è esclusivamente quella di fornire al giudice elementi per identificare un movente d’odio – e il modo in cui essa si innesta nel sistema.
Traccia di simili equilibri è ben presente, ad esempio, nella assai dibattuta definizione di identità di genere che, secondo la lettera d) dell’articolo 1, consiste nella “identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall'aver concluso un percorso di transizione”.
Il concetto di identità di genere è già presente nella legislazione italiana, ma anche nel diritto europeo e nella giurisprudenza delle più alte Corti: in Italia, Corte costituzionale e Corte di cassazione e, in Europa, la Corte di Strasburgo, a partire almeno dalla richiamata sentenza Goodwin del 2002[24].
Ad esempio, il principio di non discriminazione delle persone detenute, (anche) sulla base dell’identità di genere, è stato introdotto nella legge sull’ordinamento penitenziario in occasione della riforma del 2018[25]. E l’identità di genere è riconosciuta dall’articolo 8, comma 1, lett. d) del decreto legislativo n. 251/2007 tra le caratteristiche funzionali all’individuazione dell’appartenenza a un gruppo perseguitato, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale. Ancora, e più di recente, è stato modificato in questo senso l’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo n. 286/1998[26], introducendo anche l’orientamento sessuale e l’identità di genere tra le ragioni di persecuzione che impediscono l’espulsione dello straniero. Nel diritto europeo, accanto alla giurisprudenza della Corte europea, si possono richiamare, tra le altre, la Direttiva UE 2012/29 in materia di protezione delle vittime di reato, che menziona nei considerando – ben quattro volte – l’identità di genere tra i fattori di vulnerabilità che giustificano la particolare protezione della vittima; e anche, nel più vasto ambito del Consiglio d’Europa, la Raccomandazione n. 5/2010 che – già undici anni fa – invitava gli Stati membri ad integrare la disciplina repressiva dei discorsi e dei crimini d’odio con riferimento anche all’identità di genere.
Il ddl Zan, nella scelta terminologica, conferma dunque acquisizioni consolidate nell’esperienza giuridica. Analogo discorso vale per la sua definizione, che è ricalcata sulle sentenze n. 221/2015 e 180/2017 della Corte costituzionale. In tali decisioni, l’identità di genere è riconosciuta quale diritto fondamentale della persona; e il suo contenuto è l’aspirazione alla corrispondenza tra il sesso attribuito alla nascita e quello “soggettivamente percepito e vissuto”[27] (enfasi aggiunta). Una aspirazione che si realizza attraverso il complesso percorso delineato dalla legge n. 164/1982, che peraltro non contempla più – proprio per effetto delle sentenze richiamate – la necessità di un intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali primari. Nell’affermazione dell’identità di genere il dato volontaristico si affianca alla trasformazione del corpo e al concreto manifestarsi di tutto ciò nella vita sociale: percezione e manifestazione di sé, desiderio e corpi in relazione. In un percorso articolato, appunto, che non segue itinerari prefissati e ha una sua durata variabile a seconda delle singole esperienze.
Di tutto questo il ddl Zan ha dovuto tenere conto, nel definire l’identità di genere. E lo ha fatto non per fissare una volta per tutte la definizione di una condizione personale così complessa; bensì, molto più modestamente, per garantire la migliore applicazione di norme destinate a reprimere reati motivati dall’odio verso di essa e le sue concrete espressioni.
Discriminazione e violenza non dipendono certo da una rettifica anagrafica. L’odio nasce dal rifiuto della non conformità di un corpo e di una esperienza di vita rispetto a un modello. Ecco perché nella definizione, si parla di “identificazione percepita e manifestata di sé” non vincolata alla conclusione di un percorso di transizione. Si realizza così l’equilibrio tra la funzione della definizione – fornire al giudice un criterio tendenziale per l’individuazione del movente d’odio – e l’esigenza di assicurare massima protezione alle persone che subiscono discriminazione e violenza a causa della loro identità di genere.
Scopo della definizione di cui all’articolo 1, lettera d) è in altri termini quella di proteggere le persone trans e non binarie dalla violenza in ogni momento del loro percorso di vita; limitarne la portata solo a chi abbia scelto di affermare la propria identità di genere ricorrendo a un percorso finalizzato alla rettificazione anagrafica, o che abbia addirittura già ottenuto la rettificazione metterebbe a rischio le persone più vulnerabili, oggetto di odio perché percepite “non conformi” al modello binario uomo/donna. E ciò, senza che peraltro venga negata la differenza sessuale, e il potenziale – anche simbolico e critico – della sua affermazione[28]. Si tratta, molto più semplicemente, di riconoscere che i corpi possono essere attraversati dalla libertà. Che esistono esperienze di vita plurali e diverse, le quali devono poter esistere senza correre il rischio di subire discriminazione o violenza.
5. Il problema della tenuta della libertà di manifestazione del pensiero
Un altro rilevante ordine di critiche che viene mosso al disegno di legge Zan è quello attinente al presunto contrasto tra l’estensione di alcune delle condotte previste e punite dall’articolo 604-bis c.p. – in particolare, l’istigazione al compimento di atti discriminatori e violenti – e la tenuta della libertà di manifestazione del pensiero.
Si tratta di preoccupazioni non nuove al dibattito pubblico, che già vennero espresse – ad esempio – in occasione della discussione di un analogo disegno di legge (il cd. ddl Scalfarotto) nella scorsa legislatura. E che, già in tale sede, condussero all’introduzione nel testo di una disposizione aggiuntiva, formulata nei termini di una vera e propria causa di esclusione della punibilità che recava in sé, peraltro, una vera e propria clausola di salvaguardia per alcune tipologie di opinioni, in relazione al contesto in cui fossero espresse[29].
Rispetto a tale esperienza, la scelta della Camera dei Deputati è stata – in questo caso – più equilibrata e, soprattutto, rispettosa degli equilibri già definiti non solo dalla giurisprudenza costituzionale in tema di limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, ma anche dalla giurisprudenza di legittimità relativa all’applicazione delle fattispecie di cui alla cd. legge Reale-Mancino. Il testo dell’articolo 4 del ddl S. 2005, introdotto in Commissione e successivamente integrato dall’Aula – anche su sollecitazione della Commissione Affari costituzionali – dispone infatti che “ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. In primo luogo, va osservato che la norma non è formulata nei termini di una causa di esclusione della punibilità, bensì più semplicemente nei termini di una norma di principio che potrà orientare il giudice in sede di applicazione della disposizione di cui all’articolo 604-bis c.p., senza escludere a priori la punibilità di alcune condotte e rinviando, piuttosto, a una valutazione in concreto della loro idoneità a determinare il pericolo del compimento degli atti conseguenti (secondo la formula che, come vedremo, risulta da consolidata giurisprudenza). In secondo luogo, appare alquanto significativo che la disposizione si apra con l’espressione “ai fini della presente legge”, quasi a integrare la finalità antidiscriminatoria del ddl nella ratio della disposizione in esame, curvando su di essa l’interpretazione del ridetto principio.
Come accennato, tale punto di equilibrio appare del tutto coerente con gli approdi della giurisprudenza e, soprattutto, con la sistematica dei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero e, in particolare, con quei limiti che derivano da specifiche esigenze della convivenza in società pluralistiche[30].
Sul punto, allora, può essere utile svolgere qualche considerazione più distesa.
5.1 Gli approdi della giurisprudenza interna
Alla luce della giurisprudenza costituzionale sui cd. reati di opinione[31] appare necessario indagare, più in particolare, i due profili della concreta offensività della condotta sanzionata e l’individuazione del bene protetto dalla norma, suscettibile di giustificare la repressione di una specifica manifestazione del pensiero o di una opinione capace di istigare alla discriminazione o alla violenza.
Sul primo punto – la concreta offensività – vale rilevare che, come già notato, l’intervento normativo non riguarda la fattispecie di propaganda pure disciplinata dall’articolo 604 bis, la quale resta circoscritta alle idee fondate sulla superiorità etnica o sull’odio razziale. Allo stesso tempo, la formulazione della disposizione penale in relazione alle altre due fattispecie sanzionate – istigazione al compimento e compimento di atti discriminatori e violenti – lega assai strettamente, già a livello testuale, l’istigazione e il compimento vero e proprio, contribuendo a configurare la condotta istigatoria penalmente rilevante – anche solo ad una sommaria lettura della norma – quale condotta idonea a determinare il concreto pericolo che, in conseguenza dell’istigazione, possano essere compiuti atti discriminatori o violenti.
La necessità di individuare una soglia di concreta offensività per i delitti di istigazione a delinquere o apologia di reato, peraltro, è ben presente nella giurisprudenza della Corte costituzionale e nella giurisprudenza ordinaria, che proprio nella concreta offensività della condotta istigatoria ha rinvenuto il discrimine tra limitazioni consentite e non consentite della libertà di manifestazione del pensiero e, di conseguenza, il criterio per valutare la legittimità costituzionale delle relative fattispecie di reato alla luce dell’articolo 21[32]. La soglia dell’offensività, pertanto, non viene attinta da condotte che implicano semplice manifestazione del pensiero, bensì soltanto da condotte idonee a determinare concrete situazioni di pericolo, con la conseguenza che tale idoneità deve risultare anche da un sufficiente tasso di determinatezza della fattispecie penale[33].
Con specifico riguardo alle fattispecie penali introdotte dalla cd. legge Mancino (e oggi confluite negli articoli 604-bis e ter del codice penale), è pacifica nella giurisprudenza – sia con riguardo alla fattispecie autonoma di reato, sia con riguardo alla configurabilità della circostanza aggravante – la necessità che la condotta istigatoria sia idonea a determinare il pericolo concreto del verificarsi di atti discriminatori e violenti. Così ad esempio, con riguardo alla fattispecie autonoma di reato, Cass. pen., sez. I, 22 maggio 2015, n. 42727 afferma (in massima) che – sebbene si tratti di un reato di pericolo, il quale si perfeziona “indipendentemente dalla circostanza che l’istigazione sia accolta dai destinatari” – resta tuttavia necessario “valutare la concreta ed intrinseca capacità della condotta a determinare altri a compiere un’azione violenta con riferimento al contesto specifico ed alle modalità del fatto”. A proposito della configurabilità della circostanza aggravante, si pensi analogamente, e tra le molte, a Cass. pen., sez. V, 14 febbraio 2018, n. 14200 nella quale si legge (sempre in massima) che “la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso è configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, a un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente” (enfasi aggiunta).
Il secondo profilo che deve essere indagato attiene, come anticipato, ai limiti che la libertà di manifestazione del pensiero incontra “quando l’espressione del pensiero si attua mediante un’offesa a beni e diritti che meritano tutela”[34]. La configurazione di un simile limite alla libertà di manifestazione del pensiero dimostra – in linea generale e coerentemente con le esigenze del sistema costituzionale di protezione dei diritti e delle libertà fondamentali – che non è possibile ragionare sull’effettiva portata di una libertà fondamentale se non si ha riguardo al modo in cui questa libertà si atteggia in relazione alle altre o, più in profondità, alla circostanza che i diritti e le libertà fondamentali riconosciute nella prima parte della Costituzione si alimentano dei principi fondamentali di cui agli articoli 2 e 3 – libertà, eguaglianza come pari dignità sociale, solidarietà – e, nelle loro concrete dinamiche applicative, ad essi sempre debbono essere riferiti. In altri termini, individuare in altri “beni e diritti che meritano tutela” nel quadro costituzionale di riferimento uno specifico limite alla libertà di manifestazione del pensiero significa consolidare la consapevolezza che i diritti e le libertà fondamentali non sono prerogativa di individui isolati, ma si esercitano e vengono tutelati avuto riguardo alla fitta rete di relazioni sociali in cui l’individuo è immerso. Così, la libertà di espressione non si esercita soltanto nello spazio intimo della coscienza, ma ben può (e in taluni casi non può non) proiettarsi in uno spazio pubblico ricco di relazioni e pertanto non può ledere, in quello spazio, la (pari) dignità e l’altrui diritto al rispetto, alla reputazione, all’onore.
Esiste, in questa prospettiva, un legame molto stretto tra libertà di espressione, pluralismo e qualità della democrazia, il quale però non può eludere – né escludere dal suo orizzonte – il rilievo specifico della solidarietà e della corresponsabilità che rendono possibile la coesione sociale e, con essa, una buona qualità della vita democratica della comunità politica[35].
Particolare rilievo assume, in questa prospettiva, la tutela della dignità personale e, conseguentemente, l’esigenza di sorvegliare con attenzione il confine tra manifestazione di opinioni assistite dalla garanzia di cui all’articolo 21 della Costituzione e opinioni che, per la loro idoneità a ledere la dignità e l’onore altrui, non possono essere tollerate dall’ordinamento[36].
D’altro canto, già negli anni settanta la Corte aveva ritenuto che il delitto di diffamazione non potesse ritenersi lesivo della libertà di manifestazione del pensiero in quanto, da un lato, essa incontra “limiti derivanti dalla tutela del buon costume o dall’esistenza di beni o interessi diversi che siano parimenti garantiti o protetti dalla Costituzione” e, dall’altro, “tra codesti beni ed interessi, ed in particolare tra quelli inviolabili, in quanto essenzialmente connessi con la persona umana, è l’onore (comprensivo del decoro e della reputazione) che trova difesa nelle previsioni degli artt. 594 e 595 del codice penale”[37].
Proprio a tale riguardo, può ricordarsi una recente e importante decisione del Tribunale di Torino[38] – relativa alla condanna per diffamazione di un soggetto che aveva pubblicamente manifestato espressioni gravemente lesive della dignità e dell’onore delle persone LGBT+ – nella quale si legge che, attraverso il delitto di diffamazione “non è […] il pensiero ad essere giudicato, ma la sua offensività al bene giuridico protetto in sede penale”, vale a dire il rispetto della reputazione e dell’onore, quali diritti della personalità di pari rango – per il tramite dell’articolo 2 della Costituzione – rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero e dunque suscettibili di configurare un limite alla medesima[39].
5.2. Segue: gli approdi della giurisprudenza europea e la ratio della repressione del discorso d’odio
Ulteriori significative indicazioni in merito al bilanciamento tra contrasto alle discriminazioni, repressione dei crimini d’odio e libertà di espressione, provengono infine dalla giurisprudenza europea. Quanto alla giurisprudenza della Corte di giustizia UE si pensi, ad esempio, alla sentenza nel caso “Taormina”[40], nella quale si afferma chiaramente che la libertà di espressione non può vanificare gli obiettivi della direttiva 2000/78/CE in materia di contrasto alle discriminazioni legate a orientamento sessuale e identità di genere sul luogo di lavoro, sicché “l’ingerenza nell’esercizio della libertà di espressione non va oltre quanto è necessario per realizzare gli obiettivi di tale direttiva, vietando unicamente le dichiarazioni che costituiscono una discriminazione in materia di occupazione e di lavoro” (par. 52).
Nella giurisprudenza della Corte EDU, il riferimento va, anzitutto, alla sentenza Vejdeland c. Svezia[41], relativa al ricorso di un soggetto condannato dalla Suprema Corte svedese per aver diffuso volantini contenenti espressioni violente e discriminatorie nei confronti delle persone omosessuali. La Corte EDU non ha ravvisato la lamentata violazione della libertà di espressione (protetta dall’articolo 10 della Convenzione), ritenendo la condanna giustificata alla luce del fatto che, in una società democratica, il riconoscimento di diritti (quale, appunto, la libertà di espressione) non può andar disgiunto dall’esercizio di doveri, tra cui rientra senza dubbio quello di “avoid statements that are unwarrantably offensive to others, constituting an assault on their rights” (par. 57).
Più recentemente, nella sentenza Bayev v. Russia[42] la Corte EDU ha piuttosto ravvisato una violazione degli articoli 10 (libertà di espressione) e 14 (principio di non discriminazione) della Convenzione nell’adozione, in Russia, di leggi recanti il divieto di esprimere in pubblico e in presenza di minori il proprio orientamento sessuale e di sostenerne la pari dignità. La Corte ha in particolare escluso che un simile divieto potesse essere giustificato dalla protezione della morale maggioritaria[43], né dalla protezione della salute, né dalla protezione dei diritti dei minori i quali, anzi, possono trarre beneficio dall’essere esposti a messaggi di tolleranza e apertura a diversi stili di vita[44].
I principi affermati in Vejdeland, infine, sono stati da ultimo ribaditi – oltre che nella già richiamata sentenza Beizaras e Levickas c. Lituania – nella sentenza Lilliendahl c. Islanda[45]. Con tale decisione la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso di un cittadino islandese – condannato dalle giurisdizioni interne per discorso d’odio fondato sull’orientamento sessuale – che lamentava proprio la violazione della propria libertà di manifestazione del pensiero. In tale decisione la Corte, ribadendo che “discrimination based on sexual orientation is as serious as discrimination based on «race, origin or colour»” (par. 45) ha confermato che – quando ad essere oggetto di condanna penale è l’espressione di un’opinione tesa a umiliare la dignità di una persona o di un gruppo di persone sulla base dell’orientamento sessuale[46] – non può dirsi violata la libertà di espressione garantita dall’articolo 10 della Convenzione. Sebbene le espressioni oggetto di condanna non attingano la gravità prevista dall’articolo 17 della Convenzione in materia di abuso del diritto[47] – il che avrebbe escluso del tutto il rilievo della libertà di espressione – sussistono in pieno le ragioni giustificative di tale libertà previste al secondo comma dell’articolo 10 e, in particolare, la necessità di proteggere diritti altrui (nella specie, il diritto delle persone omosessuali al rispetto della vita privata).
L’analisi, seppur sintetica degli approdi della giurisprudenza interna ed europea dimostra che la preoccupazione per eventuali rischi per la libertà di manifestazione del pensiero – anche con specifico riguardo al ddl Zan – deve essere correttamente collocata con riferimento alla ragione sistematica della repressione dei discorsi e dei crimini d’odio e, in tale quadro, agli scopi che tale legislazione si prefigge con precipuo riguardo all’intreccio tra tutela della pacifica convivenza e protezione della dignità personale. Se è vero che, da un lato, la libertà di manifestazione del pensiero è la pietra angolare di ogni democrazia pluralista, è altrettanto vero – d’altra parte – che le istituzioni della democrazia sono serventi, nello stato costituzionale, rispetto al principio di dignità: la dignità della persona, ha affermato Peter Häberle, è la premessa antropologica dello stato costituzionale e la democrazia ne è la “conseguenza organizzativa”[48]. In questo intreccio tra riconoscimento e protezione della dignità della persona e qualità della vita democratica risiede, in fondo, la giustificazione stessa della repressione dei discorsi d’odio; ed è alla luce di essa che ogni riflessione sul punto andrebbe condotta.
“Punire l’odio”, in altri termini, non significa regolare la circolazione delle idee nello spazio pubblico, né limitare gli spazi del libero confronto democratico in una società pluralista: significa soltanto riconoscere la dignità delle persone, proteggendole da forme d’odio che hanno il solo obiettivo di umiliarle pubblicamente, colpirle, marginalizzarle o addirittura cancellarle.
6. La seconda parte e la questione educativa
Come accennato, la proposta di legge affronta la questione del contrasto delle discriminazioni e della violenza di matrice misogina, omolesbobitransfobica e abilista rinunciando ad un approccio di tipo soltanto episodico o occasionale – vale a dire, finalizzato a contenere o reprimere episodi di discriminazione e violenza una volta che essi si siano verificati – e scegliendo di intervenire anche sulle condizioni strutturali della discriminazione e della violenza, con misure di carattere preventivo, oltre che di concreto sostegno alle vittime.
All’intervento penale si aggiungono, pertanto, specifici interventi che mirano a superare le condizioni strutturali e sistemiche della discriminazione e della violenza, con riferimento però alla sola matrice omolesbobitransfobica, per evitare sovrapposizioni con gli strumenti già previsti dall’ordinamento per la prevenzione della discriminazione e della violenza contro donne e persone con disabilità.
Tale tipologia di intervento è racchiusa negli articoli da 7 a 10 della proposta di legge in esame. Anzitutto, l’articolo 7 istituisce anche in Italia – il 17 maggio di ogni anno – la Giornata contro omofobia, lesbofobia, bifobia e transfobia (IDAHOBIT), esistente a livello mondiale dal 2004 e proclamata dal Parlamento europeo con Risoluzione del 26 aprile 2007. In occasione della Giornata – che già oggi viene celebrata con interventi delle più alte cariche istituzionali – è previsto che le amministrazioni pubbliche e le scuole provvedano, senza oneri a carico della finanza pubblica, a organizzare celebrazioni e ogni altra iniziativa utile “al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall'orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione” (così il primo comma della disposizione in esame).
Si tratta di una disposizione che presenta non solo un alto contenuto simbolico – elevando gli obiettivi appena richiamati a contenuto di una riflessione collettiva e pubblica, così dando un concreto segnale di inclusione delle istanze LGBT+, in ottica eminentemente integrativa – ma che appare suscettibile di innescare processi culturali virtuosi, così contribuendo alla prevenzione della discriminazione e della violenza omolesbobitransfobica.
Anche su tale previsione si registra un dibattito molto acceso relativo – per un verso – alla censura di un presunto intento “pedagogico” della proposta di legge; e, per l’altro, ai rischi di una eccessiva compressione dell’autonomia scolastica. Si tratta di passaggi molto delicati, che chiamano in causa la funzione stessa di una proposta di legge come questa nello spazio pubblico. Sul profilo della funzione “pedagogica” – che è comunque esclusa dal chiaro ancoraggio costituzionale dell’articolo 7, comma 1 – si tornerà nelle conclusioni. Può essere invece utile svolgere qualche brevissima considerazione sul profilo del rispetto dell’autonomia scolastica, non da ultimo perché lo stesso è oggetto di aspro dibattito anche in Senato in vista dell’arrivo in Aula del disegno di legge.
Basti ricordare, sul punto, che la disposizione in esame – per come modificata in Aula alla Camera dei Deputati – rinvia al comma 3 a due strumenti dell’autonomia scolastica. Anzitutto, il Piano triennale dell’offerta formativa, con specifico riferimento alle finalità di cui al comma 16 dell’articolo 1 della legge n. 107/2015[49]; il PTOF è disciplinato dal comma 14 del medesimo articolo 1 che, a sua volta, modifica l’articolo 3 del D.P.R. n. 275/1999.
Per quel che qui rileva, è interessante notare come: a) la disciplina del piano triennale dell’offerta formativa – definito quale “documento fondamentale costitutivo dell'identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche [che] esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa che le singole scuole adottano nell'ambito della loro autonomia” – appaia saldamente ancorata nella cornice dell’autonomia scolastica, dal momento che la sua elaborazione deve coinvolgere tutte le “componenti” dell’istituzione scolastica (così il comma 1 del citato art. 3). Esso è pertanto elaborato dal collegio dei docenti in collaborazione con le altre componenti e deve essere approvato dal consiglio di istituto; b) il carattere non ideologico – bensì saldamente ancorato in Costituzione – delle finalità di cui al comma 16 venne chiarito, pochi mesi dopo l’approvazione della legge n. 107/2015, dalla Nota del Ministero dell’Istruzione inviata in data 15 settembre 2015 (n. 1972) ai Direttori generali degli Uffici scolastici regionali e delle Province autonome di Trento e Bolzano. In tale nota si specifica in modo esplicito che il comma 16 risponde “all’esigenza di dare puntuale attuazione ai princìpi costituzionali di pari dignità e non discriminazione” desumibili dagli articoli 3, 4, 29, 37, 51 della Costituzione nonché dal diritto europeo e che la sua finalità non è “quella di promuovere pensieri o azioni ispirati ad ideologie di qualsivoglia natura, bensì quella di trasmettere la conoscenza e la consapevolezza riguardo i diritti e i doveri della persona costituzionalmente garantiti”. Si noti, peraltro, che la nota prosegue con espliciti richiami – tra gli altri – alla necessità di contrastare l’emersione di discorsi d’odio mediante la costruzione di un ambiente scolastico inclusivo e rispettoso delle differenze[50].
Il secondo strumento dell’autonomia richiamato dalla disposizione in esame è il patto educativo di corresponsabilità, di cui all’articolo 5 bis del D.P.R. n. 249/1998, come introdotto dall’articolo 3 del D.P.R. n. 235/2007. Il patto è sottoscritto al momento dell’iscrizione ed è “finalizzato a definire in maniera dettagliata e condivisa diritti e doveri nel rapporto tra istituzione scolastica autonoma, studenti e famiglie” (corsivo aggiunto). Il richiamo al patto di corresponsabilità educativa pare assai significativo, specie se si considera che uno degli argomenti che più di frequente viene speso in sede di critica pubblica all’articolo 7 del ddl attiene proprio a una presunta esclusiva competenza delle famiglie in tema di educazione di figlie e figli in questi ambiti. Il richiamo al concetto di corresponsabilità appare invece, in questo quadro, maggiormente coerente con gli assetti e gli equilibri che caratterizzano l’autonomia scolastica e il rapporto tra scuole e famiglie e che sono immediatamente desumibili dallo stesso quadro costituzionale di riferimento[51].
In una società pluralista, infatti, la garanzia della convivenza tra diverse visioni del mondo e della vita – la costruzione di coesione a partire dalla valorizzazione delle differenze, ma senza irrigidire queste ultime in cerchie isolate e impermeabili le une rispetto alle altre – non dipende più soltanto, come è stato affermato, dall’omogeneità di una comunanza di vita ma può essere garantita solo dalla “corresponsabilità rispetto alla reciproca convivenza di ciascuna componente sociale nei confronti dell’altra”[52]. In questo quadro, il compito educativo della scuola pubblica rinvia soprattutto alla promozione e allo sviluppo, nelle studentesse e negli studenti, di competenze critiche per la lettura della realtà che non possono prescindere dalla conoscenza e dal rispetto delle differenze. Famiglie e istituzioni scolastiche – in tutte le loro componenti, comprese studentesse e studenti – sono così chiamate a creare le condizioni, attraverso l’uso degli strumenti dell’autonomia e l’articolazione di dinamiche discorsive attraverso il libero confronto, per la costruzione di un ambiente scolastico aperto e inclusivo, nel quale ogni persona possa sentirsi accolta e attraverso il quale tutte e tutti possano crescere secondo i canoni di una cittadinanza consapevole e solidamente ancorata nel quadro costituzionale. E l’articolo 7 del ddl Zan si pone esattamente in quest’ottica.
L’articolo 8 del disegno di legge potenzia invece le competenze dell’UNAR, intervenendo sull’articolo 7 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 e introducendo in tale ambito, espressamente, l’elaborazione triennale di una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Detta strategia interverrà nei settori dell’educazione e della formazione, del lavoro, della sicurezza e delle carceri nonché della comunicazione e dei media e potrà consistere nel finanziamento di progetti su base competitiva o in altri “specifici interventi” che verranno individuati dall’Ufficio all’esito di consultazione con le amministrazioni locali, con le organizzazioni di categoria e con le associazioni impegnate nel contrasto delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere. La copertura legislativa della strategia nazionale LGBT dell’UNAR – attiva dal 2013 in via di prassi – vale a istituzionalizzarla e a renderla stabile e giuridicamente doverosa; più in generale, si tratta di un’importante misura di carattere preventivo, che potrà incidere non soltanto sul consolidamento di processi culturali, ma anche sull’adozione di specifiche azioni positivamente rivolte alla prevenzione di fenomeni di discriminazione.
Egualmente dedicato a politiche “attive” per il contrasto delle discriminazioni e della violenza è l’articolo 9 che, nella formulazione approvata dalla Commissione Giustizia della Camera, prevedeva l’istituzione – con regolamento collegiale adottato su proposta del Ministro per le Pari Opportunità – di un programma per la realizzazione di centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere, dislocati su tutto il territorio nazionale e destinati ad assicurare “adeguata assistenza legale, sanitaria, psicologica, di mediazione sociale e ove necessario adeguate condizioni di alloggio e di vitto” non solo alle vittime dei reati di cui all’articolo 604-bis commessi per motivi legati a orientamento sessuale e identità di genere (o di reati aggravati per i medesimi motivi ai sensi dell’articolo 604-ter) ma anche a chi si trovi “in condizione di vulnerabilità legata all’orientamento sessuale o all'identità di genere in ragione del contesto sociale e familiare di riferimento”.
Il contenuto di tale disposizione è da ultimo confluita nell’articolo 38-bis del decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104, introdotto dalla legge di conversione, che ha modificato l’articolo 105-quater del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34: nel rifinanziare – in modo permanente (in ragione di 4 milioni di euro annui) e per le medesime esigenze di prevenzione e contrasto delle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere – il Fondo per le esigenze indifferibili (art. 1, comma 200, legge 23 dicembre 2014, n. 190), il legislatore ha integralmente anticipato la disciplina dei centri di cui alla proposta di legge Zan, sostituendo peraltro il riferimento al regolamento collegiale con quello, più snello e di più immediata operatività, a un decreto del Ministro per le Pari Opportunità[53]. Anche in questo caso, come già osservato per l’articolo 8, si riconosce il ruolo delle associazioni operanti nel settore, sia per quel che riguarda l’assunzione in prima persona del compito di strutturare e gestire i centri (assieme, se del caso, agli enti locali) sia per quel che riguarda la loro consultazione da parte del Ministro – prevista dal comma 2-ter – in sede di elaborazione del programma.
Il coinvolgimento di enti locali, organizzazioni di categoria e associazioni rappresenta un profilo assai significativo della disciplina in parola, in quanto presuppone il riconoscimento di processi socio-culturali con i quali l’articolazione delle politiche pubbliche in materia è chiamata a coordinarsi, in una logica – lato sensu – di sussidiarietà orizzontale. Accanto a tale profilo, e con riferimento specifico alla disciplina dei centri, deve essere sottolineato – per un verso – il riferimento esplicito alla loro diffusione “in tutto il territorio nazionale” e, per l’altro, la circostanza che l’accesso agli stessi non è riservato solo alle vittime di delitti ma anche a persone che si trovino comunque in condizione di vulnerabilità in ragione del contesto sociale e familiare di riferimento: di nuovo, l’obiettivo principale della proposta di legge, che è quello di prevenire prima di dover reprimere, viene declinato con riferimento a dinamiche socio-culturali più ampie e comprensive e con la prefigurazione di uno scenario in cui opereranno veri e propri presidi solidali di prossimità, specie nei territori più periferici. Un tassello fondamentale, a parer nostro, per la trasformazione delle condizioni strutturali della discriminazione e della violenza.
Infine, l’articolo 10 della proposta di legge prevede che l’Istat svolga con cadenza almeno triennale una rilevazione statistica sull’incidenza di discriminazioni e violenze, sulle opinioni della popolazione al riguardo e sulle caratteristiche delle vittime. Scopo dichiarato della disposizione in esame è quello di agevolare la verifica dello stato di applicazione della legge, la progettazione delle politiche di contrasto e il monitoraggio delle politiche di prevenzione. Si tratta, pertanto, di una norma di chiusura, che si lega alle precedenti (soprattutto agli articoli 8 e 9) e mira a colmare una lacuna assai significativa in relazione al reperimento di dati attendibili sull’entità dei fenomeni di discriminazione e violenza omolesbobitransfobica nel nostro paese[54]: in tal senso, è significativo che – a seguito dell’approvazione di un emendamento in Commissione – si sia previsto che l’Istat proceda di concerto con l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD), incardinato presso il Dipartimento Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno.
7. Conclusioni: alla ricerca di un equilibrio
Emerge dunque con sufficiente chiarezza, dalle considerazioni sin qui svolte, che l’intervento normativo in discussione si pone in armonia con i principi costituzionali e con le consolidate acquisizioni della giurisprudenza sovranazionale.
In particolare, il carattere integrato dell’approccio alla prevenzione e al contrasto delle discriminazioni e della violenza di matrice omo-lesbo-bi-transfobica costituisce attuazione del principio di pari dignità sociale nella sua dimensione formale e materiale. Allo stesso tempo, di tale principio viene valorizzato il legame con i diritti fondamentali di cui all’articolo 2 della Costituzione consentendo, in definitiva, di recuperare “il collegamento coi soggetti titolari della situazione giuridica soggettiva (diritto) alla eguaglianza”[55]; contemporaneamente, la tutela della pari dignità non si limita a un intervento di carattere antidiscriminatorio, ma poggia solidamente sulla base rappresentata da concrete politiche di promozione dell’uguaglianza, che hanno l’obiettivo di trasformare le (pre-)condizioni strutturali della discriminazione, e dunque di intervenire sulle ragioni – sociali e culturali – della subordinazione e dell’umiliazione di alcune soggettività nello spazio pubblico.
L’analisi sin qui condotta ha peraltro mostrato – con specifico riferimento all’intervento in materia penale – che è possibile sdrammatizzare il profilo di un eventuale contrasto di esso con la libertà di manifestazione del pensiero. E ciò, tanto per ciò che riguarda la definizione della condotta – e cioè, in particolare, la concreta offensività dell’istigazione – quanto per ciò che riguarda la possibilità di individuare un bene costituzionalmente rilevante e suscettibile di giustificare una limitazione della libertà di espressione: in altri termini, non ogni opinione è oggetto della norma penale, ma solo l’opinione istigatoria che – determinando un concreto pericolo di compimento di atti discriminatori o violenti – leda l’identità personale altrui, in relazione al genere, all’orientamento sessuale o all’identità di genere. L’obiettivo delle disposizioni in argomento, lo si ripete, non è quello di regolare la circolazione delle idee nello spazio pubblico, bensì di proteggere la dignità delle persone, in relazione ad aspetti della loro identità che – per ragioni sociali, culturali e politiche – assumono tratti di peculiare vulnerabilità e che, anche al di là di ciò, sono ritenute meritevoli di riconoscimento e tutela.
Alla luce di tali considerazioni deve essere considerata – e sottoposta a critica – anche la recente nota verbale fatta pervenire dalla Santa Sede al Governo italiano, nella quale si paventa la potenziale violazione di due disposizioni degli Accordi di Villa Madama – i commi 1 e 3 dell’articolo 2 – che assicurano alla Chiesa cattolica “la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione” nonché “la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale, nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”; e assicurano ai cattolici e alle loro associazioni “la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. La potenziale violazione è riscontrata in relazione a un ambito circoscritto del testo e cioè la criminalizzazione degli atti discriminatori[56]. Tale previsione entrerebbe secondo la Santa Sede in conflitto con la centralità che la “differenza sessuale” assume nel magistero ecclesiastico “secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina”. C’è da chiedersi se il disegno di legge Zan la metta davvero a rischio, e in che termini. La risposta è semplice, ed è negativa. L’obiettivo del testo è chiaro: prevenire e contrastare la discriminazione e la violenza motivate dal sesso, dal genere, dall’orientamento sessuale, dall’identità di genere o dalla disabilità delle vittime. Ed è in questi termini che vanno lette e interpretate, secondo quanto si è sin qui tentato di dimostrare, le sue disposizioni, ivi comprese quelle di carattere definitorio. Non si tratta di sposare una prospettiva antropologica, escludendone altre: si tratta, molto più semplicemente, di tutelare la dignità delle persone. E di farlo anche punendo discorsi e crimini fondati sull’odio verso condizioni personali.
Non “prospettive antropologiche”, ma vite di persone in carne e ossa, corpi attraversati dalla libertà, che meritano di vivere in condizioni di pari dignità e sicurezza quale che sia il loro rapporto con dogmi o modelli. Di questo si occupa la proposta di legge: che è, come già sottolineato, un testo giuridico e non un trattato di antropologia.
In una democrazia pluralistica hanno cittadinanza diverse visioni del mondo. Tra queste è senza dubbio ricompresa la “prospettiva antropologica” di cui la Santa Sede rivendica la tutela. La Chiesa cattolica ha il diritto di affermarla e sostenerla nello spazio pubblico e gli articoli 19 e 21 della Costituzione – prima ancora degli Accordi di Villa Madama – predispongono le condizioni adeguate affinché ciò possa avvenire. Allo stesso modo, chi sia portatore di una diversa visione del mondo ha il diritto, se lo ritiene, di criticare quella “prospettiva antropologica” con gli strumenti della democrazia e del libero confronto.
Il disegno di legge Zan si pone in armonia con queste premesse quando, all’articolo 4, fa salve “la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, con il solo limite dell’idoneità di quelle condotte e di quelle opinioni a “determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Dunque, è pacifico che quella “prospettiva antropologica” non perderebbe, per effetto dell’approvazione del disegno di legge, la propria cittadinanza nello spazio pubblico. Come ogni altra visione del mondo, non potrà piuttosto travalicare nell’istigazione alla discriminazione o alla violenza.
Quel che non si può pretendere da una democrazia laica e pluralista è che assuma e promuova una determinata visione del mondo, fino al punto di legittimare condotte lesive della dignità altrui, sol perché basate su di essa. Resta spazio, sempre, per il ragionevole bilanciamento tra i diversi diritti fondamentali coinvolti, compresa la libertà religiosa. Il principio di laicità – come fermamente chiarito dal Presidente del Consiglio dei ministri nel suo intervento in Senato del 23 giugno 2021, in risposta alla nota verbale vaticana – non si riduce d’altra parte alla mera neutralità rispetto al fenomeno religioso, ma è legato a doppio filo al principio pluralista. Ed entrambi affondano le proprie radici nel principio personalistico, e dunque nella tutela della dignità individuale.
In questa prospettiva, tanto l’intervento penalistico quanto l’articolazione di azioni positive finalizzate alla prevenzione e al contrasto aggiungono un significativo tassello all’allargamento dei confini della soggettività rilevante dal punto di vista giuridico e costituzionale. In altri termini, orientamento sessuale e identità di genere assurgono ad aspetti della personalità che l’ordinamento assume come rilevanti e degni di protezione, con un conseguente significativo arricchimento della stessa immagine della persona costituzionalmente rilevante, del suo riconoscimento e della promozione della pari dignità sociale e dei diritti inviolabili (artt. 2 e 3 Cost.)[57].
Allo stesso modo, il testo non vuole “educare”, ma si pone soltanto l’obiettivo di (provare a) trasformare le condizioni strutturali in cui discriminazione e violenza prosperano, mettendo in discussione gli stereotipi che ostacolano l’affermarsi di una cultura del rispetto e dando alle ragazze e ai ragazzi la sicurezza di sapere che possono essere accolti quale che sia la direzione che prenda la loro crescita, senza timore, in uno spazio pubblico e in un ambiente scolastico aperto e inclusivo. La lezione, in fondo, è quella dell’articolo 3 della Costituzione: l’uguaglianza non si tutela soltanto eliminando discriminazioni, ma anche (e soprattutto) rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Questa è l’unica pedagogia possibile, nella nostra democrazia.
Il rilevato carattere integrato dell’intervento normativo, pertanto, rende evidente che la stessa tutela penale dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, ove unita ad opportune azioni positive rivolte alla prevenzione e al contrasto delle discriminazioni e delle violenza e, in definitiva, alla piena inclusione delle persone LGBT+ nella comunità politica – lungi dal ridurre queste soggettività al solo profilo della loro specifica vulnerabilità – avrebbe il pregio di arricchire la qualificazione giuridica di tali profili della personalità e di fondarne (e rafforzarne) la pari dignità sociale.
*Sul medesimo tema si veda anche, su questa Rivista, Il d.d.l. Zan e le sue implicazioni di Giuseppe Savagnone
[1] Si tratta della Risoluzione del Parlamento europeo dell’8 luglio 2021 sulle violazioni del diritto dell’UE e dei diritti dei cittadini LGBTIQ in Ungheria a seguito delle modifiche giuridiche adottate dal parlamento ungherese (che può essere consultata a questo link: https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2021-0362_IT.html) e della Risoluzione del Parlamento europeo dell’11 marzo 2021 sulla proclamazione dell’Unione europea come zona di libertà per le persone LGBTIQ (che può essere consultata a questo link: https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2021-0089_IT.html). Tutti i link riportati in nota sono stati consultati l’ultima volta il giorno 11 luglio 2021.
[2] Sul punto v. da ultimo A. Lo Giudice, Ddl Zan, oggi si lotta contro il carattere discriminante dell’omologazione moderna, in Huffington Post, 6 luglio 2021 (huffingtonpost.it/entry/ddl-zan-oggi-si-lotta-contro-il-carattere-discriminante-dellomologazione-moderna_it_60e45af2e4b068186f54161a), che riprende in parte il contenuto della relazione svolta durante il webinar organizzato dalla rivista GenIUS il giorno 1 luglio 2021 su “Il ddl Zan tra diritto penale, democrazia e pluralismo” che può essere rivisto a questo indirizzo: https://fb.watch/6GGMt5dUfX/ (con relazioni di Fiandaca, Goisis, Azzariti, Caielli, Lo Giudice, Pelissero).
[3] I cui esiti possono essere consultati a questo link: https://www.camera.it/leg18/1347?shadow_organo_parlamentare=2802&id_tipografico=02 (rif. seduta del 18 febbraio 2020).
[4] Sul punto si consenta il rinvio a A. Schillaci, Le unioni civili in Senato: diritto parlamentare e lotta per il riconoscimento, in GenIUS, fasc. 2/2016, pp. 18 ss. (http://www.articolo29.it/wp-content/uploads/2017/03/genius-2016-02.pdf).
[5] Si tratta dei ddl S. 59, Cirinnà e Cerno; S. 1176, Maiorino e altri; 1430, Unterberger e altri; S. 1613, Evangelista e altri.
[6] Di entrambe le decisioni (la congiunzione unilaterale e il diniego di disgiunzione) nel corso del dibattito, è stata a più riprese sottolineata la grave irritualità. In particolare, le senatrici Cirinnà e Maiorino hanno sottolineato la non omogeneità del contenuto dei due disegni di legge, con conseguente inapplicabilità dell’articolo 51 del Regolamento (a mente del quale, per quanto qui interessa: “i disegni di legge aventi oggetti identici o strettamente connessi sono posti congiuntamente all’ordine del giorno della Commissione competente”, corsivi aggiunti); da parte loro, il Senatore Mirabelli e la Senatrice Rossomando hanno stigmatizzato il rifiuto da parte del Presidente di un voto sulla disgiunzione.
[7] Il ddl S. 2205 mira a introdurre nel codice penale una nuova circostanza aggravante comune, per le condotte agite “in ragione dell’origine etnica, credo religioso, nazionalità, sesso, orientamento sessuale, disabilità nonché nei confronti dei soggetti che versano nelle condizioni di cui all’articolo 90-quater del codice di procedura penale”. L’articolo 2 del ddl esclude la possibilità di bilanciare tale circostanza aggravante con le attenuanti comuni, in deroga a quanto previsto dall’articolo 69-bis c.p. Si tratta, con ogni evidenza, di un testo che presenta notevoli criticità e che, soprattutto, si pone in aperta contraddizione con la ratio del ddl S. 2005: per un verso infatti, in linea generale, esclude la tutela rafforzata rispetto a condotte motivate dal sesso, dal genere e dall’identità di genere, limitandola al solo orientamento sessuale. Per altro verso, menzionando anche origine etnica, credo religioso e nazionalità si pone in conflitto con l’aggravante speciale già prevista dall’articolo 604-ter c.p. che contempla proprio tali fattori di discriminazione tra le ragioni che giustificano l’applicazione della ridetta aggravante, rischiano così di pregiudicarne l’applicazione pratica.
[8] Sul punto si v., tra i molti, F. Filice, Il disegno di legge in materia di omo-lesbo-bi-transfobia e abilismo. L’analisi delle nuove fattispecie incriminatrici. Verso un diritto penale antidiscriminatorio?, in Questione giustizia, 26 novembre 2020 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-disegno-di-legge-in-materia-di-omo-lesbo-bi-transfobia-e-abilismo-l-analisi-delle-nuove-fattispecie-incriminatrici-verso-un-diritto-penale-antidiscriminatorio); L’omo-transfobia diventa reato: la Camera dà il via libera, con contributi di B. Liberali, A. Schillaci, L. Goisis e G. Dodaro, in questa Rivista, 10 novembre 2020 (https://www.giustiziainsieme.it/en/diritto-penale/1387-i-delitti-di-omo-transfobia-e-altre-forme-di-discriminazione-nel-testo-approvato-in-prima-lettura-dalla-camera-il-4-novembre-2020); S. Ponti, Il ddl Zan spiegato articolo per articolo, 10 maggio 2021 (https://www.retelenford.it/news/diritti-lgbti-in-italia/il-ddl-zan-spiegato-articolo-per-articolo/).
[9] Per riflessioni più approfondite, anche in ottica generale, sulla possibilità e sulle prospettive di un diritto penale antidiscriminatorio v. da ultimo F. Palazzo, La nuova frontiera della tutela penale dell’uguaglianza, in Sistema penale, 11 gennaio 2021 (https://www.sistemapenale.it/it/articolo/palazzo-tutela-penale-eguaglianza); L. Goisis, Hate Crimes in a Comparative Perspective. Reflections on the Recent Italian Legislative Proposal on Homotransphobic, Gender and Disability Hate Crimes, in GenIUS, fasc. 1/2020, pp. 78 ss. (http://www.geniusreview.eu/wp-content/uploads/2021/02/genius-2020-01.pdf); Ead., Crimini d’odio. Discriminazioni e giustizia penale, Napoli, Jovene, 2019; M. Pelissero, Discriminazione, razzismo e il diritto penale fragile, in Diritto penale e processo, fasc. 8/2020, pp. 1017 ss.; in prospettiva costituzional-comparatistica v. G. Giorgini Pignatiello, Profili comparati e problemi costituzionali della legislazione contro l’omobitransfobia. Il caso spagnolo e quello italiano, in Diritto pubblico comparato ed europeo, fasc. 4/2020, pp. 995 ss.
[10] Così Corte EDU, Beizaras and Levickas c. Lituania, 14 gennaio 2020, ric. n. 41288/15, par. 111. Fin dal 2010, peraltro, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha rivolto agli stati membri una raccomandazione (la n. 5/2010) rivolta proprio all’introduzione di specifici strumenti di contrasto dei discorsi e crimini d’odio fondati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (Recommendation CM/Rec(2010)5 of the Committee of Ministers to member states on measures to combat discrimination on grounds of sexual orientation or gender identity, https://www.coe.int/en/web/sogi/rec-2010-5). Anche il Parlamento europeo ha ricordato più volte agli stati membri la necessità di adottare efficaci misure di contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere: da ultimo, oltre alle risoluzioni richiamate supra, alla nota 1, si pensi alla Risoluzione del 14 febbraio 2019 sul futuro dell’elenco di azioni a favore delle persone LGBTI (2019-2024: https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2019-0129_IT.html) e la Risoluzione del 18 dicembre 2019 sulla discriminazione in pubblico e sull’incitamento all’odio nei confronti delle persone LGBTI, comprese le zone libere da LGBTI (https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2019-0101_IT.html).
[11] Sul punto si v. amplius A. Schillaci, Le storie degli altri. Strumenti giuridici del riconoscimento e diritti civili in Europa e negli Stati Uniti, Napoli, Jovene, 2018.
[12] Da ultimo, cfr. Corte EDU, Beizaras and Levickas v. Lituania, cit.
[13] Sul punto v. ad es. A.P., Garçon and Nicot v. France, 6 aprile 2017, par. 93, nonché – più di recente - X c. FYRM, 17 gennaio 2019, ric. n. 29683/16.
[14] A partire dal caso Lawrence v. Texas [539 U.S. 558 (2003)] in cui alla protezione della libertà sessuale rispetto a ingerenze del legislatore penale si affianca la significativa considerazione che “When sexuality finds overt expression in intimate conduct with another person, the conduct can be but one element in a personal bond that is more enduring. The liberty protected by the Constitution allows homosexual persons the right to make this choice” (p. 567, corsivi aggiunti). Per ulteriori approfondimenti A. Schillaci, Le storie degli altri, cit., pp. 225 ss.
[15] Come avvenuto a partire da Dudgeon v. UK, 22 ottobre 1981, ric. n. 7525/76.
[16] A partire da Goodwin v. UK, 11 luglio 2002, ric. n. 28957/95.
[17] Cfr. Goodwin, cit., par. 90.
[18] Cfr. tra le molte, in questa prospettiva, Schalk and Kopf v. Austria, 24 giugno 2010, ric. n. 30141/04 e Oliari v. Italy, 21 luglio 2015, ricc. nn. 18766/11 e 36030/11.
[19] Come nella richiamata sentenza Beizaras and Levickas: sul punto v. amplius, infra.
[20] Corte EDU, 12 giugno 2003, ric. n. 35968/97, par. 69.
[21] Assai significativo, in questo senso, un passaggio della richiamata sentenza Van Kuck, a mente del quale “while the essential object of Article 8 is to protect the individual against arbitrary interference by the public authorities, it does not merely compel the State to abstain from such interference: in addition to this negative undertaking, there may be positive obligations inherent in an effective respect for private or family life. These obligations may involve the adoption of measures designed to secure respect for private life even in the sphere of the relations of individuals between themselves” (par. 70); analogamente cfr. Corte EDU, Schlumpf c. Suisse, 8 gennaio 2009, ric. n. 29002/06.
[22] Che, ad esempio nel caso della vita familiare, conferirebbe alle coppie – come si legge in Oliari, al par. 174 – un “senso di legittimità” idoneo a consolidare la presenza civile e pubblica delle persone omosessuali).
[23] Come afferma la Corte al par. 129 della decisione – lasciando peraltro intravedere un significativo parallelismo tra la diffusione di pregiudizi omolesbobitransfobici nella società e nelle istituzioni – “the hateful comments including undisguised calls for violence by private individuals directed against the applicants and the homosexual community in general were instigated by a bigoted attitude towards that community and, secondly, that the very same discriminatory state of mind was at the core of the failure on the part of the relevant public authorities to discharge their positive obligation to investigate in an effective manner whether those comments regarding the applicants’ sexual orientation constituted incitement to hatred and violence, which confirmed that by downgrading the danger of such comments the authorities at least tolerated such comments”.
[24] Su questi sviluppi, v. A. Lorenzetti, Diritti in transito, Milano, Franco Angeli, 2014; P. Veronesi, Corpi e questioni di genere: le violenze (quasi) invisibili, in GenIUS, fasc. 2/2020, pp. 8 ss.; F. Saccomandi, Spesso non binarie, sempre non conformi: la “piena depatologizzazione” delle soggettività trans, ivi, pp. 91 ss. (http://www.geniusreview.eu/wp-content/uploads/2021/06/genius-2020-02.pdf)
[25] Cfr. il testo dell’articolo 1, comma 1, della legge n. 354/1975, come modificato dall’ articolo 11, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 123/2018; analogamente, cfr. l’articolo 14, ultimo comma, della medesima legge (come aggiunto dall’articolo 11, comma 1, lettera e), numero 3), del D.Lgs. n. 123/2018) a mente del quale: “L’assegnazione dei detenuti e degli internati, per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte della restante popolazione detenuta, in ragione solo dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale, deve avvenire, per categorie omogenee, in sezioni distribuite in modo uniforme sul territorio nazionale previo consenso degli interessati i quali, in caso contrario, saranno assegnati a sezioni ordinarie. È in ogni caso garantita la partecipazione ad attività trattamentali, eventualmente anche insieme alla restante popolazione detenuta”.
[26] Ad opera dell’articolo 1, comma 1, lettera e), numero 01), del D.L. n. 130/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 173/2020.
[27] Così, per esteso, il par. 5.2 della sentenza n. 180/2017: “Alla luce dei principi affermati nella sentenza n. 221 del 2015, va ribadito che l’interpretazione costituzionalmente adeguata della legge n. 164 del 1982 consente di escludere il requisito dell’intervento chirurgico di normoconformazione. E tuttavia ciò non esclude affatto, ma anzi avvalora, la necessità di un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata; percorso che corrobora e rafforza l’intento così manifestato. Pertanto, in linea di continuità con i principi di cui alla richiamata sentenza, va escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione. In coerenza con quanto affermato nella sentenza richiamata, va ancora una volta rilevato come l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisca senz’altro espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere. Nel sistema della legge n. 164 del 1982, ciò si realizza attraverso un procedimento giudiziale che garantisce, al contempo, sia il diritto del singolo individuo, sia quelle esigenze di certezza delle relazioni giuridiche, sulle quali si fonda il rilievo dei registri anagrafici. Il ragionevole punto di equilibrio tra le molteplici istanze di garanzia è stato, infatti, individuato affidando al giudice, nella valutazione delle insopprimibili peculiarità di ciascun individuo, il compito di accertare la natura e l’entità delle intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, che concorrono a determinare l’identità personale e di genere” (corsivi aggiunti). Per ulteriori approfondimenti sul punto, proprio in relazione alle vicende relative al ddl Zan, cfr. G. M. Locati – F.R. Guarnieri, Discriminazione, orientamento sessuale e identità di genere: riflessioni a margine della proposta di legge Zan, in Questione Giustizia, 28 luglio 2020 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/discriminazione-orientamento-sessuale-e-identita-di-genere-riflessioni-a-margine-della-proposta-di-legge-zan); F. R. Guarnieri, Ddl Zan: sesso, genere, identità di genere, 14 maggio 2021 (https://www.retelenford.it/news/diritti-lgbti-in-italia/il-ddl-zan-sesso-genere-e-identita-di-genere/); B. Liberali, Sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere nei nuovi artt. 604-bis e 604-ter c.p.: una questione (non solo) definitoria, in questa Rivista, 10 novembre 2020 (cfr. supra, nota 8).
[28] Come ritiene invece, ad esempio, S. Niccolai, La legge Zan e le ragioni del femminismo della differenza, ne il manifesto, 21 maggio 2021 (https://ilmanifesto.it/la-legge-zan-e-le-ragioni-del-femminismo-della-differenza/). Altre hanno invece messo in luce come le esperienze riconducibili alle vicende dell’identità di genere non si pongano in contrapposizione con la valorizzazione (anche in prospettiva critica) della differenza sessuale, ponendosi piuttosto sul piano di una sua diversa interpretazione, curvata sulle specificità dell’intervento normativo in discussione (diretto a contrastare discriminazione e violenza) e pertanto sensibile alla comune matrice patriarcale di sessismo, misoginia e omolesbobitransfobia (la resistenza alla quale percorrerebbe, peraltro, anche le stesse esperienze di affermazione dell’identità di genere). Penso soprattutto, in questa prospettiva, agli interventi di Lea Melandri sul Riformista e, in particolare, a: Legge sull’omotransfobia, a destra inversione di ruoli tra vittime e carnefici (12 agosto 2020, https://www.ilriformista.it/legge-sullomotransfobia-a-destra-inversione-di-ruoli-tra-vittime-e-carnefici-143081/) e a Il dualismo sessuale e il potere maschile. Una risposta a Christian Raimo (29 aprile 2021, https://www.ilriformista.it/il-dualismo-sessuale-e-il-potere-maschile-una-risposta-a-christian-raimo-214866/); ma anche a G. Serughetti, Dare più diritti a chi ne ha meno: il tempo del ddl Zan è adesso, in Domani, 15 aprile 2021 (https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/dare-piu-diritti-a-chi-ne-ha-meno-il-tempo-del-ddl-zan-e-adesso-uay62ylr) . Cfr. anche, in prospettiva giuridica, T. Pitch, Sul disegno di legge Zan, in Studi sulla questione criminale, 6 maggio 2021 (https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2021/05/06/sul-disegno-di-legge-zan/). Per alcune interessanti riflessioni sulla comune matrice della violenza di genere e della violenza omolesbobitransfobica cfr. B. Pezzini, Il diritto e il genere della violenza: dal Codice Rocco al Codice Rosso, in Ead. – A. Lorenzetti, La violenza di genere dal Codice Rocco al Codice Rosso, Torino, Giappichelli, 2020, pp. 1 ss., 20-21.
[29] La previsione, introdotta in Aula alla Camera, introduceva un comma 3-bis all’articolo 3 della legge n. 654/1975 (cd. legge Reale) ed era così formulata: “Ai sensi della presente legge, non costituiscono discriminazione, né istigazione alla discriminazione, la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza, né le condotte conformi al diritto vigente ovvero anche se assunte all’interno di organizzazioni che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione o di culto, relative all’attuazione dei princìpi e dei valori di rilevanza costituzionale che connotano tali organizzazioni”.
[30] Sulla quale vedi in generale, e per tutti, A. Pace – M. Manetti, Articolo 21: la libertà di manifestazione del proprio pensiero, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca e A. Pizzorusso, Bologna, Zanichelli, 2006.
[31] Su cui v. A. Di Giovine, I confini della libertà di manifestazione del pensiero. Linee di riflessione teorica e profili di diritto comparato come premesse ad uno studio sui reati di opinione, Milano, Giuffré 1988.
[32] “La libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21, primo comma, della Costituzione”, afferma ad esempio la Corte costituzionale nella sentenza n. 65/1970, “trova i suoi limiti non soltanto nella tutela del buon costume, ma anche nella necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nell’esigenza di prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica, la cui tutela costituisce una finalità immanente del sistema” sicché non contrasta con la Costituzione l’apologia di delitti, in quanto con tale figura di reato non viene repressa “la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti” (enfasi aggiunta).
[33] Cfr. ad esempio la sentenza n. 108/1974, o ancora la n. 100/1966 relativa al delitto di eccitamento al dispregio delle istituzioni da parte del pubblico ufficiale.
[34] Così la Corte costituzionale, nella sentenza n. 16/1973.
[35] D’altro canto, già nella sentenza n. 87/1966, a proposito del delitto di propaganda sovversiva, la Corte aveva affermato che “il diritto di libertà della manifestazione del pensiero non può ritenersi leso da una limitazione posta a tutela del metodo democratico” (enfasi aggiunta). Assai significativo, peraltro, che nella medesima decisione la Corte abbia invece dichiarato l’illegittimità costituzionale del delitto di propaganda per distruggere o deprimere il sentimento nazionale, ritenendo effettivamente violata la libertà di manifestazione del pensiero: il bene protetto dalla norma penale, in quel caso, è infatti “soltanto un sentimento, che sorgendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza di ciascuno, fa parte esclusivamente del mondo del pensiero e delle idealità” e inoltre “la relativa propaganda non è indirizzata a suscitare violente reazioni […] né è rivolta a vilipendere la Nazione od a compromettere i doveri che il cittadino ha verso la patria od a menomare altri beni costituzionalmente garantiti”.
[36] Assai significativo, ad esempio, che nella sentenza n. 293/2000, la Corte abbia curvato con molta chiarezza il limite del buon costume di cui all’articolo 21, ultimo comma, della Costituzione nel senso che esso è posto a presidio della dignità personale, così integrando la prospettiva tradizionale – espressa, ad esempio, nella sentenza n. 368/1992 – secondo cui il buon costume veniva interpretato come corrispondente al pudore sessuale (declinato tuttavia in prospettiva storica). In tale ottica, ad essere vietate sono – ad esempio – pubblicazioni che intacchino il contenuto minimo del concetto di buon costume e cioè “il rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione”, sicché in definitiva la libertà di manifestazione del pensiero è “concepita come presidio del bene fondamentale della dignità umana”.
[37] Cfr. sent. n. 86/1974.
[38] Sent. 14 gennaio 2019, n. 5009: per un commento v. A. Madeo, Sulla tutela penale della reputazione della collettività omosessuale, in GenIUS - Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, fasc. 1/2019, pp. 100 ss. (http://www.geniusreview.eu/2019/genius-2019-1/).
[39] Accanto alla reputazione, all’onore e alla salvaguardia del metodo democratico e della tranquillità pubblica, vi sono decisioni che bilanciano la libertà di manifestazione del pensiero, ad esempio, con le esigenze legate all’amministrazione della giustizia. Ancora, nella sent. n. 123/1976 – relativa al delitto di aggiotaggio – la Corte ebbe a precisare che “la libertà di manifestazione del pensiero trova i suoi limiti non solo nella tutela del buon costume ma anche nella necessità di proteggere altri beni aventi rilievo costituzionale” e che, nel caso di specie “la tutela penale tende a che non sia compromesso, mediante una determinazione fraudolenta dei prezzi o delle quotazioni, l’interesse economico legato alla circolazione e allo scambio delle merci o dei valori; si tratta non tanto degli interessi dei singoli operatori economici, bensì dell’interesse pubblico a che i prezzi di mercato si formino per il naturale giuoco delle forze economiche o per il legittimo intervento delle pubbliche autorità, l’uno e l’altro non dolosamente falsati”, così collegando il bene protetto alla previsione di cui all’articolo 41, commi 1 e 2, della Costituzione. Si pensi, ancora, alla giurisprudenza relativa ai delitti di vilipendio, e in particolare alla sentenza n. 20/1974, nella quale la limitazione alla libertà di manifestazione del pensiero (insita, nella specie, nel delitto di vilipendio dell’ordine giudiziario) è giustificata dalla tutela del bene – costituzionalmente rilevante – del “prestigio del Governo, dell’Ordine giudiziario e delle Forze Armate in vista dell’essenzialità dei compiti loro affidati”.
[40] Si tratta della richiamata CdG, 23 aprile 2020, NH c. Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford, in c. C-507/18 su cui v. F. Rizzi, Il caso N.H. I rimedi del diritto agli atti linguistici di discriminazione e la libertà di fare cose con le parole, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, fasc. 4/2020, pp. 575 ss.
[41] Corte EDU, 9 febbraio 2012, ric. n. 1813/07.
[42] Corte EDU, 20 giugno 2017, ric. n. 67667/09.
[43] Giacché “it would be incompatible with the underlying values of the Convention if the exercise of Convention rights by a minority group were made conditional on its being accepted by the majority […] were this so, a minority group’s rights to freedom of religion, expression and assembly would become merely theoretical rather than practical and effective as required by the Convention” (par. 70).
[44] Così, testualmente, la Corte: “to the extent that the minors who witnessed the applicants’ campaign were exposed to the ideas of diversity, equality and tolerance, the adoption of these views could only be conducive to social cohesion. The Court recognises that the protection of children from homophobia gives practical expression to the Committee of Ministers’ Recommendation Rec(2010)5 which encourages “safeguarding the right of children and youth to education in safe environment, free from violence, bullying, social exclusion or other forms of discriminatory and degrading treatment related to sexual orientation or gender identity” (see paragraph 31 of the Recommendation) as well as “providing objective information with respect to sexual orientation and gender identity, for instance in school curricula and educational materials” (see paragraph 32 of the Recommendation)” (par. 82).
[45] 12 maggio 2020, ric. n. 29297/18.
[46] Particolare rilievo è attribuito dalla Corte alla circostanza che le espressioni contestate fossero “coupled with the clear expression of disgust”, il che le rende idonee a “promote intolerance and detestation of homosexual persons” (par. 38).
[47] Secondo l’articolo 17, come noto, “Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione”.
[48] L’espressione citata è tratta dal titolo di uno dei paragrafi della voce "Stato costituzionale" che Peter Häberle ha scritto per l’Enciclopedia giuridica Treccani e che è ora ripubblicata in Id., Lo stato costituzionale, Roma, Ist. Enc. Ital., 2005. Il titoletto si trova alla p. 164 e recita, appunto “La dignità dell’uomo come «premessa antropologico-culturale» dello Stato costituzionale, la democrazia come «conseguenza organizzativa»”. Nel corpo del paragrafo Häberle chiarisce nel dettaglio tale connessione, ancorandola soprattutto ad una declinazione del concetto di sovranità popolare saldamente fondato sulla sostanza "personale" del medesimo (ossia sull’essere il "sovrano" un insieme di persone egualmente degne).
[49] Il comma 16 prevede che il piano triennale dell’offerta formativa assicuri “l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall’articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all’articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto-legge n. 93 del 2013.
[50] Sul punto v., amplius, M. Perini, Educazione alla parità di genere: tra autonomia individuale, spirito repubblicano, famiglia e competenze regionali (senza dimenticare la libertà di insegnamento), in GenIUS, fasc. 2/2016, pp. 150 ss. (http://www.articolo29.it/wp-content/uploads/2017/03/genius-2016-02.pdf).
[51] L’importanza di tale passaggio venne sottolineata, in Aula alla Camera, dalla deputata Flavia Piccoli Nardelli del Partito democratico, la quale sottolineò – nel suo intervento del 3 novembre 2020 – che “le scuole non si sostituiscono alle famiglie, ma la scuola lavora in continua sinergia con le famiglie. Infatti, noi è a questo tipo di scuola che dobbiamo guardare, è alla scuola in cui noi sappiamo che gli insegnanti lavorano in autonomia, ma in grande equilibrio”.
[52] Così P. Ridola, La Costituzione e le nuove sfide delle comunità pluralistiche, in Id., Diritti di libertà e costituzionalismo, Torino, Giappichelli, 1997, pp. 39 ss., 80.
[53] Pertanto, in fase d’Aula l’articolo 9 è stato sostituito – con l’approvazione di un emendamento proposto dalla Commissione Bilancio – con una norma di coordinamento che ancora il richiamato articolo 105-quater alle modifiche apportate al codice penale dalla medesima proposta Zan.
[54] Su cui v. ad esempio G. Viggiani, Quando l’odio (non) diventa reato. Il punto sul fenomeno dei crimini d’odio di matrice omotransfobica in Italia, in GenIUS, fasc. 1/2020, pp. 107 ss.
[55] Così, in pagine classiche, G. Ferrara, La pari dignità sociale (appunti per una ricostruzione), in Aa.Vv., Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, Milano, Giuffrè, 1973, vol. II, 1087 ss., 1095.
[56] Sul problema della tipicità e determinatezza delle condotte discriminatorie di cui all’articolo 604-bis c.p., v. per tutti F. Filice, Il disegno di legge in materia di omo-lesbo-bi-transfobia e abilismo, cit.
[57] Per ulteriori riflessioni sul punto, in prospettiva generale, sia consentito il rinvio ad A. Schillaci, Le storie degli altri, cit.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.